Magistratura democratica

Il ruolo del giudice di fronte alle peculiarità del giudizio di protezione internazionale

di Martina Flamini

Nel procedimento per il riconoscimento del diritto fondamentale alla protezione internazionale, le peculiarità della situazione soggettiva tutelata e l’applicazione dei principi di derivazione europea determinano una significativa modifica dei poteri-doveri del giudice civile. L’esame delle modalità secondo le quali essi si modificano in ragione delle caratteristiche del diritto da tutelare, ed i temi relativi al principio della domanda, all’attenuazione del principio dispositivo in ambito probatorio ed al dovere di cooperazione del giudice vengono esaminati nella prospettiva del principio di effettività della tutela.

1. Il principio di effettività della tutela ed i poteri e doveri del giudice in un giudizio di protezione internazionale

La materia della protezione internazionale costituisce un campo elettivo per l’analisi del nesso inscindibile esistente tra le forme e tecniche di tutela dei diritti fondamentali della persona – come quello in esame – ed il diritto di adire il giudice. L’esigenza di garantire al richiedente protezione un rimedio effettivo a tutela del diritto dallo stesso vantato impone una riflessione sul modo in cui i poteri ed i doveri del giudice, nell’attuazione di tale diritto, ed alla luce dell’applicazione del diritto europeo, si stiano modificando.

Il diritto alla protezione internazionale si atteggia come un diritto del tutto peculiare, per caratteristiche intrinseche e per condizioni di esercizio[1]. Chi «teme a ragione di essere perseguitato», chi fugge dal pericolo di subire una persecuzione, chi teme di essere esposto al rischio di un danno grave per la sua incolumità o per la sua stessa sopravvivenza, deve affrontare un lungo e difficile “viaggio” per poter chiedere tutela di un diritto che preesiste al suo formale riconoscimento[2].

Le caratteristiche del diritto in esame e la indubitabile condizione di squilibrio tra le parti del detto processo[3] impongono una riflessione sul ruolo del giudice e, in particolare, sui poteri e doveri dell’organo giudicante che, decidendo su una domanda di protezione internazionale, non si trova a dover valutare atti o comportamenti, ma a verificare la credibilità della “storia” narrata dal ricorrente, secondo regole di giudizio del tutto peculiari.

L’esame del modo in cui i poteri e doveri del giudice si modificano in ragione delle caratteristiche del diritto oggetto di tutela – caratteristiche sostanziali che incidono anche sulle regole processuali – non può prescindere da una breve premessa sul principio di effettività della tutela[4].

Il rapporto tra giudice e parti nel processo di riconoscimento della protezione internazionale è stato profondamente inciso dai principi generali dell’Unione europea, dalle disposizioni della Carta dei diritti fondamentali e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Quest’ultima, in particolare, ha enfatizzato la correlazione tra diritto sostanziale e regole processuali, sottolineando come i diritti del richiedente asilo postulino l’applicazione di regole processuali specifiche.

Il principio di tutela giurisdizionale effettiva, in particolare, costituisce un principio generale del diritto dell’Unione che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, sancito dai richiamati artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e poi ribadito all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[5]. È dunque compito dei giudici nazionali, secondo il principio di collaborazione enunciato dall’art. 4 Tue, garantire la tutela giurisdizionale dei diritti spettanti agli individui in forza delle norme del diritto dell’Unione[6]. Le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi in materia interna (principio di equivalenza) né devono rendere praticamente impossibile od eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività).

La Corte di cassazione ha qualificato il principio di effettività come regola-cardine dell’ordinamento costituzionale, volto ad assicurare il diritto «ad un rimedio adeguato al soddisfacimento del bisogno di tutela di quella... unica e talvolta irripetibile situazione sostanziale di interesse giuridicamente tutelato» (Cfr. Cass. 11564/2015; Cass. 21255/2013).

Con particolare riguardo alla materia della protezione internazionale, l’art. 46, paragrafo 1 della Direttiva 2013/32/Ue prevede che gli Stati membri sono tenuti a disporre che il richiedente abbia diritto a un rimedio effettivo dinanzi ad un giudice nei casi elencati in tale disposizione e, in particolare alla lettera a), punto i), ossia avverso la decisione di ritenere la domanda infondata in relazione allo status di rifugiato e/o allo status di protezione sussidiaria. Gli Stati membri, inoltre, devono assicurare che un rimedio effettivo preveda l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto, compreso l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/Ue, quanto meno nei procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado. Il paragrafo 4 dell’art. 46 della Direttiva dispone inoltre che gli Stati membri devono prevedere termini ragionevoli, nonché introdurre le altre norme necessarie per l’esercizio, da parte del richiedente, del diritto ad un rimedio effettivo di cui al paragrafo 1 del medesimo articolo. I termini prescritti, non devono, tuttavia rendere impossibile o eccessivamente difficile tale accesso[7].

