La restrizione amministrativa della libertà personale del richiedente asilo, prima, durante e dopo il processo di protezione
L’irruzione del richiedente asilo sulla scena nazionale ha innescato il dispiegamento di un poderoso arsenale difensivo, che eleva il trattenimento amministrativo ad arma di persuasione di massa.
Il sacrificio della libertà conosce mille declinazioni, dai Centri di permanenza per i rimpatri, luoghi a garanzie diminuite, agli hotspot, territori de-giurisdizionalizzati, autentiche voci buie del diritto.
Viaggio ai confini della legalità.
1. Le persone di cui si parla
Gli occhi di Naima sono umidi, velati, ma lei non piange. Da quando è in carico al Centro di salute mentale «non è in grado di prendersi cura di sé», certificano i dottori. Colpa dell’arresto del marito o della malattia della mamma. E ora hanno preso Youssef. «Cosa succederà a mio fratello? Davvero vogliono rimandarlo in Marocco? E chi si prenderà cura di lei?».
Sullo sfondo, fuori fuoco, gli occhi della mamma sono incollati al marciapiede, travolti dall’imbarazzo. La donna è sfigurata, il setto nasale è stato quasi interamente rimosso per un carcinoma che la divora da una decina di anni. Tre cicli di chemioterapia non sono bastati, le metastasi dilagano nei polmoni. «Prognosi infausta a medio termine», sentenzia il referto del direttore del Dipartimento di oncologia. «Mamma ha 1 o 2 anni di vita. Bisogna accompagnarla a tante visite e io non ce la faccio».
Naima parla piano, si direbbe che resista a fatica la forza di gravità. Le 2 donne stazionano davanti all’ingresso del Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Torino “Brunelleschi”, sul bordo di una strada ad alto scorrimento, tre corsie per senso di marcia. Sfidano le folate delle automobili, ondeggiano – umiliate e ostinate – come due piante nel cemento.
Dentro il centro, nell’acquario, il fratello di Naima attende di entrare nella stanza dei colloqui. Con lui c’è Faguimba, un ragazzone maliano di quasi 2 metri con la voce, e i pensieri, di un bambino. Faguimba è analfabeta e ha una disabilità intellettiva, è dentro per alcune parole inopportune, che in italiano non padroneggia nemmeno.
Di fianco a lui, Yassine è un fascio di nervi: il malessere addosso, una montagna di ecografie e 8 centimetri di batteria del cellulare ancora nello stomaco. «Lunedi prossimo c’è l’udienza al Tribunale per i minori per i miei figli. Posso uscire, avvocato, mi fanno uscire dopo?».
Ultimo del gruppo è Zaur, in pigiama stinto e ciabatte da piscina, senza calze. Fuori ci sono 2 gradi.
Infine arriva Abdo. Lo portano nella sala colloqui su una sedia a rotelle. Muove solo gli occhi e le labbra. Il corpo è abbandonato sulla sedia, invertebrato come uno degli orologi molli di Dalì. Il referto parla di disidratazione, ma Abdo vive la disperazione di un giovane ragazzo sudanese sfuggito all’inferno del Darfur e finito – Allah solo sa come – a digiunare in una cella italiana. Bed and breakfast nelle gabbie, vista sbarre e garitte, residenza esclusiva di alieni, miserabili e reietti.
2. La legge che non dice: hotspots, autobus e tenso-strutture
Disegnare il perimetro del trattenimento del richiedente protezione internazionale, in Italia come nel resto dell’Unione europea, impone preliminarmente di affrontare una questione (non solo) terminologica.
L’equazione fra trattenimento dell’asilante e restrizione in un Cpr pecca infatti di formalismo, perché oscura il contenimento di fatto di tutto ciò che non è ancora asilo (i migranti tratti in salvo nel Mediterraneo e rinchiusi negli hotspots), non lo è più (i trattenuti in un Cpr denegati dalle Commissioni territoriali) o non lo sarà mai (gli stranieri privati della libertà personale, negli hotspots come nei Cpr, la cui domanda di protezione è ostacolata, ritardata, impedita)[1].
Alcune vicende fragorose restituiscono le dimensioni del problema: nel luglio del 2015, 66 ragazze nigeriane – alcune delle quali già detenute e oggetto di gravi violenze nel centro di Zwara, quasi tutte verosimilmente vittime di tratta a fini di sfruttamento sessuale – vengono sbarcate in diverse località siciliane e qui trattenute de facto.
Tutte le donne ricevono un provvedimento di respingimento e vengono trasferite al Cpr di Roma per organizzarne il rimpatrio. All’arrivo le migranti incontrano un rappresentante del consolato nigeriano, già presente all’interno della struttura, allo scopo di identificare le malcapitate. Solo grazie all’intervento delle associazioni di tutela dei diritti umani le ragazze vengono informate della possibilità di chiedere la protezione internazionale.
Pochi mesi più tardi una quarantina di cittadini gambiani sbarca ad Augusta insieme a qualche centinaio di migranti subsahariani.
Dopo 2 giorni rinchiuso nell’enorme tenso-struttura allestita nei presso del porto, presidiata da guardie armate e cani, senza l’intervento di alcun giudice né accesso di legali, il gruppo viene isolato e caricato a bordo di un autobus scortato da alcune volanti della polizia, che conduce i migranti all'aeroporto di Catania.
