Il pubblico ministero davanti agli infortuni sul lavoro
Il tema dell’organizzazione ha assunto, negli ultimi anni, sempre maggiore rilevanza anche per l’ordine giudiziario. Una corretta declinazione può avere importanti ricadute positive sulle indagini in materia di infortuni sul lavoro e prevenzione degli stessi e sul dibattimento penale, sia rendendo più spedito il lavoro degli inquirenti, sia assicurando una maggiore qualità del risultato delle indagini e, quindi, della loro "tenuta" dibattimentale, con maggiore e più incisiva tutela dei diritti dei lavoratori.
1. Premessa
Il percorso che conduce alla pronuncia giurisdizionale in materia di infortuni e malattie professionali è lungo e accidentato. Non si tratta solo della complessità propria di ogni procedimento penale, ma di una complessità intrinseca, dovuta a fattori molteplici: orientamenti culturali, risorse effettivamente utilizzabili sia dalla polizia giudiziaria che dal pubblico ministero e dal giudice, delicatezza degli accertamenti anche dal punto di vista del fatto. Vi è poi una peculiarità, non assoluta, ma legata ai soggetti sottoposti a indagini, cioè la presenza di una difesa tecnica molto agguerrita, estremamente competente e spesso con risorse decisamente sopra la media.
Questo breve scritto intende proporre alcune riflessioni sull’organizzazione del lavoro del pubblico ministero nell’accertamento di questi reati. Sono anche stati raccolti, mediante un questionario fatto pervenire a uffici di procura di differente grandezza e localizzazione[1], alcuni dati riguardanti protocolli di indagine, organizzazione e regolamentazione delle stesse, prassi concordate per la fase dibattimentale: con la finalità, più che di ottenere un campione rappresentativo, di raccogliere stimoli per la riflessione che qui viene proposta.
2. L’organizzazione della procura: settori, gruppi di lavoro, magistrati specializzati
Dopo l’istituzione del giudice unico di primo grado, quasi tutte le procure della Repubblica hanno previsto, al loro interno, gruppi di lavoro specializzati nelle indagini per determinati reati. Il fenomeno ha riguardato non solo gli uffici più grandi, ma anche quelli medi e persino piccoli.
Indipendentemente dalle ragioni soggettive che hanno spinto tanti procuratori a regolamentare, con accenti diversi, la materia, prevedendo una più o meno pronunciata specializzazione, questa scelta deve essere valutata in ogni caso positivamente.
Se è acquisito che la specializzazione sia un valore aggiunto, quella in una materia così delicata (per gli interessi che tutela e coinvolge, per le ricadute immediate e di lungo termine su beni primari e sull’organizzazione del lavoro) vale, se possibile, ancora di più.
A questo proposito, tutti gli uffici interpellati prevedono, nei criteri di organizzazione, che i reati che ci riguardano siano trattati da un gruppo (negli uffici più piccoli, anche da un singolo sostituto), il quale normalmente ha competenza più ampia e comprende materie analoghe collegate (danno alla persona, tutela del consumatore e altro).
La scelta è sicuramente da condividere, essendo evidenti i benefici che si ricavano dalla stessa: rapidità nel cogliere le questioni rilevanti, speditezza nella valutazione e definizione del fascicolo, possibilità di un confronto con un numero di casi superiore e, quindi, acquisizione di esperienza in tempi rapidi, anche per i sostituti che non si siano mai occupati della materia.
3. I protocolli che disciplinano la materia degli infortuni
3.1. I protocolli di indagine
Strettamente collegata con il tema “specializzazione” è l’istituzione di un protocollo, definito genericamente “di indagine”, che può poi riguardare anche fasi e soggetti diversi oltre alla polizia giudiziaria (i viceprocuratori onorari, il tribunale). Il tema del protocollo è decisamente più sentito da quando la magistratura nel suo complesso ha acquisito la consapevolezza che uno dei modi per far fronte all’eccessiva durata dei processi penali è predisporre risposte e prassi comuni, in modo tale che tutte le fasi del procedimento possano essere svolte, per quanto possibile, senza che il fascicolo “faccia la spola” fra polizia giudiziaria e pubblico ministero.