L’art. 47 afferma l’esigenza di dare attuazione alla pretesa di un rimedio effettivo, inteso come predisposizione di adeguati strumenti di tutela ed idonee fattispecie processuali, capaci di garantire la piena soddisfazione dei diritti e degli interessi tutelati[8].

In particolare, l’art. 4 della Direttiva Qualifiche, «Esame dei fatti e delle circostanze», prevede, al comma 1: «gli Stati membri possono ritenere che il richiedente sia tenuto a produrre quanto prima tutti gli elementi necessari a motivare la domanda di protezione internazionale. Lo Stato membro è tenuto, in cooperazione con il richiedente, a esaminare tutti gli elementi significativi della domanda».

L’esame dei fatti e delle circostanze ha luogo in due fasi distinte: la prima riguarda l’accertamento delle circostanze di fatto che possono costituire elementi di prova a sostegno della domanda, mentre la seconda ha ad oggetto la valutazione giuridica di tali elementi, che consiste nel decidere se, alla luce dei fatti che caratterizzano una fattispecie, siano soddisfatti i requisiti sostanziali per il riconoscimento di una protezione internazionale. Come chiarito dalla Corte di giustizia[9], «benché il richiedente sia tenuto a produrre tutti gli elementi necessari a motivare la domanda, spetta tuttavia allo Stato membro interessato cooperare con tale richiedente nel momento della determinazione degli elementi significativi della stessa. Tale obbligo di cooperazione in capo allo Stato membro implica, pertanto, concretamente che, se, per una qualsivoglia ragione, gli elementi forniti dal richiedente una protezione internazionale non sono esaustivi, attuali o pertinenti, è necessario che lo Stato membro interessato cooperi attivamente con il richiedente, in tale fase della procedura, per consentire di riunire tutti gli elementi atti a sostenere la domanda. Peraltro, uno Stato membro riveste una posizione più adeguata del richiedente per l’accesso a determinati tipi di documenti».

Alla luce delle considerazioni svolte in merito al principio di effettività della tutela, occorre precisare che, nella trattazione di un procedimento volto alla tutela del diritto fondamentale della persona, il giudice deve vigilare affinché vi sia un esame completo, rigoroso ed approfondito della domanda. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, relativa all’art. 13 della Convenzione, considera che «tenuto conto dell’importanza che [essa] attribuisce all’art. 3 e della natura irreversibile del danno che può essere causato nell’ipotesi di realizzazione del rischio di tortura o maltrattamenti, l’effettività di un ricorso ai sensi dell’art. 13 richiede imperativamente un attento controllo da parte di un’autorità nazionale, un esame autonomo e rigoroso di ogni censura secondo la quale vi è motivo di credere a un rischio di trattamento contrario all’art. 3[10]».

L’esame attento e rigoroso, che condiziona l’effettività del ricorso, deve dunque includere, almeno, la considerazione di tutte le censure basate sull’art. 3 del d.lgs 251/2007 e permettere di assicurarsi in concreto dell’esistenza o meno del rischio nel Paese di rimpatrio. Nella sentenza Singh c. Belgio, la Corte di Strasburgo ha inoltre precisato che il ricorso «deve permettere di escludere ogni dubbio, per quanto legittimo, riguardo all’infondatezza di una domanda di protezione, ciò a prescindere dall’estensione delle competenza dell’autorità incaricata del controllo»[11].

L’applicazione del principio di effettività e del diritto ad un rimedio effettivo richiede, pertanto, l’adozione di nuove modalità di intervento da parte del giudice, che, attraverso gli strumenti processuali tipici del settore in esame (e facendo uso degli ampi poteri officiosi ed istruttori sui quali si tornerà in seguito), assicuri tutela ai diritti fondamentali invocati dai richiedenti protezione internazionale.

2. L’oggetto della domanda e disponibilità delle prove

Chi chiede tutela di un diritto deve indicare ed allegare i fatti costitutivi, atteso che proprio con riguardo a detti fatti – e solo ad essi – si manifesta la facoltà esclusiva dell’attore nella determinazione del contenuto dell’oggetto del processo. La disposizione di cui all’art. 115 cpc – nella parte in cui prevede che «salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero» – afferma che il giudice non è vincolato solo all’allegazione dei fatti compiuta dalle parti, ma anche alle prove offerte rispetto ai fatti allegati.

Ora, mentre il primo vincolo discende come conseguenza necessaria dal principio della domanda e da quello della disponibilità della tutela giurisdizionale, il secondo attiene agli strumenti tecnici attraverso i quali il giudice forma il suo convincimento nell’accertamento dei fatti.

