Editoriale
Diritto d’asilo e protezione internazionale sono di quei temi che, sino a poco tempo fa, si sarebbe stati tentati di definire periferici. Eccezione fatta per una ristretta cerchia di specialisti, ben pochi se ne occupavano in ambito accademico ed anche l’organizzazione giudiziaria non li poneva certo al centro della propria attenzione.
La situazione appare oggi diversa. Il più generale fenomeno migratorio, che ha interessato l’area mediterranea e l’intera Europa, ha di certo contribuito a sollecitare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla situazione dei richiedenti asilo, ha messo in tensione la macchina dell’amministrazione ed ha costretto lo stesso legislatore a farsene in qualche modo maggiormente carico. Gli operatori giuridici – giudici, avvocati e pubblici amministratori – si sono trovati a doversi confrontare con problemi nuovi (o almeno relativamente nuovi), ed allora è importante che si faccia strada la piena consapevolezza di quanto, a dispetto dell’apparente specificità e settorialità delle questioni di diritto che il tema solleva, siano qui in gioco aspetti essenziali della nostra civiltà giuridica: si tratta di diritti fondamentali e di principi di rilevanza costituzionale, che interessano le relazioni internazionali tra Stati e che inevitabilmente condizionano la collocazione e l’immagine dell’Italia nel mondo delle nazioni civili.
È questo il motivo per il quale Questione giustizia ha deciso di dedicare al diritto d’asilo ed alla protezione internazionale un numero monografico della Rivista trimestrale, nella convinzione che sia impellente stimolare un dibattito, forse ancora non pienamente sviluppatosi nella comunità dei giuristi e degli operatori di giustizia, su questioni nevralgiche che investono direttamente la nostra coscienza civile perché toccano le radici stesse di ciò che continuiamo a definire la civiltà.
Non vorrei che quest’ultima affermazione suonasse esagerata, o un po’ troppo retorica. Occorre riflettere sul fatto che qui si intrecciano due fenomeni che sin dalle epoche più remote i popoli – non soltanto, ma in particolare, quelli dell’area mediterranea – hanno considerato emblematici della loro civile convivenza: la protezione del perseguitato e l’accoglienza dello straniero. L’una caratterizzata all’origine da connotazioni religioso-sacrali, che imponevano di rispettare colui che avesse messo piede in un’area protetta dalla divinità, l’altra, ugualmente non scevra da suggestioni religiose, che da sempre concepisce l’ospitalità come un dovere, soprattutto quando l’ospite straniero si presenta debole ed indifeso. Virgilio non esita a definire barbaro il Paese che impedisce allo straniero di mettere piede sul proprio lido e lo esorta a temere gli dei, memores fandi atque nefandi (Eneide, Libro I, versi 549 e segg,).
Sin dalla più remota antichità lo straniero, colui che giunge da lontano e porta con sé un carico di esperienze, di sofferenze, di speranze delle quali solo vagamente si possono intuire i contorni, è stato circondato da una sorta di aura, per certi versi quasi sacrale, che proprio per questo appare talvolta anche un po’ inquietante. Dall’alba della civiltà le comunità umane stanziali hanno elaborato modelli di accoglienza per potersi confrontare con la sacralità e l’inquietudine dello straniero, specialmente quando questi è un fuggiasco, bisognoso di protezione perché costretto a lasciare i suoi luoghi di origine per il premere di eventi più forti di lui. Non erano forse stranieri in fuga dalla devastazione della loro città al termine di un’orrenda guerra Enea ed i suoi compagni, approdati fortunosamente sui lidi cartaginesi dove li accolse Didone, non diversamente da Ulisse, perseguitato da Nettuno, che trovò rifugio presso gli ospitali Feaci? E non fuggiva in Egitto la Sacra famiglia per sottrarsi alla ferocia di Erode?
Si tratta, insomma, di un archetipo risalente alle origini della nostra civiltà – anche e soprattutto della civiltà mediterranea – che trova riscontro in molteplici miti e si radica con altrettanta forza nella tradizione ebraico-cristiana. Ma, al tempo stesso, è un fiume carsico che emerge continuamente lungo il corso della Storia. Quella Storia che in epoche più prossime a noi ha conosciuto la lunga fila degli esuli, pallidi e romantici, da cui è popolato l’ottocento, e che, nel tragico novecento ha visto il dramma di donne ed uomini costretti ad abbandonare la propria casa ed il proprio ambiente di vita per sottrarsi alla tirannia di regimi dispotici o addirittura per fuggire alla minaccia di sterminio, come fu per tanti ebrei sotto la dominazione nazista e per tanti armeni sotto la minaccia dei turchi. E penso anche alle terribili odissee di intere comunità cui è toccato in sorte di doversi allontanare dal proprio territorio di origine al termine della seconda guerra mondiale, principalmente nell’Europa centrale, in quel clima di feroci vendette e pulizie etniche descritto con grande efficacia e non senza profonda commozione dallo storico inglese Keith Lowe in un libro significativamente intitolato Savage Continent (in italiano Il continente selvaggio, Laterza, 2012).