Gruppo di lavoro specializzato e protocollo di indagine non sono fenomeni necessariamente collegati. Tuttavia, la presenza di un gruppo di lavoro, specie se coordinato da un procuratore aggiunto, stimola e favorisce la creazione di protocolli e di prassi virtuose. E ciò sia per l’evidente maggiore esperienza che deriva dal numero di casi trattati, sia per la necessità o anche solo l’opportunità di trattare le indagini in modo omogeneo e di adottare comportamenti tendenzialmente uniformi, sia perché l’esistenza di un gruppo rimanda a una realtà quantitativamente e qualitativamente vasta, che trae naturalmente beneficio dalla previsione di alcuni passaggi standardizzati.
Quanto ai protocolli, la realtà è meno uniforme e registra diverse posizioni.
Alcuni uffici, specie i più grandi, hanno in vigore protocolli più o meno risalenti (ove il termine non assume significato negativo, anzi: il fatto che siano in essere da tanti anni induce a ritenere funzionalità dei medesimi e lungimiranza dei redattori); alcuni hanno direttive scritte, indirizzate principalmente alle asl e alle articolazioni interessate alle indagini in materia, mentre altri uffici si affidano alla semplice delega, ora standardizzata, ora singola.
È preferibile, ovviamente, l’adozione di un protocollo:
- perché il fatto di essere una misura condivisa motiva più e meglio il destinatario della richiesta di indagine;
- perché consente di “automatizzare” alcuni passaggi, senza che il magistrato incaricato debba occuparsene in prima persona;
- perché rende noto preventivamente “cosa serve” al magistrato per determinarsi in ordine all’ipotesi di reato, sia in termini di contenuto che in termini di forma, e lo fa in relazione alle specificità dell’indagine, sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello procedimentale, visti i numerosi istituti specifici che riguardano solo (o quasi) questi reati (procedimento per l’estinzione delle contravvenzioni, procedimento per l’accertamento della responsabilità amministrativa degli enti);
- perché consente di far giungere all’ufficio di procura il fascicolo completo di informativa “finale” che, salvi gli eventuali approfondimenti – sempre possibili –, solleva magistrati e segreterie da una serie di adempimenti, compresa l’eventuale richiesta di proroga del termine delle indagini.
3.2. I protocolli interni: le contravvenzioni
Anche se non direttamente compreso nella materia “protocollo”, ma più, forse, in quella “organizzazione”, e dunque relativa ai criteri che regolano gli affari di procura, assume rilievo (anche) l’orientamento delle scelte processuali del pubblico ministero.
Le fattispecie penali (accantoniamo, per il momento, la responsabilità degli enti) riguardano delitti e contravvenzioni, laddove i primi presuppongono, per essere destinatari della disciplina propria degli infortuni sul lavoro, le seconde (ma, ovviamente, non viceversa). Le contravvenzioni, da un lato, godono della peculiare procedura di estinzione regolata dal d.lgs n. 758/1994; dall’altro, si prestano più facilmente allo strumento definitorio del decreto penale: sono fattispecie tendenzialmente semplici e, se non estinte con adempimento di prescrizioni e pagamento della sanzione, difficilmente hanno necessità di approfondimenti istruttori, che sono comunque compatibili con la definizione “senza processo”.
Si pone comunque il problema di decidere, per le contravvenzioni non estinte e connesse all’infortunio, se definirle autonomamente (ovviamente con richiesta di decreto penale) o congiuntamente al delitto connesso.
A favore dell’autonomia milita la necessità di pervenire a una definizione in tempo utile, prima della prescrizione, che è comunque di cinque anni (massimo) – e infatti alcuni uffici optano per questa soluzione.