Una volta che il titolare del diritto abbia chiesto tutela, così definendo i confini della sua richiesta, è interesse dello Stato che quella tutela sia prestata nel modo tecnicamente più appropriato. Nelle controversie relative al riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria, il giudice, sulla base dei fatti specifici individuati ed allegati dalla parte, non è tenuto a servirsi solo delle prove che gli sono state offerte dalle parti, ma, in ossequio alle disposizioni sopra citate, cooperando con il ricorrente, può disporne autonomamente l’acquisizione.

Il richiedente protezione internazionale ha l’onere di allegare i fatti e le prove, come indicato nell’art. 3 del d.lgs n. 251 del 2007[12]. Assolto tale onere, nella prima fase amministrativa, non deve fornire alcuna qualificazione giuridica alla propria domanda ed il giudizio davanti le Commissioni territoriali si svolge senza alcun vincolo costituito dal principio della domanda[13].

Qualora la Commissione territoriale non abbia accolto la domanda di protezione internazionale, ovvero quando la Commissione nazionale per il diritto di asilo abbia (a norma degli artt. 9, 13, 15 e 18 del d.lgs 251/2007) revocato o dichiarato la cessazione dello status di protezione internazionale in precedenza riconosciuto dalla Commissione territoriale, è consentito al ricorrente di adire il giudice ordinario per la tutela dei suoi diritti.

Nel giudizio dinanzi al Tribunale, premessa l’irrilevanza dell’indicazione precisa del nomen iuris del diritto alla protezione internazionale che s’invoca – essendo richiesta esclusivamente la prospettazione di una situazione che possa configurare il rifugio politico o la protezione sussidiaria[14] – il giudice deve valutare la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della protezione partendo dalla misura che integra una condizione di maggior protezione, quale lo status di rifugiato, per giungere alla misura di minor protezione (quale la protezione sussidiaria)[15].

Ciò non implica alcuna violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Se, infatti, il ricorrente ha chiesto una forma di protezione maggiore, il giudice, d’ufficio, può senza dubbio riconoscere una forma di protezione minore (sussidiaria o umanitaria), se ne ravvisa i presupposti. Ad analoghe conclusioni può giungersi anche con riguardo all’ipotesi inversa di domanda di una forma di protezione minore e riconoscimento di una forma di protezione maggiore. L’individuazione della specifica forma di protezione cui il ricorrente, sulla base dei fatti ritenuti accertati, ha diritto, infatti, configura una questione di qualificazione giuridica, riservata al giudice.

Quid iuris, in particolare,con riferimento alla «domanda di protezione umanitaria»?

Atteso che, secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr., fra le altre, Cass. 4/8/2016 n. 16362), il diritto di asilo riconosciuto dall’art. 10 Cost. risulta interamente attuato e regolato attraverso le tre forme di protezione previste dall’ordinamento vigente (rifugio, protezione sussidiaria e protezione umanitaria), ne discende che la domanda con cui il richiedente invoca il diritto all’asilo non può essere sezionata e frammentata in base alle diverse forme di tutela riconoscibili, previste dall’ordinamento, ma consiste in un’unica domanda (di protezione) attraverso la quale il richiedente chiede che gli venga accordata la forma di tutela ritenuta più rispondente al suo caso di specie.

Orbene, poiché il procedimento avente ad oggetto la domanda di protezione si articola in una prima fase amministrativa e in una successiva fase giurisdizionale (eventuale), il giudice, chiamato a decidere sul diritto alla protezione dopo il diniego da parte dell’autorità amministrativa, deve all’evidenza poter riconoscere al ricorrente le stesse forme di tutela previste dall’ordinamento e che non sono state già riconosciute all’esito della fase amministrativa. Pertanto, qualora la Commissione territoriale non abbia ravvisato neppure i gravi motivi umanitari idonei al rilascio del permesso di soggiorno ex art. 5 co. 6 Tui, il Tribunale adito con il ricorso ex art. 35 può riconoscere all’esito del giudizio, oltre ad una delle due tutele maggiori di protezione internazionale, anche il diritto alla forma di protezione minore (la protezione umanitaria).