In una sala di attesa chiusa al pubblico, ciascuno riceve la notifica di un decreto di respingimento differito emesso dalla questura di Siracusa, e pochi minuti dopo l'intero gruppo è a bordo di un aereo. I provvedimenti – fotocopie di un medesimo modello prestampato – sono identici per testo, lunghezza e interruzione delle pagine, e differiscono unicamente per l'indicazione del nome e della data di nascita (il Paese, per tutti, è il Gambia).
La prima tappa è Crotone, dove 24 migranti vengono fatti scendere e trasferiti nell’allora Cie di Isola di Capo Rizzuto, chiuso una prima volta nel 2013 per la morte di un migrante e definitivamente inagibile dal marzo del 2016 a seguito di un incendio.
Gli altri 16 proseguono il trasferimento verso l’aeroporto di Torino, da dove in autobus vengono scortati fino al cortile interno del locale Cpr Qui, ancora sul bus, ciascuno viene chiamato per nome e condotto in uno degli uffici della struttura.
Ad attenderli c'è un uomo di colore seduto ad una scrivania, che – senza presentarsi – chiede informazioni sulla famiglia e sulla città di origine, prima di congedarli frettolosamente. Una nota della questura di Torino indirizzata al Ministero dell’interno rivelerà trattarsi di un ispettore della polizia gambiana, all’epoca dei fatti agli ordini del famigerato Yahya Jammeh.
Ci vorranno diverse settimane affinché i migranti gambiani – finalmente informati da avvocati e volontari – riescano a ottenere la registrazione della domanda di protezione internazionale.
Nell’agosto del 2016 un gruppo di circa 50 cittadini sudanesi veniva fermato dalle autorità a Ventimiglia, costretto a bordo di un autobus e condotto forzatamente fino all’hotspot di Taranto (a quasi 1200 chilometri di distanza), nel corso di una delle innumerevoli e folli operazioni di alleggerimento delle frontiere orchestrate dal Ministero dell’interno.
Il terzo giorno dopo il fermo e il trasporto all’hotspot, il prefetto di Taranto adottava una serie di decreti di espulsione con accompagnamento immediato, puntualmente convalidati dal locale giudice di pace.
A questo punto i cittadini sudanesi venivano nuovamente caricati a bordo di un autobus e trasferiti all’aeroporto di Torino (scelta altrettanto razionale, trattandosi di soli 1100 chilometri), venendo identificati da un rappresentante consolare sudanese in occasione di una fermata lungo il tragitto.
Al momento dell’imbarco del gruppo su un volo charter della Egypt Air, 7 migranti venivano fatti scendere per indisponibilità di posti sul velivolo, venendo quindi trattenuti presso il Cpr di Torino in virtù del relativo decreto emesso dal questore di Taranto.
Anche in questo caso era solo il contatto con gli avvocati a consentire ai cittadini sudanesi di avanzare domanda di protezione internazionale (senza che ciò impedisse la convalida del trattenimento tanto da parte del giudice di pace quanto del Tribunale), istanze che si concludevano con altrettante decisioni di riconoscimento della tutela da parte della locale Commissione territoriale.
Last, but not least, reiterate denunce di violenze, condizioni di vita degradanti e ostacoli alla presentazione delle domande di asilo dei migranti, in gran parte tunisini, incombono sull’hotspot di Lampedusa, già pietra dello scandalo della nota sentenza Khalifia[2].
Nella pronuncia i giudici di Strasburgo hanno affermato che la sistemazione dei migranti all'interno del Centro, con il divieto di allontanamento e la costante sorveglianza delle forze di polizia, ne comporta la privazione della libertà, atto materiale «privo di base giuridica nel diritto italiano», peraltro in condizioni ambientali ai limiti della tortura.
La struttura veniva parzialmente chiusa dal Ministero dell’interno lo scorso 13 marzo dopo le vibranti proteste del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale («un carcere indecoroso»[3]) e del mondo dell’associazionismo[4], oltre a una serie di episodi di violenza, un incendio e il suicidio di un cittadino tunisino, ospite dal mese di ottobre e impiccatosi il 5 gennaio 2018[5].
3. I confini dello Stato di diritto
Nata come incidente nell’ordinario trattenimento dello straniero in via di espulsione, la restrizione della libertà personale del richiedente protezione internazionale ha progressivamente guadagnato popolarità all’interno dell’universo europeo, seppure nella deliberata volontà di opacità[6].
Il motivo è evidente: nulla eguaglia la potenza deflagrante dell’invocazione «asilo!», passaparola febbrile capace di scardinare le più sofisticate griglie di dissuasione di massa elaborate dall’Unione europea, a partire dal fu Regolamento Dublino III.
Spazzata la risibile resistenza del fortino Europa, nel 2015 Bruxelles è corsa ai ripari lanciando l’Agenda europea sull’immigrazione, piano continentale di resistenza e prevenzione dell’afflusso migratorio principalmente attraverso il trattenimento dei richiedenti, sia nei Paesi di transito (Turchia, in primis), sia all’ingresso nel territorio dell’Unione, in particolare negli hotspots greci e italiani.
Strumento di identificazione e classificazione dei migranti (richiedenti protezione: “categoria 1”, non richiedenti: “categoria 2”), l’hotspot non ha nome né equivalente, non è definito né disciplinato nell’ordinamento giuridico italiano[7]. Il problema, come ovvio, è tutt'altro che semantico.
