Appunti sulla nuova legislazione sociale europea. La direttiva sul distacco transnazionale e la direttiva sulla trasparenza
Nel presente contributo si prendono in esame due recenti interventi del legislatore europeo in materia di mercato interno: la direttiva sul distacco transnazionale e la direttiva sulla trasparenza delle condizioni di lavoro. Gli Autori riflettono sulle novità apportate dai due testi normativi, adottati nel quadro del «Pilastro europeo dei diritti sociali», riflettendo sull’impatto che possono avere nel nostro ordinamento.
1. La (scarsa) rilevanza del «Pilastro europeo dei diritti sociali» nella legislazione sociale di fine legislatura
Il 17 novembre 2017 veniva approvato a Göteborg il «Pilastro europeo dei diritti sociali», un articolato insieme di documenti, che contengono principi e diritti giuridicamente non vincolanti[1], tra cui spicca la proclamazione interistituzionale di venti principi, che intende «fungere da guida per realizzare risultati sociali e occupazionali efficaci in risposta alle sfide attuali e future, così da soddisfare i bisogni essenziali della popolazione, e per garantire una migliore attuazione e applicazione dei diritti sociali»[2].
Molte sono le pagine scritte sul pilastro europeo[3]. E molte sono le critiche mosse a tale strumento in relazione ai tempi di adozione[4], ai contenuti, ai rapporti con gli altri cataloghi di diritti fondamentali vincolanti per gli Stati membri[5]. A margine di tali critiche, basti qui osservare come dal pilastro emerga la volontà di non mettere in discussione le regole della governance economica e il modo in cui è stato costruito il mercato unico. In sostanza, il pilastro europeo dei diritti sociali sembra riproporre, a dieci anni di distanza, una versione della flexicurity aggiornata al rispetto delle regole sulla governance economica (non a caso, il pilastro si applica, in prima battuta, ai soli Stati dell’eurozona). Già dalla comunicazione della Commissione (Avvio di una consultazione su un pilastro europeo dei diritti sociali – COM(2016)127, p. 5), si afferma infatti che «mercati del lavoro funzionanti e inclusivi devono abbinare efficacemente elementi di flessibilità e di sicurezza, tali da assicurare livelli superiori di occupazione e di capacità di adattamento». Nel documento di lavoro che accompagna il pilastro sociale si precisa, poi, che «the Pillar should be implemented according to available resources and within the limits of sound budgetary management and Treaty obligations governing public finances» (Commission Staff Working Document, Establishing a European Pillar of Social Rights, SWD(2017)201, p. 4). Insomma, la promozione di un programma di sostegno e difesa dei diritti sociali negli Stati membri va di pari passo con la conferma dei principi economici e di mercato che, specie negli anni della crisi, hanno contribuito a erodere e disconoscere quegli stessi diritti.
La scarso impatto prodotto dal pilastro sulle politiche sociali euro-unitarie è d’altra parte testimoniato dal fatto che, a seguito della sua adozione, non sono state avviate nuove iniziative legislative, ma sono state portate avanti alcune proposte già pendenti (in materia di congedi parentali[6], sulla trasparenza del mercato del lavoro[7], sulla protezione sociale delle persone con qualunque forma di impiego[8]). E anche su tali proposte, l’influenza del pilastro europeo è stata scarsa (come nel caso della direttiva sulla trasparenza delle condizioni di lavoro) o inesistente (come nel caso della direttiva sul distacco transnazionale). La stessa osservazione vale per altre iniziative legislative il cui iter non si è concluso positivamente e che sono tuttora all’esame delle istituzioni europee (come il cd. “mobility package” e la proposta di modifica del regolamento sul coordinamento dei sistemi nazionali di sicurezza sociale). Per questo ci sembra che il pilastro europeo dei diritti sociali sia da catalogare tra le più o meno riuscite operazioni di marketing del côté sociale, ma che poco abbia inciso sull’hard law dell’Unione europea.
È vero, però, che le direttive adottate in chiusura della scorsa legislatura sono il segnale di un rinnovato attivismo in materia sociale da parte delle istituzioni euro-unitarie; attivismo che riflette pur sempre l’intento di rafforzare quella dimensione sociale dell’Ue, la cui storica debolezza è ragione non ultima della crisi del processo d’integrazione manifestatasi, con tutta evidenza, negli ultimi anni. Un intento – questo, almeno, si deve concedere – che è senz’altro anche all’origine del pilastro sociale.
Se e in che misura ciò si sia tradotto in novità sostanziali del quadro delle fonti europee in materia di lavoro, si cercherà di far emergere dalle pagine che seguono, dedicate all’analisi critica delle due direttive che maggiormente incidono sulle dinamiche del mercato interno: quella sul distacco transnazionale e quella sulla trasparenza delle condizioni di lavoro.
2. La nuova disciplina del distacco transnazionale, tra obiettivi sociali e difesa degli interessi nazionali
L’adozione della direttiva (UE) 2018/957 costituisce forse la novità più significativa in ambito sociale della passata legislatura europea, al punto da potervi scorgere un momento di discontinuità nella storia del processo di integrazione del mercato interno, segnato ab origine da uno squilibrato rapporto tra libertà economiche (tutelate a livello sovranazionale) e diritti dei lavoratori (garantiti a livello nazionale)[9]. Con essa viene sostanzialmente riformata la direttiva 96/71/CE, relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione transnazionale di servizi; fonte rivelatasi strategicamente decisiva nel regolare le dinamiche di mercato, specie dopo che l’apertura a est dell’Ue ha aggravato esponenzialmente gli squilibri economico-sociali tra gli Stati membri. Regolare il fenomeno del distacco transnazionale (cioè dell’invio temporaneo di lavoratori in uno Stato da parte di un’impresa con sede in un altro) significa infatti determinare il “quantum” di dumping sociale (in primis salariale) ammesso all’interno dell’Unione; significa, cioè, stabilire se e in che misura la concorrenza giocata sul costo del lavoro possa costituire una (legittima) leva del processo d’integrazione europea. È, allora, un indubbio segnale di un’Unione più attenta alla sua dimensione sociale e ai diritti dei lavoratori, una riforma – com’è appunto quella attuata grazie alla direttiva 2018/957 – univocamente orientata a rafforzare il potere degli Stati di assicurare più alti standard di tutela ai lavoratori stranieri distaccati sul loro territorio nazionale.
Tuttavia, la direttiva non può a rigore iscriversi tra le misure adottate in attuazione del pilastro sociale. Da una parte, la proposta della Commissione europea da cui la direttiva è originata[10] precede la proclamazione del Pilastro; dall’altra, le regole che governano il distacco transnazionale si iscrivono non già nell’ambito delle politiche sociali dell’Ue, cui lo stesso pilastro sociale si riferisce (ambito definito dal titolo X della parte III del Tfue), bensì nell’ambito delle fonti di regolazione del mercato interno (di cui al titolo IV del Tfue e, in specie, all’art. 56 relativo alla libertà di prestazione dei servizi).
La disciplina del distacco transnazionale non è finalizzata ad armonizzare le normative lavoristiche nei diversi Stati membri, ma a determinare quali disposizioni di diritto del lavoro nazionale possano essere applicate ai lavoratori stranieri senza ledere la libertà economica di quest’ultima (garantita, appunto, dalle fonti primarie dell’Ue). Le disposizioni in materia di distacco si collocano dunque nel più ampio sistema delle norme internazional-privatistiche finalizzate a selezionare la legge applicabile ai contratti che presentano profili di internazionalità; e in tal modo integrano quelle del regolamento (cd. “Roma I”) n. 593/2008 (in specie, l’art. 8 relativo ai contratti di lavoro), configurandosi quali norme di applicazione necessaria, delle quali uno Stato può imporre il rispetto a prescindere dalla legge regolatrice del contratto (ai sensi dell’art. 9 del medesimo regolamento)[11].
Proprio il peculiare carattere della direttiva sul distacco – di fonte, appunto, tesa non ad armonizzare, ma a risolvere “conflitti” tra normative applicabili – è all’origine delle numerose problematiche ad essa sottese e spiega la sua travagliata gestazione. Intorno ad essa si sono infatti coagulate le crescenti tensioni tra Stati membri che hanno caratterizzato (e caratterizzano) la storia recente del processo di integrazione europea.
La direttiva è stata approvata grazie alla decisa azione del blocco dei “vecchi” Stati membri (con la consueta eccezione del Regno Unito), capeggiati dalla Germania e (soprattutto) dalla Francia, e nonostante la altrettanto decisa opposizione del “gruppo di Visegrad”[12]; opposizione non terminata neppure con l’adozione definitiva della direttiva, visto che Ungheria e Polonia hanno prontamente promosso un ricorso davanti alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 263 Tfue, contestando al legislatore derivato la violazione dei principi del mercato interno sanciti dal diritto primario dell’Unione.
Alle tensioni tra Stati si sono poi aggiunti i contrasti tra le parti sociali, sia a livello europeo che nazionale, e (in maniera sommamente ambigua) all’interno delle stesse parti sociali. Il dumping salariale infatti, per le imprese di uno Stato membro rappresenta al tempo stesso uno strumento di concorrenza sleale da combattere e un’opportunità produttiva (rectius, di delocalizzazione) da sfruttare; mentre per i lavoratori (e i sindacati), da una parte costituisce, certo, un letale strumento di abbattimento dei salari, ma dall’altra (per gli stessi lavoratori distaccati) può apparire anche come motore di occupazione e perfino di crescita salariale, se non da promuovere (quanto meno) da accettare con opportunistica rassegnazione.
Ecco allora che la direttiva 2018/957 svela una doppia faccia, potendo al contempo essere letta sia come importante momento di edificazione di una più solida Europa sociale sia come (ulteriore) segnale di crisi del processo di integrazione e di cedimento a una logica di difesa degli interessi nazionali degli Stati membri economicamente più forti. E tanto più questo secondo profilo è destinato a prevalere, quanto meno efficace sarà, nell’immediato futuro, lo sforzo delle istituzioni euro-unitarie (e di quegli stessi Stati membri) per ridurre gli squilibri socio-economici all’interno dell’Unione; squilibri che rendono impossibile raggiungere l’obiettivo della «parificazione nel progresso» delle condizioni dei lavoratori europei iscritto nell’art. 151 del Trattato.
3. Il difficile cammino verso il superamento del dumping salariale nell’Ue
Come anticipato, la direttiva 2018/957 ha modificato in più parti il testo della direttiva 96/71, incidendo anche sulla disposizione che può a ragione considerarsi il suo cuore precettivo: l’art. 3, par. 1, lett. c, deputato a fissare il trattamento salariale dei lavoratori distaccati[13]. Nel sostituire la riduttiva nozione di «tariffe minime salariali» con l’omnicomprensiva nozione di «retribuzione», il legislatore europeo supera l’originaria ratio della direttiva, tesa a declinare al ribasso gli standard di tutela dei lavoratori distaccati, e configura la possibilità che questi beneficino della parità di trattamento salariale rispetto ai lavoratori nazionali[14]. Spetta agli Stati identificare l’ubi consistam della nozione in parola, ma è la stessa direttiva a precisare che essa comprende «tutti gli elementi (…) resi obbligatori da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali, da contratti collettivi o da arbitrati che sono stati dichiarati di applicazione generale nello Stato membro».