Né a diverse conclusioni può giungersi in ragione della nuova formulazione dell’art. 35 bis del d.lgs 25/2008[16], come modificato con il decreto legge 17 febbraio 2017 n. 13 (Gu serie generale n. 40 del 17/2/2017) «Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale», convertito con modificazioni nella legge 13 aprile 2017 n. 46 (Gu n. 90 del 18/4/2017). La cognizione del giudice ordinario ex art. 35 d.lgs 2008 – il quale rinvia, a sua volta, alla disciplina dettata dall’art. 35 bis – non si riferisce unicamente alle controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale, ma ricomprende anche la valutazione dei presupposti per la concessione della protezione umanitaria, in tal modo evitandosi un’incongrua frammentazione della necessaria unitaria valutazione di merito – sulla sussistenza di presupposti idonei a giustificare una forma di protezione - demandata al giudice. È infatti consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui la decisione negativa assunta dalla Commissione territoriale, tenuta d'ufficio a verificare l’esistenza delle condizioni per il conseguimento di un permesso di natura umanitaria, ai sensi dell'art. 32, comma 3, d.lgs 28 gennaio 2008 n. 25, è ricorribile, ai sensi del successivo art. 35, davanti al giudice ordinario, il quale, in caso di diversa valutazione dei requisiti per l’ottenimento di tale misura, deve procedere al riconoscimento del diritto alla tutela umanitaria e all’assunzione del provvedimento omesso dalla Commissione territoriale (così, ex plurimis, Cass. civ., sez. VI, 9/12/2011, n. 26481; v. anche Cass. civ., sez. un., 28/2/2017, n. 5059). Tanto si spiega, in assenza di indicazioni contrarie da parte del legislatore, nell'accertata identità delle situazioni giuridiche relative al riconoscimento dello status di rifugiato e alla concessione di misure di “protezione sussidiaria” e dei permessi di soggiorno per motivi umanitari (Cass. civ., sez. un., 9/9/2009, n. 19393).

3. Il principio di non contestazione

L'art. 115 cpc, come modificato dalla l. n. 69/2009, fa riferimento espresso alla "parte costituita". Il principio della specifica contestazione – e, di conseguenza, l’effetto della relevatio ab onere probandi ad esso conseguente – è destinato a non operare ogni qualvolta in giudizio siano evocate una o più parti non costituite[17].In caso di contumacia, infatti, i fatti affermati dal ricorrente non si reputano “non contestati”, atteso che detta regola del processo contumaciale “è in contrasto con la tradizione del diritto processuale italiano, nel quale alla mancata o tardiva costituzione mai è stato attribuito il valore di confessione implicita” (Corte Cost., 12 ottobre 2007 n. 340).

Nei procedimenti di protezione internazionale, se la pubblica amministrazione non si costituisce ma si limita a mettere a disposizione la documentazione utilizzata nella fase amministrativa (come previsto dall’art. 35 bis commi 7 e 8), il principio di non contestazione non potrà trovare applicazione.

Orbene, nel casi in cui la pubblica amministrazione si sia costituita, occorre esaminare come il principio in esame si atteggi nei procedimenti di protezione internazionale.

La disposizione di cui al novellato art. 115 cpc – che va ad incidere direttamente sul riparto degli oneri probatori –, infatti, fa della non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, proprio per la ragione che l'atteggiamento difensivo delle parti, valutato alla stregua dell'esposta regola di condotta processuale, espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti.

Ne consegue che l’onere di contestazione sussiste soltanto per i fatti noti alla parte, non anche per i fatti ad essa ignoti[18] (o non compiutamente allegati).

Nel giudizio di protezione internazionale non potrebbe, pertanto, configurarsi un onere di contestazione in capo all’amministrazione in merito ai fatti relativi alla storia personale del ricorrente. Gli elementi relativi all’età, alla condizione sociale (anche dei congiunti), alla cittadinanza, ai motivi della domanda di protezione (cfr. art. 3 d.lgs 251/2007), non possono, infatti, ritenersi fatti noti alla Commissione territoriale.

Più dubbia la possibilità di far uso del principio in esame con riferimento ai fatti relativi alla sussistenza di una situazione di conflitto armato interno da violenza generalizzata. In merito a fatti relativi al livello di violenza che imperversa in un determinato territorio, all’intensità degli scontri armati, al livello di organizzazione delle forze armate presenti ed alla durata del conflitto[19], infatti, può ipotizzarsi che, a fronte di un’allegazione specifica da parte del ricorrente relativa all’esistenza dei detti elementi, in caso di non contestazione da parte della pubblica amministrazione costituita, il giudice possa ritenerli provati (e debba, pertanto, qualificarli come indici sintomatici di una situazione riconducibile ai presupposti di cui all’art. 14 lettera c), d.lgs 251/2007).

4. Il dovere di cooperazione del giudice e il rispetto della terzietà dell’organo giudicante

Il dovere di cooperazione dello Stato membro[20] grava sia sull’amministrazione che sull’autorità giurisdizionale, secondo modalità che differiscono a seconda delle caratteristiche procedimentali[21]. La correlazione esistente tra il dovere di cooperazione dell’amministrazione e quella dell’autorità giurisdizionale comporta che eventuali deficienze relative alla cooperazione dell’amministrazione possano, e debbano, essere colmate in sede giurisdizionale. Emblematico, a tal riguardo, il caso in cui il diritto ad un “colloquio personale”, previsto dall’art. 14 della Direttiva 2013/32/Ue solo per la fase amministrativa (e non, invece, per quella giurisdizionale) non sia stato garantito al ricorrente. In tal caso, il giudice deve cooperare con il ricorrente provvedendo all’audizione dello stesso, in tal modo garantendo il recupero, in fase giurisdizionale, delle garanzie non rispettate nella fase amministrativa.

