Il mercato del lavoro dei cittadini extra-Ue in trasformazione
Dopo una breve introduzione dedicata al legame tra mercato del lavoro dei cittadini extra-Ue e sistema regolativo nazionale e unionale, il contributo analizza i principali istituti che operano nel concreto funzionamento di questo speciale mercato, in cui le questioni di status tendono a prevalere su quelle del contratto di lavoro. Nelle conclusioni, ci si sofferma su un fenomeno emergente nel contesto dei flussi migratori per ragioni di lavoro: il distacco dei lavoratori extra-Ue.
1. Premessa: il mercato del lavoro dei cittadini extra-Ue nella dialettica regolare/irregolare
«What of immigration, migration and migrants?» si chiedeva nel 1996 J.K. Galbraith, in The Good Society, considerando quello delle migrazioni un capitolo imprescindibile della corretta, completa «buona società»[1]. Questa citazione, utilizzata da Hayes, Novitz e Herzfeld Olsson con riguardo al trattamento dei lavoratori stranieri nell’ambito dei distacchi transnazionali[2], consente di spiegare che in «a desocialised Europe, provisions for migrant workers in transnational employment relationships are powerful indicators of a lack of institutional respect for human rights», collegando la premessa e le conclusioni del presente contributo.
Se, a livello dell’Unione europea, non ci sono segnali rassicuranti di un cambio di paradigma regolativo (ancora fondato sulla separazione netta tra migrazioni per ragioni economiche e migrazioni per ragioni umanitarie, che valorizza la segmentazione del mercato del lavoro, con attenzione attratta dalla sicurezza dei cittadini Ue), a livello nazionale questa stessa citazione aiuta a introdurre l’approccio del diritto del lavoro alle questioni delle migrazioni, il filo conduttore della riflessione giuridica riportata nella sua naturale dimensione: quella della tutela dei diritti in un contesto di riflessione integrato non solo dall’apporto degli studi sociologici ed economici, ma anche della medicina[3].
I fenomeni migratori (e l’immigrazione irregolare in particolare) aprono il diritto del lavoro a grandi questioni sistematiche, come la relazione strutturale tra flussi e contratto di lavoro. Le stesse migrazioni impongono una rinnovata declinazione pubblico-privato nella disciplina e confermano la difficoltà di distinguere tra migrazioni “per ragioni economiche” e migrazioni “forzate”. Come si è più volte ricordato[4], nella riflessione del diritto del lavoro arriva ad assumere valore giuridico centrale la questione del rapporto tra contratto di lavoro e status del lavoratore, che dipende da un permesso per accedere al territorio e che impone di distinguere tra “regolari” e “irregolari”, categorie già labili cui si aggiunge quella di richiedente protezione internazionale in attesa di definizione della domanda presentata alle autorità nazionali: posizioni soggettive tutte giuridicamente precarie perché sempre dipendenti da un diverso ordine di autorizzazioni, scadenze e adempimenti burocratici, collegate a una significativa quantità di reati. Perché la riflessione giuridica degli ultimi decenni è rappresentabile dal passaggio teorico dall’indifferenza giuridica al law enforcement approach: la sanzione penale (del lavoratore straniero, del datore di lavoro, del “caporale”, di chi sfrutta la manodopera) è una chiave di lettura del tema che enfatizza (sia a livello nazionale che a livello comparato) il parametro della sicurezza, intesa anche come parte fondamentale dell’argomentare giuridico nelle corti e come costante del dibattito politico pubblico.
In questa sede, per introdurre un contributo dedicato al mercato del lavoro degli stranieri in trasformazione, possiamo ripetere la domanda già altrove formulata a partire dal problema dell’immigrazione irregolare in prospettiva lavoristica, ma ancora attuale[5]. Tolti gli alibi (legati ai contrasti reali tra regole sull’immigrazione e mercato del lavoro), i paradossi(la normativa nazionale che concorre a creare irregolarità o che disincentiva le denunce dei lavoratori, anche in caso di sfruttamento lavorativo) e gli abusi (della sanzione penale e, in particolare, l’art. 10-bis Tui, dedicato al reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato), cosa rimane del tema delle migrazioni declinato avendo centrale riguardo all’irregolarità della mobilità dei cittadini extra-Ue?
I sociologi aiutano a «diradare la nebbia che avvolge gli irregolari e il lavoro» perché chiariscono «gli interessi dei governi, le politiche nazionaliste e/o meramente ideologiche, l’approccio burocratico alla gestione della pubblica amministrazione, dal punto di vista macro; mentre a livello micro, si trovano le convenienze dei datori di lavoro (imprese e famiglie), delle associazioni che si occupano dei migranti; infine, i lavoratori e le lavoratrici (molto lontani dall’essere incentivati alla denuncia anche se in situazione di grave sfruttamento lavorativo)»[6].
