L’individuazione precoce delle vulnerabilità alla tratta nel contesto dei flussi migratori misti
La mancanza di procedure di individuazione delle vulnerabilità subito dopo lo sbarco e negli hotspots rende minimo il numero delle vittime di tratta sottoposte a protezione. Gli indicatori di tratta dovrebbero essere individuati in primo luogo nel contesto di procedure di ascolto da instaurare nei luoghi di arrivo. Nei procedimenti per il riconoscimento della protezione internazionale il referral delle Commissioni territoriali agli Enti di tutela anti-tratta consente di individuare casi nei quali una persona ha diritto ad una doppia tutela. Infatti indipendentemente dall’esistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 18 Tui l’essere vittima di tratta dà di per sé diritto allo status di rifugiato/a e ad altre forme di protezione internazionale. Nel giudizio dinnanzi al Tribunale il referral agli Enti di tutela è opportuno qualora non effettuato dalla Commissione territoriale ma la sospensione del procedimento in attesa della relazione dell’Ente dovrebbe esser limitata a casi eccezionali.
La cosiddetta “crisi migratoria” non è un fenomeno contingente, ma una tendenza di lungo periodo. Occorre attrezzarsi per fare in modo che non prevalga un approccio securitario e basato sull’idea tanto irrealistica quanto pericolosa di limitare drasticamente – se non addirittura bloccare – i flussi migratori, “a tutti i costi”. Quando si parla di costi, ciò che è sempre sottinteso e mai esplicitamente affermato, è che si tratta di costi in termini di diritti umani. Un esempio evidente è l’accordo siglato dal Governo italiano con la Libia, caldeggiato e sponsorizzato dall’Unione europea. Da una parte si dichiara che a seguito delle operazioni di ricerca e salvataggio condotte dalla nuova operazione Themis di Frontex i migranti non saranno sbarcati in Paesi terzi, ma solo in porti “sicuri” di Paesi dell’Ue, con ciò implicitamente affermando che i porti della Libia non sono “sicuri” nel senso del diritto internazionale. Dall’altra tuttavia si potenzia la Guardia costiera libica senza chiedere alcuna garanzia di chiusura dei Centri di detenzione né di controllo del trattamento delle persone ricondotte nel Paese. Orbene, le violazioni inaccettabili dei diritti umani che vengono commesse in Libia, che vanno dalla tortura all’estorsione al lavoro forzato, alla schiavitù e alla tratta, non sono diverse se a rimpatriare o comunque far ritornare forzatamente in Libia profughi e migranti è la Guardia costiera libica[1]. In una conferenza stampa dello scorso 8 maggio è stato annunciato che 17 cittadini nigeriani sopravvissuti a un naufragio hanno accusato l’Italia di avere violato i loro diritti umani “appaltando” il loro salvataggio alla Libia, il che comporta per i potenziali richiedenti asilo l’assoggettamento a schiavitù, tortura e altri trattamenti inumani e degradanti una volta ritornati in Libia[2].
In questa situazione, è opportuno ribadire alcuni principi fondamentali. Il primo imperativo è salvare vite umane. Il secondo è rispettare i diritti delle persone che, trovandosi in una situazione di grave vulnerabilità sociale, sono particolarmente soggette a violenza e sfruttamento, anche nel contesto della tratta. Ciò implica che le operazioni di ricerca e salvataggio siano potenziate, e che durante e subito dopo tali operazioni si istituiscano procedure di ascolto atte ad individuare esigenze di protezione, sulla base della minore età, per accertare il diritto all’asilo o ad altre forme di protezione internazionale, e per individuare vulnerabilità alla tratta e allo sfruttamento. Dedicherò a questi temi il mio prossimo rapporto di giugno al Consiglio diritti umani di Ginevra, nella mia qualità di Rapporteur speciale dell’Onu sulla tratta di persone, in particolare donne e minori, focalizzando l’attenzione sul Mediterraneo, e su altre zone critiche come il Sud-Est Asiatico o l’America Latina.