È vero che la novità normativa non è tale se si considera che la Corte di giustizia, già nel 2015, aveva interpretato in senso lato l’originaria nozione di «tariffe minime salariali», rimettendo di fatto agli Stati il potere di determinarne il contenuto, ovvero di individuare le voci retributive che la compongono[15]. Ma ciò non sminuisce l’importanza della novella, non solo perché con essa si cristallizza un (mero) orientamento giurisprudenziale in norma di diritto positivo, ma anche perché in tal modo quanto la Corte configura come una possibilità rimessa alla scelta degli Stati membri diventa un “diritto” che in tutti gli ordinamenti nazionali i lavoratori distaccati potranno rivendicare[16]; un diritto, peraltro, da riconoscere necessariamente in tutti i settori economici e non già, come nella versione originaria della direttiva, nel solo settore dell’edilizia[17].
La volontà di contrastare con più efficacia il dumping salariale si traduce, poi, in una serie di disposizioni che dovrebbero impedire il perpetuarsi di pratiche fraudolente operate dalle imprese giocando sull’incertezza in merito all’imputazione delle voci retributive corrisposte al lavoratore distaccato. E così, da una parte, si prevede che al lavoratore distaccato spettino le medesime «indennità o rimborso a copertura delle spese di viaggio, vitto e alloggio per i lavoratori lontani da casa per motivi professionali» eventualmente garantite al lavoratore nazionale (art. 3, par. 1, lett. i); dall’altra, si introduce una sorta di presunzione a favore del lavoratore nel computo delle voci retributive corrispostegli, imponendo l’imputazione a titolo di rimborso spese delle indennità specifiche di distacco effettivamente erogate dal proprio datore, qualora non risulti il contrario dalle condizioni applicabili al rapporto di lavoro (art. 3, par. 7).
Se il nuovo quadro normativo fornisce senza dubbio agli Stati più efficaci strumenti di contrasto al dumping salariale, non per questo però può dirsi esclusa – per le imprese che operano nel mercato interno – la possibilità di sfruttare il costo del lavoro a fini concorrenziali.
In primo luogo, non si può ignorare come, in tutti gli Stati membri, sui livelli salariali incida sempre di più la contrattazione decentrata, che non riguarda i lavoratori distaccati. La valorizzazione del livello aziendale di contrattazione come sede di determinazione dei salari aumenta dunque lo scarto tra la retribuzione (media) corrisposta ai lavoratori nazionali e quella (minima) corrisposta ai lavoratori distaccati[18]; con la conseguenza che l’obiettivo di garantire “parità di salario a parità di lavoro” a tutti i lavoratori occupati sul territorio dell’Unione (che, come detto, la nuova direttiva sul distacco dovrebbe perseguire[19]) diventa di fatto una chimera.
Né può sfuggire come proprio l’Ue, attraverso il semestre europeo, abbia giocato (e giochi) un ruolo decisivo nell’indurre gli Stati a legare sempre più strettamente le dinamiche salariali all’andamento della produttività aziendale, rafforzando il processo di decentramento contrattuale[20]. Il che rende quanto meno ambivalente il significato della complessiva politica salariale promossa dall’Unione, frutto della combinazione di interventi di hard e soft law. Se è vero infatti che, con la direttiva 2018/957, il legislatore europeo impone l’estensione dei medesimi standard salariali per lavoratori nazionali e stranieri distaccati, dall’altra gli organi di governo dell’Unione (attraverso la governance economica) inducono gli Stati a riconfigurare al ribasso tali standard, sminuendo il ruolo della contrattazione collettiva nazionale a vantaggio di quella aziendale. Ne esce ridimensionata la portata della nozione ampia di «retribuzione» accolta nella nuova disciplina del distacco e potenzialmente comprensiva dell’insieme delle voci previste dal contratto di categoria, giacché, in sistemi nei quali quest’ultimo ha perso la sua tradizionale funzione tariffaria, non resta che riconoscere nella legge la fonte inderogabile di definizione dei minimi salariali a livello nazionale. Il che è quanto avvenuto, ad esempio, in Germania, dove la necessità di conciliare una struttura contrattuale sempre più decentrata con i vincoli posti dal mercato interno ha portato al varo della legge federale sul salario minimo, che oggi definisce lo standard retributivo inderogabile su tutto il territorio nazionale, sia per lavoratori nazionali sia per i lavoratori stranieri distaccati da altri Stati membri.
Agli effetti conseguenti al decentramento contrattuale si sommano i problemi strutturali propri di quei sistemi di contrattazione a basso tasso di istituzionalizzazione, che (come quello italiano) non conoscono meccanismi di estensione dell’efficacia del contratto collettivo di categoria. In sistemi di questo tipo, la portata innovativa della nuova direttiva finisce per vanificarsi in ragione dell’impossibilità di applicare ex lege ai lavoratori stranieri contratti collettivi che non vincolano tutte le imprese nazionali. Osta a un diverso scenario il principio di non discriminazione, in questo caso posto a tutela delle imprese straniere che distaccano i lavoratori.
Proprio il principio di non discriminazione spiega le complesse disposizioni della direttiva 96/71 deputate a dettare le condizioni per l’applicabilità dei contratti collettivi alle imprese straniere, in Paesi nei quali mancano meccanismi legali per renderli universalmente vincolanti (art. 3, par. 8); disposizioni che – in quanto, appunto, riflesso del fondamentale principio di non discriminazione – non sono state modificate dalla direttiva 2018/957. La possibilità di pretendere il rispetto di contratti collettivi vigenti sul territorio nazionale da parte delle imprese straniere è condizionata dalla prova che tali contratti siano “di fatto” rispettati da tutte le imprese nazionali[21]. Da ciò la scarsa rilevanza, nell’ordinamento italiano, della nuova nozione di «retribuzione» di cui all’art. 3, par. 1 lett. c, posto che tale prova è superabile (al più) soltanto in relazione a quelle voci riconosciute dalla giurisprudenza come espressione del diritto costituzionale all’equa retribuzione (ex art. 36 Cost.)[22]: ovvero, in pratica, alle «tariffe minime salariali» cui si riferiva l’originaria versione della direttiva 96/71.
Se ai problemi testé evidenziati si aggiunge il fatto che il regime di sicurezza sociale dei lavoratori distaccati – dal quale dipende la determinazione dell’onere contributivo – resta, per almeno 24 mesi, quello del loro Paese d’origine in virtù dell’art. 12 del regolamento n. 883/2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale[23], è evidente come, anche dopo l’adozione della direttiva 2018/957, il basso costo del lavoro resti un decisivo elemento di competizione tra le imprese che operano sul territorio dell’Unione[24].
4. Il problematico rapporto tra le nuove disposizioni in materia di distacco transnazionale e i principi del mercato interno
I vantaggi competitivi che il ricorso al distacco transnazionale continua a offrire (nonostante l’adozione della nuova nozione di «retribuzione»), potrebbero essere in teoria ridotti da una contrattazione case by case tra sindacati dello Stato ospitante e impresa straniera distaccante. Questo scenario è reso giuridicamente realizzabile dal nuovo art. 1, par. 1-bis, inserito con l’evidente scopo di contraddire la controversa interpretazione dell’originaria versione della direttiva 96/71 fornita dalla Corte di giustizia nella sentenza Laval[25]. La disposizione in questione (fortemente voluta dal fronte sindacale) esclude, infatti, che la direttiva 96/71 possa pregiudicare in alcun modo l’esercizio dei diritti fondamentali, compreso il diritto di sciopero e «il diritto di negoziare, concludere ed eseguire accordi collettivi, o di intraprendere azioni collettive in conformità della normativa e/o delle prassi nazionali».
La Corte dovrà necessariamente confrontarsi con una simile clausola di salvaguardia, qualora fosse nuovamente chiamata a valutare la legittimità di un’azione sindacale tesa a promuovere le condizioni di lavoro di lavoratori distaccati. E ben difficilmente potrà confermare il giudizio di illegittimità basandosi sui limiti posti dalla direttiva 96/71 alla parità di trattamento tra lavoratori distaccati e lavoratori nazionali, come appunto ha fatto nel celebre arresto del 2007. Tuttavia, non per questo il problema del rapporto tra libertà economiche ed esercizio dell’autonomia collettiva può dirsi risolto, giacché tale problema trova la propria origine nelle norme di diritto primario che tutelano le prime; norme, queste, che (proprio nella sentenza Laval) concorrono con la direttiva 96/71 a fondare il giudizio di illegittimità dell’azione sindacale[26].
La clausola di salvaguardia introdotta dalla direttiva 2018/957 solleva quindi il problema della sua conciliazione con i principi che guidano il processo d’integrazione del mercato interno e che sono iscritti nelle fonti primarie dell’Ue. Il rischio è che l’efficacia della nuova disposizione sia (almeno in parte) neutralizzata da una sua interpretazione condotta alla luce di tali principi; interpretazione che potrebbe, ad esempio, lasciare esposte ai limiti deducibili dall’art. 56 Tfue (e, di conseguenza, a una possibile censura di illegittimità) le azioni sindacali volte ad applicare standard di tutela superiori a quelli previsti dalla direttiva 96/71: in primo luogo, proprio i salari fissati a livello aziendale.
D’altra parte, il problema del rapporto tra la direttiva 96/71 e l’art. 56 Tfue (che della prima continua a costituire il fondamento legale) resta aperto anche per altre disposizioni introdotte con la riforma del 2018. A partire da quella che fissa la durata massima del distacco in dodici mesi (prorogabili fino a 18, su richiesta dell’impresa distaccante), superati i quali al lavoratore distaccato si applicano le stesse condizioni di lavoro che spettano ai lavoratori nazionali, fatte salve alcune materie tassativamente elencate (come la disciplina del licenziamento, art. 3, par. 1-bis)[27]. La norma si raccorda con il paragrafo 10 dello stesso art. 3 (già presente nella versione originale della direttiva), che consente agli Stati membri di estendere ai lavoratori distaccati le norme di tutela previste dal diritto nazionale anche al di là delle materie imposte dalla direttiva (elencate nell’art. 3, par. 1), purché si tratti di «disposizioni di ordine pubblico».
Entrambe le disposizioni (la nuova e l’originaria) trovano la loro giustificazione nei principi del mercato interno, che impongono di identificare il quantum di tutele da applicare ai lavoratori distaccati in base a un giudizio di bilanciamento condotto alla luce del principio di proporzionalità[28]. Il legislatore del 2018 riconosce evidentemente che, in caso di distacco di lunga durata, si giustificano maggiori oneri conseguenti a più elevati standard di tutela da assicurare ai lavoratori distaccati; ciò in quanto la prolungata presenza sul territorio di un altro Stato membro determina «un nesso fra il mercato del lavoro [di quello Stato] e i lavoratori distaccati» (così nel considerando n. 10) altrimenti assente per i distacchi più brevi. Si spiega, così, il superamento del rigido filtro dell’ordine pubblico, posto dall’art. 3, par. 10, come limite al potere statale di estendere le tutele del lavoro in materie non comprese nell’elenco tassativo di cui all’art. 3, par. 1[29]. Le tutele da accordare ai lavoratori distaccati rimangono, però, un limite alla libertà economica, come tale da giustificare alla luce del test di proporzionalità. E proprio in questa prospettiva va letta la scelta di escludere la possibilità di estendere la parità di trattamento tra lavoratori stranieri e nazionali con riferimento ad alcuni significativi profili del rapporto di lavoro. Una scelta, questa, che mitiga la portata innovativa della norma, riducendo i margini di discrezionalità degli Stati nel contrastare pienamente il dumping anche in caso di distacchi prolungati. Il rischio, allora, è che ben poco sia destinato a cambiare, considerando che, in tal modo, la portata dell’art. 3, par. 1-bis, finisce, se non per sovrapporsi, certo per avvicinarsi molto a quella dell’art. 3, par. 10.