Vi sono, però, circostanze che sconsigliano tale conclusione e che verosimilmente ispirano le scelte di quegli uffici che mantengono la trattazione unitaria (salvo il caso di estinzione, evidentemente). Occorre tenere presente, in primo luogo, che i motivi per i quali la contravvenzione non viene estinta possono essere (i) di natura economica (il contravventore non è in grado di pagare la somma, che spesso è rilevante) oppure (ii) tecnico-giuridica: il contravventore, chiamato a giudizio anche per il delitto, non si adegua alle prescrizioni perché ne contesta il fondamento, oppure, pur non contestandole “in sé”, ha interesse a negare il difetto di incidenza sulla causazione dell’evento infortunio.
Ebbene, in entrambi i casi, appare comunque preferibile la scelta di quegli uffici che mantengono all’interno dello stesso procedimento delitto e contravvenzione, anche se il mancato pagamento dipende dalle difficoltà economiche.
Per i secondi, è fondamentale mantenere una trattazione unitaria, per evitare un contrasto di giudicati: il decreto penale verrà sicuramente opposto e l’imputato potrebbe utilizzare il processo per la contravvenzione come “ulteriore” grado di giudizio, posto che un’assoluzione in questo si ripercuoterebbe positivamente anche nel procedimento per il delitto. Inoltre, la contravvenzione potrebbe non essere individuata dalla procura come “procedimento rilevante” da seguire con attenzione, specie nelle sedi più gravate, ed essere trattata da magistrati non specializzati.
Tornando al primo caso di “non estinzione”, va riconosciuto che, di norma, chi non paga la sanzione amministrativa per l’estinzione difficilmente si opporrà a un decreto penale, ma non è infrequente che si giunga comunque a una revoca del decreto (anche per difficoltà di notifica) e all’instaurazione di un processo che, normalmente, si occuperà di raccogliere le stesse prove orali e documentali necessarie per la prova del delitto.
Anche sotto il profilo strettamente economico, delle risorse che la duplicazione rischia di assorbire ingiustificatamente, sembra preferibile la trattazione unitaria, salvo che siano previsti meccanismi che consentono, in caso di opposizione al decreto penale, la trattazione congiunta con il delitto.
3.3. I protocolli interni: i delitti e le modalità di definizione
Si può prescindere, qui, dalle questioni circa la scelta delle modalità definitorie per i delitti che non debbano essere oggetto di richiesta di archiviazione. Pur possibile per le lesioni, la definizione con richiesta di decreto penale è un’evenienza pressoché sconosciuta: l’azione penale è esercitata con la cd. citazione diretta per le lesioni, con la richiesta di rinvio a giudizio per l’omicidio.
I margini di scelta non riguardano tanto lo strumento definitorio (come definire), ma la scelta di cosa definire, o meglio cosa definire con priorità, per quanto concerne le lesioni, posto che normalmente i delitti che passano per l’udienza preliminare vengono tutti definiti prioritariamente.
Il tema merita ben altra trattazione. Qui si può solo prendere atto che, sia pure variamente declinata, l’adozione di criteri di priorità è ormai ineludibile, anche per gli uffici requirenti meno inclini a selezionare i procedimenti da definire per primi e quelli che invece “possono attendere”.
Ovviamente, la questione “priorità” non può limitarsi alle decisioni della procura, poiché l’individuazione della data di udienza spetta al presidente del tribunale o della sezione, ed è naturale che si prediliga un criterio condiviso. Si potrebbe obiettare che la priorità dei processi per infortuni è legale (art. 132-bis disp. att. cpp), ma l’esperienza insegna che questa norma non trova univoca e unanime applicazione. E che, stante il gran numero di delitti che comunque sono compresi nelle previsioni del predetto art. 132-bis, residua un margine su cui operare.
