Don Chisciotte e il web
L’isteresi è la sopravvivenza degli effetti alle cause che li hanno prodotti. È una caratteristica che contraddistingue tutte le società, ma ha avuto un enorme impatto con lo sviluppo delle tecnologie, che hanno sollevato nuovi interrogativi su lavoro e welfare.
1. Isteresi antropologica
L’isteresi, ossia la sopravvivenza degli effetti anche quando le cause sono venute meno, è una tendenza generale della società, della tecnica e della natura. Continuiamo a far scorta di grassi come se vivessimo nella savana e i supermercati non esistessero; gli hard disk dei computer conservano le tracce di ciò che hanno registrato, e su questo automatismo tecnico si basa il mondo contemporaneo; l’universo è il risultato dell’espandersi di una memoria che ha dato luogo alla materia. Non stupisce, dunque, che gli umani abbiano la tendenza a essere conservatori; ciò che invece stupisce è che questa tendenza condizioni anche quelli che, tra loro, si vogliono rivoluzionari.
È stato Marx a farci notare che Don Chisciotte si basa sugli effetti stranianti che derivano dalla sopravvivenza di modi di vita e di ideali feudali in un mondo in cui il feudalesimo è scomparso. Rispetto al mondo industriale, l’umanità si trova in buona parte nella stessa situazione di Don Chisciotte. Crediamo di vivere in un mondo che non è molto diverso da quello analizzato da Marx, e dunque ci immaginiamo gli stessi problemi (l’alienazione sul lavoro, lo sfruttamento e la mancanza di risorse) e le stesse soluzioni che si sarebbero potute trovare cent’anni fa. Non stupisce che le soluzioni non risolvano (perciò la sinistra è in crisi e il populismo ha successo) e che si creino conflitti fra valori, in particolare fra tutela del lavoro e tutela dell’ambiente.
Queste circostanze, ben lungi dal suggerire un cambio di rotta, non fanno che accrescere l’isteresi, ossia nella fattispecie l’attaccamento irragionevole al passato, sia esso fatto di Dio - patria - famiglia (come vogliono le destre) o di lavoro, pane e alienazione (come vogliono le sinistre). Con l’ironia supplementare che, mentre le destre fanno il loro lavoro – giacché sono conservatrici –, le sinistre causano la loro rovina. Far notare alle destre che la creazione di una internazionale sovranista non è diversa, dal punto di vista concettuale, dalla creazione di una internazionale solipsista, è sparare un colpo a vuoto, perché i sovranisti sanno benissimo di cavalcare un’onda di protesta e di paura del tutto disinteressata alla conoscenza dello stato di cose reale. Far notare alle sinistre che non si può, contemporaneamente, combattere la crisi ecologica e rivendicare un futuro di lavoro industriale, significa indicare la ragione di uno scacco. Questa è la cattiva notizia. La buona è che non viviamo più nel mondo industriale e che, una volta che l’avremo capito, smetteremo di comportarci come Don Chisciotte.
2. Isteresi tecnologica
Mentre l’isteresi sociale continua a pensare un mondo non molto diverso da quello degli ultimi due secoli, l’uso tecnologico della isteresi lo ha cambiato completamente. L’esplosione della isteresi, ossia la circostanza per cui ogni evento naturale o sociale, ogni comportamento anche minimo può essere registrato automaticamente e a costi bassissimi, ha completamente cambiato il mondo in cui viviamo, rivoluzionando la natura stessa della produzione che caratterizzava il mondo industriale. In quel mondo gli esseri umani, in collaborazione con le macchine, producevano e distribuivano beni e servizi.
Nel nostro mondo, però, i beni sono prodotti sempre più dalle macchine senza che occorra un concorso umano, e i servizi sono crescentemente automatizzati (fissiamoci nella memoria i “riders” che girano per le nostre città: presto saranno sostituiti da droni) o demandati ai consumatori, visto che siamo noi stessi, grazie al web, i nostri sportelli bancari e le nostre agenzie di viaggi. In una parola, non abbiamo bisogno di produttori, e il lavoro in fabbrica o nei call center si avvia a diventare un arcaismo, senza generare alcun rimpianto sincero, ma producendo un effetto di isteresi supplementare, l’“arto fantasma” della produzione di cui sentiamo la mancanza, ma di cui non godremmo veramente la presenza.