Nella totale oscurità giuridica, e nell'inaccessibilità fisica, tra i mesi di settembre del 2015 e marzo del 2016 le autorità italiane hanno attivato 4 punti di crisi a Lampedusa, Trapani, Pozzallo e Taranto.
Qui, in spregio ai più elementari diritti convenzionali e costituzionali, gli stranieri vengono privati della libertà personale in assenza di qualunque controllo giurisdizionale, senza possibilità di assistenza legale, in strutture talvolta fatiscenti[8] e sovraffollate[9], per un periodo di tempo indeterminato (in alcuni casi fino a diversi mesi).
Nessuna eccezione nemmeno per i minori non accompagnati, costretti anzi a permanenze mediamente più prolungate per la notoria penuria di strutture di accoglienza adeguate.
Nel silenzio della legge che non dice, le uniche disposizioni sul trattenimento dei migranti all'interno di tali strutture sono contenute nel documento ministeriale «Procedure operative standard (SOP) applicabili agli hotspots italiani»[10], che evidentemente non costituisce fonte di diritto.
Qui si legge che «La persona può uscire dall’hotspot solo dopo essere stata foto-segnalata concordemente con quanto previsto dalle norme vigenti, se sono stati completate tutte le verifiche di sicurezza nei database, nazionali ed internazionali, di polizia».
Prima ancora delle testimonianze di migranti, operatori ed associazioni, sono dunque le direttive istituzionali a certificare la crisi dello Stato di diritto, violentato da circolari e prassi amministrative e umiliato perfino dal beffardo disclaimer ministeriale, secondo cui «In caso di discrepanze fra questo documento [le SOP, n.d.r.] e la legislazione vigente, si applica quest’ultima».
4. Al pragma, costi quel che costi
Il de profundis della politica nazionale sull’asilo è uno spartito a più voci, dagli autobus impazziti che rimpallano chiunque non assomigli a un europeo dalla frontiera nord-occidentale a Taranto, in un’infinita corsa a perdere[11], alla strategia del “buco” di Lampedusa, dove l’uscita dal cancello dell’hotspot è indebitamente vietata, ma il passaggio attraverso un buco nella recinzione è apertamente tollerato[12].
Hotspots, tenso-strutture, autobus para-ministeriali sono territori ai margini della legalità, luoghi iper-monitorati (presenti i rappresentanti di Frontex, Easo, Europol, Eurojust) eppure teatro di violazioni massificate di diritti fondamentali, delegificati, numericamente saturi ma giuridicamente vuoti.
L’unica regola è il dominio assoluto e su larga scala delle prassi amministrative: se nei 4 hotspots transita circa il 30% dei migranti soccorsi in mare[13], anche le altre strutture di prima accoglienza adottano i medesimi standard operativi, con il risultato di sottoporre pressoché tutti i migranti sbarcati in Italia alla limitazione della libertà su base etnica.
Spinta poderosa e funzionale al confinamento di massa è la degradazione del richiedente da essere umano ad agente patogeno, che abusa degli istituti giuridici (benché la metà delle richieste di protezione presentate in Italia dal 1990 a oggi abbia trovato accoglimento[14]), che approfitta del sistema di accoglienza, in realtà tardivo e gravemente inadeguato[15], che minaccia sanità e ordine pubblici in quanto potenziale untore[16] e «matto da legare»[17].
È questo il copione che ha legittimato la rottura dei doveri minimi di solidarietà, consacrata (i.e. esecrata) nell’accordo di riammissione con l’amica Libia: si scrive «arginare i flussi di migranti illegali»[18], si legge respingere, forma subdola e potenzialmente definitiva di trattenimento.
5. La legge che confonde: Cpta, Cpt, Cie, Cpr
Anche i Centri di permanenza per i rimpatri sono luoghi di sofferenza umana, istituzionale e giuridica[19].
Il bilancio di 20 anni di detenzione amministrativa degli stranieri espellendi è disastroso: oltre a intercettare una percentuale minima della popolazione irregolarmente soggiornante[20], i rimpatri dai Cpr sono notoriamente assai limitati (intorno al 50% dei casi), a fronte di un prezzo altissimo in termini di «mortificazione della dignità umana» – la Corte Costituzionale docet[21] – e dello sperpero di una montagna di denaro pubblico, almeno 55 milioni di euro l'anno secondo la Commissione diritti umani del Senato[22].
L’ingresso a pieno titolo dei richiedenti asilo in tali luoghi, sancito con la cd. Bossi-Fini[23], ne ha cambiato natura. Fino a quel momento, infatti, il sacrificio della libertà era unicamente legittimato dalla necessità di eseguire un decreto di espulsione o respingimento.
A partire dal 2002 i Centri sono diventati per i richiedenti i luoghi istituzionali dell’attesa e dell’immobilismo, termini peraltro già ben noti ai precedenti ospiti malgré eux.
Nei 15 anni successivi si è assistito alla frequente riscrittura della normativa in senso progressivamente afflittivo, coerentemente alla crescita dell’allarme mediatico associato alla cd. crisi dei rifugiati.
Ogni novella ha riproposto un impressionante grado di approssimazione e sommarietà – la legge che confonde – che incrina la fiducia nel diritto e attribuisce all’interprete un potere semi-dominico.