La necessità di tener conto dei vincoli sistematici derivanti da principi e regole che governano l’integrazione del mercato dei servizi vale anche per leggere la nuova disposizione relativa ai cd. “distacchi a catena”, ovvero operati da un’impresa inviando in altro Stato membro un lavoratore somministratole da un’agenzia stabilita in un diverso Stato membro; prassi operata al fine di eludere i vincoli posti dalla direttiva 96/71 (anche ricorrendo ad agenzie stabilite in Stati terzi), grazie ai dubbi circa l’ambito di applicazione di quest’ultima[30].
La norma si è esposta alle critiche di quanti ritengono che, con essa, il legislatore europeo abbia legittimato il distacco a catena anche nei Paesi che non lo consentono. Critica opinabile, perché con essa si attribuisce alla direttiva un’efficacia che non possiede: proprio in quanto fonte di regolazione del mercato interno (e non di armonizzazione di normative sociali nazionali), essa non incide sulle legislazioni sostanziali degli Stati membri, ma si limita a coordinarle, individuando la legislazione da applicare per regolare le varie ipotesi di distacco transnazionale (e in ciò, si è detto, va colto il suo carattere di fonte internazional-privatistica)[31]. L’illegittimità del distacco a catena può, in teoria, derivare dall’applicazione della legge dello Stato in cui il distacco è operato, proprio in virtù delle norme di diritto internazionale privato[32]; tale legge resterebbe però assoggettata al giudizio di compatibilità con l’art. 56 Tfue, in ragione degli effetti che produce sull’esercizio della libertà di prestazione di servizi. Ed è verosimile che la Corte di giustizia (se investita della questione) possa considerare “sproporzionato” un divieto di effettuare distacchi a catena, dal momento che le finalità anti-fraudolente che con esso si intendono perseguire potrebbero essere raggiunte con misure meno restrittive della libertà economica[33]. Ma un simile giudizio non sarebbe da imputare alla direttiva 2018/957.
L’intero impianto della direttiva 2018/957 è, dunque, segnato dalla latente tensione tra l’obiettivo di dotare gli Stati di più efficaci strumenti di contrasto al dumping sociale (che il legislatore europeo persegue) e i principi posti dal Trattato a presidio del funzionamento del mercato interno (dei quali, in ultima analisi, è garante la Corte di giustizia). Le misure di contrasto al dumping non possono prescindere dalla necessità di rispettare la libertà di prestazione dei servizi; il che preclude a monte la possibilità di regolare il distacco transnazionale in base al principio della “parità di salario a parità di lavoro” e assicura alle imprese che operano sul territorio dell’Unione di beneficiare di “un certo grado” di dumping sociale come strumento concorrenziale[34].
La difficoltà di tenere insieme le esigenze di tutela dei lavoratori (distaccati e, soprattutto, nazionali) con gli interessi delle imprese a beneficiare di un mercato aperto e in libera concorrenza è, d’altra parte, all’origine di tutte le problematiche connesse con la regolazione del distacco transnazionale; tema nel quale – si è detto – si condensano le contraddizioni irrisolte di un mercato interno costruito senza tener conto dei profondi squilibri economici e sociali tuttora presenti tra gli Stati membri. Se si può salutare con favore l’adozione di norme più adeguate a limitare dinamiche di dumping (a beneficio dei sistemi nazionali socialmente più avanzati), non si deve dimenticare che il futuro del cd. modello sociale europeo dipende dal superamento di tali squilibri.
5. Due modelli regolativi per la trasparenza e la prevedibilità nel rapporto di lavoro
Il 16 aprile 2019, il Parlamento europeo ha approvato la direttiva relativa a «condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea» – dir. (UE) 2019/1152. Il testo votato dal Parlamento è il risultato dell’accordo raggiunto in trilogo dalla Commissione, dal Consiglio dell’Ue e dallo stesso Parlamento. L’iter legislativo è stato attivato dalla Commissione, nell’ambito delle iniziative relative al pilastro europeo dei diritti sociali. Va detto, però, che l’intenzione di modificare la direttiva 91/533 relativa all’obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro era stata manifestata dalla Commissione già nel 2014, quando, nell’ambito del programma REFIT, si era deciso di sottoporre questa direttiva a una cd. “ex-post evaluation”[35]. Nell’aprile 2017, la Commissione aveva pertanto iniziato la prima fase di consultazione delle parti sociali, obbligatoria ai sensi degli artt. 154 e 155 Tfue. Al termine della seconda fase di consultazione (iniziata nel settembre 2017), le parti sociali informavano la Commissione dell’impossibilità di raggiungere un accordo. La Commissione decideva quindi di presentare la propria proposta al Parlamento e al Consiglio dell’Ue.
La direttiva intende «migliorare le condizioni di lavoro promuovendo un’occupazione più trasparente e prevedibile, pur garantendo nel contempo l’adattabilità del mercato del lavoro» (art. 1, par. 1). A tal fine, prevede l’obbligo per il datore di lavoro di informare i lavoratori su alcuni elementi essenziali del rapporto di lavoro (art. 4). Essa stabilisce, poi, alcuni diritti minimi – in materia di durata del periodo di prova, divieto di clausole di esclusività, prevedibilità del lavoro, transizione a un altro lavoro, formazione – che dovrebbero applicarsi a tutti «coloro che hanno un contratto o un rapporto di lavoro» (art. 1, par. 2). La direttiva garantisce la possibilità, per gli Stati membri, di applicare o introdurre misure più favorevoli per i lavoratori, e vieta che il recepimento della stessa sia motivo per ridurre il livello generale di protezione riconosciuto ai lavoratori (cd. “clausola di non regresso”, art. 20)[36].
Il primo aspetto su cui merita soffermarsi riguarda l’ambito di applicazione della direttiva. Come detto, questa dovrebbe applicarsi a tutti i lavoratori. Tale affermazione trova, tuttavia, un riscontro solo parziale nelle norme della direttiva. In primo luogo, ai sensi dell’art. 1, par. 3, gli Stati possono decidere di non applicare la direttiva ai lavoratori il cui rapporto di lavoro sia di durata inferiore o uguale a tre ore a settimana, calcolate in un periodo di riferimento di quattro settimane consecutive. La deroga, seppure non si applichi nei casi in cui non è stabilita «una quantità garantita di lavoro retribuito»[37], rischia di essere, nei fatti, ben più estesa di quanto consentito: se un lavoratore viene infatti assunto con un contratto di dodici ore al mese e poi ne lavora venti, difficilmente farà causa al datore di lavoro perché ha violato l’obbligo di informazione.
Gli Stati membri possono inoltre prevedere, «su basi oggettive», che i diritti fissati nel capo III (in materia di durata del periodo di prova, divieto di clausole di esclusività, prevedibilità del lavoro, transizione a un altro lavoro, formazione), «non si applichino a funzionari pubblici, servizi pubblici di emergenza, forze armate, autorità di polizia, magistrati, pubblici ministeri, investigatori o altri servizi preposti all’applicazione della legge» (art. 1, par. 6). Altra deroga riguarda i lavoratori domestici, a cui possono non applicarsi le disposizioni sulla transizione a un altro lavoro, sulla formazione e sulle presunzioni giuridiche (art. 1, par. 7).
Per definire il suo ambito di applicazione, la direttiva richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue sulla nozione di “lavoratore”. Pertanto, «i lavoratori domestici, i lavoratori a chiamata, i lavoratori intermittenti, i lavoratori a voucher, i lavoratori tramite piattaforma digitale, i tirocinanti e gli apprendisti» rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva solo se soddisfano i criteri indicati in quella giurisprudenza (cons. n. 8). La direttiva non si applica, invece, ai lavoratori effettivamente autonomi. Nella sua pluridecennale giurisprudenza, la Corte di giustizia ha affermato che la qualificazione del rapporto di lavoro si fonda sui fatti correlati all’effettiva prestazione di lavoro, e non sul modo in cui le parti descrivono il rapporto[38].
Il problema è capire quali sono i criteri utilizzati dalla Corte di giustizia per distinguere i “falsi lavoratori autonomi” dai “lavoratori effettivamente autonomi”. Nel diritto Ue, la questione è particolarmente rilevante perché si intreccia a un’altra vicenda: ai fini del diritto della concorrenza, i lavoratori autonomi sono classificati come imprese; pertanto, i contratti collettivi che regolano i rapporti di lavoro di tali soggetti sono vietati in quanto impediscono, restringono o falsano il gioco della concorrenza (art. 101 Tfue)[39]. Al lavoro autonomo si applica poi il regolamento (UE) 2019/1150 sull’equità e la trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online. Il diritto Ue prevede, cioè, due distinti modelli di regolazione del lavoro tramite piattaforma: da un lato, per i “falsi” lavoratori autonomi, la direttiva 2019/1152 detta standard minimi di tutela che possono essere migliorati dagli Stati membri o mediante la contrattazione collettiva (sulla promozione del dialogo sociale vds. l’art. 21, par. 4); dall’altro, per i lavoratori effettivamente autonomi, il regolamento 2019/1150 stabilisce alcune regole di trasparenza per il corretto funzionamento del mercato interno (cons. n. 7), ma non prevede alcuna clausola di salvaguardia di migliori standard di trattamento a favore dei lavoratori, né consente, almeno espressamente, la contrattazione collettiva.
Tale regolamento, che si applica a qualsiasi «privato che agisce nell’ambito delle proprie attività commerciali e professionali» (art. 2)[40], disciplina obblighi di trasparenza a carico del fornitore di servizi di intermediazione online, quando questo stabilisce unilateralmente i termini e le condizioni della relazione contrattuale (cons. n. 14)[41]. La situazione di squilibrio contrattuale giustifica l’imposizione, a carico del fornitore di servizi di intermediazione online, dell’obbligo di comunicare le ragioni di sospensione o cessazione della fornitura di detti servizi (art. 3) e i parametri che determinano il posizionamento (art. 5). Il fornitore di servizi di intermediazione online deve poi rispettare una determinata procedura in caso di limitazione, sospensione o cessazione del servizio (art. 4) e garantire un sistema interno di gestione dei reclami facilmente accessibile, gratuito, rapido ed efficace (art. 11). Le organizzazioni che hanno un legittimo interesse a rappresentare i lavoratori autonomi possono adire i giudici nazionali «per far cessare o vietare qualsiasi caso d’inadempienza» delle prescrizioni del regolamento (art. 14), o elaborare, con i fornitori di servizi di intermediazione online, codici di condotta (art. 17). Come detto, nel regolamento non è prevista né la possibilità di stipulare contratti collettivi, né la possibilità, per gli Stati membri, di applicare disposizioni più favorevoli al lavoratore. Il regolamento non limita la possibilità, per il fornitore di servizi di intermediazione online, di scegliere la legge applicabile al contratto (art. 3 reg. “Roma I”; cons. n. 49 reg. 2019/1150), né gli proibisce di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali (art. 3, par. 3). Il regolamento si applica ai soli servizi di intermediazione online che siano anche servizi della società dell’informazione (art. 2, n. 2)[42]. Non rientrano, dunque, nel suo ambito di applicazione piattaforme come Uber, in cui il servizio di intermediazione è «parte integrante di un servizio complessivo in cui l’elemento principale è un servizio di trasporto»[43].