E infatti, uno degli uffici interpellati (ufficio medio piccolo) riferisce:
- che sono state concordate con il tribunale tre fasce di priorità (A, B, C), con corrispondente maggiore o minore celerità di fissazione;
- che i reati del 132-bis sono parte in fascia A e, fra questi, gli infortuni che “passano” dall’udienza preliminare; parte in fascia B, tra i quali vi sono gli altri infortuni e le opposizioni a decreto penale.
Non è quindi sufficiente ricordare che i delitti in questione sono compresi fra quelli prioritari, perché alcuni processi “sono più prioritari degli altri”.
4. Il d.lgs n. 231/2001, questo sconosciuto
Durante i primi anni di vigenza dell’art. 25-septies d.lgs n. 231/2001 («Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche (…)»), l’applicazione è stata assai sporadica. Molti uffici avevano difficoltà a configurare una responsabilità per l’ente, sul presupposto che il reato “non poteva essere commesso nell’interesse della società”, perché ciò presupponeva una sorta di dolo, almeno nella forma eventuale.
Questa interpretazione abrogatrice non faceva i conti con la circostanza che la norma individuava, fra i reati presupposto della responsabilità, due illeciti colposi e ometteva di considerare che l’illecito ricorre anche quando il reato sia stato commesso “a vantaggio” dell’ente.
Una paziente opera di formazione, centrale e decentrata, ha sostanzialmente eliminato questa remora interpretativa, ma il cammino da percorrere è ancora lungo. Il campione interpellato ha restituito una realtà variegata. Fermo restando che nessuno pone più in dubbio l’applicabilità della norma, in concreto ci sono uffici in cui essa non è mai stata applicata (in questa materia), complice forse il numero limitato di procedimenti, mentre uno ha riferito (senza ulteriore specificazione) dell’esistenza di criteri di massima per orientare l’applicazione, previo confronto fra gli appartenenti al gruppo di lavoro.
Il rischio concreto è, in un certo senso, opposto rispetto a quello originario: aggiungere l’addebito per l’illecito amministrativo quale automatica conseguenza della contestazione del delitto, senza un’indagine che si occupi puntualmente della sua effettiva sussistenza, della gravità, della commisurazione della sanzione, per la quale il giudice potrebbe trovarsi senza elementi di valutazione, per individuare il numero delle quote (da cento a mille) e la misura della singola quota (il minimo è un sesto del massimo).
E se l’attività processuale relativa all’accertamento dell’illecito penale fornisce quasi sempre indicazioni per il primo parametro (commisurato a «gravità del fatto, del grado della responsabilità dell’ente nonché dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti») il secondo, «fissato sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente allo scopo di assicurare l’efficacia della sanzione», necessita di una pur minima indagine preliminare, che di norma non può essere affidata agli organi dell’asl, normalmente privi delle specifiche competenze tecniche, e in difetto della quale il giudice sarà indotto ad attestarsi sul valore minimo della quota (258 euro).
Ancor prima di tale individuazione, occorre ricordare che la responsabilità amministrativa non è – e non può essere – automatica, sicché l’attività di ricerca della prova deve riguardare anche questo aspetto, con l’acquisizione di elementi da cui desumere che il reato è stato commesso «nell’interesse o a vantaggio dell’ente».
L’impressione che si ricava, invece, è quella di una difficoltà degli uffici di procura a inquadrare il fenomeno “infortunio” quale conseguenza anche delle scelte organizzative dell’impresa, che invece, almeno per le persone giuridiche, il d.lgs n. 231/2001 pone al centro.
Questa difficoltà potrebbe indurre a non verificare, appunto, l’incidenza che la scelta organizzativa ha avuto sul verificarsi dell’infortunio e a non comprendere la gravità della stessa. Se infatti l’organizzazione “facilita” il verificarsi dell’infortunio, è evidente che, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, l’illecito assume connotazioni di maggiore gravità.