La situazione nella rotta del Mediterraneo Centrale è purtroppo molto grave. Le Organizzazioni non governative (Ong) hanno svolto un ruolo centrale nelle operazioni di ricerca e salvataggio a partire dal 2014, e sono state artefici della maggioranza dei salvataggi nel Mediterraneo, insieme con la Guardia costiera italiana. Ad una campagna di delegittimazione delle Ong, che sembrava non tenere in alcuna considerazione il loro contributo alla salvezza di tante vite umane, ha fatto seguito il codice di condotta proposto dal Ministero dell’interno italiano, che ha prodotto risultati disastrosi. Il codice, che di fatto obbliga ad accettare la presenza di personale di polizia sulle navi, ha indotto diverse Ong - tra cui grandi e stimate organizzazioni come Medici senza frontiere e Save the children - ad interrompere le operazioni. La Procura antimafia di Catania ha poi disposto il sequestro della nave “Open Arms” della Ong spagnola Proactiva, che si era rifiutata di consegnare alla Guardia costiera libica 218 migranti, aprendo un’indagine su alcuni membri della Ong per associazione a delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Successivamente, caduta l’imputazione di associazione per delinquere a seguito di un provvedimento del Gip di Catania, e spostata dunque la competenza a Ragusa, il Gip ha dissequestrato la nave mentre l’indagine prosegue per il reato di favoreggiamento. Non è questa la sede per svolgere una critica dei provvedimenti giudiziari relativi a “Open Arms”. È tuttavia opportuno sottolineare che in nessun caso coloro che effettuano operazioni di soccorso possono essere incriminati per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare - e meno che mai per associazione per delinquere - in ciò convergendo il diritto internazionale, il diritto umanitario, le Convenzioni in materia di diritti umani, nonché l’interpretazione corretta delle scriminanti di diritto interno e in particolare dello stato di necessità, anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo.
A causa degli improvvidi e convergenti interventi delle autorità di Governo e giudiziarie, le Ong sono state di fatto “espulse” dal Mediterraneo, il che ha gravemente depotenziato le operazioni di ricerca e salvataggio in quella rotta particolarmente pericolosa. A connotare ulteriormente la situazione come violativa dei diritti umani di profughi e migranti, sono le condizioni di accoglienza, che di fatto si caratterizzano come situazioni di detenzione in condizioni inaccettabili, nonché la assoluta mancanza di procedure di individuazione delle vulnerabilità subito dopo lo sbarco e negli hotspots. La istituzioni europee – la Commissione e il Consiglio – fin dal 2015 hanno caldeggiato e sostenuto un approccio basato sugli hotsposts. Tuttavia gli hotspots sono in realtà centri di detenzione de facto, dove viene effettuata la rilevazione forzata delle impronte digitali, e dove i richiedenti asilo vengono separati dai “migranti economici” in attesa di rimpatrio.
L’identificazione effettuata negli hotsposts infatti è finalizzata unicamente alla registrazione in Eurodac, e dunque ha finalità puramente repressive, mentre manca qualsiasi procedura finalizzata alla protezione dei migranti vulnerabili[3]. Anzi, si è osservato che nei luoghi caratterizzati da un largo influsso di profughi e migranti, l’identificazione delle vittime di tratta non viene considerata una priorità. La conseguenza è che il numero delle vittime riconosciute come tali e messe in protezione è minimo, perfino tra quel gruppo particolarmente vulnerabile, e per certo già inserito in un network criminale internazionale, costituito dalle donne e ragazze provenienti dalla Nigeria, che hanno già subito stupri e sfruttamento sessuale durante il viaggio e nelle “connection houses” in Libia, e che talvolta arrivano in Italia incinte.
L’unico dato positivo è che in vari luoghi di sbarco e in vari hotspots, in Italia, esiste una buona pratica di cooperazione, basata sulla presenza di agenzie specializzate come l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni), l’Unhcr (l’Agenzia Onu per i rifugiati) e Save the Children, che lavorano in cooperazione con la Polizia e le Procure per assicurare l’identificazione delle vittime di tratta o delle vittime potenziali e la loro messa in protezione. In Grecia, la protezione delle vittime di tratta è stata inclusa nelle Sops (Standard operating procedures) per la prevenzione e la risposta alla violenza sessuale e di genere, finalizzate nel giugno 2017. Tuttavia si tratta di buone pratiche isolate, che non hanno ancora una applicazione uniforme e coerente. La realtà resta nel suo complesso desolante, poiché tra tutti i profughi e migranti che riescono a sopravvivere al viaggio, molti – forse moltissimi – vanno incontro a un destino di irregolarità che li renderà vittime di violenza e sfruttamento da parte di organizzazioni criminali che li ridurranno in una condizione di vera e propria schiavitù. Ciò che accade in molte campagne del meridione d’Italia – ma in verità non solo del meridione – fa comprendere che la vulnerabilità sociale conduce al super-sfruttamento para-schiavistico. Ciò che occorre è intercettarla in tempo, e predisporre misure adeguate di sostegno e aiuto nella ricerca di un lavoro dignitoso. Non si può accettare che tutto ciò che riguarda il lavoro dei/delle profughi e migranti resti in un limbo in cui le regole sono sospese, e in cui qualunque violazione dei loro diritti è di fatto tollerata.
