La tutela penale del lavoro
A fronte delle incertezze che oggi gravano sulla tutela penale della salute dei lavoratori (come dimostrano le statistiche annuali sull’aumento delle morti in occasione di lavoro) e del vuoto di consapevolezza – presente nell’opinione pubblica come nelle istituzioni – del suo valore quale principio di civiltà di un Paese, la stessa magistratura non ha ancora trovato modo di assicurare una tutela tempestiva ed efficace. Solo la giurisprudenza di legittimità, negli ultimi lustri, ha dato vita a un fecondo dibattito, capace di sottolineare l’importanza della tutela penale dei fondamentali diritti dei lavoratori alla vita e alla salute.
1. La crisi non passeggera della tutela penale del lavoro
La tutela penale dei lavoratori trova il suo fondamento, specialmente per quanto riguarda la salute e la sicurezza sul lavoro, nell’art. 41 Cost., che prevede limiti alla libertà d’iniziativa economica a salvaguardia della libertà, della sicurezza e della dignità dei lavoratori. Tuttavia, è opinione largamente condivisa che la scelta del legislatore penale di punire non solo gli eventi di morte o le lesioni riportate dai lavoratori, ma anche, con apposite contravvenzioni, la mancata eliminazione dei rischi sul lavoro, risieda nell’importanza dei beni giuridici in gioco, che sono di rilevanza costituzionale. La severità dell’impianto che tutela la vita e l’incolumità dei lavoratori non ha impedito che, da almeno un lustro, il quadro relativo alla tutela dei lavoratori sul posto di lavoro sia offuscato da elementi di cattivo segno. Le prime preoccupazioni sono venute dai dati statistici degli ultimi anni relativi agli infortuni e alle malattie contratte a causa del lavoro. L’aumento degli infortuni mortali (non clamoroso, ma significativo) e quello (pure notevole) delle malattie professionali denunciate all’Inail, ha destato qualche allarme, confermato poi dal trend degli anni successivi, in controtendenza rispetto al numero delle ore lavorate, che in tempi di dilagante disoccupazione sono certamente e drasticamente diminuite. Ci si sarebbe aspettati che, con le migliori tecnologie progressivamente in uso e con la diffusa precarizzazione del lavoro che caratterizza tutte le zone del nostro Paese, i numeri degli infortuni e delle malattie professionali avrebbero registrato un calo. Non è stato così. E allora è opportuno interrogarsi sulle cause della sempre meno incisiva tutela dei lavoratori. Gli interrogativi riguardano molti aspetti e molti soggetti: coloro che sono preposti alla prevenzione, il legislatore, gli organi di governo e le istituzioni e, infine, la magistratura, che ha il compito di reprimere i reati in questa materia.
È evidente che le sorti della tutela penale del lavoro sono strettamente legate alle vicende della prevenzione nei luoghi di lavoro. In un sistema normativo tutto incentrato sull’anticipazione del momento della tutela dei lavoratori, fino a prevedere la rinunzia alla pretesa punitiva da parte dello Stato per i contravventori che rimuovano le situazioni di rischio rilevate nei luoghi di lavoro in occasione delle ispezioni[1], è evidente che il primo strumento di tutela sia la efficiente prevenzione dei rischi da parte dei soggetti obbligati. I quali stanno su due versanti: all’interno delle aziende (datori di lavoro e loro collaboratori) e all’esterno delle aziende (costruttori e fornitori di macchine). Sull’efficacia dei sistemi di prevenzione adottati dalla aziende dovrebbero vigilare i servizi ispettivi delle asl, con una programmazione dei controlli adeguata al numero dei luoghi di lavoro e alla tipologia delle lavorazioni.
Questo meccanismo, coerente con le esigenze della protezione della salute e dell’incolumità dei lavoratori, non dispone però degli strumenti necessari per realizzare le finalità previste dal legislatore. Anzi, viviamo un periodo di pesanti attacchi ai diritti dei lavoratori, non solo per quanto riguarda il rapporto di lavoro e le relative garanzie, ma anche con riguardo ai diritti fondamentali della vita, della salute e dell’incolumità.