In questa prospettiva il legislatore nazionale ha avuto buon gioco di una normativa comunitaria pressoché assente, poiché fino al 2013 – anno di adozione della Direttiva accoglienza rifusa[24] e del Regolamento Dublino III[25] – il trattenimento dell’asilante («il confinamento del richiedente, da parte di uno Stato membro, in un luogo determinato, che lo priva della libertà di circolazione»[26]) non era disciplinato dal diritto dell’Ue.
L’irruzione del legislatore di Bruxelles, e la trasposizione nel diritto italiano, hanno prodotto risultati paradossali: l’art. 6, d.lgs 142/15, norma che recepisce i principi comunitari, è un groviglio inestricabile di specchi, rimandi, sovrapposizioni e sincopi, i cui mille strati di lettura suggeriscono altrettanti profili di potenziale illegittimità.
Il catalogo aperto delle storture che affligge il trattenimento del richiedente asilo si somma a quello delle anomalie proprie del sistema Cpr, formando un unico corpo malato e tumefatto. Di seguito le cicatrici più profonde.
6. La colpa dell’asilo
Quando la detenzione amministrativa intercetta la traiettoria dei richiedenti asilo, l'inefficienza si tramuta in punizione: se il trattenimento degli stranieri – compresi i soggetti espulsi per pericolosità sociale o terrorismo – non può eccedere i 3 mesi, il migrante colpevole di avere chiesto la protezione internazionale può essere ristretto all'interno di un Cpr fino a 1 anno[27].
Ai noti dubbi di costituzionalità che macchiano il sistema del trattenimento[28], la detenzione dei richiedenti aggiunge eclatanti criticità, in primis una durata arbitraria.
I termini della procedura amministrativa, peraltro meramente ordinatori, rispondono infatti a criteri talmente vaghi e indefiniti – in un crescendo di avvitamenti lessicali – da risolversi nella completa soggezione alla discrezionalità della pubblica amministrazione.
Ordinariamente una domanda di protezione presentata da un trattenuto al Cpr, o da uno straniero ristretto in seguito alla richiesta, deve essere decisa entro 9 giorni, ma in ragione della «sopravvenuta esigenza di acquisire nuovi elementi» il termine sale a 2 mesi[29].
Qualora «l'esame della domanda richiede la valutazione di questioni complesse in fatto o in diritto»,in presenza di «un numero elevato di domande presentate simultaneamente»o allorché «il ritardo è da attribuire all'inosservanza da parte del richiedente degli obblighi di cooperazione», è prevista una proroga di ulteriori 3 mesi[30].
Infine «ove necessario per assicurare un esame adeguato e completo della domanda»[31], il termine slitta ulteriormente di 1 mese[32].
All’evanescenza di tali concetti si abbina il silenzio sui criteri per la proroga del trattenimento. Da un lato il principio secondo cui «Il trattenimento o la proroga del trattenimento non possono protrarsi oltre il tempo strettamente necessario all'esame della domanda[33]» svela tutta la propria inconsistenza appena si ricorda che il «tempo strettamente necessario» si estende da 9 giorni a 6 mesi, secondo la diffusa prassi che impone termini sempre più stringenti, ma sempre meno perentori.
D’altro canto la norma per la quale «Il trattenimento è mantenuto soltanto finché sussistono i motivi di cui ai commi 2, 3 e 7[34]» appare eufemisticamente marginale, poiché prevede la cessazione della restrizione solo allorché i motivi di ritenuta pericolosità per l’ordine e la sicurezza pubblica, il rischio di fuga, l’esclusiva finalità strumentale della domanda o la pendenza del ricorso giurisdizionale vengano meno nel corso del trattenimento. Di qui la delega legibus soluta all’interprete.
7. Il diavolo e i dettagli
Allorché la domanda di protezione internazionale venga respinta dalla Commissione territoriale, il trattenuto può proporre ricorso al Tribunale.
Sebbene in contrasto con le previsioni della Direttiva procedure[35], la legge nazionale prevede che a tale impugnazione non consegua la sospensione automatica del provvedimento della Commissione[36], rimettendone la decisione alla discrezionalità del giudice.
Ebbene anche qualora la richiesta cautelare venga accolta e il ricorrente venga autorizzato a permanere in Italia fino alla decisione sul merito, lo stesso continuerà a rimanere nel Cpr fino ad un massimo di 12 mesi complessivi, sebbene l'allontanamento non possa avere luogo[37].
Allorché l’istanza di sospensione venga invece rigettata, lo straniero trattenuto perde la veste di richiedente asilo riscoprendosi semplice espellendo, figlio di uno ius minore, rimesso alla competenza del giudice di pace[38].
L’evidente finalità punitiva della normativa nazionale traspare anche dalle ulteriori correzioni con cui sono state recepite le garanzie procedurali previste dalle direttive comunitarie.
Un esempio per tutti: l’art. 9, par. 1, Direttiva accoglienza, stabilisce che “I ritardi nelle procedure amministrative non imputabili al richiedente non giustificano un prolungamento del trattenimento”, elementare principio a presidio della libertà personale.
Nella trasposizione della norma un legislatore zelante cede alla tentazione di un piccolo dettaglio, diabolico, una griffe a 5 lemmi capace di condannare il richiedente incolpevole a ulteriori mesi di trattenimento. L'art. 6, c. 6, d.lgs. 142/15, recita infatti: «Eventuali ritardi nell'espletamento delle procedure amministrative preordinate all'esame della domanda [sottolineatura nostra, n.d.r.], non imputabili al richiedente, non giustificano la proroga del trattenimento», consentendo così la prosecuzione della restrizione nel caso, peraltro non raro, di ritardo nella valutazione dell’istanza o nella notifica della decisione.