La Bozza del Global compact dell’Onu per la migrazione sicura, ordinata e regolare, che fa seguito alla Dichiarazione di New York sui Rifugiati e i Migranti[4], benché documento non vincolante e molto deludente dal punto di vista della protezione dei diritti umani soprattutto in relazione ai migranti, in ogni caso prevede che sia adottato e reso operativo il documento di principi e Linee guida del Global migration group sulla protezione dei diritti umani dei migranti in situazioni di vulnerabilità. Prevede inoltre che ciascuno Stato adotti politiche olistiche sui migranti in situazioni di vulnerabilità, ivi comprese procedure atte a individuare vulnerabilità individuali, di gruppo o prima facie, riferire le persone vulnerabili ai servizi appropriati, dare protezione e assistenza, assicurando che tutti i migranti abbiano accesso alla protezione appropriata dei loro diritti umani e ad una valutazione individuale sulla situazione di ogni persona interessata.
L’applicazione pratica di tali indicazioni richiede l’adozione di misure concrete, volte a stabilire canali di ascolto, in situazioni confidenziali e protette dei/delle profughe/i e migranti, ma soprattutto – e come indispensabile prerequisito – il cambiamento radicale dell’approccio generale all’immigrazione, fin qui caratterizzato dall’obiettivo più o meno dichiarato di tenere fuori dal Paese di arrivo - sia esso di transito o di destinazione finale - il maggior numero possibile di persone. La priorità dovrebbe essere invece individuare e dare risposte alle esigenze individuali e collettive di protezione sociale.
Sbaglia chi ritiene che questo approccio sia improponibile in tempi in cui l’opinione pubblica si mostra sempre più preoccupata per i fenomeni migratori. In verità migliorare l’accoglienza e la protezione sociale può invece essere la chiave per governare la migrazione, promuoverne il carattere regolare e finalizzato all’inclusione sociale. L’immigrazione fa paura quando viene percepita come fenomeno sregolato e dalle prospettive sociali incerte, e dunque la risposta giusta anche ai bisogni di sicurezza è quella che tende alla regolarità e all’inclusione sociale dei/delle migranti.
Il nostro Paese, che molto ha fatto nel campo dei salvataggi grazie alle Ong e alla Guardia costiera, presenta standard negativi nel campo dell’accoglienza, dei diritti da garantire negli hotspots[5] e nei Cpr (i Centri permanenti per il rimpatrio - i vecchi Cie, così ribattezzati dal Ministro dell’interno Minniti nel 2017), nei Cara (Centri accoglienza richiedenti asilo) e nelle altre strutture per migranti e rifugiati. Nonostante le buone pratiche in atto da quasi venti anni sulla protezione delle vittime di tratta, i risultati sono minimi anche in relazione all’individuazione delle persone trafficate o assai probabilmente trafficate nel contesto dei flussi migratori misti, specie quando si tratta di arrivi di massa.
Una interessante esperienza svolta in Italia sulla base delle Linee guida dell’Unhcr è l’individuazione (o identificazione, traduzione dall’inglese che è orami invalsa nel linguaggio giuridico internazionale) delle potenziali vittime di tratta nel contesto delle procedure per l’accertamento dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero del diritto alla protezione sussidiaria o alla protezione umanitaria.
Si tratta di un sistema di individuazione e “referral” che viene compiuto dalle Commissioni territoriali sull’asilo le quali, quando riscontrano la presenza di indicatori di tratta, segnalano il caso a uno degli Enti anti-tratta registrati presso il Dipartimento pari opportunità o a Servizi pubblici territoriali istituzionalmente deputati, e sospendono il procedimento in attesa della relazione dell’Ente di tutela. È’ questa un’esperienza di grande interesse, che potrebbe condurre alla generalizzazione di un approccio attento all’identificazione precoce delle vulnerabilità alla tratta nel contesto dei flussi migratori misti.