Forse è bene riconoscere che la tutela di questi fondamentali diritti, almeno per quanto riguarda i luoghi di lavoro, non è mai stata al centro dei programmi di nessun governo e nemmeno dei progetti di nessuna forza politica negli ultimi cinquant’anni. La sicurezza del lavoro ha vissuto qualche stagione di riforme, di dibattito e di interesse da parte di medici del lavoro, studiosi, magistrati progressisti e sindacalisti consapevoli. Erano i primi anni settanta, quelli immediatamente successivi alla straordinaria stagione di riforme che era culminata nell’approvazione dello Statuto dei lavoratori. Ma questa attenzione poggiava più sulle istanze della parte illuminata della società civile e delle associazioni sindacali, che sulle priorità della classe politica. Poi l’attenzione è scemata e le conseguenze sono state inevitabilmente avvertite nelle fabbriche e nelle aziende di ogni tipo.
Nello stesso tempo, occorre dire con grande chiarezza che la tutela penale del lavoro non è stata mai “centrale”, neppure per la magistratura nel suo complesso. Ha costituito un’eccezione, per qualche decennio, uno sparuto gruppo di pretori e (dopo l’istituzione del giudice unico) di procuratori della Repubblica, che hanno dato vita a una notevole specializzazione in materia di tutela penale del lavoro negli uffici giudiziari di alcune Regioni italiane. Si è trattato, però, di esperienze che non hanno lasciato segni duraturi negli uffici giudiziari e che si sono esaurite a mano a mano che i magistrati “specialisti” sono usciti di scena. La stragrande maggioranza dei magistrati si è accostata a questa materia senza quell’impegno culturale e organizzativo che ha caratterizzato altre materie: come, ad esempio, i processi relativi alla criminalità organizzata, al terrorismo, alla violenza di genere, ai reati contro l’amministrazione pubblica, ai reati societari e altri. Il risultato è che, attualmente, si celebra un numero di processi penali assolutamente sproporzionato per difetto rispetto all’imponente numero di infortuni gravi e mortali che accadono sul lavoro. Così come non si perseguono, se non in casi sporadici, i reati relativi alle malattie contratte sul lavoro.
2. La prevenzione nelle aziende segna il passo
Una diffusa indifferenza ha dunque caratterizzato la tutela penale del lavoro lungo tutti gli anni ottanta e nella prima metà degli anni novanta. Ci sono volute le direttive europee, e la necessità di recepirle da parte degli Stati membri, per riportare l’attenzione e il dibattito tra gli addetti ai lavori. L’attuazione di queste direttive, prima con il notissimo d.lgs n. 626/1994 e, più recentemente, con il d.lgs n. 81/2008, ha dato vita a un sistema nel quale la sicurezza non costituisce più un interesse assoluto che preveda l’eliminazione di tutte le situazioni pericolose, anche fino alla cessazione delle attività di fronte alla sicura impossibilità di eliminazione del pericolo. Piuttosto, la ratio della legislazione di origine comunitaria tende alla minimizzazione dei rischi, che impone il bilanciamento con altri interessi attraverso i criteri del “concretamente possibile” e del “tecnicamente attuabile”[2]. Si aggiunga che i menzionati decreti di recepimento delle direttive comunitarie hanno introdotto nel nostro ordinamento la prevenzione imperniata sulla gestione di tutti i rischi attraverso la programmazione delle misure necessarie assunte a seguito di un’attenta valutazione globale dei rischi. Si tratta di un “procedimento”, obbligatorio per il datore di lavoro, scandito appunto dalla valutazione di tutti i rischi e dalla conseguente e coerente programmazione delle misure di sicurezza.
Un sistema di tal genere, per tradursi in effettiva garanzia della salute dei lavoratori, ha però bisogno di due irrinunciabili strumenti: a) di apprestare un sistematico programma di controlli amministrativi nelle aziende; b) di poter contare su una giustizia efficiente nel caso che le norme di prevenzione vengano violate e si verifichino eventi lesivi da infortunio o malattia professionale.