I problemi generati dall’accostamento dei due modelli regolativi sono molteplici. In primo luogo, occorre affrontare la questione relativa all’impossibilità di stipulare contratti collettivi per i “veri” lavoratori autonomi. Sul punto, rischia di aprirsi un nuovo conflitto tra le corti sovranazionali[44]. La definizione di «falso lavoratore autonomo» utilizzata dalla Corte di giustizia per delimitare il campo di applicazione del diritto Ue della concorrenza[45] non pare infatti in linea con quanto affermato dal Comitato europeo dei diritti sociali (Ceds), secondo cui il diritto alla contrattazione collettiva deve essere garantito in ogni caso in cui esista uno squilibrio di potere tra il lavoratore e il committente[46]. Il contrasto tra il Ceds e la Corte di giustizia potrebbe essere risolto qualora i concetti di “unità economica” e di “lavoratore”, che in FNV Kunsten i giudici di Lussemburgo hanno sovrapposto, fossero mantenuti distinti[47]. Un’unità economica esiste quando un operatore economico non determina in modo autonomo il proprio comportamento sul mercato[48]: in tutti questi casi, vi è quello squilibrio dei poteri contrattuali che, secondo l’opinione dell’avvocato generale in Albany, giustifica l’intervento della contrattazione collettiva, diretta appunto a «garantire un risultato equilibrato per entrambe [le parti] e per la società intera»[49]. D’altro canto, qualora un lavoratore autonomo non determini in modo autonomo il proprio comportamento sul mercato, esiste quello squilibrio di poteri che, secondo il Ceds, giustifica il fatto che a tale lavoratore sia riconosciuta la possibilità di ridurre tale squilibrio mediante la contrattazione collettiva. Di conseguenza, un’interpretazione del diritto Ue della concorrenza conforme alla Carta sociale europea è possibile qualora, ai fini dell’applicazione dell’eccezione elaborata in Albany, tutti i lavoratori che non esercitano un’influenza sostanziale sul contenuto del proprio contratto di lavoro fossero considerati come “un’unità economica” con la controparte contrattuale. Come precisato dal Ceds, tali lavoratori, non avendo una reale possibilità di negoziare individualmente, devono avere il diritto alla contrattazione collettiva (par. 111).
Il secondo problema che occorre affrontare attiene all’inserimento della panoplia di figure di lavoratore autonomo prevista nel nostro ordinamento all’interno del sistema bipolare del diritto dell’Ue. Nella direttiva, così come nel regolamento, la nozione di “falso lavoratore autonomo” coincide con quella di “lavoratore”. Come già osservato, per qualificare un rapporto di lavoro, occorre prendere in considerazione tutti gli elementi e le circostanze che caratterizzano i rapporti esistenti tra le parti[50]. Fra gli elementi considerati nella giurisprudenza della Corte di giustizia, due assumono un particolare rilievo: la soggezione a un potere direttivo[51] e l’inserzione della prestazione lavorativa nell’organizzazione del datore di lavoro[52]. Altri elementi, quale il nomen iuris dato dalle parti al contratto di lavoro o il fatto che il lavoratore abbia o meno l’obbligo di rispondere alla chiamata del datore di lavoro[53], sono invece irrilevanti. Ciò trova conferma nella direttiva, che si applica anche nei casi in cui l’organizzazione del lavoro è «imprevedibile» (art. 4, par. 2, lett. m). In tali ipotesi, il datore di lavoro può imporre al lavoratore di svolgere la sua prestazione solo se sono soddisfatte le condizioni previste all’art. 10, par. 1 (vds. infra). Qualora tali requisiti non siano presenti, la direttiva garantisce al lavoratore il «diritto di rifiutare un incarico senza conseguenze negative» (art. 10, par. 3). La direttiva assicura dunque il diritto a non rispondere alla chiamata, senza che ciò incida sulla qualificazione del rapporto di lavoro[54].
Altro elemento rilevante è quanto sostenuto dall’avvocato generale nelle conclusioni del caso Uber Systems Spain[55]: «un controllo indiretto, come quello esercitato da Uber – fondato su incentivi finanziari e su una valutazione decentrata da parte dei passeggeri, con un effetto di scala – permette una gestione altrettanto, se non addirittura più efficace, di quella fondata su direttive formali impartite da un datore di lavoro ai suoi dipendenti e sul controllo diretto del rispetto delle medesime». Analogamente, la Corte di giustizia ha affermato che «Uber esercita un’influenza determinante sulle condizioni della prestazione» dei propri conducenti e ne controlla il comportamento[56].
La rilevanza dell’inserimento del lavoratore nell’organizzazione del datore di lavoro e del controllo esercitato dalla piattaforma sulla condotta dei lavoratori, l’irrilevanza della cd. mutuality of obligations, sono tutti elementi che fanno propendere per ricomprendere il lavoro etero-organizzato nell’ambito di applicazione della direttiva. Detto altrimenti, i lavoratori etero-organizzati sono, ai fini della direttiva, “falsi” lavoratori autonomi[57]. Questa interpretazione presenta il vantaggio di salvare la disciplina dettata dall’art. 2 d.lgs n. 81/2015 per i lavoratori etero-organizzati[58]. Se, infatti, questi lavoratori venissero considerati lavoratori autonomi ai fini del diritto Ue, da un lato, i relativi contratti collettivi sarebbero incompatibili con l’art. 101 Tfue (e dunque dovrebbero essere dichiarati nulli per contrasto con una disposizione del Trattato direttamente applicabile); dall’altro, l’obbligo di applicare la normativa dettata per il lavoro subordinato non sarebbe conforme all’art. 49 Tfue e al reg. 2019/1150, letti alla luce del diritto fondamentale alla libertà di impresa, garantito dall’art. 16 Cdfue (citato dal cons. n. 52 del regolamento)[59].
Quanto alla conformità con il diritto Ue della disciplina dettata per i lavoratori autonomi di cui agli artt. da 47-bis a 47-octies d.lgs n. 81/2015[60], sicuramente non pone problema l’obbligo di informazione scritta di cui all’art. 47-ter, il quale semmai dovrà essere interpretato alla luce degli obblighi di trasparenza e prevedibilità previsti dal reg. 2019/1150. Ad analoga interpretazione conforme deve provvedersi in relazione alle sanzioni, dovendosi escludere che dalla violazione dell’obbligo di informazione possa conseguire una presunzione di lavoro subordinato. La sanzione indicata dal regolamento per la violazione degli obblighi di informazione è infatti quella della nullità (con effetti erga omnes ed ex tunc) della clausola contrattuale (art. 3, par. 3 e cons. n. 20 reg. 2019/1150).
Nessun problema sembra porre l’art. 47-quinquies in relazione all’applicazione del diritto antidiscriminatorio al lavoro autonomo, circostanza già prevista dalle direttive dell’Unione[61]. Rimane, invece, oscura quale sia la disciplina «a tutela della libertà e dignità del lavoratore prevista per i lavoratori subordinati» che dovrebbe applicarsi ai riders indipendenti[62]. Come detto, il regolamento – e, in generale, il diritto Ue – impone di valutarne, caso per caso, la compatibilità con la libertà d’impresa[63]. Analoghe considerazioni valgono per gli obblighi di rispettare un compenso minimo e di garantire un’indennità integrativa per il lavoro notturno, festivo e in condizioni metereologiche sfavorevoli (art. 47-quater, commi 2 e 3).
La disposizione che crea maggiori problemi è sicuramente l’art. 47-quater, laddove prevede che i contratti collettivi possano definire il compenso per i riders indipendenti. Posto di fronte al problema della compatibilità di tali clausole con l’art. 101 Tfue, il giudice interno potrebbe rinviare il caso alla Corte costituzionale, chiedendole di valutare la questione alla luce degli artt. 39 e 117, comma 1, Costituzione. In tale ipotesi, l’interpretazione estensiva dell’art. 39 Cost. potrebbe essere argomentata richiamando le decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali e dei Comitati Oil sull’ambito di applicazione, rispettivamente, dell’art. 6 Carta sociale europea e delle Convenzioni Oil nn. 87 e 98[64]. E si potrebbe immaginare che il diritto alla negoziazione collettiva, garantito dagli artt. 39 e 117, comma 1, Cost., utilizzando quale parametri interposti la Carta sociale europea e le Convenzioni nn. 87 e 98 che, come noto, fanno parte delle cd. “core Conventions” ai sensi della Dichiarazione sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro, costituisce un diritto inalienabile della persona che può costituire un limite all’ingresso del diritto dell’Unione europea nel nostro ordinamento[65]. In alternativa, il giudice nazionale potrebbe sollevare un rinvio pregiudiziale di fronte alla Corte di giustizia Ue, chiedendole di re-interpretare l’art. 81 Tfue alla luce della quasi-giurisprudenza dei Comitati Oil e delle decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali[66]. L’esito del rinvio non sarebbe affatto scontato. Ma almeno la Corte di giustizia verrebbe sollecitata a prendere in considerazione le decisioni dei Comitati Oil e del Ceds, cosa che finora, a quanto consta, non ha quasi mai fatto[67].
6. Il pericolo di deresponsabilizzazione del datore di lavoro
La direttiva lascia agli Stati membri la possibilità di «determinare quali persone sono responsabili dell’esecuzione degli obblighi per i datori di lavoro», «purché tutti gli obblighi siano assolti» (art. 1, par. 5). Gli Stati membri «possono inoltre decidere che tali obblighi debbano essere, totalmente o in parte, assegnati a una persona fisica o giuridica che non è parte del rapporto di lavoro» (ibid.).
La disposizione prende atto di un problema reale: il fatto che, nella pratica, diverse persone fisiche o giuridiche possano esercitare i poteri datoriali o influenzare l’esercizio degli stessi (cons. n. 13). Tuttavia, anziché operare con la tecnica della responsabilità solidale o della co-datorialità, che avrebbero condotto a moltiplicare i soggetti tenuti ad adempiere agli obblighi datoriali, la direttiva autorizza gli Stati a scegliere chi è responsabile per l’adempimento dell’obbligo di informazione e degli altri obblighi ivi disciplinati, purché tali obblighi siano assolti. Di conseguenza, tali obblighi non devono necessariamente essere imputati al datore di lavoro. Si legittima, cioè, la dissociazione tra l’esercizio dei poteri datoriali e gli obblighi che dovrebbero sussistere in capo a chi esercita tali poteri, con il rischio di deresponsabilizzazione del datore di lavoro.
Va peraltro aggiunto che, nel diritto Ue, non è affatto chiaro chi sia il datore di lavoro. Dalla nozione di lavoratore non si può infatti dedurre che colui a favore del quale e sotto la cui direzione è fornita la prestazione sia il datore di lavoro: la Corte di giustizia si limita ad affermare che «la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione» (corsivo aggiunto)[68]. Recentemente, l’avvocato generale del caso AFMB ha dedotto dal fatto che l’esistenza del vincolo di subordinazione dev’essere valutata caso per caso, in funzione di tutti gli elementi e di tutte le circostanze che caratterizzano i rapporti tra le parti, che anche per la nozione di datore di lavoro si dovrebbe adottare un approccio sostanziale[69]. Nell’interpretare i criteri di collegamento di cui al regolamento n. 883/2004, tale approccio si giustifica per evitare che, mediante «costruzioni giuridiche artificiose», si possa eludere la protezione offerta dalla normativa sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale[70]. Il carattere imperativo della normativa lavoristica vieta cioè che, mediante costruzioni giuridiche di diritto privato, si possa scegliere chi è datore di lavoro, e di conseguenza, decidere la legge applicabile al rapporto di lavoro[71]. Pertanto, conclude l’avvocato generale, ai fini del reg. n. 883/2004 (ma tale ragionamento si può estendere anche ai regolamenti “Roma I” e “Bruxelles I bis”), datore di lavoro è colui che esercita «il potere direttivo e di controllo» nei confronti dei lavoratori (par. 60).