In questo contesto, vanno rispettati due principi: il primo è che la protezione sociale prevista dall’art. 18 del Testo unico sull’immigrazione (Tui) non deve in nessun caso porsi come alternativa alla protezione internazionale. È possibile infatti che la persona abbia i requisiti per entrambe, e in questo caso deve avere diritto ad entrambe. Il secondo è che, indipendentemente dall’esistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 18 Tui, l’essere vittima di tratta dà di per sé diritto allo status di rifugiato/a e ad altre forme di protezione internazionale. Il referral delle Commissioni territoriali agli Enti anti-tratta e la sospensione del procedimento é utile perché la Commissione territoriale acquisisca un quadro completo di informazione, tenuto conto anche della difficoltà della persona trafficata di dare una narrativa coerente del suo vissuto, e considerato che spesso essa è diffidente verso le aurorità. In nessun caso il referral deve essere utilizzato per “incanalare” l’esigenza di protezione verso il sistema tratta, sottovalutando il significato dei medesimi indicatori ai fini della decisione sulla protezione internazionale.
Recentemente un’ordinanza del Tribunale di Firenze ha sostenuto che in caso di mancato referral da parte della Commissione territoriale per l’asilo, il Tribunale in sede di esame dell’impugnazione del diniego della Commissione territoriale, dovrebbe effettuare la segnalazione al Questore e sospendere il procedimento. A mio parere l’ordinanza ha il merito di rilevare il mancato adempimento da parte della Commissione territoriale alla procedura di informazione e di referral prevista dalle Linee guida dell’Unhcr. L’ordinanza giustamente sottolinea che la mancata “autoidentificazione” come vittima di tratta da parte della persona richiedente asilo può dipendere appunto dal mancato esperimento della procedura di informazione/referral. Credo inoltre che il Tribunale abbia correttamente valutato che il referral, qualora non effettuato dalla Commissione territoriale, possa e debba essere effettuato anche dal giudice. In questo senso credo che sarebbe utile sviluppare protocolli tra Enti anti-tratta e sezioni specializzate dei Tribunali. È opportuno infatti ricordare che, anche in assenza di esplicite previsioni, tutti i soggetti istituzionali - oltre a quelli non istituzionali - possono effettuare o farsi parte diligente per l’identificazione preliminare degli indicatori di tratta.
Tuttavia, se ritengo corretta l’identificazione del problema, non condivido la soluzione della segnalazione al Questore con sospensione del procedimento adottata dal Tribunale di Firenze. L’attivazione della procedura di referral agli Enti anti-tratta, con sospensione del procedimento da parte delle Commissioni territoriali, è propria di una fase precoce, finalizzata all’individuazione di quegli indicatori che possono far presumere che la persona sia stata soggetta alla tratta; il referral consente infatti alla persona di fruire di un periodo di riflessione, e la relazione degli Enti anti-tratta consente alla Commissione territoriale di avere elementi più approfonditi per la sua decisione sul diritto ad una delle forme di protezione internazionale, che può avere a fondamento anche la situazione di vulnerabilità derivante dall’assoggettamento alla tratta e al connesso sfruttamento. Nella fase dell’impugnazione dinanzi all’autorità giudiziaria, il referral – qualora non effettuato dalla Commissione territoriale – è ancora indispensabile qualora il Tribunale riconosca sussistenti alcuni indicatori di tratta, allo scopo di facilitare un percorso di sostegno e recupero nell’interesse della persona richiedente asilo e potenziale vittima di tratta. Non mi sembra tuttavia altrettanto giustificata né utile la sospensione del procedimento, né – soprattutto – la segnalazione al Questore e la richiesta di un provvedimento di quest’ultimo come propedeutica alla decisione del Tribunale.
Nelle Linee guida Unhcr si parla di segnalazione agli Enti del pubblico o del privato sociale che realizzano programmi di emersione, assistenza e integrazione sociale di cui all’art. 18 comma 3bis Tui finanziati dal Dipartimento pari opportunità, ed eventualmente anche quelli iscritti nella seconda sezione del registro presso il Dpo[6]. La segnalazione è finalizzata all’inizio di un percorso di consapevolezza e di recupero, e dunque il referral si colloca in un circuito di solidarietà/supporto/assistenza psicologica e legale in cui sono centrali i diritti e i bisogni della persona interessata. Viceversa la segnalazione del Tribunale (non agli Enti di servizi anti tratta ma) al Questore implica la richiesta di una identificazione formale, con la conseguenza che la decisione del Tribunale viene sospesa in attesa dell’istruttoria compiuta dal Questore e all’individuazione dei requisiti per l’applicazione dell’art. 18 Tui. Dunque la decisione sul diritto della persona richiedente a una delle forme di protezione internazionale è destinata ad essere subordinata, o almeno influenzata dall’identificazione formale della persona in base ai criteri dell’art. 18 Tui.