L’esperienza rende inevitabile concludere che nessuno dei due strumenti ha funzionato in modo accettabile in questi ultimi anni. Quanto ai controlli nelle aziende, è noto che le indicazioni fornite dalle Regioni alle aziende sanitarie locali prescrivono che sia visitato almeno il 5 per cento del totale delle aziende. Ma il dato numerico non è in grado di dire molto sulla qualità e sull’efficacia dei controlli. E così, ogni anno si registrano circa 150-200.000 accessi nei luoghi di lavoro da parte degli organi di vigilanza delle asl, assolutamente insufficienti non solo a garantire la qualità dei sistemi di sicurezza adottati dalle aziende, ma perfino a far percepire ai datori di lavoro una qualche probabilità di essere controllati. In sostanza, ogni anno circa il 95 per cento delle aziende esistenti nel nostro Paese (e, in talune Regioni, una percentuale ancora maggiore!) ha la ragionevole speranza di non essere controllato dal personale ispettivo. A una situazione di tal genere occorrerebbe porre rimedio utilizzando un maggior numero di addetti e rendendo effettivi i controlli, specialmente nelle lavorazioni con maggior rischio. E invece, nel giro di pochi anni, in linea con la generale tendenza esistente in tutti i settori della pubblica amministrazione, il personale addetto ai servizi di prevenzione nei luoghi di lavoro è vertiginosamente calato: si è passati da i 5.060 operatori in servizio nel 2008 ai 4.132 del 2013, fino ai 3.236 in servizio nel 2017[3]. Il calo è confermato anche nel 2018, benché non vi siano dati precisi più recenti.
3. Le riforme possibili e la formazione
Ma non si tratta solo del drastico ridimensionamento degli organici dei servizi delle asl. Ci sono anche gli effetti negativi della scarsità degli investimenti pubblici in materia. Si prenda il caso della Lombardia, certamente la Regione più industrializzata d’Italia e quella che impegna le maggiori risorse in materia di prevenzione. Ebbene, la Lombardia investe in prevenzione una percentuale del Fondo sanitario, ben al di sotto del 5 per cento, che è il valore da tempo stabilito dagli indirizzi nazionali. E le altre Regioni investono ancora di meno: tutto il contrario di quanto si dovrebbe fare, dal momento che, come ormai hanno dimostrato diversi studi, per ogni euro investito in prevenzione vi sono quattro euro di guadagno in salute.
Serve dunque un salto di qualità negli interventi e negli investimenti, se si vuole che le norme siano pienamente attuate da parte degli imprenditori e che la sicurezza e la salute dei lavoratori siano davvero al centro dell’attenzione pubblica. Peraltro, tale salto di qualità si otterrà soltanto sostenendo, da un lato, sia la qualificazione delle imprese sia la partecipazione dei lavoratori, e rafforzando, dall’altro, la rete dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS). Ma soprattutto serve una migliore qualità delle imprese, segnatamente di quelle che svolgono lavorazioni a elevato rischio. Una qualità che non può prescindere dall’obbligo di formazione alla sicurezza dei datori di lavoro che intendono intraprendere tali attività. Sembra incredibile, ma fin dall’entrata in vigore del decreto n. 626/1994, si è avviato nel nostro Paese un imponente processo di formazione in materia di salute e sicurezza del lavoro che ha coinvolto tutti i soggetti interessati: dai lavoratori ai preposti, ai dirigenti, ai professionisti con incarichi di responsabile dei servizi di prevenzione e protezione, ai medici competenti, ai coordinatori per la sicurezza, ai rappresentati dei lavoratori per la sicurezza. In sostanza, tutti i protagonisti del processo produttivo e tutti i soggetti incaricati della prevenzione sono stati obbligatoriamente impegnati nel processo di formazione. Tutti, ma non i datori di lavoro. Si tratta di un’anomalia, rispetto al resto dell’Europa, che neppure è giustificata dal contenuto delle norme vigenti. Anche in Italia l’imprenditore è un professionista, secondo la definizione contenuta nell’art. 2082 del cc. Ma, mentre negli altri Paesi europei vengono rigorosamente verificati i requisiti di chi aspira a fare l’imprenditore, in Italia è sufficiente manifestare la volontà di intraprendere e si può dar vita a un’attività imprenditoriale anche quando, da parte del richiedente, non vi sia alcuna preparazione o formazione.
I danni di questa mancanza di disciplina specifica sono incalcolabili, se si pensa che proprio in capo al datore di lavoro grava l’onere di apprestare le condizioni generali di sicurezza e il relativo “sistema” di prevenzione. Si tratta perciò dei soggetti che, più di ogni altro, dovrebbero essere sottoposti all’obbligo di una formazione adeguata e ripetuta nel tempo. Un intervento legislativo su questo tema cruciale sarebbe auspicabile, così come sarebbe urgente intervenire su una serie di temi che un recente documento del Coordinamento fra le Regioni ha sottoposto all’attenzione del Governo[4]. Si tratta di proposte la cui attuazione non è eccessivamente costosa, sicuramente capaci di limitare il numero degli infortuni mortali che continuano a funestare questo Paese, come dimostra il recentissimo infortunio in una fabbrica di fuochi di artificio nel napoletano, che ha provocato cinque morti e due feriti gravi.