La Corte di cassazione – più volte soffermatasi sulla portata delle citate disposizioni, con riferimento al ruolo del giudice – ne ha evidenziato le peculiarità dei poteri e doveri in un giudizio di protezione internazionale, disegnando i confini del dovere di cooperazione. In particolare, ha precisato che tale dovere impone al giudice di valutare se il richiedente abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, se tutti gli elementi pertinenti in suo possesso siano stati prodotti e se sia stata fornita una idonea motivazione dell'eventuale mancanza di altri elementi significativi[22].

Le modalità di cooperazione dell’autorità giurisdizionale vanno definite nell’ambito delle regole che presiedono il processo civile. Il dovere di cooperazione– che permea l’intero procedimento – richiede che il giudice relatore esamini le precedenti dichiarazioni rese dal ricorrente (sia dinanzi alla questura che nel corso dell’audizione dinanzi alla Commissione territoriale) e valuti se, in ragione di quanto riferito dal ricorrente, della presenza di contraddizioni, di elementi da approfondire o di ulteriori aspetti non esaurientemente affrontati dinanzi alla Commissione (nei limiti dei fatti allegati), sia necessario, in ossequio a quanto chiarito dalla Corte di Giustizia,[23] disporre una nuova audizione (cfr. L. Breggia, par. 4, L’audizione del richiedente asilo, su questo numero di questa Rivista).

Nei casi in cui il giudice relatore ritenga di dover disporre una nuova audizione del ricorrente, il dovere di cooperazione si articola attraverso l’indicazione di informazioni relative al dovere di motivare la richiesta[24], ponendo allo stesso domande appropriate durante l’interrogatorio libero e consentendo al richiedente di chiarire eventuali elementi poco circostanziati o contraddittori che farebbero propendere per una valutazione negativa di credibilità.

Ancora, con riferimento alla fase istruttoria, il dovere di cooperazione si atteggia come ulteriore vaglio di credibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente asilo. In tale prospettiva (non potendoci soffermare in questa sede sul tema della valutazione di credibilità delle dichiarazioni del ricorrente), assume particolare importanza l’acquisizione – da parte del giudice – di aggiornate informazioni sul Paese d’origine del ricorrente, non potendosi il giudicante limitare, in caso di informazioni poco aggiornate o comunque limitate ad una sola fonte, a consultare quelle indicate nel provvedimento di diniego[25].

Infine, quando il complessivo quadro allegativo e probatorio fornito non sia esauriente, ma il giudizio di veridicità alla stregua degli altri indici (di genuinità intrinseca) sia positivo (con l’evidente corollario che porta a ritenere che, in presenza di dichiarazioni intrinsecamente inattendibili, il dovere istruttorio del giudice non sorge[26]), il giudice integra il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente con l’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del Paese[27]. Con riferimento a tale aspetto, la giurisprudenza di legittimità ha ribadito il dovere del giudice di verificare, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al d.lgs 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, se la situazione di esposizione a pericolo per l'incolumità fisica indicata dal ricorrente (astrattamente sussumibile in una situazione tipizzata di rischio), sia effettivamente sussistente nel Paese nel quale dovrebbe essere disposto il rimpatrio[28] ed ha sottolineato come tale accertamento debba essere aggiornato al momento della decisione[29]. Più di recente la Suprema corte ha chiarito come il bisogno di protezione internazionale possa sorgere anche in un momento successivo rispetto alla partenza del richiedente dal proprio paese «tanto per ragioni oggettive (“avvenimenti”) quanto per ragioni soggettive (“attività svolte dal richiedente”)» e come il giudice, facendo uso dei propri poteri istruttori ed officiosi, debba accertare, con riferimento all’attualità, la dedotta sussistenza di una situazione di instabilità socio-politica e di violenza indiscriminata nel Paese d’origine[30].

Il dovere di cooperazione, inoltre, si apprezza anche con riferimento alla valutazione delle prove costituite. Con particolare riferimento alle eccezioni di contestazione della conformità dei documenti prodotti dal richiedente agli originali – e di sostanziale credibilità delle sue dichiarazioni – la Suprema corte ha infatti chiarito come non operi il tradizionale principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, poiché il giudice, «prescindendo da preclusioni o impedimenti processuali, ha il dovere di cooperare nell'accertamento dei fatti rilevanti, compiendo un'attività istruttoria ufficiosa, se del caso utilizzando canali diplomatici, rogatoriali ed amministrativi, essendo necessario temperare l'asimmetria derivante dalla posizione delle parti»[31].