È opportuno ricordare che l’applicazione dell’art. 18 Tui da parte delle Questure è allo stato assai restrittiva, limitata quasi esclusivamente ai casi di tratta per sfruttamento sessuale mentre vengono ignorati altri tipi di sfruttamento e in primo luogo lo sfruttamento lavorativo, e soprattutto condizionata alla volontà o capacità della persona di denunciare e di rendere testimonianza nel procedimento penale, prassi quest’ultima seguita dalla stragrande maggioranza delle Questure, anche se non corretta in base alla lettera dell’art. 18 Tui. Dunque la sospensione del procedimento dinanzi al Tribunale in attesa della decisione del Questore farebbe indirettamente refluire sul riconoscimento del diritto alla protezione internazionale tutte le questioni relative all’ applicazione restrittiva dell’art. 18 Tui.
Ma a parte queste ultime considerazioni, relative allo stato dell’arte dell’applicazione dell’art. 18 Tui, l’argomento decisivo – che sarebbe valido anche nel caso di una corretta applicazione dell’art. 18 Tui da parte delle Questure – è che il riconoscimento del diritto alla protezione internazionale non può essere subordinato all’adesione della persona interessata al programma di integrazione sociale previsto dall’art. 18 Tui. Il principio di “doppia tutela”, qualora sussistano i presupposti per la protezione internazionale e per la protezione ex art. 18 Tui, impone che i due circuiti decisionali – quello giudiziario e quello di polizia – restino assolutamente distinti ed autonomi. La persona potrà ben essere riconosciuta come rifugiata o godere della protezione sussidiaria o umanitaria, e in aggiunta fruire delle opportunità di assistenza, formazione, aiuto nella ricerca di lavoro previste dal programma ex art. 18 Tui. L’eventuale decisione negativa ad esempio sulla protezione internazionale non deve implicare che la decisione debba essere di analogo tenore nel circuito tratta e viceversa.
Nel corso di numerose occasioni di formazione o di discussione su questi argomenti, ho sentito alcuni esprimere la preoccupazione che se la persona ottiene lo status di rifugiato/a o la protezione sussidiaria o umanitaria senza avere espresso la volontà di fuoriuscire dal circuito della tratta, ciò indirettamente favorirà i trafficanti, che potranno continuare a sfruttarla senza correre alcun rischio, visto che la persona sfruttata non potrà essere espulsa. Il ragionamento non è persuasivo. Il rischio per gli sfruttatori di “perdere” una persona come conseguenza dell’eventuale espulsione è minimo, dato l’enorme esercito di riserva di cui purtroppo essi dispongono: basti pensare all’aumento esponenziale degli arrivi di donne e ragazze nigeriane nel contesto della tratta per fini di sfruttamento sessuale negli ultimi anni. Al contrario, il riconoscimento di uno status di soggiorno è elemento decisivo per la persona sfruttata, che se piomba in una condizione di irregolarità sarà assai più ricattabile e dipendente dagli sfruttatori, e assai meno disponibile a un percorso di riconquista di autonomia.
In conclusione ritengo che il Tribunale in sede di impugnazione possa e debba effettuare il referral - qualora non lo abbia fatto la Commissione territoriale - agli Enti e Associazioni di assistenza alle vittime di tratta, se ritiene sussistenti fondate ragioni di ritenere che la persona è stata trafficata, ma che debba assumere immediatamente la decisione sulla protezione internazionale sulla base degli elementi a sua disposizione. Solo in casi eccezionali - penso per esempio a casi in cui la vittima versi in una situazione di grave disagio psichico, e che dunque solo dopo avere intrapreso un percorso di recupero psicologico possa formulare una narrazione – potrà essere utile attendere una relazione dell’associazione che l’ha presa in carico a seguito di referral della Commissione territoriale o del Tribunale. Ma ciò potrebbe essere ammissibile in casi residuali. In ogni caso il Tribunale dovrebbe interloquire con gli enti di tutela e non con il Questore, né tanto meno attendere una decisione di quest’ultimo.