Questa breve premessa segnala il bisogno per il diritto di confrontarsi sulle questioni delle migrazioni con un approccio strutturale integrato che già il Consiglio d’Europa aveva compiutamente tracciato, nella logica di evitare rischi per la complessiva tenuta della coesione sociale europea[7]. Il diritto del lavoro, in particolare, con questa affermazione arriva a riconoscersi come disciplina più ampia e composita, declinabile come labour immigration law, in grado di leggere anche il mercato del lavoro dei cittadini extra-Ue nella sua reale e realistica complessità.
2. Lavoro stagionale dopo l’attuazione della direttiva 2014/36/UE
Parte fondamentale della complessità del mercato del lavoro degli stranieri è rappresentata dal lavoro stagionale che – a differenza del contratto di soggiorno per lavoro subordinato, simbolica alchimia introdotta dalla “legge Bossi-Fini” – esiste e si applica soprattutto nei settori del turismo, del commercio e dell’agricoltura. Il lavoro subordinato degli stranieri, ontologicamente sospeso tra il diritto pubblico che regola l’accesso al territorio nazionale e l’assetto comune dei contratti di lavoro (art. 5-bis d.lgs n. 286/98), trova nel lavoro stagionale un difficile equilibrio chiamato a tener conto (a differenza dell’ordinario contratto di lavoro subordinato) anche di un ulteriore livello regolativo: quello dell’Unione europea. L’accesso per il lavoro a tempo indeterminato risulta quasi teorico (considerando soprattutto le tempistiche e i numeri complessivi di accessi contenuti nei decreti flussi che si sono succeduti dal 2012 in poi); il lavoro stagionale rappresenta, invece, realmente l’unico effettivo canale di lavoro regolare del cittadino extra-Ue in Italia. Molta attenzione va prestata, di conseguenza, alla trasposizione della direttiva 26 febbraio 2014, n. 36 sulle condizioni di ingresso e di soggiorno dei cittadini di Paesi terzi per motivi di impiego in qualità di lavoratori stagionali, effettuata con il d.lgs n. 203/2016, che modifica l’art. 24 e introduce un nuovo comma (3-ter) nell’art. 5 del Tui. Da una parte, esso cancella e riscrive la precedente versione, che conteneva in sé buona parte delle regole modificate; dall’altra, regolamenta in modo autonomo il permesso di soggiorno per lavoro stagionale[8].
In generale, giova ricordare che il permesso per motivi di lavoro rilasciato a seguito della stipula del contratto di soggiorno e la sua durata può variare (e non superare): a) in relazione a uno o più contratti di lavoro stagionale, la durata complessiva di nove mesi; b) in relazione a un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, la durata di un anno; c) in relazione a un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, la durata di due anni. Come per il lavoro subordinato a tempo indeterminato e a termine, lo svolgimento del lavoro stagionale di cittadino extra-Ue richiede un contratto di lavoro o una proposta di contratto (di soggiorno per lavoro subordinato ex art. 5-bis), il nulla osta al lavoro (pluriennale) e un permesso di soggiorno (annuale).
Il datore di lavoro (anche per il tramite di un’associazione di categoria) disponibile ad assumere lavoratori stagionali extra-Ue nei settori dell’agricoltura e turistico/alberghiero presenta richiesta nominativa allo sportello unico dell’immigrazione della provincia di residenza, che rilascia un nulla osta anche pluriennale per la durata corrispondente al lavoro stagionale richiesto. Nel modificato art. 5 Tui, si esplicita che allo «straniero che dimostri di essere venuto in Italia almeno una volta nei cinque anni precedenti per prestare lavoro stagionale è rilasciato, qualora si tratti di impieghi ripetitivi, un permesso pluriennale, a tale titolo, fino a tre annualità, con indicazione del periodo di validità per ciascun anno». Come è stato ricordato, si tratta di una sorta di «migrazione temporanea (potenzialmente) ripetibile»[9], perché – come recita il comma 8 dell’art. 24 – «il nulla osta al lavoro stagionale si intende prorogato e il permesso di soggiorno può essere rinnovato in caso di nuova opportunità di lavoro stagionale offerta dallo stesso o da altro datore di lavoro fino alla scadenza del nuovo rapporto di lavoro stagionale». Come segnalato dalla dottrina[10], oltre alla stravaganza dell’uso del termine «impieghi ripetitivi» (che pare piuttosto una traduzione letteralmente non felice di continuità della prestazione di lavoro nello stesso settore produttivo, con lo stesso o altro datore di lavoro), la questione regolativa del lavoro stagionale in agricoltura e nel settore turistico/alberghiero si riduce a un flusso che viene determinato in via autonoma rispetto agli altri accessi (per lavoro subordinato, per lavoro autonomo) e in una procedura notevolmente semplificata di accesso al territorio nazionale.