5. Conclusione delle indagini preliminari, esercizio dell’azione penale, dibattimento ed esito del giudizio di primo grado. Revisione degli esiti, verifiche, azioni positive
Dovrebbe essere un punto acquisito quello riguardante la revisione, la verifica del funzionamento. Quale che sia il tipo di organizzazione impressa all’attività che si svolge, non dovrebbe mai mancare la fase della revisione. Il protocollo che abbiamo concordato funziona? Gli obiettivi sono stati conseguiti? Ci sono stati episodi critici? Cosa non ha funzionato e perché?
A ben vedere, è quanto si dovrebbe fare con qualunque attività processuale. Ho ricevuto tot nuovi affari, ne ho definiti tanti con archiviazione, tanti con esercizio dell’azione penale. Fra questi, le condanne sono state una certa percentuale, le assoluzioni un’altra, le prescrizioni altra ancora.
È un dato accettabile? Che cosa ha/non ha funzionato? Quante impugnazioni sono state fatte e quante ne sono state accolte?
E il discorso può continuare per gli incidenti probatori, le misure cautelari reali e personali.
Ebbene, a prescindere dalla difficoltà di ottenere dati statistici a dispetto della presenza di sistemi informatici evoluti, evidentemente poco sfruttati o mal configurati, è esperienza comune che questi dati non vengano raccolti o, se raccolti, non vengano consultati.
Questo breve scritto non può indagare a fondo le ragioni di questa “non scelta”, anche se è possibile ipotizzare alcuni fattori (con)causali:
- la mancanza di abitudine a interpellare il dato statistico;
- lo sbilanciamento del lavoro del pubblico ministero nella fase dell’indagine, che assorbe effettivamente gran parte delle energie, con perdita di vista della fase dibattimentale, se non per pochi e selezionati procedimenti;
- la difficoltà a seguire l’esito dei processi nei gradi successivi, specie nei distretti in cui l’appello viene fissato a distanza di anni dalla sentenza di primo grado;
- la convinzione che il dato statistico sporchi la purezza del lavoro giudiziario, facendogli perdere quel disinteresse sull’esito finale, disinteresse che sarebbe sintomo, se non garanzia, di imparzialità.
A ben vedere, sembra che si faccia confusione fra due comportamenti assai distanti fra loro: altro è considerare con distacco anche la propria tesi, nella consapevolezza che il sistema nel suo complesso prevede verifiche il cui esito, a sua volta, può essere modificato – questo atteggiamento è sicuramente raccomandabile, frutto di una visione matura e laica; altro è limitarsi ad avviare la macchina, senza poi preoccuparsi se, durante il cammino, questa mantiene la strada segnata e arriva a destinazione intera, con il carico salvo. È quell’atteggiamento che si potrebbe sintetizzare con l’espressione (purtroppo udita molte volte e mai veramente ripudiata): “io lo mando a giudizio, poi ci penserà il tribunale a dire se è colpevole o innocente”.
È invece fondamentale, per la verifica e il miglioramento della qualità del lavoro svolto, prevedere, appunto, momenti di revisione, che presuppongono innanzitutto una precisa conoscenza del dato statistico, la cui leggibilità e utilità è direttamente proporzionale alla possibilità di essere disaggregato.
La revisione dovrebbe riguardare:
- il rispetto dei protocolli adottati o, laddove non ve ne siano, delle direttive di carattere generale;
- la completezza delle indagini preliminari e dell’informativa finale, cioè dell’atto con il quale l’organo di polizia giudiziaria riassume le attività svolte, individua le condotte ritenute rilevanti, segnala le situazioni di possibile intervento, ipotizza le responsabilità;
- il rispetto dei tempi di fissazione delle udienze e di trattazione dei procedimenti da parte del tribunale;
- l’analisi delle testimonianze tecniche (quelle dei cd. ispettori) e la resa dei testimoni privati, non tanto in sé considerati, ma in relazione alle modalità e al contenuto delle verbalizzazioni effettuate in sede di indagine preliminare;
- la verifica degli esiti processuali di primo grado;
- la verifica degli esiti finali del procedimento (secondo grado e legittimità).