A parte casi eccezionali, il provvedimento del Tribunale deve essere rapido, allo scopo di evitare che la persona resti per troppo tempo in un limbo di incertezza sui suoi diritti. Si segnala in proposito – senza alcuna pretesa di completezza – quella giurisprudenza del Tribunale di Roma che ha preso in considerazione gli elementi costitutivi della tratta come atti specificamente diretti contro un genere sessuale[7], talora in aggiunta alla violenza domestica[8] o alle mutilazioni genitali[9], ai fini del riconoscimento dello status di rifugiate a donne nigeriane. Anche la giurisprudenza di legittimità si orienta nel senso della valorizzazione della violenza di genere come presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiata[10] o del diritto alla protezione sussidiaria.[11] La giurisprudenza citata è significativa anche perché conferma che nella valutazione degli elementi che concorrono a delineare i contesti tipici della tratta, è decisiva una lettura che tenga conto di una prospettiva di genere[12].
Colgo l’occasione di questo articolo per esprimere apprezzamento nei confronti del lavoro svolto dalle Commissioni territoriali e dai Tribunali in cooperazione con Unhcr Italia ai fini dell’integrazione dell’identificazione degli indicatori di tratta nel contesto delle procedure di riconoscimento della protezione internazionale. Si tratta di una buona pratica esistente al livello nazionale solo in Italia, la cui generalizzazione sarà inclusa nelle raccomandazioni annesse al mio prossimo rapporto al Consiglio diritti umani.
Tengo tuttavia a sottolineare che l’individuazione di indicatori di tratta, e di vulnerabilità alla tratta, non può e non deve essere effettuata solo all’interno dei procedimenti di riconoscimento della protezione internazionale. Gli indicatori di tratta devono essere individuati in primo luogo nel contesto di procedure di ascolto dedicate a questo scopo, da instaurare nei luoghi di arrivo di gruppi consistenti di migranti. All’arrivo infatti è impossibile distinguere tra persone che hanno diritto alla protezione internazionale e i cd. migranti economici, ed è necessario verificare nel più breve tempo possibile quali tra loro necessitano di una messa in protezione immediata. Al di là della decisione sul presentare o meno la domanda di asilo – quando la negativa è talvolta frutto di assenza di informazione, o da una modalità di intervista che trae in inganno il/la migrante – gli indicatori di vulnerabilità alla tratta possono e devono essere individuati all’arrivo, nel contesto di interviste confidenziali, svolte da un intervistatore esperto e adeguatamente formato.
A questo scopo gli indicatori di tratta sviluppati durante due decenni di esperienza degli enti di tutela anti-tratta nell’ambito delle procedure per l’applicazione dell’art. 18 Tui, così come dalle Organizzazioni internazionali, dovrebbero essere raffinati e adattati alla situazione che tipicamente si presenta al momento dell’arrivo, quando ancora lo sfruttamento non ha avuto luogo, ovvero ha avuto luogo in un Paese di transito. Gli indicatori dovrebbero prendere in considerazione (ma non limitarsi a) rischi che possono derivare dal viaggio, ovvero rischi che possono verificarsi nel Paese di arrivo, come la mancanza di risorse, l’irregolarità dell’ingresso, l’uso di servizi dei trafficanti, violenze, torture e stupro, sfruttamento sessuale o lavorativo subiti durante il viaggio. In questo contesto una particolare attenzione dovrebbe essere prestata allo sfruttamento lavorativo, mentre attualmente l’unico profilo che abbia ricevuto attenzione è stato quello dello sfruttamento sessuale[13]. Specifici indicatori dovrebbero essere utilizzati per l’identificazione precoce dei minori vittime o a rischio di tratta, sia nei luoghi di arrivo per mare o per terra, sia negli aeroporti, ad esempio un comportamento di silenzio e chiusura, il possesso di un numero di telefono di qualcuno di cui il minore non conosce l’identità, o il fatto che il minore faccia il viaggio in gruppo con persone che non sono parenti o addirittura parlano una lingua diversa.
Tali procedure attualmente non sono state istituite né nei luoghi di sbarco né negli hotspot, né in Italia né altrove; quando le interviste informali vengono realizzate in cooperazione con Oim, o Associazioni di tutela, esse hanno un carattere puramente informale, e la relativa pratica può essere interrotta in qualsiasi momento, al mutare degli orientamenti dei capi degli uffici competenti.