Una riflessione più approfondita non può negare una serie di problemi interpretativi che il legislatore non concorre a risolvere (a partire dalla cesura nei settori produttivi e nel trattamento complessivo del rapporto di lavoro stagionale laddove intervengano contratti collettivi con regolazioni distinte, ad esempio con riguardo all’alloggio)[11].
Sono due i profili sui quali la dottrina è più attenta: il diritto di precedenza del lavoratore stagionale e la conversione del permesso di soggiorno da lavoro stagionale a lavoro subordinato a tempo indeterminato/determinato. Con riguardo al primo aspetto, si segnala che al datore di lavoro viene piuttosto riconosciuta la facoltà di riassumere – con chiamata nominativa – un lavoratore extra-Ue con cui ha già avuto uno o più rapporti di lavoro in un lasso temporale definito. Come è stato segnalato, la portata della disposizione legale è limitata proprio perché la domanda dipende dal datore e non dal lavoratore e, in questo modo, non si tutela l’interesse del lavoratore al rientro in Italia[12]. È la scelta del datore di lavoro a consentire il rientro in Italia e non il rilascio di un permesso pluriennale di soggiorno in settori, tra l’altro, in cui è tradizionalmente carente la manodopera regolare. Letteralmente, il comma 9 dell’art. 24 riconosce in effetti «il diritto di precedenza per il rientro per ragioni di lavoro stagionale presso lo stesso datore di lavoro o altro datore di lavoro, rispetto a coloro che non hanno mai fatto regolare ingresso in Italia per motivi di lavoro», ma non spiega se e come tale diritto sia concretamente azionabile da parte del cittadino extra-Ue disponibile a rientrare in Italia e titolare di un permesso pluriennale di lavoro.
In attesa di un eventuale contenzioso sul punto (a conferma che il modello di base che ha ispirato il legislatore Ue, prima, e quello domestico, poi, sia quello della migrazione circolare), si segnala la questione del rientro nel Paese d’origine in caso di conversione del permesso di soggiorno. Il nuovo comma 10 spiega che il «lavoratore stagionale, che ha svolto regolare attività lavorativa sul territorio nazionale per almeno tre mesi, al quale è offerto un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato, può chiedere allo sportello unico per l’immigrazione la conversione del permesso di soggiorno in lavoro subordinato, nei limiti delle quote di cui all’articolo 3, comma 4». La capienza del decreto flussi è una condizione molto gravosa, se non impossibile da adempiere. Con ciò confermando che il legislatore ha costruito un sistema regolativo per compartimenti stagni molti rigidi: da una parte il lavoro stagionale; dall’altra il lavoro subordinato a tempo indeterminato e a termine[13].
Questa constatazione è importante nel contesto della riflessione giuslavoristica perché ci consente di tornare all’origine della ontologica differenza tra lavoro stagionale in agricoltura e lavoro a termine nell’ordinamento italiano e nell’ordinamento Ue, sciogliendo un groviglio interpretativo in favore della prevalenza del diritto comune del contratto a termine. Nell’art. 3 della direttiva 2014/36/UE dedicato alle definizioni, il legislatore Ue scrive che la qualifica di “lavoratore stagionale” dipende da due condizioni: è il cittadino di un Paese terzo che conserva la propria residenza principale in quel Paese e che soggiorna legalmente e temporaneamente nel territorio di uno Stato membro per esercitarvi un’attività soggetta al ritmo delle stagioni; è titolare di uno o più contratti a tempo determinato conclusi direttamente tra cittadino del Paese terzo e datore di lavoro stabilito in uno Stato membro. A ciò si aggiunga che l’attività soggetta al ritmo delle stagioni è definita come «un’attività legata a un certo periodo dell’anno da un evento ricorrente o una sequenza ricorrente di eventi connessi a condizioni stagionali che richiedono quantità di forza lavoro notevolmente superiori a quelle necessarie per le attività abituali».
Queste definizioni confermano che il lavoro stagionale in agricoltura e nel settore turistico altro non è e non può che essere se non una tipologia (tra l’altro, tra le più chiaramente definibili) di contratto di lavoro a termine. La stessa direttiva 1999/70/CE non consente distinzione alcuna tra settori produttivi, mentre la direttiva 2014/36/UE non fa altro che fissare regole di procedura diverse per un contratto a termine siglato da un cittadino extra-Ue in un particolare mercato del lavoro, quello temporaneo dell’agricoltura e del settore turistico/alberghiero. Del resto, in Italia, il lavoro stagionale è considerato ontologicamente a termine dalla giurisprudenza solo con riguardo all’agricoltura, e non certo per l’intero settore turistico/alberghiero[14].