I principi del diritto europeo (in particolare, il diritto ad un giusto processo, il diritto ad un rimedio effettivo, il diritto ad una buona amministrazione, nonché i generali principi di difesa, equivalenza delle armi e proporzionalità), la giurisprudenza della Corte di giustizia, quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, nonché i risultati del dialogo verticale ed orizzontale tra Corti stanno così modificando assai sensibilmente l’interpretazione delle regole processuali nazionali[32].

Considerazioni conclusive

La complessità della relazione tra diritto sostanziale e processo[33], le peculiarità del dovere di cooperazione – peculiarità che richiedono al giudice di esercitare in modo nuovo e rigoroso i suoi poteri e doveri di integrazione officiosa – e la futura ed imminente esigenza di confrontarsi con una nuova disciplina europea[34] impongono un’attenta riflessione sul modo in cui l’esercizio di tali poteri (nella dimensione della ricerca di forme di tutela adeguate alla protezione dei diritti fondamentali invocati) incida sull’indipendenza (nella sua dimensione esterna ed interna) e sull’imparzialità del giudice. Entrambe le dimensioni, infatti, hanno un’influenza diretta sul diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva che, dalla mancanza di imparzialità ed indipendenza, può essere fortemente inciso e irrimediabilmente compromesso.

Un giudice specializzato nella tutela del diritto fondamentale alla protezione internazionale è, ad avviso di chi scrive, prima di tutto un giudice consapevole della difficoltà di decidere, non su atti o comportamenti, ma su una storia umana fortemente condizionata da ostacoli temporali, spaziali, culturali e linguistici. Una difficoltà che può essere affrontata solo grazie ad una formazione continua, attenta alla dimensione multilivello delle fonti ed all’indispensabile confronto con la giurisprudenza sovranazionale e con quella degli altri Stati membri. Una formazione, libera dai condizionamenti che in passato hanno portato a considerare la protezione internazionale come una sorta di Cenerentola del diritto, che si mostri consapevolmente attenta ai complessi profili giuridici (e non solo) che la contraddistinguono, perseguendo e preservando una professionalità in grado di affrontare la sfida (tutt’altro che temporanea e relegata ad una fase di emergenza) che il diritto dell’immigrazione ci impone di risolvere.

Martin Luther King diceva che «quando un uomo decide di voltare le spalle alla terra in cui è nato, vuol dire che la disperazione ha messo le radici nel suo cuore. E in nessun Paese del mondo sarà mai più lo stesso uomo».

Ed allora sarà compito di chi si troverà a giudicare la storia di quella donna o di quell’uomo – quella singola donna e quel singolo uomo per il quale quel giudice sarà, forse, l’unico giudice che si troverà di fronte –assicurare un processo in cui (a fronte della indubitabile contrazione delle garanzie, voluta dal legislatore nazionale e preannunciata dal legislatore europeo, per far fronte all’esigenza di celerità ed all’elevatissimo numero di domande di protezione), il giudice – facendo sapiente ed accorto uso del dovere di cooperazione sullo stesso gravante – dia attuazione al principio di “parità delle armi” e garantisca al richiedente un rimedio effettivo.

[1] Cfr. conclusioni dell’avvocato generale Yves Bot nella causa C-429/2015, paragrafi 70 e 75, ove si afferma che chi legittimamente cerca una protezione internazionale versa in condizioni umane e materiali estremamente difficili e, di conseguenza, la procedura da questi avviata presso le autorità nazionali competenti deve garantirgli il mantenimento dei suoi diritti essenziali.

[2] Nel Manuale sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Ginevra, 1979), al capitolo 1, è espressamente previsto che «una persona è “rifugiato” ai sensi della Convenzione del 1951 quando soddisfa i criteri enunciati nella definizione. Questa condizione si realizza necessariamente prima che lo status di rifugiato sia formalmente riconosciuto: di conseguenza, la determinazione di tale status non ha l’effetto di conferire la qualità di rifugiato, ma constata l’esistenza di detta qualità. Una persona non diventa quindi un rifugiato perché è stata riconosciuta come tale, ma è riconosciuta come tale proprio perché è un rifugiato».

[3] Cfr. la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul principio di equality of arms, European Court of Human Rights, decision from 11th of February 1975, Golder versus England, par. 41; European Court of human Rights, decision from 17th of January 1970, Delcourt versus Belgium, par. 21.

[4] Cfr. I. Pagni, Effettività della tutela giurisdizionale, in Enciclopedia del Diritto, Annali, 2017,pp. 355, ss. e G. Vettori, Effettività delle tutele (diritto civile), ibidem, 2017.

[5] Sentenza Unibet, C-432/05, Eu:C.2007:163, punto 37 e giurisprudenza ivi citata. Sul rapporto tra artt. 6 e 13 ed art. 47 della Carta dei diritti fondamentali cfr. Actiones Handbook on the techniques of judicial interactions in the application of Eu Charter, finanziato dalla Commissione europea Dg Diritti fondamentali i cui materiali sono disponibili sul sito www.cjc.eu.