Un interrogativo a questo punto si impone. Il modello tradizionale di individuazione delle vittime di tratta, basato sulla richiesta di permesso di soggiorno da parte degli Enti di tutela e/o su operazioni di Polizia, è adeguato, o meglio può utilmente essere adattato all’individuazione di vulnerabilità alla tratta nei luoghi di arrivo di grandi gruppi di migranti e richiedenti asilo? L’interrogativo è aperto, e sono in atto molte esperienze volte a questo risultato. Tuttavia credo che dovrebbe anche sperimentarsi un modello diverso, basato piuttosto su interviste svolte dal personale delle Associazioni di tutela adeguatamente formati, in luoghi deputati da creare negli hotspots e in tutti gli altri Centri di permanenza di migranti e richiedenti asilo, che consentano agio e confidenzialità, al fine di individuare non soltanto situazioni già subite di tratta e sfruttamento, ma anche il rischio che tali situazioni si producano nel Paese di arrivo. Tale individuazione prelude ad un referral il cui scopo ultimo dovrebbe essere la ricerca di soluzioni individualizzate, ai fini della prevenzione dello sfruttamento in ogni sua forma. Ad esempio, nei casi di rischio di sfruttamento lavorativo, se può non essere necessaria l’assistenza psicologica o la collocazione presso case di fuga o di accoglienza, è sempre decisivo l’aiuto alla ricerca di occasioni di lavoro regolare e dignitoso.
In ogni caso sono convinta che il sistema anti-tratta, che faticosamente è stato costruito in Italia a partire dalla fine degli anni ‘90, e che ha dato grandi risultati in termini di assistenza e protezione delle persone trafficate soprattutto per fini di sfruttamento sessuale, nonostante l’incuria di quasi tutti i Governi che si sono succeduti dopo la prima fase di applicazione della legislazione di tutela, deve oggi utilmente essere messo alla prova per dare risposte positive alle esigenze e criticità connesse con i flussi migratori della rotta del Mediterraneo centrale. Si tratta di un’azione che è insieme di protezione sociale dei/delle migranti in situazioni di vulnerabilità e di prevenzione dello sfruttamento ulteriore che potrebbero subire nel nostro Paese o in altri Paesi di destinazione. Per raggiungere questo risultato, ovviamente, è necessario mettere in campo volontà politica e risorse finanziarie adeguate.
[1] United Nations Support Mission in Libya (Unsmil) 2016: Detained and Dehumanised: Report on Human Rights Abuses against Migrants in Libya; Médécins sans Frontières: Libya: The Arbitrary and Inhuman Detention of Migrants, Refugees and Asylum Seekers; Healy, Claire & Forin, Roberto (2017). Icmpd Policy Brief: What are the protection concerns for migrants and refugees in Libya?
[2] https://www.washingtonpost.com/world/europe/migrants-accuse-italy-of-responsibility-for-libyan-abuses/2018/05/08/f839b852-52ae-11e8-a6d4-ca1d035642ce_story.html?noredirect=on&utm_term=.7c6858508833.
[3] Osce, 2017, From Reception to Recognition: Identifying and Protecting Human Trafficking Victims in Mixed Migration Flows. A Focus on First Identification and Reception Facilities for Refugees and Migrants in the Osce Region.
[4] Resolution adopted by the General Assembly on 19 September 2016, New York Declaration for Refugees and Migrants, A/RES/71/1.
[5] La situazione dell’hotspot di Lampedusa è stata recentemente denunciata dal Garante dei detenuti Mauro Palma, il quale ha parlato di “carcere indecoroso”. R.it Palermo, 24/01/2018.
[6] Unhcr, L’identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale e procedure di referral. Linee Guida per le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, agosto 2017, paragrafo 5.4.
[7] Decreto Trib. Roma R.G. 67145/2015.
[8] Decreto Trib. Roma R.G. 65893/2017.
[9] Decreto Trib. Roma R.G. 69666/2017.
[10] Cass. Civ. Sez. 1, 24/11/17 n. 28152.
[11] Cass. Civ. Sez. 1, 17/05/17 n. 12333.
[12] Enrica Rigo, La protezione internazionale alla prova del genere: elementi di analisi e problematiche aperte, in questo numero della Rivista.
[13] Unhcr Italia sta riflettendo sulla opportunità di aggiornare le Linee guida sopra menzionate includendo lo sfruttamento lavorativo.