8. La giustizia a debita distanza
Il clamoroso impasse del sistema delle garanzie per i trattenuti ha il volto delle tante udienze svolte all’interno dei Centri (invece che nelle aule di giustizia[39]) in assenza del richiedente, nonostante la giurisprudenza di legittimità ne imponga la partecipazione[40]; dei provvedimenti che, a 10 anni dalla Direttiva rimpatri e nonostante la sentenza El Dridi[41], ancora negano il diritto al riesame; soprattutto dell'inappellabilità dei decreti di convalida e proroga, incredibilmente sottratti ad un secondo grado di merito collegiale: come un sistema processual-penalistico privo del Tribunale del riesame, come un moderno ordinamento democratico che ignora il diritto ad un ricorso effettivo garantito dall’art. 13 della Cedu.
L’ultimo sfregio, frutto della deforma Minniti-Orlando[42], perfeziona l’allontanamento fisico del richiedente dai luoghi della giustizia privandolo del diritto di sedere al tavolo del giudice che deve decidere della sua libertà (il proprio giudice). L’art. 6, d.lgs 142/15, prevede infatti che l’udienza di convalida – e quella/e di proroga? – si svolga «mediante un collegamento audiovisivo» tra l’aula di udienza e il Cpr, come per un detenuto in regime di 41-bis o.p.
Lo strumento della videoconferenza innesca problematiche a cascata, dalla concreta qualità del contraddittorio al posizionamento dell’interprete, che culminano nel dilemma del difensore, costretto ad assentarsi agli occhi dell’assistito o a quelli di giudice e pubblica amministrazione[43].
Il primo esempio di tecno-giustizia applicata all’asilo maschera il sacrificio della difesa attraverso ideali di efficienza, speditezza e razionalità, fino a liberare il giudice dalla necessità di qualunque contatto con il richiedente, ridotto a mera icona informatica.
9. Del mutuo opportunismo
Ennesima faccia scura del prisma è il destino dei molti richiedenti che presentano la domanda di protezione dall’interno dei Cpr, o meglio che riescono a presentare la domanda, visti i notori e paradossali ostacoli all’accesso alla procedura – talora ritardata per intere settimane[44] – che espongono il mancato richiedente al pericolo del rimpatrio.
Se la domanda è ritenuta esclusivamente strumentale, vale a dire presentata «al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione del respingimento o dell’espulsione», lo straniero rimane all’interno del Centro, come visto, fino a un massimo di 12 mesi.
Poiché qualunque richiesta di protezione è evidentemente finalizzata a prevenire il rimpatrio, l’elemento qualificante della previsione è racchiuso in quell’espressione – «al solo scopo» – che andrebbe conseguentemente valorizzata. E invece i Centri ospitano con frequenza disturbante cittadini siriani, afghani, sudanesi, somali, nonostante le statistiche ministeriali indichino che le domande provenienti da richiedenti di tali nazionalità siano accolte nella quasi totalità dei casi, e dunque non possano certo definirsi esclusivamente strumentali[45].
Non del tutto superata è anche la prassi di alcune sezioni specializzate di Tribunali di valutare la pretestuosità della domanda di protezione senza nemmeno ascoltare il richiedente, svilendo così il significato della giurisdizione a mero esercizio di arte divinatoria.
Una spessa coltre di ambiguità avvolge inoltre i cd. trattenimenti Dublino, finalizzati all’accertamento dello Stato membro dell’Ue competente alla decisione e all’eventuale esecuzione del trasferimento.
In questo ambito la privazione della libertà personale è consentita solo in presenza di un «rischio notevole di fuga»[46], i cui criteri obiettivi – secondo la Corte di Lussemburgo[47] – devono essere «fissati in una norma cogente di portata generale» nella legislazione domestica, pena l’inapplicabilità dell’istituto.
Nonostante il legislatore nazionale non abbia stabilito tali criteri (avendo unicamente definito i concetti di rischio di fuga relativi alle Direttive rimpatri e accoglienza), gli stranieri dublinati finiscono nei Centri travestiti da ordinari richiedenti asilo, accompagnati da un decreto di trattenimento adottato ai sensi dell’art. 6, d.lgs 142/15, invece che del Regolamento Dublino.
10. Il regno del “dopo”
La conta dei grani di questo rosario proseguirebbe a lungo: le misure alternative al trattenimento previste della Direttiva rimpatri pressoché disapplicate, la facoltà di trattenere chi non vuole fare domanda di asilo in Italia e rifiuta di farsi scansionare i polpastrelli, la promiscuità nei Centri tra richiedenti asilo, pregiudicati, vittime di tratta e sospetti estremisti etc.
Ma la ricognizione dello stato di salute del trattenimento amministrativo non può oscurare l’attenzione sulla salute degli esseri umani che lo sperimentano.
Le persone ristrette nei Cpr, a qualunque titolo, subiscono la soggezione al potere statale nella sua forma più invasiva e umiliante, perfino più profonda rispetto all’universo penitenziario. Il trattenuto dipende in tutto dal carceriere, dalla posizione assegnatagli nella lista di attesa di quanti hanno chiesto di potersi radere, di farsi accendere una sigaretta, di incontrare un medico: «Loro ti dicono che la parola chiave dentro al CIE è “dopo”»[48].