[6] Sentenza Unibet Eu:C.2007:163, punto 38; sentenza Rewe, 33/76, Eu:C:1976:188, punto 5 e sentenza Comet 45/76, Eu:C:1976:191, punto 12.

[7] Cfr. Sentenza Danqua, causa C 429/15, ove la Corte di giustizia ha affermato che il principio di effettività deve essere interpretato nel senso che esso si pone come ostativo ad una norma procedurale nazionale che assoggetta una domanda volta ad ottenere lo status di protezione sussidiaria ad un termine di decadenza di quindici giorni lavorativi a decorrere dalla notifica, da parte dell’autorità competente, della possibilità, per un richiedente asilo la cui domanda sia stata respinta, di presentare una siffatta domanda.

[8] N. Trocker, Il diritto processuale europeo e le “tecniche” della sua formazione: l’opera della Corte di Giustizia, in Eur. Dir. Priv. 2010, p. 361.

[9] Corte Giust. Ue, sentenza C-277/11, 2012, punto 65.

[10] Cedu, 21 gennaio 2011 M.S.S. c. Belgio e Grecia, par. 293.

[11] Cedu, 2 ottobre 2012, Singh c. Belgio, par. 103.

[12] Art. 3, primo comma, del d.lgs n.251 del 2007 «1. Il richiedente è tenuto a presentare, unitamente alla domanda di protezione internazionale o comunque appena disponibili, tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda. L'esame è svolto in cooperazione con il richiedente e riguarda tutti gli elementi significativi della domanda. 2. Gli elementi di cui al comma 1 che il richiedente è tenuto a produrre comprendono le dichiarazioni e tutta la documentazione in possesso del richiedente in merito alla sua età, condizione sociale, anche dei congiunti, se rilevante ai fini del riconoscimento, identità, cittadinanza, paesi e luoghi in cui ha soggiornato in precedenza, domande d'asilo pregresse, itinerari di viaggio, documenti di identità e di viaggio, nonché i motivi della sua domanda di protezione internazionale. Art. 3. Esame dei fatti e delle circostanze 1. Il richiedente è tenuto a presentare, unitamente alla domanda di protezione internazionale o comunque appena disponibili, tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda. L'esame è svolto in cooperazione con il richiedente e riguarda tutti gli elementi significativi della domanda. 2. Gli elementi di cui al comma 1 che il richiedente è tenuto a produrre comprendono le dichiarazioni e tutta la documentazione in possesso del richiedente in merito alla sua età, condizione sociale, anche dei congiunti, se rilevante ai fini del riconoscimento, identità, cittadinanza, paesi e luoghi in cui ha soggiornato in precedenza, domande d'asilo pregresse, itinerari di viaggio, documenti di identità e di viaggio, nonché i motivi della sua domanda di protezione internazionale».

[13] Un indice normativo diretto di tale caratteristica di questo giudizio è fornito dall’art. 32 comma 3 bis del d.lgs n. 25 del 2008, ai sensi del quale quando la Commissione, pur escludendo la ricorrenza dei requisiti per le misure tipiche ritenga che ci siano gravi motivi di carattere umanitario, individuati ex officio sulla base delle dichiarazioni, allegazioni e prove fornite dal richiedente, deve trasmettere gli atti al Questore per il rilascio del permesso umanitario.

[14] Cass. 14998 del 2015.

[15] L’ordine di esame gradato dalla misura maggiore alle minori è direttamente desumibile dal combinato disposto degli art. 8 comma 2 del d.lgs n. 25 del 200 - modificato per effetto del d.lgs n. 142 del 2015 proprio su tale specifico profilo. La regola si completa con il citato art. 32 che impone la valutazione residuale dei presupposti per il permesso umanitario

[16] L’art. 35, infatti, continua a prevedere letteralmente il ricorso alla tutela giurisdizionale per il riconoscimento di una delle forme di tutela internazionale (rifugio e protezione sussidiaria) mentre l’art. 35 bis (al pari dell’art. 19 d.lgs 150/2011) fa riferimento soltanto al riconoscimento dello status di rifugiato o di persona a cui è accordata la protezione sussidiaria.

[17] Cfr. Verde, Diritto processuale civile, Bologna, 2010, secondo il quale il principio in questione non può mai trovare applicazione in caso di contumacia consistendo la stessa in «un comportamento equivoco e non concludente». Sulla giurisprudenza che aveva tipizzato il principio di non contestazione prima della novella introdotta dalla l. 18 giugno 2009 n. 69, cfr. Cass. sez. un. 761/2002. Nello stesso senso, si registrano, ex pluribus, Cass. 28 novembre 2003, n. 18263; Cass. 18 marzo 2004, n. 5487; Cass. 20 febbraio 2006, n. 3601; Cass. 12 luglio 2006, n. 15777; Cass. 23 giugno 2009, n. 14623.