Non sono dunque le proposte che mancano, ma la concreta volontà politica di determinare una svolta capace di eliminare l’annoso fenomeno infortunistico. Ma è del tutto chiaro che la mancanza di volontà politica riposa sull’atteggiamento tiepido dell’opinione pubblica di fronte a un fenomeno di per sé allarmante e, tuttavia, capace di provocare qualche reazione solo all’indomani di gravi infortuni mortali che, o per il numero di vittime o per le modalità del loro accadimento, commuovono l’opinione pubblica. Si tratta, però, di reazioni destinate a spegnersi presto: l’emozione di un giorno e poi fatalmente si torna al lento stillicidio di tre o quattro morti al giorno, nell’indifferenza dei media e dell’opinione pubblica.
4. Il ruolo dei magistrati: un’autocritica necessaria
Tutto ciò impedisce non solo di considerare il fenomeno infortunistico come un’autentica emergenza nazionale, ma anche di investire risorse e di mettere in atto misure organizzative capaci di offrire qualche rimedio. Questa sorta di indifferenza collettiva investe anche l’operato della magistratura. Come si è già accennato, il corpo giudiziario in generale non ha mai considerato la tutela penale della salute dei lavoratori come una priorità e perciò l’organizzazione giudiziaria non ha mai pensato, in termini culturali e organizzativi, di farne una questione centrale. Talvolta l’ha fatto il legislatore, dettando criteri di priorità nella formazione dei ruoli di udienza, oppure escludendo i reati in materia di sicurezza del lavoro dai provvedimenti di amnistia. Ma ci vuol altro per promuovere il dibattito e l’attenzione in quella cerchia ristretta che sono i giuristi e, ancor più, nell’opinione pubblica. Non si tratta di una di quelle materie che sono al centro del discorso politico-giuridico o dell’attenzione dei media. Come lo sono, invece, altri illeciti penali: dai reati di corruzione a quelli di mafia o alla violenza contro le donne. Sono le stesse materie che, inevitabilmente, sono anche al centro dell’attività giudiziaria.
Certo, non si può ignorare che qualche sforzo è stato fatto per attirare l’attenzione dei magistrati sulla gravità del fenomeno infortunistico. Si possono ricordare le passate iniziative (e, forse, sarebbe bene dire: gli sforzi) del Csm per indurre i dirigenti dei tribunali e delle procure a istituire sezioni specializzate in talune materie (tra le quali anche la salute e sicurezza sul lavoro) o, nell’impossibilità di istituire sezioni ad hoc, a designare almeno alcuni magistrati che si occupassero prevalentemente delle materie speciali. Gli ultimi vent’anni hanno visto seri tentativi di specializzazione in molti uffici giudiziari, ma quasi mai nella materia di cui ci occupiamo: i magistrati designati a occuparsi del diritto penale del lavoro, nella generalità dei casi, dopo qualche tempo hanno scelto altri gruppi di specializzazione ritenuti più attraenti. Ma la tutela penale dei lavoratori è una materia che richiede molto tempo e una certa tenacia per diventare specialisti. E, anche in questo caso, la svogliatezza dei magistrati (salvo significative eccezioni, si capisce) nel dedicarsi a un settore così difficile rivela una cultura – diffusa a ogni livello sociale – che non considera la sicurezza sul lavoro come un diritto inviolabile della persona da garantire ad ogni costo. Questo spiega anche il motivo per cui, nella maggioranza dei tribunali e delle procure del nostro Paese, non si sia mai dato l’avvio ad alcuna seria specializzazione in materia.