L’approccio formalistico, secondo cui è datore di lavoro colui che ha firmato il contratto di lavoro, dovrebbe essere rigettato anche per garantire l’effetto utile del diritto dell’Unione laddove, ad esempio, sono previste soglie numeriche per l’applicazione di una certa disciplina. In generale, l’approccio sostanziale alla definizione di datore di lavoro potrebbe essere argomento per l’esigenza di garantire una tutela effettiva dei diritti dei lavoratori previsti dal diritto dell’Unione.
Rimane che, a fronte dell’incertezza su chi sia datore di lavoro ai fini del diritto Ue, la direttiva introduce altri elementi di incertezza, consentendo agli Stati membri di far gravare gli obblighi datoriali su un soggetto diverso dal datore di lavoro. A chi dovrà rivolgersi il lavoratore in caso di inadempimento di uno degli obblighi previsti dalla direttiva?
È noto poi che, all’interno delle organizzazioni economiche complesse, esistono poteri di direzione e coordinamento che permettono di gestire la frammentazione del ciclo produttivo. A fronte della stratificazione dei livelli di esercizio del potere e della deresponsabilizzazione conseguente allo spezzettamento di un’attività economica tra più soggetti giuridici, il problema principale è quello di ricreare il legame tra potere e responsabilità, ricostruendo l’unità economica dell’impresa. A tal fine, la direttiva considera, in alcune disposizioni, l’impresa e il gruppo (vds., ad esempio, l’art. 1, par. 3). Il raffronto tra queste disposizioni e quella sull’imputazione degli obblighi datoriali dimostra, però, la scarsa coerenza nell’affrontare un tema centrale come la definizione di “datore di lavoro”.
Occorre altresì ricordare che, nonostante il dibattito sulle cd. “letterbox companies”, il diritto Ue continua a facilitare la creazione di società di capitali. La direttiva cd. “Digital tools” (che modifica la dir. 2017/1132 per quanto riguarda l’impiego degli strumenti e dei processi digitali nel diritto societario) obbliga gli Stati membri a garantire una procedura per la registrazione online di una società di capitali, che deve concludersi entro cinque giorni. Nel contempo, le disposizioni sul subcontratto contenute nella proposta della Commissione sono state eliminate nel testo finale della direttiva 2019/957 (vds. supra). Non pare esservi, insomma, una reale intenzione di affrontare i problemi giuridici generati dalla frammentazione dell’impresa.
7. Il contenuto dell’obbligo di informazione
La direttiva 2019/1152 obbliga il datore di lavoro (o la persona indicata dallo Stato membro) a comunicare al lavoratore almeno una serie di informazioni (art. 4, par. 2). È possibile, dunque, estendere le informazioni che devono essere fornite al lavoratore (cons. n. 15). Ciò è particolarmente rilevante nel caso del lavoro tramite piattaforme. La direttiva non prevede infatti l’obbligo di comunicare i parametri che determinano il posizionamento (i.e.il rating dei lavoratori) e le ragioni per cui la piattaforma può decidere di sospendere o limitare la fornitura dei servizi al lavoratore, come invece disposto dal reg. 2019/1150. Analogamente, in occasione del recepimento della direttiva, si potrebbero introdurre obblighi di informazione specifici per i lavoratori impiegati nell’ambito di un subcontratto[72], che attualmente la direttiva ignora.
Nei casi in cui non vi sia un luogo fisso di lavoro (come nel caso di smart working), il datore di lavoro deve indicare che «il lavoratore è impiegato in luoghi diversi o è libero di determinare il proprio luogo di lavoro, nonché la sede o, se del caso, il domicilio del datore di lavoro» (art. 4, par. 2, lett. b). Qualora l’orario di lavoro non sia predeterminato, il datore di lavoro deve comunicare: a) il numero minimo di ore di lavoro retribuite e la retribuzione per il lavoro svolto oltre tale numero minimo (art. 4, par. 2, lett. m, punto i), aspetto particolarmente rilevante in caso di lavoro a chiamata in quanto, in futuro, il datore di lavoro dovrà indicare il numero minimo di ore garantite; b) il periodo in cui al lavoratore può essere imposto di lavorare (lett. m, punto ii); c) la durata minima del preavviso e il termine entro cui il datore di lavoro può revocare una chiamata (lett. m, punto iii) – non è, però, fissata una durata minima del preavviso né le condizioni per la cancellazione.
Va inoltre segnalato che, secondo la nuova direttiva, l’organizzazione e la distribuzione dell’orario sono determinati dal datore di lavoro (art. 2, lett. c). La direttiva riconosce, cioè, in capo al datore di lavoro il potere di variare la collocazione temporale dell’orario di lavoro, come affermato da alcune pronunce della Cassazione, ma solo per il rapporto a tempo pieno (fra le tante, vds. Cass. nn. 21706/2005 e 15517/2000). Il riconoscimento di tale potere in capo al datore di lavoro non dovrebbe mettere in discussione la disciplina del lavoro supplementare e delle clausole elastiche nel lavoro a tempo parziale. L’accordo allegato alla direttiva 97/81 assicura infatti la possibilità di mantenere o introdurre disposizioni più favorevoli al lavoratore (clausola 6, par. 1). Inoltre, lo sviluppo del lavoro a tempo parziale deve tenere conto «dei bisogni degli imprenditori e dei lavoratori» (clausola 1, lett. b). Infine, il principio di non discriminazione ivi disciplinato è unidirezionale, opera cioè solo a favore dei lavoratori a tempo parziale (che, appunto, non possono ricevere un trattamento più svantaggioso rispetto a quello accordato ai lavoratori a tempo pieno)[73].
Per i lavoratori distaccati o in missione in un altro Stato sono poi previste informazioni aggiuntive, da comunicare prima della partenza (art. 7). Di particolare rilievo, alla luce della nuova “direttiva distacco” (vds. supra), è l’obbligo di segnalare la retribuzione, le indennità specifiche per il distacco e le modalità di rimborso delle spese di viaggio, vitto e alloggio (art. 7, par. 2, lett. a e b). Altrettando importante è l’obbligo di comunicare l’istituto di sicurezza sociale ove sono versati i contributi sociali, in particolare nelle ipotesi in cui il reg. n. 883/2004 consente di derogare alla regola della lex loci laboris. Anche nel caso del distacco, ci si augura che il legislatore interno estenda l’obbligo di informazione per ricomprendere l’identità dell’utilizzatore o del committente, e il documento che attesta il sistema di sicurezza sociale cui il lavoratore rimane iscritto (cd. formulario A1). È, inoltre, auspicabile che non venga fatto uso della deroga di cui all’art. 7, par. 4, che consente di escludere gli obblighi di informazione per ciascun periodo di distacco di durata inferiore a quattro settimane consecutive. La deroga, già presente nella direttiva 91/533, non pare condivisibile se si considera che la durata media del distacco è pari a 101 giorni[74]. Il riferimento al singolo periodo di distacco ignora poi il fatto che, talora, i lavoratori sono distaccati più volte nello stesso Paese (nel settore delle costruzioni, ad esempio, i lavoratori si spostano spesso nei differenti cantieri)[75].Va tuttavia sottolineano che, in caso di distacco in Italia, gli obblighi di informazione sono disciplinati dalla legge del Paese d’origine; se, pertanto, tale Paese si avvale della deroga, nulla potrà essere imposto dal legislatore interno al datore di lavoro distaccante. Per tale ipotesi, pare necessaria una modifica dell’art. 10 d.lgs n. 136/2016 che includa, tra le materie oggetto di comunicazione preventiva, la retribuzione, le indennità specifiche per il distacco e il rimborso delle spese di viaggio, vitto e alloggio, in modo da facilitare il controllo delle autorità ispettive sulla normativa in materia di distacco.
La direttiva impone di adempiere l’obbligo di informazione per iscritto entro il settimo giorno lavorativo (art. 5). Durante l’iter legislativo, il sindacato europeo ha richiesto di anticipare l’obbligo di informazione prima dell’inizio del rapporto di lavoro, così da farne una misura di contrasto al lavoro sommerso. Nel testo finale della direttiva, questa dimensione è, però, del tutto assente e ciò sorprende se si pensa all’impegno profuso nella lotta contro il lavoro sommerso negli ultimi anni, che dovrebbe proseguire nell’ambito dell’Autorità europea del lavoro (art. 12 reg. 2019/1151)[76].
In caso di modifica delle condizioni di lavoro, il datore di lavoro è tenuto a informare il lavoratore entro il giorno in cui la modifica diviene efficace. Tale regola non si applica, tuttavia, quando la modifica è connessa a variazioni della disciplina legale, amministrativa o del contratto collettivo (art. 6).
8. Gli altri diritti garantiti al lavoratore
Nel capo III, la direttiva prevede ulteriori diritti a favore del lavoratore. Va tuttavia osservato che tali diritti possono essere derogati dai contratti collettivi di qualsiasi livello (anche aziendale), siglati da qualunque sindacato, qualora sia rispettata «la protezione generale dei lavoratori» (art. 14).
L’art. 8, par. 1, fissa a sei mesi la durata massima del periodo di prova. È però possibile oltrepassare tale soglia nei casi in cui la maggiore durata della prova è giustificata dalla natura del lavoro o nell’interesse del lavoratore (art. 8, par. 3). Tra gli esempi riportati al considerando n. 28, figurano le posizioni dirigenziali, esecutive o nella pubblica amministrazione. Trattandosi di deroghe, deve esserne fornita un’interpretazione restrittiva (non pare, in particolare, giustificata l’applicazione della deroga a tutto il pubblico impiego). Del pari, è contestabile che sia indicata la possibilità di estendere il periodo probatorio nel caso di lavoratori giovani, per promuoverne l’occupazione a tempo indeterminato. Viene, così, sposata la tesi sostenuta dalla Corte di giustizia nel caso Abercrombie & Fitch Italia[77], secondo cui la lotta alla disoccupazione giovanile giustificherebbe, a priori, qualsiasi misura di contrazione delle tutele per tali lavoratori. Di tenore opposto sono state le argomentazioni dei Comitati dell’Organizzazione internazionale del lavoro e del Ceds, sul contrat de première embauche[78]. Analogamente, i tribunali spagnoli, dando diretta applicazione alla Carta sociale europea, hanno disapplicato la disposizione che consente un periodo di prova fino a un anno[79].
In caso di lavoro a termine, il periodo di prova dev’essere riproporzionato; non è possibile, inoltre, prevedere un nuovo periodo di prova in caso di rinnovo del contratto a termine per le stesse mansioni (art. 8, par. 2). Non è invece prevista alcuna regola antielusiva in caso di successione di appalti, di lavoratore precedentemente somministrato o di gruppo di imprese.
La nuova direttiva non consente al datore di lavoro di vietare al lavoratore lo svolgimento di altre attività lavorative, salvo che sussistano ragioni obiettive connesse, ad esempio, a esigenze di tutela della sicurezza e della salute, di riservatezza, di integrità del servizio pubblico o di prevenzione di conflitti di interesse (art. 9, par. 2).
Come già ricordato, la direttiva dispone che, qualora l’orario di lavoro non sia predeterminato, il datore può imporre al lavoratore di svolgere la prestazione lavorativa richiesta solo se: a) sia previsto il periodo del giorno o della settimana in cui al lavoratore può essere richiesto di lavorare (la direttiva non prevede, però, una durata massima del periodo di disponibilità); b) al lavoratore sia dato un preavviso ragionevole la cui durata può variare «in funzione delle esigenze del settore interessato» (cons. n. 32). Se tali condizioni non sono soddisfatte, il lavoratore ha il diritto di rifiutare la chiamata, senza subire conseguenze negative (art. 10, parr. 1 e 2).