Se i Centri sono magneti di dolore e abbandono, non stupisce che a risentirne sia molto spesso la salute dei trattenuti, minacciata dal precario rapporto con il personale sanitario, dall’improprio ricorso agli strumenti terapeutici – psicofarmaci e sonno-inducenti, in particolare – e dalla tentazione dell’autolesionismo.
Per chi non accetta il proprio trattenimento la ricerca della libertà scivola «dalle aule di giustizia alla superficie dei corpi»[49], autentici tavoli delle trattative sui quali negoziare l’uscita dal Centro attraverso il digiuno, le labbra cucite, i metalli ingoiati.
Anche per questo rabbia e disperazione periodicamente infiammano le parole, le azioni e i materassi nei Centri, levando colonne di fumo su cui soffia il vento della mistificazione politica, con i suoi proclami e i raggiri lessicali – Cpta, poi Cpt, quindi Cie, ora Cpr
Dicono i puristi che non è una prigione. Dicono i trattenuti che è pure peggio[50]. Come per il sistema carcerario molto spesso non è la gravità della condotta a segnare il destino delle persone, ma la carenza di risorse, l’appartenenza a minoranze, la colpa d’autore. Abitualmente nei Centri non finiscono i soggetti più pericolosi o i più scaltri, ma i più deboli, richiedenti asilo in testa.
Ecco la fotografia che trasforma qualche goccia – Youssef, Faguimba, Yassine, Zaur, Abdo – nell’istantanea di un’alluvione.
11. La «mattana collettiva» e la pseudo-giustizia
Nel 1992, presentando una delle prime indagini sull’attitudine dei residenti nei confronti degli immigrati, l’allora direttore dell’Ires Piemonte Andrea Prele collocava alla radice dell’ostilità verso gli stranieri il binomio «incertezza e reticenza»[51].
Ad un quarto di secolo di distanza, l’analisi si applica con mirabile efficacia al diritto dell’immigrazione, che eleva a norma proprio la reticenza (la legge che non dice) e l’incertezza (la legge che confonde).
Nessuna tessera del mosaico delle regole sugli immigratidenuda i pregiudizi e le ombre del legislatore – cioè del popolo, dell’identità e della cultura che quest’ultimo rappresenta – come quella del trattenimento amministrativo, il più speciale istituto del già-ampiamente-speciale diritto migratorio.
La misura riafferma con la massima eloquenza la gerarchia tra residente e straniero attraverso il contenimento fisico e la segregazione dell’estraneo, privandolo, oltre che della libertà, di procedure certe e garanzie sostanziali.
La reticenza e l’incertezza che dominano la materia trasformano perfino l’ordinario detenuto nelle carceri nazionali – per inciso, già a rischio di trattamenti inumani e degradanti[52] – in un privilegiato, riconosciuto e garantito dal sistema processual-penalistico e dalla legge sull’ordinamento penitenziario.
La procedura penale nasce per proteggere l’accusato dal linciaggio popolare attraverso la garanzia di un carnet minimo di diritti fondamentali: all’integrità fisica, al contraddittorio, alla parola, al silenzio. Al contrario la normativa frammentaria, irrazionale e spietata che regola la restrizione della libertà personale dello straniero dimentica che la certezza del diritto non è solo rivendicazione punitiva e bassi istinti legalisti, ma anche e soprattutto tutela delle prerogative individuali.
[1] Nella giurisprudenza della Cedu ciò che distingue il trattenimento (deprivation of liberty) dalla limitazione della libertà di movimento (restriction of freedom of movement) sono il grado e l’invasività dei controlli associati all’impossibilità di allontanarsi volontariamente da un luogo, indipendente dalla qualifica nominale nella normativa nazionale (si veda Aida, Ecre, Boundaries of liberty. Asylum and de facto detention in Europe, 2017, www.asylumineurope.org/sites/default/files/shadow-reports/boundariesliberty.pdf?utm_source=ECRE+Newsletters&utm_campaign=0eeb143317-EMAIL_CAMPAIGN_2018_04_13&utm_medium=email&utm_term=0_3ec9497afd-0eeb143317-422283001).
[2] Cedu, Grande Camera, 15 dicembre 2016, ricorso n. 16483/12, causa Khlaifia e altri c. Italia. In merito all’obbligo di informazione allo sbarco della possibilità di richiedere la protezione internazionale si veda Cass., 25 marzo 2015, n. 5926.
[3] Repubblica.it, Lampedusa, il garante dei detenuti: L'hotspot per migranti trasformato in un carcere indecoroso, 24 gennaio 2018, http://palermo.repubblica.it/cronaca/2018/01/24/news/lampedusa_il_garante_dei_detenuti_l_hotspot_per_migranti_e_indecoroso_-187157588/.
[4] Cild, Nell’Hotspot di Lampedusa condizioni disumane e violazioni dei diritti, 9 marzo 2018, https://cild.eu/blog/2018/03/09/nellhotspot-di-lampedusa-condizioni-disumane-e-violazioni-dei-diritti-umani/.
[5] Adnkronos, Dramma a Lampedusa, suicida migrante ospite di hotspot, 5 gennaio 2018, www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2018/01/05/dramma-lampedusa-suicida-migrante-ospite-hotspot_Zc3U3AVgx62YNe2Z6ZbykM.html.