A conferma dell’interazione tra sistema regolativo nazionale e funzionamento reale del mercato del lavoro degli stranieri in Italia, non si può non ricordare che – anche con riguardo al lavoro stagionale – assume particolare valore l’esito della visita che, tra il 3 e il 12 ottobre 2018, Urmila Bhoola, relatrice speciale Onu sulle forme contemporanee di schiavitù (comprese cause e conseguenze), ha fatto in Italia. La dichiarazione si apre con la presa d’atto della mancata ratifica, da parte dell’Italia, della Convenzione Onu del 1990 sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie (che peraltro non risulta ratificata da nessuno Stato aderente all’Unione europea)[15] e della ratifica in sospeso del Protocollo n. 29 del 2014 relativo alla Convenzione Oil sul lavoro forzato.
Dopo un’analisi accurata del mercato del lavoro agricolo, delle distorsioni del suo funzionamento, e dopo avere accuratamente descritto l’impianto normativo italiano, ivi compresa la l. n. 199/2016, Bhoola spiega che le possibilità di lavoro legale sono limitate in ragione del funzionamento del sistema delle quote d’accesso anche al lavoro stagionale, scrivendo che la «riduzione significativa delle quote sembra contraddire un’esigenza decisamente maggiore di lavoratori agricoli (…) di conseguenza i datori di lavoro ricorrono a migranti irregolari che lavorano senza contratto in condizioni di elevato sfruttamento pari alla schiavitù. Siamo stati informati (…) che lo stretto legame tra un permesso di soggiorno e l’esistenza di un contratto di lavoro rischia di spingere ulteriormente i migranti verso canali irregolari, aumentandone la vulnerabilità allo sfruttamento».
Nella dichiarazione di fine missione[16], le forme di grave sfruttamento lavorativo dei lavoratori agricoli registrate in alcune zone del Sud-Italia[17] – soprattutto immigrati – sono pacificamente inserite tra le forme contemporanee di schiavitù. Durante la visita, scrive la Relatrice, «ho parlato con molte vittime dello sfruttamento del lavoro sfociato in schiavitù» in ragione delle quantità di ore lavorate, dei salari ben al di sotto del minimo contrattuale, dei pericoli per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro, degli infortuni di cui le persone sono vittime, per essere poi abbandonate da caporali in prossimità degli ospedali per i trattamenti d’urgenza, minacciate per non rivelare l’azienda presso la quale avevano prestato lavoro.
L’elenco delle questioni fondamentali che il Governo italiano dovrà affrontare è lungo e comprende non solo la ratifica delle convenzioni mancanti, ma anche una lunga serie di servizi da garantire e rafforzare, oltre al miglioramento del sistema di incentivi per segnalare lo sfruttamento lavorativo delle vittime in perfetta sintonia con il Protocollo Oil n. 29 del 2014 e con la collegata raccomandazione n. 203, dedicata alle misure complementari per la soppressione effettiva del lavoro forzato. Del resto, questo protocollo persegue la funzione di innovare la disciplina prevista dalla Convenzione del 1930 per renderla più adeguata alle sfide del XXI secolo, richiedendo agli Stati di sviluppare piani di azione per l’effettiva repressione del lavoro forzato, una speciale attenzione alle filiere produttive oltre a una maggiore attenzione alla vittima, e l’esenzione dell’applicazione di sanzioni penali per il fatto di essere stati coinvolti nel compimento di attività illecite come conseguenza diretta della costrizione al lavoro forzato.
3. Il lavoro dei richiedenti asilo e protezione internazionale
A conferma che l’uso del termine «migrazione economica e/o per motivi di lavoro non implica l’assunzione dei processi migratori come monolitici fenomeni unitari, da analizzare indistintamente in quanto tali»[18], pare corretto estendere la presente analisi anche al lavoro svolto dai richiedenti asilo e protezione internazionale. Nella Relazione sul sistema di protezione e di accoglienza dei richiedenti asilo approvata il 21 dicembre 2017 dalla Commissione parlamentare costituita ad hoc, è scritto che la «condizione lavorativa rappresenta un aspetto prioritario nel processo di integrazione dei richiedenti protezione internazionale e le difficoltà di accesso all’occupazione rappresentano la barriera più grande all’integrazione»[19]. Negli stessi termini, il considerando 23 della direttiva 2013/33/UE, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, ricorda che per «favorire l’autosufficienza dei richiedenti e ridurre le ampie divergenze esistenti tra gli Stati membri, è essenziale stabilire norme chiare sull’accesso dei richiedenti al mercato del lavoro»[20].
Nel corso del tempo, anche in ragione delle diverse ondate migratorie (a partire da quella albanese e somala all’inizio degli anni novanta)[21], come può leggersi nella relazione stessa, il legislatore ha effettuato scelte diverse, tutte accomunate dall’assenza di un sistema comune europeo regolativo di riferimento che oggi, al contrario, esiste. I successivi artt. 15 e 16 della direttiva 2013/33/UE, rispettivamente dedicati al lavoro e alla formazione, prevedono l’obbligo di garantire l’accesso dei richiedenti al mercato del lavoro entro nove mesi dalla data di presentazione della domanda di protezione internazionale e il dovere di non limitare indebitamente tale accesso, scontato il diritto di garantire la precedenza ai cittadini dell’Unione, dello Spazio economico europeo e ai cittadini extra-Ue in condizione di soggiorno regolare. Anche la formazione professionale è ammessa, dato che gli Stati membri possono autorizzare l’accesso alla formazione professionale, che può configurarsi come autonoma oppure funzionalmente collegata all’accesso al mercato del lavoro nazionale.