Come detto, la disposizione si applica solo nei casi in cui vi è l’obbligo, per il lavoratore, di rispondere alla chiamata del datore di lavoro. Non dovrebbe dunque riguardare il lavoro tramite piattaforme in cui, di regola, il lavoratore può decidere di connettersi o meno e, una volta connesso, di svolgere o meno la prestazione richiesta. In tali casi, non essendo previsto alcun obbligo di risposta alla chiamata, il lavoratore non dovrebbe subire alcuna conseguenza negativa per il suo rifiuto di svolgere la prestazione richiesta. A tal fine, è essenziale che i criteri mediante cui è data ai lavoratori la possibilità di scegliere i turni di lavoro e sono assegnate le richieste pervenute alla piattaforma siano noti ai lavoratori.
L’art. 10, par. 3, della direttiva impone altresì agli Stati di assicurare al lavoratore una compensazione nel caso in cui il datore di lavoro, dopo che il lavoratore ha accettato di svolgere un’attività richiesta, revochi tale incarico oltre un termine ragionevole (che la direttiva non fissa). La direttiva riconosce, così, al datore di lavoro un potere di variazione della durata dell’orario di lavoro concordato con il lavoratore che non ha riscontro nel nostro ordinamento.
Per evitare l’abuso di contratti di lavoro a chiamata o di altri contratti in cui il datore di lavoro ha il potere di chiamare il lavoratore in funzione delle proprie necessità (cons. n. 33), gli Stati membri devono prevedere una o più delle seguenti misure (art. 11): limitazioni all’uso e alla durata di tali contratti; la presunzione relativa di esistenza di un contratto di lavoro con un numero minimo di ore retribuite (sulla base delle ore lavorate a chiamata); misure equivalenti che assicurino l’effettiva prevenzione di prassi abusive. La disposizione pare particolarmente rilevante nel caso di lavoro tramite piattaforma. Nel nostro ordinamento esistono, infatti, limiti all’uso del solo contratto di lavoro a chiamata di cui agli artt. 13 ss. del d.lgs n. 81/2015. Come detto, la direttiva ha un ambito di applicazione più esteso, riguardando tutti i rapporti di lavoro in cui il datore di lavoro ha il potere di chiamare il lavoratore in funzione delle proprie necessità, ivi incluso il lavoro eterorganizzato.
La direttiva prevede il diritto di chiedere un lavoro a tempo indeterminato, ma solo per chi abbia già lavorato sei mesi per lo stesso datore (art. 12, par. 1); nel calcolo di tale periodo, non sono espressamente ricompresi i periodi di lavoro a favore di altri datori di lavoro del gruppo, il precedente impiego in somministrazione o il caso della successione di appalti. La disposizione non pare particolarmente incisiva, dato che al datore di lavoro è richiesto solamente di rispondere per iscritto e motivare il rifiuto. Il considerando n. 36 precisa poi che gli Stati membri possono escludere il pubblico impiego dall’ambito di applicazione del diritto di chiedere una forma di lavoro con condizioni più prevedibili e sicure.
La direttiva prevede, infine, che la formazione sia fornita gratuitamente, possibilmente durante l’orario di lavoro, e sia comunque considerata come orario di lavoro. Non viene tuttavia introdotto alcun obbligo di formazione per il datore di lavoro (art. 13).
9. Le misure a garanzia dei diritti
Nell’ultima parte, la direttiva contiene una serie di disposizioni dirette ad assicurare un’efficace tutela dei diritti garantiti dalla stessa. In caso di violazione dell’obbligo di informazione, gli Stati membri devono prevedere almeno uno dei seguenti rimedi (art. 15): la possibilità, per il lavoratore, di sporgere denuncia a un’autorità competente e di ricevere tempestivamente un rimedio adeguato, o una presunzione “relativa” a favore del lavoratore che può «comprendere la presunzione che il lavoratore ha un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, che non vi è un periodo di prova o che il lavoratore ha una posizione a tempo pieno, laddove le pertinenti informazioni siano mancanti» (cons. n. 39). Gli Stati possono, tuttavia, subordinare la presunzione al fatto che al datore di lavoro sia stato notificato l’inadempimento e non abbia tempestivamente fornito le informazioni mancanti.
Gli Stati devono altresì introdurre misure dirette a tutelare i lavoratori e i loro rappresentanti sindacali, che hanno denunciato la violazione dei diritti garantiti dalla direttiva, da ogni conseguenza sfavorevole (art. 17). In particolare, in tali casi sono vietati il licenziamento o altra misura equivalente (ad esempio, il fatto che un lavoratore intermittente non riceva più chiamate: cons. n. 43).
Non si comprende, poi, la regola secondo cui i lavoratori che ritengono di essere stati licenziati per il fatto di aver esercitato i diritti di cui alla direttiva «possono chiedere al datore di lavoro di fornire i motivi debitamente giustificati del licenziamento equivalente» (art. 18, par. 2). L’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue prevede infatti che il licenziamento debba sempre essere giustificato. Per gli stessi motivi, in caso di licenziamento, non pare rilevante la parziale inversione dell’onere della prova di cui all’art. 18, par. 3: dovrebbe sempre spettare al datore di lavoro la prova dei motivi che giustificano il licenziamento.
[*] Il saggio è frutto della comune riflessione dei due Autori, ma la materiale stesura dello stesso è da imputare a Giovanni Orlandini, quanto ai paragrafi 2, 3 e 4, e a Silvia Borelli, quanto ai paragrafi 5, 6, 7, 8 e 9.
[1] Come evidenziato dal Comitato economico e sociale europeo (Cese), il «Pilastro europeo dei diritti sociali» è «una dichiarazione politica di intenti e che, di per sé, non crea nuovi diritti giuridici applicabili» (vds. Impatto della dimensione sociale e del pilastro europeo dei diritti sociali sul futuro dell’Unione europea, SOC/564, 19 ottobre 2017, par. 1.3).
[2] «Proclamazione interistituzionale sul Pilastro europeo dei diritti sociali», punto n. 12 del Preambolo (http://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-13129-2017-INIT/it/pdf).
[3] Tra i tanti, vds. G. Bronzini (a cura di), Verso un pilastro sociale europeo, Key, Milano, 2018; S. Garben - C. Kilpatrick - E. Muir, Towards a European Pillar of Social Rights: upgrading the EU social acquis, in College of Europe Policy Brief, n. 1/2017; S. Giubboni, Appunti e disappunti sul pilastro europeo dei diritti sociali, in Quad. cost., n. 4/2017, pp. 953 ss.; Z. Rasnača, Bridging the gaps or falling short? The European Pillar of Social Rights and what it can bring to EU-level policymaking, European Trade Union Institute, Bruxelles, working paper n. 5, 2017; S. Sabato - F. Corti - B. Vanhercke - S. Spasova, Integrating the European Pillar of Social Rights into the roadmap for deepening Europe’s Economic and Monetary Union, studio effettuato per conto del Cese, Bruxelles, 2019.
[4] Il Cese ha evidenziato che «sono passati tre annida quando il Presidente Juncker ha affermato per la prima volta che intendeva ottenere una “tripla A sociale” per l’Unione europea (22.10.2014, Parlamento europeo). La Commissione Juncker ha lanciato con un certo ritardo le proprie iniziative e ha avuto bisogno di parecchio tempo per svolgere le consultazioni sul pilastro (un anno). Altro tempo è trascorso con l’avvio del dibattito sul futuro dell’Europa, senza però che la Commissione avanzasse la minima raccomandazione concreta su come procedere. Nel 2019 si terranno le elezioni al Parlamento europeo e verrà insediata anche una nuova Commissione europea. Secondo l’opinione di molti, questo paradosso temporale – per cui, da un lato, si lascia esaurire il tempo a disposizione per stabilizzare l’UEM e il modello sociale europeo/i modelli sociali europei prima della scadenza del 2019 e, dall’altro, si cerca di guadagnare tempo prima delle importanti consultazioni elettorali che si svolgeranno nell’autunno del 2017 – impedisce purtroppo all’UE di rimettersi in carreggiata e proseguire il cammino».
[5] A parere del Segretariato generale del Consiglio d’Europa (vds. la «opinion on the European Union initiative to establish a European Pillar of Social Rights» del 2 dicembre 2016), il pilastro europeo dei diritti sociali non rafforza la «consistency and synergy between European Union law and the European Social Charter treaty system». In particolare, il segretario generale chiedeva di inserire formalmente le previsioni della Carta sociale europea all’interno del pilastro e di riconoscere il ruolo svolto dalla procedura di reclamo collettivo «for the contribution it has made to the effective realisation of the rights established in the Charter and to the strengthening of inclusive and participatory democracies».
[6] Proposta di direttiva relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza – COM(2017)253 – che, dopo un iter legislativo non troppo tormentato, è stata approvata, in via definitiva, dal Parlamento e dal Consiglio nell’aprile 2019 (direttiva 2019/1158, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza).
[7] Documento di consultazione della Commissione europea del 26 aprile 2017, prima fase di consultazione delle parti sociali in base all’art. 154 Tfue sulla possibile revisione della direttiva 91/533 – C(2017)2611 –, su cui vds. infra.
[8] Documento di consultazione della Commissione europea del 26 aprile 2017, prima fase di consultazione delle parti sociali in base all’art. 154 Tfue su una possibile azione relativa alle sfide all’accesso alla protezione sociale per le persone in ogni forma di impiego – C(2017)2610. La risoluzione sull’accesso alla protezione sociale per i lavoratori subordinati e autonomi è stata definitivamente approvata dal Consiglio il 15 ottobre 2019.
[9] A.H. Van Hoek, Re-Embedding the Transnational Employment Relationship: A Tale About the Limitation of (EU) Law?, in Common Market Law Review, n. 2/2018, pp. 449 ss. (mutuando da John Gerard Ruggie la celebre nozione di “embedded liberalism”) descrive efficacemente l’attivismo del legislatore europeo, concretizzatosi nell’adozione della direttiva 2018/957, come «a new wave of re-embedding, this time at European level as well» (ivi, p. 472), che segue alla stagione del dis-embedding, caratterizzante il processo d’integrazione del mercato interno dagli anni novanta fino al sopravvenire della crisi.
[10] La proposta di direttiva recante modifica della direttiva 96/71/CE è stata adottata dalla Commissione europea l’8 marzo 2016 – COM(2016)128 finale.
[11] Per un’analisi delle complesse interrelazioni tra la direttiva sul distacco e le fonti internazional-privatistiche, vds. A.H. Van Hoek e M. Houwerzijl, Where Do EU Mobile Workers Belong, According to Rome I and the (E)PWD?, in H. Verschueren (a cura di), Residence, Employment and Social Rights of Mobile Persons: on How EU Law Defines where They Belong, Intersentia, Cambridge, 2016, pp. 215 ss.
[12] Per contrastare l’adozione della proposta di revisione della direttiva 96/71, undici Stati membri (tra i quali la maggior parte dei Paesi dell’est) hanno attivato la procedura prevista dal Protocollo (n. 2) sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità annesso ai Trattati (cd. “yellow card procedure”); il che ha rallentato l’iter di adozione della direttiva 2018/957, ma non l’ha bloccato per la ferma intenzione della Commissione (e degli altri Stati membri) di concluderlo positivamente.