[6] Secondo Ecre (European Council on Refugees and Exiles) i dati statistici sul trattenimento dei richiedenti asilo nell’Unione europea sono «virtualmente inesistenti», anche in ragione del fatto che né la cd. Direttiva accoglienza (2013/33/Ue), né il Regolamento (Ce) n. 862/07 relativo alle statistiche comunitarie in materia di migrazione e di protezione internazionale prevedono alcun obbligo sul punto (si veda Aida, Ecre, The detention of asylum seekers in Europe. Constructed on shaky ground?, giugno 2017, p. 1, https://www.ecre.org/wp-content/uploads/2017/F06/AIDA-Brief_Detention-1.pdf).
[7] L'unico riferimento normativo è contenuto nell'art. 8, c. 2, d.lgs 142/15, secondo il quale «Le funzioni di soccorso e prima assistenza, nonché di identificazione, continuano ad essere svolte nelle strutture allestite ai sensi del decreto legge 30.10.1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29.12.1995, n. 563».
[8] #20GiugnoLasciateCIEntrare, ottobre 2016, www.lasciatecientrare.it/j25/attachments/article/230/Report%2020GiugnoLasciareCIEntrare.pdf.
[9] Oxfam, Hotspot, il diritto negato, 19 maggio 2016, https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2016/05/Rapporto_Hotspots_Il-diritto-negato_Oxfam_DEF.pdf.
[10] Ministero dell'Interno, Procedure operative standard (SOP) applicabili agli hotspots italiani, 8 febbraio 2016, http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/hotspots_sops_-_versione_italiana.pdf.
[11] A. Quadroni, M. Luppi, Il “giro dell’oca” dei trasferimenti coatti dal Nord Italia a Taranto, Open Migration, 10 novembre 2016, http://openmigration.org/analisi/il-giro-delloca-dei-trasferimenti-coatti-dal-nord-italia-a-taranto/; C. Caruso, Mentone-Taranto: il folle viaggio (di Stato) dei migranti, Panorama, 24 luglio 2017, www.panorama.it/news/cronaca/mentone-taranto-il-folle-viaggio-di-stato-dei-migranti/. Secondo le informazioni giornalistiche ogni singola tratta avrebbe un costo per le casse pubbliche compreso tra i 5.000 e i 5.500 euro.
[12] L. Anello, L’ultima beffa per Lampedusa: l’hotspot vergogna non chiude, La Stampa, 18 aprile 2018, www.lastampa.it/2018/04/18/italia/cronache/lultima-beffa-per-lampedusa-lhotspot-vergogna-non-chiude-YCHhukyI2FNIaHyHDcdJXI/pagina.html?lgut=1.
[13] Ecre, The implementation of the hotspots in Italy and Greece, 5 dicembre 2016, https://www.ecre.org/wp-content/uploads/2016/12/HOTSPOTS-Report-5.12.2016..pdf.
[14] M. Veglio, Uomini tradotti - Prove di dialogo con richiedenti asilo, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fascicolo n. 2, 2017, pp. 4-5, www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/archivio-saggi-commenti/saggi/fascicolo-2017-n-2/72-uomini-tradotti-prove-di-dialogo-con-richiedenti-asilo.
[15] Unhcr, Rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2017, https://www.unhcr.it/wp-content/uploads/2017/10/Rapporto_2017_web.pdf.
[16] Tribunale di Venezia, Protocollo sezione immigrazione, 6 marzo 2018, https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2018/03/Tribunale-Venezia-protocollo-sezione-immigrazione-6.3.18.pdf.
[17] A. Mollica, La bufala di Libero sulla metà dei richiedenti asilo «matti», Pressreader, 27 marzo 2018, www.giornalettismo.com/archives/2654642/libero-bufala-migranti-matti.
[18] Memorandum d'intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all'immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica Italiana, art. 1, 2 febbraio 2017, http://www.lexilium.it/wp-content/uploads/Accordo-Italia-Libia.pdf.
[19] Il trattenimento degli stranieri (non richiedenti asilo) costituisce l'unico caso in cui la giurisdizione sulla libertà personale viene sottratta alla magistratura ordinaria ed attribuita ai giudici di pace, magistrati non togati.
[20] Al 1 dicembre 2017 la capienza teorica dei 5 CPR operativi (Bari, Brindisi, Caltanissetta, Roma e Torino, ai quali nel gennaio del 2018 si è aggiunto quello di Potenza) era di 700 posti, ma quella effettiva si fermava a 486. Le presenze erano 417, vale a dire una percentuale irrisoria sul totale della popolazione immigrata irregolare, stimabile al 1 gennaio 2017 intorno alle 500mila persone. Si vedano Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, Rapporto sui centri di permanenza per il rimpatrio in Italia, http://www.asylumineurope.org/sites/default/files/resources/rapporto_cie_cpr.pdf, e Fondazione Ismu, XXIII rapporto sulle migrazioni 2017, www.ismu.org/2017/12/ventitreesimo-rapporto-sulle-migrazioni-2017/.
[21] Corte Cost., 10 aprile 2001, n. 105.
[22] Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, Rapporto sui centri di permanenza per il rimpatrio in Italia, cit.
[23] L. 189/02.
[24] Dir. 2013/33/Ue.
[25] Regolamento (Ue) 604/13.