Ma cosa ha reso possibile questa automazione tanto perfetta? L’isteresi, come dicevo. I sistemi di traduzione automatica sono oggi così efficienti perché possono contare sulla registrazione di un corpus di testi senza precedenti: buona parte delle traduzioni che l’umanità ha fatto nella sua storia, e tutte le traduzioni che miglioriamo quotidianamente quando, servendoci della macchina di traduzione, ne correggiamo i risultati. Proprio per questo ci vengono offerti continuamente dei servizi gratuiti, perché servendocene aumenteremo l’efficienza del servizio, e dunque l’automazione.
3. Una crescita felice
Osserviamo un punto. A rigore, quello che stiamo descrivendo è un processo di crescita felice. Ci vengono offerti dei servizi efficienti e gratuiti, che migliorano continuamente quanto più ce ne serviamo. I dati raccolti da questi servizi possono essere adoperati per migliorare altri servizi, per accrescere la capacità di autoapprendimento delle macchine, e dunque per migliorare la produzione, ridurre gli sprechi, rendere più efficiente la distribuzione e, di conseguenza, abbassare i prezzi dei prodotti – il che, sommandosi alla gratuità dei servizi, comporta che per ottenere servizi di qualità oggi sono necessari molti meno soldi di quanti ne occorressero nel secolo scorso.
Per inciso, le condizioni dell’umanità nel secolo scorso erano comunque preferibili a quelle del secolo precedente, il che sembra suggerire che la storia dell’umanità racconta un processo di crescita felice interrotto da momenti di decrescita infelice. Fermare la crescita non sembra né possibile né auspicabile, per lo stesso motivo per cui non pare auspicabile tornare alle code nelle biglietterie delle stazioni e alle enciclopedie che pesano quintali. Ciò che è necessario, invece, è massimizzare i vantaggi della isteresi tecnologica, che ha reso possibile questa crescente automazione, e minimizzare gli svantaggi della isteresi antropologica, che ci rende insinceramente nostalgici di campi, officine e padri padroni.
Il passo decisivo da farsi sulla via della massimizzazione dei vantaggi della isteresi tecnologica consiste in una più equa distribuzione degli utili che genera. Perché è vero che l’automazione offre servizi gratuiti e beni a basso prezzo, ma è anche vero che questo non vale per tutti i beni (affittare una casa costa di più oggi che qualche decennio fa) e che lo scambio tra le piattaforme e gli utenti è profondamente svantaggioso per questi ultimi, dal momento che le piattaforme sono in grado di comparare, calcolare e commercializzare i dati di moltissimi utenti, cosa impossibile per questi ultimi. I passi da farsi per una più equa ridistribuzione e per l’attuazione di un welfare digitale sono due. Il primo riguarda la conoscenza, il secondo l’azione politica.
4. Mobilitazione
Per quanto riguarda la conoscenza, l’identificazione tra lavoro e produzione, che fissa gli esseri umani a una storia tecnologica ormai superata, ci impedisce riconoscere l’essenza del lavoro come intervento umano nel mondo. Lo si vede molto bene nelle rappresentazioni tradizionali che vedono l’assenza di lavoro come pura inoperosità; così come nelle preoccupazioni di economisti e sociologi che, nel secolo scorso, si chiedevano come avrebbero fatto gli umani a riempire il crescente tempo libero garantito loro dall’automazione.
Ciò che è avvenuto negli ultimi decenni dimostra che queste preoccupazioni erano infondate, perché gli esseri umani sanno benissimo come occupare il loro tempo libero, purché dispongano di uno strumento tecnico, il web, che permetta loro di farlo. La mobilitazione totale generata dal web è di particolare interesse antropologico perché dimostra che nella scelta tra azione e inazione gli umani, se l’ambiente è propizio, scelgono l’azione; il che non è affatto ovvio, eppure si spiega facilmente con l’isteresi. Anche il più inerte degli umani si porrà, come qualunque organismo, il problema del proprio sostentamento, che è ciò che fa la differenza tra un organismo e un meccanismo: il primo, se non alimentato, muore; il secondo no.
Questa circostanza ricorda un aspetto che spesso si è portati a trascurare, e cioè che l’intero apparato economico, sociale e tecnologico trova il suo fine ultimo nel soddisfacimento dei bisogni degli umani quanto organismi, e non avrebbe alcun senso in loro assenza. Come risultato, la funzione dell’umano in quanto consumatore è infinitamente più importante di quella dell’umano come produttore, anche se, per l’isteresi che ci lega a forme di vita precedenti, siamo portati a credere che la produzione sia un privilegio e un merito relativamente raro e che il consumo sia una ovvietà e, probabilmente, anche un demerito, un difetto morale.