Ricordo a questo proposito un meritorio intervento del Csm, che avviò una ricerca capillare tra gli uffici giudiziari per rilevare le specializzazioni esistenti in materia di salute sul lavoro. La ricerca, conclusa con una puntuale deliberazione adottata dal plenum nella seduta del 28 luglio 2009, “prendeva atto” del quadro «variegato e non rassicurante» circa la trattazione e repressione dei reati relativi agli infortuni sul lavoro e alle malattie professionali. La ricerca intendeva accertare pochi, ma significativi punti: se la materia fosse trattata indifferentemente da tutti i magistrati dell’ufficio; se fossero addetti alla trattazione singoli magistrati specializzati; se fosse stato istituito un gruppo di magistrati specializzati; quali fossero i tempi medidi definizione dei procedimenti per i reati derivanti da infortunio o malattia professionale. Ebbene, le risposte degli uffici giudiziari tracciavano un panorama disomogeneo e assai deludente: su 165 procure, solo 49 avevano istituito i gruppi specialistici, 18 si affidavano a singoli magistrati “specialisti”, 98 non dedicavano nessuna attenzione particolare a questi reati e ne affidavano la trattazione indifferentemente a tutti i magistrati. Invece, su 165 tribunali, solo uno si era dotato di un gruppo specialistico e un altro soltanto faceva ricorso al singolo magistrato specializzato. È curioso osservare che, in questo caso dei due tribunali virtuosi, nessun magistrato specializzato operava parallelamente nelle rispettive procure.
Questo quadro veniva dal Csm definito «preoccupante in quanto non appare proporzionale alla tipologia dimensionale degli uffici interessati dal monitoraggio, stante che non tutti gli uffici giudiziari di medie dimensioni contemplano specializzazioni sul punto». La deliberazione del plenum si concludeva con un forte richiamo: «occorre che gli uffici giudiziari imprimano il massimo impegno nella trattazione e celere definizione dei reati in argomento (…); tale impegno, quanto agli uffici inquirenti, può realizzarsi (…) mediante la costituzione di appositi gruppi di lavoro, dedicati, in via anche esclusiva, alla trattazione dei reati in argomento e alla predisposizione di protocolli di indagine concordati con settori specialistici della polizia giudiziaria; nonché, quanto agli uffici giudicanti, prestando massima attenzione alla prioritaria fissazione nei ruoli di udienza dei processi relativi ai reati commessi in violazione delle norme relative alla prevenzione degli infortuni sul lavoro e alla sollecita definizione degli stessi nel rispetto del principio di ragionevole durata previsto dalla Carta Costituzionale».
Dunque la situazione, già dieci anni fa, non era incoraggiante. Chi abbia qualche conoscenza degli uffici giudiziari sa bene che la situazione odierna non è affatto migliorata. E, anzi, presenta qualche aspetto di maggior preoccupazione se si esamina la quantità e la qualità dei processi che vengono affrontati dalle procure e dai tribunali italiani.
Per quanto riguarda la quantità dei procedimenti penali avviati dalle procure e di quelli decisi dai tribunali, occorre ricordare che le norme della procedura penale prevedono la procedibilità obbligatoria per gli infortuni o le malattie professionali che abbiano cagionato la morte oppure lesioni guarite in tempo superiore ai quaranta giorni, o che abbiano determinato postumi permanenti. Secondo le indicazioni fornite dall’Inail, rispetto al totale di 6.362.500 infortuni denunciati nel periodo 2010-2018, quelli mortali sono stati 7.103 (0,11 per cento), quelli con esiti gravi sono stati 1.106.044 (19,38 per cento). Si riportano, di seguito, i numeri degli infortuni mortali gravi relativi al periodo 2010-2018[5]:
Anno | Infortuni mortali o gravi |
2010 | 149.932 |
2011 | 139.815 |
2012 | 128.385 |
2013 | 121.580 |
2014 | 117.333 |
2015 | 113.726 |
2016 | 114.817 |
2017 | 114.516 |
2018 | 105.660 |
Non è dato sapere quanti procedimenti siano stati iscritti nello stesso arco di tempo dalle procure della Repubblica dell’intero Paese, perché mancano i dati relativi alla specifica materia della salute sul lavoro. Una qualche indicazione indiretta si può trarre dai report elaborati dalle Regioni (solo per gli anni dal 2007 fino al 2016) relativamente al numero delle indagini su infortuni e malattie professionali concluse dalle asl dei singoli territori regionali. Questi i dati complessivi che riguardano le inchieste condotte dalle aziende sanitarie di tutto il territorio nazionale:
Anno | Inchieste concluse | |
Infortuni | Malattie prof. | |
2010 | 16.337 | 8.863 |
2011 | 16.958 | 9.909 |
2013 | 15.402 | 9.277 |
2014 | 15.392 | 10.222 |
2015 | 11.702 | 8.246 |
2016 | 11.582 | 7.782 |
Sono numeri[6] che possono essere indicativi della iscrizione delle notizie di reato relative agli infortuni nel registro generale delle procure, dal momento che gli ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti ai servizi asl incaricati di svolgere le indagini sugli infortuni mortali e gravi, comunque procedibili di ufficio, hanno il dovere di inviare le inchieste svolte alla competente procura della Repubblica.