In attuazione delle predette direttive, sono due le disposizioni in vigore alle quali riferirsi: l’art. 22 d.lgs n. 142/2015 e l’art. 22-bis dl n. 13/2017[22]. In base al primo articolo, il permesso di soggiorno per richiesta asilo consente di svolgere attività lavorativa, trascorsi sessanta giorni dalla presentazione della domanda, se il procedimento di esame della domanda non è concluso e il ritardo non può essere attribuito al richiedente. Tale permesso non può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Lo stesso disposto aggiunge che i richiedenti che usufruiscano delle misure di accoglienza possono frequentare corsi di formazione professionale, eventualmente previsti dal programma dell’ente locale dedicato all’accoglienza. Il successivo art. 22-bis consente la partecipazione dei richiedenti protezione internazionale ad attività di utilità sociale promosse dai prefetti d’intesa con i Comuni, le Regioni e le Province autonome, anche nell’ambito dell’attività dei consigli territoriali per l’immigrazione. Ci si riferisce a «ogni iniziativa utile all’implementazione dell’impiego di richiedenti protezione internazionale, su base volontaria, in attività di utilità sociale in favore delle collettività locali, nel quadro delle disposizioni normative vigenti». Gli stessi prefetti sono chiamati a promuovere la diffusione delle buone prassi e di strategie congiunte con i Comuni, le Regioni, le Province autonome e le organizzazioni del terzo settore, anche attraverso la stipula di appositi protocolli di intesa[23].
Sono due i profili di interesse giuslavoristico segnalati dalla dottrina più recente, con riguardo al lavoro dei richiedenti asilo o protezione internazionale: da una parte, lo stretto legame tra lavoro e sistema di accesso conferma che la specialità del lavoro degli stranieri (qualunque sia lo status) si collega alla regolazione di diritto pubblico legata agli accessi e, come vedremo tra breve, soprattutto all’apporto sanzionatorio del diritto penale; dall’altra, la stessa dottrina evidenzia il rischio della gratuità della prestazione lavorativa del richiedente asilo e protezione internazionale che risulta – ad assetto normativo dato – collegata proprio a una mera situazione di status di chi presta lavoro. Come è stato efficacemente sottolineato, l’accesso al sistema del lavoro di utilità sociale governato a livello locale evidenzia il cambiamento di prospettiva dello Stato con riguardo al lavoro come strumento di integrazione. Nel senso che i varchi aperti verso il lavoro gratuito rispondono solo apparentemente alla spinta «all’integrazione, all’inclusione sociale e al superamento della situazione di marginalità». Il conseguimento di questi obiettivi «passa giocoforza per l’emancipazione economica. Quest’ultima circostanza lascia trasparire allora che a guidare quel tipo di politiche è piuttosto l’intento di impegnare i richiedenti asilo in forme di lavoro gratuito (o quasi, nel caso del tirocinio) c.d. “di restituzione”. L’idea è insomma che a questi soggetti debba essere offerta l’opportunità di sdebitarsi per l’accoglienza nelle nostre comunità, dimenticando che, in realtà, quella stessa accoglienza è per l’Italia oggetto di un dovere che discende, oltre che dal diritto internazionale, dai principi su cui si fonda il nostro ordinamento costituzionale»[24].
4. Conclusioni: il mercato del lavoro in trasformazione
Qualche anno fa[25], nel concludere una lettura monografica dedicata al mercato del lavoro degli stranieri, si era segnalata l’esistenza di una distonia tra modello regolativo e contesto economico-sociale del mercato del lavoro che mantiene una sua perdurante attualità. Le regole dedicate al mercato del lavoro degli stranieri presuppongono un mercato del lavoro diverso da quello reale. L’effetto di questo disallineamento è misurabile dalla quantità di sanatorie che, nel corso degli anni, si sono succedute per risolvere la situazione degli irregolari presenti nel territorio italiano. Le ipocrisie delle politiche in materia di immigrazione (con il blocco sostanziale degli accessi per motivi di lavoro) concorrono, quindi, a generare floridi mercati del lavoro irregolare, mercati che oggi registrano una novità.
Dopo alcuni anni di sostanziale blocco dei canali di accesso regolare al lavoro da parte dei cittadini extra-Ue nel nostro Paese, si può riconoscere un ulteriore adattamento delle dinamiche dei flussi migratori: il distacco dei lavoratori di cittadinanza extra-Ue. Come segnala, soprattutto, la dottrina straniera, «The position of migrant workers who are “posted” by their employer from one EU Member State to work in another is particularly illuminating. The Commission and Council have since sought to extend this approach to directives covering the terms and conditions of third country nationals entering the EU as short-term seasonal workers or inter-corporate transferees»[26].