[18] Cass. civ. sez. III, 13 febbraio 2013, n. 3576.

[19] Sugli elementi da considerare ai fini della sussistenza di una condizione di violenza indiscriminata, cfr. Corte di giustizia, IV Sezione, 30 gennaio 2014, AboubacarDiakité/Commissairegénéralauxréfugiés et auxapatrides.

[20] Sulla giurisprudenza della Corte di giustizia in merito al contenuto del dovere di cooperazione, cfr. Corte di giustizia C-277/11, M.M. (1), Eu:C:2012:744; Corte di giustizia C-560/14, M.M. (2),ECLI:Eu:C:2017:101.

[21] Cfr. i commenti formulati dall’Unhcr alla Direttiva 2004/83 relativi all’articolo 4, paragrafo 1, della medesima, nella quale si trattava di istituire una «responsabilità comune al richiedente e all’esaminatore» per quanto riguarda il compito di stabilire e di valutare gli elementi necessari all’esame della domanda.

[22] Cass. civ., sez. VI-1, 30 luglio 2015 n. 16201; v., anche, Cass. Civ., sez. VI-1, 16 luglio 2015 n. 14998.

[23] Corte di giustizia Ue Causa C 560/14, 9 febbraio 2017 e Corte di giustizia dell'Ue, Causa C-348/16, MoussaSacko, 26 luglio 2017. In entrambe le pronunce la Corte di giustizia ha chiarito che il «diritto ad un colloquio orale» è previsto dall’art. 46 della direttiva 2013/32 solo per la fase amministrativa, ma non nella fase giurisdizionale ove il giudice, deve procedervi se tale adempimento risulti necessario per un «esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto».

[24] Corte Giust. Ue, sentenza C-277/11, 2012, punto 65.

[25] In particolare, la Suprema corte ha ribadito: che il giudice deve accertare la situazione del Paese d’origine con riferimento all’area indicata come di provenienza, e, nell’ipotesi in cui sia contrastante con le indicazioni delle parti, dare conto delle fonti e della loro datazione (Cass. Sez. VI 3347/2015); che il giudizio di genericità ed inattualità dei rischi di persecuzione e dei pericoli per la propria incolumità deve correttamente fondarsi sull'esame di un’indagine "aggiornata" del Paese d'origine, fondato sulle informazioni assunte da porre a confronto con le dichiarazioni del ricorrente medesimo (Cass. sez. VI 28/05/2013 n. 13172); che nell'ipotesi in cui le fonti istituzionali previste dalla norma risultino insufficienti o di difficile ricezione, il giudice si può avvalere di fonti integrative purché qualificate ed inerenti all'oggetto della ricerca (Cass. sez. VI 10/01/2013 n. 563).

[26] Cfr. Cass. n. 7333 del 10 Aprile 2015.

[27] Cfr. Cass. 16202 del 2012; Cass. 10202 del 2011.

[28] Cass. civ. 14998/2015, 7333/2015, 24064/2015, 13172/2013, 16202/2012, 10202/2011, 26056/2010, 27310/2008, quest'ultima resa a Sezioni Unite.

[29] Cfr. le già richiamate Cass. 14998/2015, 24064/2015, 13172/2013, 10202/2011.

[30] Cass. 17.4.2018 n. 9427. Nella pronuncia in esame, la Suprema corte ha cassato la sentenza della Corte d’appello che aveva negato il riconoscimento della protezione sussidiaria ed umanitaria unicamente per la ragione che il ricorrente, molti anni prima, aveva lasciato il Paese d’origine per cercare migliori condizioni di vita, senza esaminare la domanda alla luce delle informazioni precise ed aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese d’origine.

[31] Cass. civ. sez. 6-1, ordinanza 25534 del 13 dicembre 2016; con specifico riguardo alla rilevazione d’ufficio, in seno al processo, delle nullità negoziali, Cass. sez. un. 26242-3 / 2014.

[32] Cfr. Judicial implementation of the Charter: Actiones Database Actiones molules on the chapter – disponibile al seguente link: www.eui.eu/Projects/CentreForJudicialCooperation;
Judicial Training Project co-funded by the Justice Programme of the European Commission "Roadmap To European Effective Justice (Re-Jus): Judicial Training Ensuring Effective Redress To Fundamental Rights Violations"
(JUST/2015/JTRA/AG/EJTR/8703), coordinato dall’Università di Trento, materiali e informazioni disponibili al seguente link www.rejus.eu.

[33] Cfr., sul legame tra “esigenze di tutela e forme di tutela disponibile”, I. Pagni, Le azioni di impugnativa negoziale – Contributo allo studio della tutela costitutiva, Milano, 1998, cap. I, Tutela specifica e tutela per equivalente.

[34] Cfr. Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell'Unione e abroga la direttiva 2013/32/Ue.