Il dato è preoccupante, soprattutto sotto il profilo della sproporzione esistente tra il numero complessivo di infortuni mortali o gravi e il numero delle inchieste svolte dai servizi delle asl che, presumibilmente, hanno dato vita a un procedimento penale. Il confronto tra il numero degli infortuni mortali accaduti per anno, sommato a quello degli infortuni gravi, e il numero delle inchieste annualmente svolte e tramesso alle procure è sconsolante[7]. Ogni anno, solo una percentuale che oscilla tra il 10 e il 15 per cento degli infortuni mortali o gravi è oggetto di indagini da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria dei servizi asl. I restanti sfuggono all’indagine ed è presumibile che non vengano neppure iscritti sui registri della Procura, se non in qualche raro caso. Ci sarebbe da chiedersi con quali criteri si proceda all’indagine su certi infortuni e non su altri di gravità pari o superiore, e perché mai il flusso delle notizie di reato perseguibili di ufficio che giungono alle procure competenti presenti lacune così vistose. Sono note alcune lodevoli iniziative di qualche procura, che ha adottato meticolosi protocolli di gestione delle notizie di reato, in accordo con le strutture di pronto soccorso del territorio e con gli organi di polizia giudiziaria delle aziende sanitarie che si incaricano delle inchieste sugli infortuni. Ma questi pochi esempi virtuosi tardano a diffondersi su tutto il territorio nazionale, con l’inevitabile conseguenza che l’intervento della magistratura appare disordinato, spesso casuale e privo degli effetti “pedagogici” e deterrenti che i processi penali in questa materia dovrebbero avere.
Nessuna conclusione si può trarre, invece, in ordine all’azione delle procure dopo l’iscrizione delle notizie di reato relative agli infortuni sul lavoro e alle malattie professionali. Non mi pare che esistano dati certi per tutto il territorio nazionale, capaci di far luce sull’esito giudiziario dei procedimenti iscritti. Non si conosce il numero complessivo delle archiviazioni né dei rinvii a giudizio, né il numero delle sentenze di merito pronunziate dai tribunali e dalle corti d’appello in questa specifica materia. È noto, però, che le archiviazioni e i proscioglimenti delle persone sottoposte a indagini sono certamente di numero superiore a quello delle condanne.
5. I meriti della giurisprudenza di legittimità
Da questi pochi cenni, si ricava l’immagine di una magistratura di merito del tutto inadeguata a fronteggiare un fenomeno imponente e, nello stesso tempo, complesso com’è quello dei reati in materia di salute dei lavoratori. Queste carenze non incidono solo sulla quantità dei reati presi in esame, ma anche sulla qualità delle pronunzie dei giudici. Ed è facile previsione quella secondo cui, fino a che non saranno affrontati i nodi dell’organizzazione degli uffici in vista del numero e della gravità di questi processi e fino a che non maturerà una sufficiente specializzazione dei magistrati del merito, la situazione attuale è desinata a durare, quale conseguenza della mancata “centralità” della tutela penale del lavoro. Tale centralità sarà recuperata solo quando Governo, Parlamento, Regioni, aziende sanitarie e l’opinione pubblica, finalmente più avvertita, converranno sulla necessità di mettere in campo tutti gli strumenti capaci di realizzare una più efficace prevenzione della salute dei lavoratori e una più rigorosa repressione dei relativi reati.
Se si guarda alla qualità delle pronunzie dei giudici, non si può evitare di rilevare che prevalgono le archiviazioni del procedimento e le assoluzioni, per varie cause, degli imputati. Ma anche talune pronunzie di condanna non sempre colpiscono i soggetti titolari degli obblighi la cui violazione ha cagionato l’evento lesivo. Si tratta di errori che talora vengono sanati nel giudizio di appello e talvolta no. In ogni caso, le pronunzie arrivano a tale distanza di tempo dai fatti, da perdere ogni significato di monito non solo per la collettività, ma per gli stessi soggetti sottoposti a processo.