[13] L’art. 3, par. 1, della direttiva 96/71 elenca le materie rispetto alle quali ai lavoratori distaccati vanno applicate le norme inderogabili di tutela lavoristica vigenti nello Stato ospitante: oltre alla retribuzione (comprese le tariffe maggiorate per lavoro straordinario ed esclusi i trattamenti pensionistici integrativi), periodi massimi di lavoro e periodi minimi di riposo; durata minima dei congedi annuali retribuiti; condizioni di fornitura dei lavoratori, in particolare la fornitura di lavoratori da parte di imprese di lavoro temporaneo; sicurezza, salute e igiene sul lavoro; provvedimenti di tutela riguardo alle condizioni di lavoro e di occupazione di gestanti o puerpere, bambini e giovani; parità di trattamento fra uomo e donna, nonché altre disposizioni in materia di non discriminazione. A queste materie, già presenti nella versione originaria della direttiva 96/71, la direttiva 2018/957 ha aggiunto le condizioni di alloggio dei lavoratori qualora questo sia fornito dal datore di lavoro ai lavoratori lontani dal loro abituale luogo di lavoro e le indennità o rimborso a copertura delle spese di viaggio, vitto e alloggio per i lavoratori lontani da casa per motivi professionali (vds. infra nel testo).
[14] Il principio della “parità di salario a parità di lavoro” (oltre a essere evocato nel considerando n. 6 della direttiva 2018/957) è espressamente assunto come finalità della riforma dalla Commissione europea nell’Explanatory memorandum alla proposta di revisione della direttiva 96/71 – COM(2016) 128, 2.
[15] Cgue, 12 febbraio 2015, C-396/13, Sähköalojen ammattiliitto.
[16] La direttiva 2018/957 (riformando l’art. 5 della direttiva 96/71) rafforza peraltro il diritto dei lavoratori distaccati ad agire davanti alle autorità giudiziarie o amministrative dello Stato ospitante in caso di violazione degli obblighi gravanti sui loro datori; l’art. 11, par. 3, della precedente direttiva (cd. enforcement) n. 2014/67 impone altresì agli Stati di permettere alle organizzazioni sindacali di agire «per conto o a sostegno» del lavoratore (disposizione, questa, non recepita dal legislatore italiano nel d.lgs n. 136/2016, di attuazione della direttiva del 2014).
[17] La versione originaria della direttiva 96/71 lasciava liberi gli Stati di estendere o meno gli standard fissati dai contratti collettivi per tutelare lavoratori impiegati in attività diverse da quelle elencate nell’allegato alla direttiva stessa (nei fatti, appunto, il settore edilizio) – art. 3, par. 10, secondo alinea.
[18] A.H. Van Hoeck, Re-Embedding, op. cit., p. 483.
[19] Vds. supra, nota 6.
[20] Per un’analisi critica delle politiche salariali promosse dall’Ue, vds. (tra i tanti) i contributi in G. Van Gyes e T. Schulte (a cura di), Wage Bargaining under the New European Economic Governance. Alternative Strategies for Inclusive Growth, European Trade Union Institute, Bruxelles, 2015.
[21] L’art. 3, par. 8, della direttiva 96/71 prevede che «in mancanza, o a complemento, di un sistema di dichiarazione di applicazione generale di contratti collettivi», gli Stati possano avvalersi «dei contratti collettivi o degli arbitrati che sono in genere applicabili a tutte le imprese simili nell’ambito di applicazione territoriale e nella categoria professionale o industriale interessate e/o dei contratti collettivi conclusi dalle organizzazioni delle parti sociali più rappresentative sul piano nazionale e che sono applicati in tutto il territorio nazionale», purché (appunto) sia garantita la parità di trattamento tra le imprese straniere e le imprese nazionali «che si trovano in una situazione analoga».
[22] Sulla complessa (e irrisolta) questione dell’identificazione del salario da applicare ai lavoratori distaccati in Italia è tornato a più riprese l’Inl, prima con la circolare del 9 gennaio 2017, n. 1, quindi con le «Linee guida per l’attività ispettiva in materia di distacco transnazionale» dell’1 agosto 2019, richiamando gli «importi che assicurano il rispetto dei principi costituzionali di sufficienza e proporzionalità della retribuzione» (in dottrina, problematicamente, M. Pallini, Gli appalti transnazionali: la disciplina italiana al vaglio di conformità con il diritto europeo, in Riv. giur. lav., n. 3/2017, parte I, pp. 485 ss).
[23] In merito, diffusamente, A. Sgroi, Profili previdenziali del distacco nell’Unione europea, in Arg. dir. lav., n. 2/2019, pp. 67 ss.
[24] Proprio in ragione della permanente convenienza del ricorso al distacco transnazionale, resta fondamentale l’azione di contrasto agli abusi e ai comportamenti fraudolenti operati dalle imprese attraverso l’utilizzo di distacchi fittizi o di false imprese (cd. letter box companies) in Paesi con basso costo del lavoro; su questo profilo della regolazione del distacco nazionale incidono le disposizioni della direttiva “enforcement” 2014/67, cui rinvia la stessa direttiva 2018/957 riformando l’art. 5 della direttiva 96/71 relativo agli obblighi di monitoraggio, controllo e esecuzione gravanti sugli Stati. Un ruolo di decisiva importanza nel rafforzare l’attività ispettiva di contrasto ai distacchi fraudolenti (anche grazie alla cooperazione tra organismi ispettivi nazionali) dovrebbe svolgere la neonata Autorità europea del lavoro (European Labour Authority), istituita con il regolamento (UE) 2019/1149 del 20 giugno 2019 (per un’analisi critica della proposta, vds. S. Giubboni, The New European Labour Authority and Social Security Coordination. Some Preliminary Remarks, in Riv. dir. sic. soc., n. 3/2018, pp. 521 ss.).
[25] Cgce, 18 dicembre 2007, C-341/05, Laval un Partneri Ltd c. Svenska Byggnadsarbetareförbundet e altri; per una sintesi dello sterminato dibattito dottrinale cui la sentenza ha dato origine, vds. C. Barnard, The calm after the storm: Time to reflect on EU (labour) law scholarship following the decision in Viking and Laval, in A. Bogg - C. Costello - A.C.L. Davies (a cura di), Research Handbook on EU Labour Law, Edward Elgar, Cheltenham (UK), 2016, pp. 337 ss.
[26] Applicando direttamente l’art. 56 Tfue (ex 49 Tce) al caso di specie, la Corte di giustizia ha ritenuto non giustificabile l’imposizione a un’impresa stabilita in un altro Stato membro di una trattativa salariale «che si inserisca in un contesto nazionale caratterizzato dall’assenza di disposizioni, di qualsivoglia natura, sufficientemente precise e accessibili da non rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile la determinazione, da parte di tale impresa, degli obblighi cui dovrebbe conformarsi in materia di minimi salariali» (Cgce, C-341/05, punto 110).
[27] Ai sensi del “nuovo” par. 1-bis dell’art. 3 della direttiva 96/71, anche se la durata del distacco supera i dodici mesi, la parità di trattamento con i lavoratori nazionali resta esclusa in relazione alle «procedure, formalità e condizioni per la conclusione e la cessazione del contratto di lavoro, comprese le clausole di non concorrenza» nonché ai «regimi pensionistici integrativi di categoria».
[28] Sul test di proporzionalità come criterio-guida per contemperare interessi e obiettivi di politica nazionale con i principi (sovranazionali) che sovrintendono all’integrazione del mercato, vds. assai efficacemente P. Syrpis e T. Novitz, The EU Internal Market and Domestic Labour Law: Looking Beyond Autonomy, in A. Bogg - C. Costello - A.C.L. Davies - J. Prassl (a cura di), The Autonomy of Labour Law, Hart, Oxford, 2015, pp. 291 ss.
[29] La nozione di «ordine pubblico» di cui all’art. 3, par. 10 (in quanto deroga alla libera prestazione dei servizi), è stata dalla Corte di giustizia interpretata in maniera fortemente restrittiva nella celebre sentenza 19 giugno 2008, C-319/06, Commissione c. Granducato di Lussemburgo (che completa, ultima in ordine di tempo, il cd. “Laval quartet”).
[30] La fattispecie del distacco transnazionale, nelle tre ipotesi elencate dall’art. 1 della direttiva 96/71 (appalto transnazionale, distacco infra-gruppo e somministrazione tramite agenzia), presuppone sempre l’esistenza di un rapporto di lavoro tra impresa distaccante e lavoratore distaccato (sul punto, A. Allamprese - S. Borelli - G. Orlandini, La nuova direttiva sul distacco transnazionale. Problemi di diritto sociale europeo e internazionale, in Riv. giur. lav., n. 1/2019, p. 141).
[31] Va però segnalato che, per contrastare l’utilizzo fraudolento di tale forma di distacco, il punto 4 della decisione A2 prevede che, nel caso di distacco “a catena”, si applichi il regime di sicurezza sociale del Paese ove viene svolta la prestazione lavorativa.
[32] Una disposizione nazionale che vieti di operare distacchi a catena potrebbe considerarsi «norma di applicazione necessaria» ai sensi dell’art. 9 del regolamento 593/08, in quanto tale prevalente sull’eventuale legislazione applicabile al rapporto di lavoro.
[33] Analogamente, la Corte di giustizia si è costantemente espressa nei confronti di leggi nazionali che subordinano il distacco a procedure di autorizzazione, impedendo l’ingresso dei lavoratori in uno Stato membro (tra le altre, Cgue 7 ottobre 2010, C-515/08, Santos Palhota).
[34] Così, S. Giubboni e G. Orlandini, Mobilità del lavoro e dumping sociale in Europa, oggi, in Dir. lav. rel. ind., n. 4/2018, p. 929.
[35] Vds. Aa. Vv., Refit study to support evaluation of the written statement directive (91/533/EC). Final report, pubblicato a cura della Direzione generale occupazione, affari sociali e inclusione della Commissione Europea, Bruxelles, marzo 2016.
[36] In particolare, la direttiva «non dovrebbe essere utilizzata come motivo per introdurre contratti di lavoro a zero ore o di tipo simile» (cons. n. 47). Come osservato da N. Countouris, EU law and the regulation of ‘atypical’ work, in A. Bogg - C. Costello - A.C.L. Davies (a cura di), Research Handbook, op. cit., p. 266, «in order to be true the commitment that ‘employment contract of an indefinite duration are the general form of employment relationship’, Member States and national social partners must be allowed, where not encouraged, to reintroduce or at least maintain in place some of those restrictions to non-standard work that are currently being dismissed, partly under the auspices of EU law and policy action».
[37] È il caso, ad esempio, dei contratti a zero ore o del lavoro a chiamata (cons. n. 12).
[38] Cgce, 13 gennaio 2004, C-256/01, Allonby, par. 71.
[39] Sui diritti sindacali dei lavoratori autonomi, vds. L. Fulton, Trade unions protecting self-employed workers, European Trade Union Confederation (ETUC), Bruxelles, 2018, e più in generale N. Countouris e V. De Stefano, New trade union strategies for new forms of employment, ETUC, Bruxelles, 2019.
[40] Il regolamento si applica a utenti commerciali stabiliti nell’Unione, che offrono i loro servizi a consumatori situati nell’Unione almeno per parte della transazione (cons. n. 9 e art. 1, par. 2).
[41] «Il fatto che i termini e le condizioni siano o meno stati stabiliti unilateralmente dovrebbe essere determinato caso per caso in base a una valutazione complessiva» (cons. n. 14).