Naturalmente, ciascun punto prelude a un percorso di miglioramento, di eliminazione o almeno riduzione delle criticità. Se il testimone tecnico “non ha reso”; se il testimone comune non è stato in grado di riferire compiutamente il suo sapere e il verbale di sommarie informazioni non ha potuto aiutarlo, magari perché redatto in un linguaggio oscuro; se l’informativa finale non contiene gli elementi pur concordati in forza di protocollo o indicati dalla direttiva; se… è necessario intervenire, perché è ovvio che i consigli e le raccomandazioni dati al termine (ad esempio) di una testimonianza tecnica incerta (“la prossima volta cerchi di studiarsi meglio la vicenda, anche se risalente!”) scivolano via facilmente e non inducono comportamenti virtuosi, neppure in futuro.
In questa sede, si intende soffermarsi solo sulla questione “testimonianza”, individuando alcune criticità che spesso caratterizzano l’assunzione dell’atto istruttorio, criticità che discendono dalla conduzione delle indagini e da prassi tanto consolidate, quanto contrarie al dettato normativo.
5.1. La testimonianza del privato
La testimonianza del soggetto che ha assistito all’infortunio, oppure ne è vittima, o comunque, da interno o esterno all’impresa, è a conoscenza di fatti materiali rilevanti per la decisione, costituisce spesso un apporto fondamentale per la ricostruzione del fatto e l’individuazione delle responsabilità individuali. Nel contempo è spesso utile, se non necessario, procedere all’immediata assunzione dell’atto sul campo, sia per evidenti ragioni di ritenzione mnemonica, sia per la possibilità di indicazione di luoghi, attrezzi, posizioni, comportamenti utili alla ricostruzione.
Ci limitiamo a indicare tre punti che si rinvengono leggendo i verbali di sommarie informazioni testimoniali (sit):
- la verbalizzazione di una mega-dichiarazione: il teste produce una sorta di orazione, il che, oltre a essere inverosimile, viola apertamente il disposto degli artt. 373 e 136 cpp, e in particolare la necessità che dal verbale emerga inequivocabilmente se la dichiarazione è stata fatta a domanda o spontaneamente, con riproduzione – nel primo caso – anche della domanda;
- la verbalizzazione delle sole fasi strettamente connesse all’infortunio: pur essendo corretta, l’indagine può risultare monca, perché da subito, o alla luce delle acquisizioni successive, è fondamentale conoscere la cornice in cui si iscrive l’infortunio, le modalità lavorative non solo di quel giorno, ma di quelli precedenti, l’individuazione di tutti i soggetti presenti non solo al momento dell’infortunio, ma anche durante le ore precedenti; la necessità di approfondimento può sorgere, appunto, in un secondo momento, ma non per questo può essere trascurata;
- il teste parla un linguaggio tecnico: chi redige l’atto è naturalmente portato a “tradurre” le dichiarazioni del testimone, utilizzando termini che sono magari più pregnanti, più eleganti; sbaglia, però, perché in questo modo mina la credibilità del testimone, specie laddove la dichiarazione sia usata per le contestazioni in aiuto alla memoria. Se, infatti, il testimone non riconosce il suo dire, ben difficilmente potrà ricordare qualcosa di più e di meglio.
L’ultima evenienza è tutt’altro che rara: non è necessario ricordare che in processi consimili spesso il testimone è collega, o addirittura amico dell’infortunato, ma è anche dipendente dell’imputato o comunque è inserito nell’organizzazione, normalmente parte processuale, proprio in forza del d.lgs n. 231/2001.