Come confermano le più recenti ricerche di matrice sociologica, il mercato è in continua trasformazione e, a livello Ue, la formula giuridica del distacco dei lavoratori extra-Ue si sta sviluppando. Dai dati della Commissione europea si conferma che, nell’Unione, lavorano circa due milioni di lavoratori in distacco (la percentuale è +41% tra il 2010 e il 2015)[27]. Questi lavoratori «sono solitamente reclutati in un paese dell’Unione per lavorare in un altro Stato membro, sebbene sempre più spesso imprese europee reclutino lavoratori di Paesi non-UE per poi inviarli in qualche altro paese europeo. È il caso, ad esempio, di molti ucraini dipendenti di imprese polacche inseriti nel mercato del lavoro ceco, o di turchi, brasiliani e marocchini che lavorano in Belgio alle dipendenze di imprese con la sede in un altro paese dell’UE. Il lavoratore in distacco ha diritto almeno ai livelli salariali minimi del paese in cui opera, ma questo diritto è facilmente aggirato e il distaccato deve sovente accontentarsi di salari lievemente più elevati rispetto alle condizioni del paese d’origine. Inoltre, essendo occupati da un’impresa che fornisce un servizio, questi migranti temporanei non hanno accesso alla previdenza sociale nel paese di destinazione dove svolgono la loro prestazione lavorativa. Accanto ai lavoratori in distacco cresce l’importanza delle agenzie di reclutamento internazionale che ingaggiano manodopera in un paese dell’UE, o talvolta anche fuori dai suoi confini, facendola poi confluire in un paese dell’UE»[28]. La dottrina più recente, nel commentare la direttiva 2018/957 sul distacco dei lavoratori, ribadisce che la crisi economica ha trasformato la mobilità dei lavoratori e delle lavoratrici; la compressione dei salari e il decentramento della contrattazione collettiva «hanno trasformato alcuni paesi, come l’Italia, da receiving country a sending country. La mobilità in uscita dagli Stati a basso salario è stata poi compensata mediante il facile rilascio di permessi di soggiorno a cittadini di paesi terzi, assunti per essere distaccati all’interno della UE (emblematico il caso dei lavoratori ucraini in Polonia)»[29].
Quella dei lavoratori extra-Ue in distacco in Italia – insieme al distacco di lavoratori italiani in altri Paesi Ue – è una formula nuova, destinata ad arricchire anche le riflessioni giuridiche in materia di lavoro, cui dedicare maggiore attenzione nel prossimo futuro. Non solo il focus principale si sposta sull’impresa e, in particolare, su quella distaccante, ma – soprattutto – le ragioni che concorrono a sostenere tale meccanismo sono lontane dall’essere affrontate e risolte, sia a livello nazionale che a livello Ue: competizione di matrice sociale al ribasso nel mercato interno, accompagnata dal sostanziale blocco delle migrazioni fisiologiche per ragioni di lavoro dai Paesi extra-Ue.
[1] J.K. Galbraith, The Good Society: The Humane Agenda, Houghton Mifflin Company, Boston-New York, 1996.
[2] L. Hayes - T. Novitz - P. Herzfeld Olsson, Migrant workers and collective bargaining: institutional isomorphism and legitimacy in a resocialised Europe, in N. Countouris e M. Freedland (a cura di), Resocialising Europe in a Time of Crisis, Cambridge University Press, Cambridge, 2013, p. 463.
[3] Si rinvia, per ogni approfondimento, al sito del progetto di ricerca «LivingStone. Vivere e lavorare in salute e sicurezza: prospettive di cambiamento per i lavoratori migranti nel settore agro-zootecnico»: www.livingstonemigration.eu.
[4] L. Calafà, Lavoro irregolare (degli stranieri) e sanzioni. Il caso italiano, inLavoro e diritto, n. 1/2017, pp. 67-90; più di recente, Id., Focus Europa. La lotta al lavoro forzato e obbligatorio. Riflessioni sul lavoro indecente dopo la pronuncia Chowdury, ivi, n. 3/2019, pp. 499-512, richiamando C. Costello, Migrants and Forced Labour: A Labour Law Response, in A. Bogg - C. Costello - A.C.L. Davies - J. Adams-Prassl (a cura di) The Autonomy of Labour Law, Hart (Bloomsbury), Oxford, 2015.
[5] L. Calafà, Lavoro irregolare, op. cit.
[6] M. Ambrosini, Immigrazione irregolare e welfare invisibile. Il lavoro di cura attraverso le frontiere, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 25.