[42] Si considera servizio della società dell’informazione «qualsiasi servizio prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi» (art. 1, lett. b, dir. 2015/1535).
[43] Cgue, 20 dicembre 2017, C-434/15, Uber Systems Spain, par. 40.
[44] Sul tema vds. A. Supiot, Qui garde les gardiens ? La guerre du dernier mot en droit social européen, in Semaine sociale Lamy, supplemento n. 1746/2016, pp. 7 ss.; B. Veneziani, Del contenuto essenziale dei diritti dei lavoratori: spunti per una ricerca, in Dir. lav. mer., n. 2/2016, pp. 240 ss.; S. Sciarra, Rule of Law and Mutual Trust: a Short Note on Constitutional Courts as “Institutions of Pluralism”, in Dir. Unione eur., n. 3/2018, pp. 431 ss.; F. Valdés Dal-Ré, El constitucionalismo laboral europeo y la protección multinivel de los derechos laborales fundamentales: luces y sombras, Bomarzo, Albacete (ES), 2016.
[45] Cgue, 4 dicembre 2014, C-413/13, FNV Kunsten.
[46] Ceds, reclamo collettivo n. 123/2016, par. 38.
[47] Sul punto, vds. diffusamente S. Borelli, Parlons des droits syndicaux des travailleurs tout court. Réflexions transversales à partir de la situation des travailleurs des plateformes, in D. Dumont - A. Lamine - J.B. Maisin (a cura di), Le droit de négociation collective des travailleurs indépendants, Larcier, Bruxelles, data di pubblicazione prevista: ottobre 2020.
[48] Cgue, 4 dicembre 2014, C-413/13, FNV Kunsten, par. 33.
[49] Conclusioni del 28 gennaio 1999, C-67/96, Albany, par. 181.
[50] Cgue, 26 maggio 2015, C-316/13, Fenoll, par. 29; 10 settembre 2015, C-47/14, Holterman Ferho Exploitatie, par. 46; 20 novembre 2018, C-147/17, Sindicatul Familia Constanţa, parr. 41 e 42.
[51] Cgue, 11 aprile 2019, C-603/17, Bosworth e Hurley, parr. 29 ss.
[52] Cgce, Shenavai, 266/85, par. 16; Cgue 10 settembre 2015, C-47/14, Holterman Ferho Exploitatie, par. 39. Sulla nozione di lavoratore nel diritto Ue, vds. M. Risak e T. Dullinger, The concept of ‘worker’ in EU law, European Trade Union Institute, Bruxelles, report n. 140, 2018; C. O’Brien - E. Spaventa - J. De Coninck, Comparative Report 2015. The concept of worker under Article 45 TFEU and certain non-standard forms of employment, FreSsco («Free movement of workers and Social security coordination»), Bruxelles, 2016; E. Menegatti, The Evolving Concept of “worker” in EU law, in Italian labour law e-journal, vol. 12, n. 1/2019, pp. 71 ss.; J. Unterschütz, The concept of the ‘Employment Relation’, in F. Dorssemont - K. Lörcher - S. Clauwaert - M. Schmitt (a cura di), The Charter of fundamental rights of the European Union and the employment relation, Hart, Oxford, 2019, p. 91.
[53] Cgce, 13 gennaio 2004, C-256/01, Allonby, par. 72. Sul punto, vds. N. Countouris, Uses and Misues of ‘Mutuality of Obligations’ and the Autonomy of Labour Law, inA. Bogg - C. Costello - A.C.L. Davies - J. Prassl (a cura di), The Autonomy of Labour Law, Hart, Oxford, 2015. Sull’irrilevanza della facoltà di accettare o meno l’offerta di lavoro ai fini della qualificazione del rapporto nel nostro ordinamento, vds. R. Riverso, Cambiare si può. Nuovi diritti per i collaboratori, in questa Rivista online, 15 novembre 2019, www.questionegiustizia.it/articolo/cambiare-si-puo-nuovi-diritti-per-i-collaboratori_15-11-2019.php.
[54] Come osservato da M. Novella (Il rider non è lavoratore subordinato, ma è tutelato come se lo fosse, in Labour & Law Issues, n. 1/2019, p. 94), «grazie alla piattaforma informatica, al suo algoritmo di funzionamento, e alla possibilità di sollecitare la disponibilità al lavoro della “folla” in tempo reale, il lavoro dei riders può dirsi organizzabile (e inseribile funzionalmente in un’organizzazione altrui) anche a prescindere dall’assunzione di un vincolo di disponibilità».
[55] Conclusioni dell’11 maggio 2017, C-434/15, par. 52.
[56] Cgue, 20 dicembre 2017, C-434/15, par. 39. Già nel 1987, B. Veneziani (New Technologies and the Contract of Employment, in K.W. Wedderburn, B. Veneziani, S. Ghimpu (a cura di), Diritto del lavoro in Europa, Franco Angeli, Milano, 1987, p. 118) osservava che le nuove tecnologie non eliminavano il potere del datore di lavoro di decidere «how and where the worker can fit in with the structural organisation of the firm».
[57] Occorre, tuttavia, evitare di cadere nella tentazione di utilizzare il diritto Ue per risolvere problemi sistematici relativi all’ordinamento interno. Il diritto Ue è infatti un diritto «a isole» (cfr. T. Treu, Politiche del lavoro, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 90), regola cioè solo alcune materie e può darci indicazioni solo su chi sia lavoratore in tali ambiti.
[58] Tale disciplina è stata modificata dal dl n. 101/2019, convertito con modifiche dalla l. n. 128/2019. Sul punto, vds. F. Bassetti, Arrivano le nuove regole per i “riders”: qualche passo avanti tra molte incertezze, in Diritti & lavoro flash, n. 7/2019, p. 3; F.S. Giordano, Le nuove tutele per i lavoratori della gig economy, in Treccani magazine, 13 novembre 2019 (www.treccani.it/magazine/diritto/approfondimenti/diritto_del_lavoro/Le_nuove_tutele_per_i_lavoratori_della_gig_economy.html); S. Giubboni, I riders e la legge, in Etica ed economia, Menabò n. 114/2019 (www.eticaeconomia.it/i-riders-e-la-legge/); R. Riverso, Cambiare si può, op. cit.
[59] Vds. S. Deakin, In Search of the EU’s Social Constitution: Using the Charter to Recalibrate Social and Economic Rights, in F. Dorssemont - K. Lörcher - S. Clauwaert - M. Schmitt (a cura di), The Charter, op. cit., 2019, p. 65.
[60] Le disposizioni di cui al Capo V-bis («Tutela del lavoro tramite piattaforme digitali») di cui al d.lgs n. 81/2015 sono state introdotte con dl n. 101/2019, convertito con modifiche dalla l. n. 128/2019.
[61] S. Borelli - A. Guariso - L. Lazzeroni, Le discriminazioni nel rapporto di lavoro, in M. Barbera e A. Guariso (a cura di), La tutela antidiscriminatoria. Norme, strumenti, interpreti, Giappichelli, Torino, in corso di pubblicazione.
[62] Analogamente F. Bassetti, Arrivano le nuove regole per i “riders”, op. cit., p. 6.
[63] In tale prospettiva, deve ritenersi compatibile con il diritto Ue il divieto di conseguenze negative per la mancata accettazione della prestazione richiesta.
[64] Sull’ambito di applicazione delle Convenzioni Oil, vds. X. Beaudonnet, Les normes de l’OIT et le droit de négociation collective des travailleurs considérés comme indépendants, in D. Dumont - A. Lamine - J.B. Maisin (a cura di), Le droit de négociation, op. cit. (data di pubblicazione prevista : ottobre 2020).
[65] Sulla dottrina dei controlimiti, vds. da ultimo R. Bin, Chi è il giudice dei diritti? Il modello costituzionale e alcune deviazioni, in Rivista AIC, n. 4/2018, pp. 633 ss. (www.rivistaaic.it/it/rivista/ultimi-contributi-pubblicati/roberto-bin/chi-e-il-giudice-dei-diritti-il-modello-costituzionale-e-alcune-deviazioni) e, in generale, A. Bernardi (a cura di), I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali, Jovene, Napoli, 2017.
[66] T. Tridimas, Knocking on Heaven’s Door: Fragmentation, Efficiency and Defiance in the Preliminary Reference Procedure, in Common Market Law Review, vol. 40,2003, pp. 9 ss., ha chiamato questo tipo di rinvio pregiudiziale «Protest through co-operation» (ivi, sub-par. 7.1, pp. 39-41).
[67] T. Teklè, Labour Rights and the Case Law of the European Court of Justice: What Role for International Labour Standards?, in European Labour Law Journal, vol. 9, n. 3/2018, pp. 236 ss.
[68] Cgce, 3 luglio 1986, C-66/85, Lawrie-Blum, parr. 16 e 17; 23 marzo 2004, C-138/02, Collins, par. 26; 7 settembre 2004, C-456/02, Trojani, par. 15; 20 settembre 2007, C‑116/06, Kiiski, par. 25; Cgue, 14 ottobre 2010, C-428/09, Union syndicale solidaires Isère, par. 28; 3 maggio 2012, C-337/10, Neidel, par. 23; 4 dicembre 2014, C-413/13, FNV Kunsten, par. 34; 1 ottobre 2015, C-432/14, O, par. 22; 11 aprile 2019, C-603/17, Bosworth e Hurley, par. 25. Questa definizione era stata inserita nella proposta di direttiva della Commissione – COM(2017)797 –, in cui si affermava anche che datore di lavoro è «una o più persone fisiche o giuridiche che sono direttamente o indirettamente parte di un rapporto di lavoro con un lavoratore». Nel corso dell’iter parlamentare, tali definizioni sono state cancellate.
[69] Conclusioni dell’avvocato generale del 26 novembre 2019, C-610/18, AFMB, par. 40.
[70] Ibid. A parere dell’avvocato generale, anche se la società che aveva assunto i lavoratori non poteva essere considerata una «società di comodo», essa non può essere ritenuta un «datore di lavoro reale» (par. 60).
[71] Sul punto, vds. anche le conclusioni dell’avvocato generale del 27 aprile 2017, C-168/16 e C-169/16, Nogueira.
[72] Con questo termine si indica l’insieme dei contratti mediante cui è possibile esternalizzare tutto o parte del ciclo produttivo.
[73] C. Alessi e S. Borelli, Segmentazione del mercato del lavoro e discriminazioni, in M. Barbera e A. Guariso (a cura di), La tutela antidiscriminatoria, op. cit., pp. 271 ss.
[74] F. De Wispelaere e J. Pacolet, Posting of workers. Report on A1 Portable Documents issued in 2016, Commissione europea, Bruxelles, dicembre 2017, p. 10.
[75] Va osservato che, attualmente, non sono disponibili dati relativi alla durata complessiva dei distacchi di un lavoratore nello stesso Paese.
[76] Vds. A. Allamprese, L’effectivité de la lutte contre le travail non déclaré, in M. Morsa - A. Allamprese - S. Borelli (a cura di), L’autorité européenne du travail, Bruylant, Bruxelles, data di pubblicazione prevista: marzo 2020.
[77] Cgue, 19 luglio 2017, C-143/16.
[78] Sul punto, vds. T. Teklè, Utilisation des normes de l’OIT par les juridictions nationales: comment et pourquoi?, in Le Droit ouvrier, n. 840, luglio 2018, pp. 418 ss.
[79] Sul punto vds. C. Salcedo Beltrán, La aplicabilidad directa de la Carta Social Europea por los órganos judiciales, in Trabayo y derecho, n. 13/2016, pp. 27 ss.