Non si intende ipotizzare alcuna condotta illecita di avvicinamento, pressione, o condizionamento della testimonianza. È la situazione data che rende delicata la deposizione, sicché le indicazioni di cui sopra (verbalizzazione completa, domande il più possibile brevi e risposte ancora più sintetiche, utilizzazione delle esatte espressioni impiegate dal testimone, anche se atecniche) sono irrinunciabili (anche se non sufficienti) per costruire, attorno al dato acquisito con l’assunzione di informazioni, una solida struttura che lo difenda dal tempo che passa e dagli attacchi tecnici della difesa, che può accontentarsi, semplicemente, di sminuire la credibilità del testimone, senza che questi debba necessariamente fornire una versione più favorevole all’imputato.
Un discorso a parte meriterebbero le verbalizzazioni di testimoni stranieri. Spesso, proprio perché già in Italia, da qualche tempo, queste persone conoscono la lingua e “sanno capire e farsi capire”. Tuttavia, è evidente che qualunque “interpretazione” delle loro dichiarazioni, effettuata dal verbalizzante con il soggettivamente lodevole fine di far comprendere meglio le stesse, conduce inevitabilmente all’inutilizzabilità delle dichiarazioni o, comunque, a un giudizio di non credibilità. Non ci si riferisce, ovviamente, alle piccole correzioni (come, ad esempio, quella che opera la concordanza dell’aggettivo). Se, però, il teste parla senza coniugare i verbi quando viene sentito in aula (“io lavorare in quel cantiere da cinque giorni”), difficilmente può aver dichiarato, mesi se non anni prima, “ricordo che l’imputato ebbe ad assumermi cinque giorni addietro, attribuendomi la qualifica di muratore specializzato”.
È quindi fondamentale, specialmente per questi testimoni, rispettare le indicazioni sopra accennate e, soprattutto, la presenza di un interprete.
Tra gli uffici interpellati, nessuno ha indicato la presenza di prassi relative alla revisione. Solo uno ha riferito che, per quanto riguarda la verifica circa la resa dei testimoni “tecnici”, non ve ne è concreta necessità, atteso il risultato soddisfacente degli stessi constatato direttamente dal pubblico ministero togato che segue il processo.
6. Conclusioni
Abbiamo iniziato dicendo che la magistratura nel suo complesso ha compreso, nel corso degli ultimi anni, l’importanza e l’incidenza che hanno i temi organizzativi. La nascita e lo sviluppo di questa consapevolezza, nonché l’intrapresa di azioni concrete per sviluppare una cultura dell’organizzazione è stata favorita dalla necessità di continuare a rendere prestazioni accettabili a fronte di una crescente complessità del lavoro giudiziario e di risorse sempre più limitate.
Sotto molti aspetti non ci si può che rallegrare di questa crescita, che ha avuto però – occorre dirlo – un obiettivo primario di efficienza: se non è stata, se non in alcuni casi, “efficienza a qualunque costo”, ha comunque posto l’attenzione principale sul dato quantitativo.
Occorre terminare i processi, abbreviare i tempi, abbattere l’arretrato, rendere un servizio.
Tutti obbiettivi condivisibili, che non devono però farci dimenticare che il tema dell’organizzazione ha un rilievo fondamentale anche dal punto di vista qualitativo: il fine non è solo terminare un maggior numero di processi, ma assicurare che in quei processi, preceduti da indagini complete, seguiti da pubblici ministeri competenti, verificati negli esiti finali, si appresti una reale tutela dei diritti e si persegua, grazie ai meccanismi tipici della disciplina di prevenzione degli infortuni, un miglioramento delle condizioni di sicurezza del lavoro.
È tempo di rendere comune questa consapevolezza, attuando ovunque scelte organizzative virtuose, comprese quelle che abbiamo segnalato in questo breve scritto.
[1] Hanno risposto le procure della Repubblica di Torino, Ancona, Rimini, Cagliari e Tivoli.