Ora, ovviamente non è così. La produzione, come dicevo, è sempre più una prerogativa dei meccanismi, mentre il consumo rimane una prerogativa insurrogabile degli organismi, e diviene economicamente e socialmente significativo presso gli organismi umani. A questa struttura generale va aggiunta la circostanza peculiare del nostro tempo per cui la tecnologia, registrando il consumo, riesce a riconvertirlo in produzione, questa volta di dati, a loro volta utili per incrementare l’automazione e la distribuzione.
5. Ridistribuzione
Date queste premesse non è difficile individuare le vie di ridistribuzione degli utili prodotti dal consumo. È facile profezia quella che vede nella automazione totale dei processi l’avvenire tecnologico che ci attende. Che la profezia sia facile si spiega col fatto che ognuno di noi ha visto sparire dei lavori, e che ognuno di noi ha paura di perdere il lavoro che ha, sempre che l’abbia ancora o lo abbia mai avuto. È evidente che ci sono lavori, come il cuoco, il calciatore, il presidente del Consiglio, che non potranno mai essere automatizzati perché, per essenza, chiedono di essere svolti da un agente umano.
Il problema, però, è che questi lavori sono pochi. Cosa fare con gli altri? È sulla mancata risposta a questo interrogativo che si fonda il disagio di un’epoca che ha molte meno ragioni delle precedenti di essere scontenta. Ed è ragionevole pensare che una risposta praticabile ridurrebbe lo scontento immaginario, senza ovviamente eliminare quello scontento naturale che fa parte della condizione umana.
Il detto evangelico rilanciato dal marxismo vuole che da ognuno si riceva secondo le sue capacità e che a ognuno si dia secondo i suoi bisogni. Ciò è apparso sinora utopico, ma adesso le cose sono cambiate. Ognuno fornisce secondo le sue capacità e c’è una capacità che non manca a nessuno, purché sia vivo: quella di consumare. Il consumo, registrato, correlato e calcolato dalle piattaforme, genera valore e questo valore viene tassato per acquisire risorse da devolversi in welfare, ambiente e formazione.
In welfare, perché è necessario che coloro che, per i più diversi motivi, non sono in grado di svolgere lavori non automatizzabili di tipo creativo devono essere retribuiti per il lavoro che svolgono, che non è automatizzabile ed è molto più fondamentale di ogni lavoro creativo, ossia devono essere retribuiti per il loro consumo.
Ovviamente sorge la domanda su come si stabilisca la retribuzione del consumo, ma il problema non è così grande come lo si dipinge. Se esistono sistemi di profilazione usati dalle banche per individuare i cattivi pagatori, nulla vieta che questi stessi sistemi siano adoperati dallo Stato per sostenere quei cattivi pagatori evitando di far cadere l’onere e il rischio sulle spalle dei risparmiatori (come avviene quando si accendono mutui che non potranno essere pagati) o dei contribuenti (come avviene quando uno Stato dissestato senza strumenti per riconoscere i furbetti si impegna nel garantire un reddito di cittadinanza).
Le uniche a pagare, qui, sarebbero le piattaforme, ma il pagamento sarebbe più che giustificato dal fatto che i dati non sono affatto il nuovo petrolio, ossia una risorsa presente in natura, ma sono il risultato della mobilitazione e del consumo umano, oltre che dalla imprescindibile necessità, per l’intero apparato produttivo, di disporre di consumatori.
Oltre a ridurre la rabbia sociale, il welfare sarebbe in grado di prendersi cura dell’ambiente, perché per tutelare l’ambiente sono necessari investimenti che nessuna decrescita, felice o infelice che sia, potrà mai assicurare.
Soprattutto, il welfare dovrà avere a cuore la formazione delle persone, e questo per un motivo banale, ma decisivo. Fino a che gli esseri umani non hanno potuto esprimere le loro opinioni al di fuori della sfera immediata della loro comunità, la qualità di queste opinioni non era molto rilevante. Nel momento in cui possono esprimerle in una rete ampia come il mondo, diviene cruciale che queste opinioni siano accompagnate da responsabilità e da cultura.