È figlio di queste terribili esperienze l’espresso riconoscimento del diritto d’asilo che figura nella nostra Costituzione (art. 10, comma 3), come pure nella quasi coeva Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 10 dicembre 1948 (art. 14), poi nella Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, relativa allo status di rifugiato, e più tardi nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 18). Ed ho adoperato la parola “riconoscimento” appunto perché credo che ben si possa affermare, anche alla luce dei testi normativi appena ricordati, che il diritto di asilo non è tanto una concessione che i singoli Stati fanno ai rifugiati cui accordano protezione, quanto piuttosto un diritto che gli Stati riconoscono come espressione di un preesistente principio generale radicato nell’ordinamento internazionale.
Ora non si tratta però di confrontarsi con vicende storiche. Serve sì evocarle, ma per parlare del presente, perché è sotto i nostri occhi che di nuovo gli orrori delle guerre, il fanatismo, lo sfruttamento economico, i disastri prodotti da regimi sciagurati e dalla sconsideratezza di tanti governanti spingono masse di uomini e donne a ricercare altrove condizioni di vita almeno relativamente sicure ed appena dignitose, non sempre purtroppo riuscendovi e pagando anzi spesso con la vita i loro disperati tentativi. Ed è bene non dimenticare che, se la nostra Costituzione sembra ancorare il riconoscimento del diritto di asilo alla possibilità di godere di diritti politici, giacché fa menzione di coloro ai quali è negato nel proprio Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche, a maggior ragione ciò significa che l’asilo non può esser negato quando facciano difetto le precondizioni essenziali per l’esercizio delle richiamate libertà democratiche – esercizio che, per l’appunto, deve essere “effettivo” – e cioè quando nel Paese d’origine del richiedente asilo siano per qualsiasi ragione a repentaglio la sua dignità umana o la sua stessa vita.
Qui davvero il diritto è chiamato ad esprimere appieno la funzione civilizzatrice che gli è propria (o dovrebbe essergli propria), e grandi sono perciò le responsabilità sociali e morali di chi al diritto deve saper dare attuazione. Ma grandi sono anche le difficoltà, perché occorre riuscire a fronteggiare le pulsioni irrazionali che continuano purtroppo ad attraversare molti dei Paesi che pur si vantano della loro antica civiltà e che oggi, nondimeno, appaiono spesso inclini a seguire derive sovraniste ed a rinchiudersi nei confini delle loro piccole patrie, poco curandosi del fatto che il richiedente asilo è una persona che, prima d’ogni altra cosa, rivendica il riconoscimento della propria dignità di essere umano. E preoccupa non poco che questa tendenza regressiva sembra stia prendendo assai piede anche in Italia e rischi di condizionare fortemente la nostra vita politica nell’immediato futuro.
Occorre perciò più che mai che i giudici – e gli avvocati, per la parte fondamentale che pure a loro compete – si attrezzino qui a lottare per il diritto (perché l’affermazione dei principi di diritto è sempre anche lotta, come sin dall’ottocento ci ha insegnato Jhering, La lotta per il diritto, Giuffré, 1989), comprendendo che ciò vuol dire lottare per la civiltà.
Non si tratta però soltanto di predisporre idonei strumenti organizzativi e processuali (benché pure questo sia ovviamente indispensabile), ma anche di forgiare una cultura giuridica capace di cogliere la particolarità dei problemi che l’attuazione del diritto d’asilo e della protezione internazionale pongono. In nessun campo l’esercizio della giurisdizione può mai consistere nella meccanica ed asettica applicazione di leggi e regolamenti, ma credo che, qui più che altrove, il giudice debba saper rifuggire da ogni tentazione d’interpretare il proprio ruolo in modo burocratico; che debba invece riuscire a cogliere il senso profondo di ciascuna vicenda umana sottoposta al suo esame (e sono quasi sempre vicende assai drammatiche) per capire davvero le motivazioni che hanno spinto quella singola e ben determinata persona a compiere una scelta di vita così gravida di conseguenze. Qui l’attuazione del diritto impone di misurarsi anche con fattori metagiuridici, di saper cogliere i profili storici, politici ed antropologici di ogni specifica situazione.
Tralascio la domanda del se, o fino a qual punto, le regole processuali a tal fine approntate dal legislatore siano adatte a consentire un così delicato e difficile esercizio della giurisdizione. Mi limito a sottolineare che la straordinaria complessità del compito richiede, comunque, un profondo impegno culturale ed un grande sforzo di formazione professionale dei giudici che vi sono destinati e degli avvocati che vi si dedicano.
L’Italia d’altronde, come si sa, è terra di confine dell’Europa mediterranea, e perciò il modo in cui si riesca nel nostro Paese a tutelare il diritto di asilo e ad assicurare la protezione internazionale ai rifugiati costituisce inevitabilmente un importante modello, o comunque un imprescindibile termine di paragone, per i sistemi giudiziari dell’intero continente. Il che conferma come oggi, lungi dall’essere un settore marginale rispetto alle grandi questioni tradizionali intorno alle quali si affanna la giurisdizione, questo sia divenuto un tema cruciale cui è bene che la comunità del giuristi dedichi la massima attenzione e per affrontare il quale è necessario che la magistratura e l’avvocatura si preparino col massimo impegno.
Non è facile essere all’altezza di questa sfida, ma è indispensabile perché attiene al cuore stesso della nostra civiltà.
Se non troverà il modo di tutelare i diritti dell’ospite straniero, l’Europa rischierà nuovamente di essere un continente selvaggio.
Maggio 2018