[26] Art. 2, par. 1, lett. h), dir. 2013/33/Ue.
[27] Art. 6, cc. 2 e 8, d.lgs 142/15.
[28] Per una sintetica esposizione della materia si veda Asgi, Appendice a Le modifiche al d.lgs 286/98 in materia di espulsioni e trattenimenti degli stranieri apportate dalla legge 30.10.2014, n. 161 (Legge europea 2013 bis), www.asgi.it/wp-content/uploads/2014/11/ASGI-Commento-modifiche-legge-n.-161-2014-22.11.2014.pdf.
[29] Artt. 27, c. 3, e 28-bis, c. 3, d.lgs 25/08.
[30] Art. 27, c. 3, d.lgs 25/08.
[31] Dovendosi presumere che l'esame di una domanda di protezione internazionale debba sempre essere adeguato e completo, il criterio di necessità – così come quello di complessità della questione – risulta del tutto arbitrario.
[32] Ciò nonostante, quello appena descritto è il meccanismo delle cd. procedure accelerate.
[33] Art. 6, c. 6, d.lgs 142/15.
[34] Art. 6, c. 9, d.lgs 142/15.
[35] Art. 46, par. 6, dir. 2013/32/Ue.
[36] Artt. 35-bis, c. 3, lett. a), d.lgs 25/08.
[37] Art. 6, cc. 7 e 8, d.lgs. 142/15.
[38] Per un’approfondita analisi delle numerose criticità che connotano la giurisprudenza dei giudici di pace nell’ambito del trattenimento si veda Lexilium, Osservatorio sulla giurisprudenza del giudice di pace in materia di immigrazione, www.lexilium.it.
[39] L’art. 13, c. 5-ter, d.lgs 286/98, prevede la facoltà per le questure di fornire al giudice di pace «il supporto occorrente e la disponibilità di un locale idoneo», ma come noto i Cpr sono spazi di contenimento, di fatto inaccessibili, di pertinenza del Ministero dell’interno e non di quello della Giustizia, con pregiudizio dei canoni di imparzialità dei luoghi e pubblicità delle udienze. In 2 delibere il Consiglio superiore della magistratura ha sottolineato che l’utilizzo dei locali della questura presso i Centri deve essere considerato come «del tutto residuale e limitato ai casi di impossibilità di procedere alle convalide accompagnando lo straniero presso l’ufficio del giudice».
[40] Giurisprudenza uniforme a partire dalla nota Cass., 24 febbraio 2010, n. 4544.
[41] Cgue, 28 aprile 2011, causa C-61/11/PPU, El Dridi c. Italia.
[42] L. 46/17.
[43] Sul punto si veda G. Savio, La legge 13 aprile 2017 n. 46 recante disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale. Prime riflessioni interpretative, Asgi, giugno 2017, https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2017/07/Scheda-pratica-legge-Minniti-DEF_2.pdf.
[44] Nei Cpr l’accesso alla procedura di protezione internazionale è delegato dalle questure all’ente gestore, il cui personale è deputato alla raccolta delle richieste di appuntamento con l’ufficio immigrazione, senza alcuna garanzia di rispetto dei rigorosi termini di legge. Per un approfondimento si veda Iuc, Betwixt and Between: Turin's CIE – A Human Rights Investigation into Turin's Immigration Detention Centre, 2012, www.iuctorino.it/wp-content/uploads/CIE_09_2012FV.pdf.
[45] Nel 2015 i tassi di rigetto delle domande di protezione provenienti da cittadini afghani, siriani e sudanesi sono stati rispettivamente dell’1%, 2% e 12%. Nel 2016 i tassi di rigetto delle domande di protezione provenienti da cittadini afghani, siriani e somali sono stati rispettivamente dell’1%, 0% e 1% (Ministero dell’interno, I numeri dell’asilo. Quaderno statistico dal 1990 al 2016, hhttp://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/quaderno_statistico_per_gli_anni_1990-2016_.pdf).
[46] Art. 28, Reg. 604/13.
[47] Cgue, 15 marzo 2017, causa C-528/15, Al Chodor e altri c. Repubblica ceca.
[48] Iuc, Betwixt and Between – Turin’s Cie, Un’indagine sui diritti umani all’interno del centro di identificazione ed espulsione di Torino, settembre 2012, p. 19, http://www.iuctorino.it/wp-content/uploads/20121206_Betwixt_Between_ExtractsInItalian.pdf. Sulle condizioni di trattenimento degli stranieri in Italia si veda la copiosa letteratura prodotta, tra gli altri, da LasciateCIEntrare, Medu, Melting Pot, A buon diritto, Antigone, Cild, Adif, Altrodiritto.
[49] Iuc, Uscita di emergenza. La tutela della salute dei trattenuti nel Cpr di Torino, 2018, in corso di pubblicazione.
[50] Iuc, Betwixt and Between – Turin’s Cie, Un’indagine sui diritti umani all’interno del centro di identificazione ed espulsione di Torino, cit., p. 21.
[51] Ires, Rumore: atteggiamento verso gli immigrati stranieri, in Informaires, anno IV, n. 2, numero 9, dicembre 1992, pp. 17-19, http://archive.digibess.eu/islandora/object/librib:448806#page/16/mode/2up.
[52] Cedu, 8 gennaio 2013, ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10, causa Torreggiani e altri c. Italia.