[7] P. Taran - I. Ivakhnyuk - M. Da Conceição Pereira Ramos - A. Tanner, Economic migration, social cohesion and development: towards an integrated approach, rapporto tematico dell’8ª Conferenza dei ministri in materia di migrazione tenutasi a Kiev il 4-5 settembre 2008, pubblicato a cura del Consiglio d’Europa (Comitato europeo sulle migrazioni), Strasburgo, 2008.
[8] In attesa della trasposizione della direttiva sul lavoro stagionale (2014/36/UE), il legislatore nazionale era intervenuto in base al solo progetto di direttiva presentato dalla Commissione Ue – COM(2010) 379 def., del 13 luglio 2010 – per semplificare la procedura di accesso al lavoro stagionale (art. 17 dl n. 5/2012, convertito con modificazioni dalla l. n. 35/2012, che modifica l’art. 24 Tui, intitolato «Lavoro stagionale») con l’inserimento del silenzio assenso. Ricordando che il lavoro stagionale è l’unico canale di accesso effettivo e funzionante al mercato del lavoro nazionale da parte di stranieri, si era intervenuti per fissare un termine, decorso il quale la richiesta nominativa di uno straniero da assumere allo sportello unico per l’immigrazione s’intendeva accolta (art. 24, comma 2-bis). Altro problema di funzionalità della procedura era risolto dal nuovo comma 3-bis, che ammetteva la proroga dell’autorizzazione al lavoro e riconosceva il rinnovo del permesso di soggiorno in caso di una nuova opportunità di lavoro stagionale offerta dallo stesso o da altro datore di lavoro.
[9] V. Papa, Dentro o fuori il mercato? La disciplina del lavoro stagionale degli stranieri tra repressione e integrazione, in Diritto delle relazioni industriali, n. 2/2017, p. 367.
[10] M. McBritton, Migrazioni economiche e ordinamento italiano. Una prospettiva giuslavoristica, Cacucci, Bari, 2017, p. 122.
[11] Con riguardo all’alloggio, il comma 3 dell’art. 24 prevede che «Ai fini della presentazione di idonea documentazione relativa alle modalità di sistemazione alloggiativa di cui all’articolo 22, comma 2, lettera b), se il datore di lavoro fornisce l’alloggio, esibisce al momento della sottoscrizione del contratto di soggiorno un titolo idoneo a provarne l’effettiva disponibilità, nel quale sono specificate le condizioni a cui l’alloggio è fornito, nonché l’idoneità alloggiativa ai sensi delle disposizioni vigenti. L’eventuale canone di locazione non può essere eccessivo rispetto alla qualità dell’alloggio e alla retribuzione del lavoratore straniero e, in ogni caso, non è superiore ad un terzo di tale retribuzione. Il medesimo canone non può essere decurtato automaticamente dalla retribuzione del lavoratore».
[12] M. McBritton, Migrazioni economiche, op. cit., p. 124.
[13] Ivi, p. 126.
[14] C. Faleri, Il lavoro povero in agricoltura, ovvero sullo sfruttamento del (bisogno di) lavoro, in Lavoro e diritto, n. 1/2019, p. 149, spec. p. 153, anche per la giurisprudenza di legittimità, sul carattere tipico della natura temporanea del contratto di lavoro in agricoltura degli avventizi e dei salariati fissi.
[15] Adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con risoluzione n. 45/158 del 18 dicembre 1990, è entrata in vigore internazionale il 1° luglio 2003. Gli Stati parte, al 1° gennaio 2018, sono 52. Nel continente europeo, è stata ratificata solo da Serbia e Bosnia Herzegovina.
[16] La dichiarazione di fine missione è disponibile online al seguente indirizzo:
www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=23708&LangID=E.
[17] La Relatrice speciale Onu ha visitato Roma, varie località della Calabria, Foggia e Cerignola in Puglia, Latina nel Lazio.
[18] V. Papa, Dentro o fuori il mercato?, op. cit., p. 367.
[19] La Relazione è stata elaborata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza, di identificazione ed espulsione, nonché sulle condizioni di trattenimento dei migranti e sulle risorse pubbliche impegnate, istituita con delibera della Camera dei deputati del 17 novembre 2014, modificata con delibera del 23 marzo 2016 (doc. XXII-bis, n. 21).
[20] Direttiva collegata alla dir. 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, entrambe trasposte in Italia con d.lgs n. 142/2015.
[21] Una ricognizione limitata alle risposte più datate non può non ricordare che, di fronte alla prima emergenza – circa 50.000 sbarchi di persone provenienti dall’Albania tra il 1990 e il 1991 –, le autorità italiane concedono un permesso di lavoro a carattere straordinario valido per un anno, cui segue la chiusura delle frontiere dopo l’aumento degli arrivi.
Con riguardo agli arrivi conseguenti alla guerra civile in Somalia nel 1991, considerando anche che gli arrivi erano meno numerosi e meno visibili all’opinione pubblica, con il decreto del Ministro degli affari esteri del 9 settembre 1992, si dispone che ai cittadini somali sia rilasciato, a richiesta, un permesso temporaneo di soggiorno per motivi di studio e di lavoro della durata massima di un anno e rinnovabile alla scadenza, nel caso dovessero perdurare le condizioni di impedimento al rimpatrio.
Nella Relazione, la sfida più impegnativa è considerata quella dell’arrivo degli sfollati dalla ex Jugoslavia a seguito dello scoppio della guerra in quei territori, nel giugno del 1991. Come espressamente scritto, la «vicinanza geografica, cosi come la buona conoscenza dell’Italia da parte dei cittadini jugoslavi, fa sì che l’Italia diventi – con circa 80.000 sfollati – il secondo Paese europeo, dopo la Germania, per numero di persone accolte. La procedura d’asilo prevista dalla legge Martelli mal si adatta anche al caso degli sfollati ex jugoslavi, i quali fuggono da una situazione di violenza generalizzata piuttosto che da persecuzioni individuali. Di conseguenza queste persone, pur non rientrando nelle fattispecie contemplate dalla Convenzione di Ginevra, hanno bisogno di una qualche forma di protezione ancorché di carattere straordinario. Infatti, all’insorgere del conflitto è previsto che ai cittadini provenienti dai territori di questa regione sia rilasciato un permesso di soggiorno per motivi umanitari valido tre mesi. Successivamente, ai sensi del decreto legge 24 luglio 1992, n. 350, convertito nella legge 24 settembre 1992, n. 390 (“Interventi straordinari di carattere umanitario a favore degli sfollati delle Repubbliche sorte nei territori della ex Jugoslavia”), la durata del permesso viene portata a un anno, estendendolo anche a motivi di lavoro e di studio» (Relazione cit., p. 36).
[22] Il d.lgs n. 142/2015 è di attuazione della dir. 2013/33/UE, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della dir. 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale. L’art. 22-bis è stato successivamente inserito dall’art. 8, comma 1, lett. d, dl n. 13/2017 (cd. “decreto Minniti”), convertito con modificazioni dalla l. n. 46/2017.
[23] Come spiega il successivo comma 3, «i Comuni, le regioni e le province autonome possono predisporre, anche in collaborazione con le organizzazioni del terzo settore, appositi progetti da finanziare con risorse europee destinate al settore dell’immigrazione e dell’asilo».
[24] G. Calvellini, I richiedenti asilo nel diritto del lavoro italiano, in Lavoro e diritto, n. 4/2019, pp. 665-688.
[25] L. Calafà, Migrazione economica e contratto di lavoro degli stranieri, Il Mulino, Bologna, 2012, p. 156.
[26] L. Hayes - T. Novitz - P. Herzfeld Olsson, Migrant workers, op. cit, pp. 448-449.
[27] https://ec.europa.eu/social/main.jsp?catId=471.
[28] D. Sacchetto, Rifugiati, migranti e mercato del lavoro nell’Unione europea. Alcune note, in Connessioni precarie, 23 gennaio 2018, www.connessioniprecarie.org/2018/01/23/rifugiati-migranti-e-mercato-del-lavoro-nellunione-europea-alcune-note/#_ftn18.
[29] S. Borelli, La direttiva sul distacco dei lavoratori: ancora un passo avanti verso il diritto comunitario del lavoro?, in Aa. Vv., I lavoratori e i cittadini: trasformazioni del diritto sociale, Il Mulino, Bologna, p. 87 ss. (il saggio raccoglie contributi di A. Avio, G.G. Balandi, F. Bano, S. Borelli, S. Buoso, L. Calafà, S. Renga), che rinvia a S. Archain, On illegal posting by temporary work agencies. Between use and abuse of the European Union’s legislation, in L’altro diritto, n. 1/2017, pp. 99 ss.; A.H. Chudžíková e Z. Bargerová, Victims of labour exploitation or “illegal” migrants? Ukrainian workers’ labour rights protection in Slovakia, CVEK – Centro per la ricerca sull’etnicità e la cultura, Bratislava, 2018, http://cvek.sk/wp-content/uploads/2018/02/WEB_EN.pdf; M. Čaněk - K. Kall - N. Lillie - A. Wallace - B. Haidinger, Transnational Cooperation among Labour Regulation Enforcement Agencies in Europe: Challenges and Opportunities Related to the Posting of Workers – Technical Report, pubblicazione a cura della rete SOLIDAR, Bruxelles, 2018, p. 29 (www.forba.at/wp-content/uploads/2018/12/TNC_Report_-_Challenges_and_Opportunities_Related_to_the_Posting_of_Workers___Attachements.pdf); Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA), Severe labour exploitation: workers moving within or into the European Union, Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea, Lussemburgo, 2015 (https://fra.europa.eu/sites/default/files/fra-2015-severe-labour-exploitation_en.pdf).