In questo panorama di oggettiva difficoltà della magistratura, fa eccezione da molti anni la giurisprudenza della Corte di cassazione. La quale non solo provvede, quando è possibile, a correggere gli eventuali errori dei giudici di merito, ma è riuscita a elaborare, con un impegno che ormai dura da molti lustri, una serie di principi che, in una materia tanto complessa, assolvono il compito di tracciare chiare linee di indirizzo anche per la giurisprudenza di merito. Le occasioni che hanno spinto la Corte a privilegiare la materia della tutela penale del lavoro per dare vita a una vasta elaborazione giurisprudenziale, rimandano a una serie di gravissimi infortuni sul lavoro e ad un’impressionante sequenza di lavoratori morti per effetto di malattie collegate all’uso dell’amianto sul lavoro.
Soprattutto i temi della causalità e della colpa, da qualche tempo, hanno impegnato la Corte (e, di riflesso, la dottrina) in un dibattito che ha avuto effetti ben oltre i confini del diritto penale del lavoro. Sulla scorta delle sentenze della Corte, si è aperto un vivace dibattito, che ha visto molteplici e autorevoli contributi capaci di dare nuova luce ai tradizionali canoni giuridici della “causalità” e della “colpa”. Il dibattito che ne è scaturito ha, da un lato, sottolineato la crisi delle categorie tradizionali del diritto penale, dal momento che è indubbio che soprattutto i processi per le morti di amianto hanno dimostrato che i canoni classici della responsabilità penale, diretti ad accertare colpa e causalità individuale, hanno mostrato più di una lacuna; dall’altro, ha consentito di mettere a fuoco la struttura di alcuni istituti che nel tempo, sotto la spinta di alcune pronunzie della giurisprudenza, sono profondamente mutati. Chi ha sempre considerato la colpa come fondamentale elemento psicologico del reato ha potuto osservare un progressivo mutamento concettuale: la concezione “normativa” della colpa l’ha inevitabilmente trasformata in una modalità del fatto. La colpa, perciò, non è più solo un elemento psicologico della condotta dell’agente, ma è divenuta un decisivo elemento del fatto su cui il giudice è chiamato a pronunziarsi[8].
Tuttavia, le preziose indicazioni della Corte di cassazione, frutto di sofferte scelte giurisprudenziali, non sempre sono state seguite dalla magistratura del merito. Anzi, sono stati molti, e qualche volta anche ingegnosi, i tentativi di lasciarsi alle spalle le difficoltà che insorgono quando si tratti di provare la causalità individuale e la misura soggettiva della colpa nei processi penali che riguardano il danno occorso alla persona in occasione di lavoro. Si può dire che non si intravvede ancora la fine della lunga serie di casi, soprattutto mortali, legati all’esposizione di sostanze tossiche come l’amianto, e che non è imprudente ritenere che, per qualche tempo, ancora si continuerà a morire di amianto e si continueranno a celebrare i relativi processi penali, soprattutto nelle corti di merito, un notevole numero dei quali non arriva agli onori delle cronache o al vaglio della Cassazione. Ma sono i processi in cui, più chiaramente, emergono gli orientamenti contrastanti espressi dalla scienza, dall’epidemiologia e dalla giurisprudenza.
Ai contrasti in materia di accertamento del nesso causale si affianca, nella giurisprudenza, una non completa consonanza per quanto riguarda la materia della colpa. Anzi, si può dire che i giudici, specie quelli del merito, si avvicinino all’argomento con una certa timidezza e siano ancora lontani da una apprezzabile elaborazione delle categorie della colpa.
Tutto questo è sufficiente per cogliere tutta la portata della crisi che ha toccato il diritto penale dell’evento. Non c’è dubbio che la tutela apprestata dal codice penale per i reati tipici dell’attività lavorativa sia fondata sul rilievo dell’evento di danno, che deve essere accertato attraverso le categorie della causalità e della colpa; ma è facile accorgersi che, ormai, gli stessi reati di evento presentano una struttura diversa e più complessa rispetto al passato, e che anche i comportamenti di cui il reato è conseguenza non possono essere più definiti “individuali” in senso stretto perché il bene tutelato è messo in pericolo da diversi contesti offensivi, tipici della società del rischio. Ed è anche per questo che il sistema penale non riesce più a gestire gli eventi di danno che scaturiscono dalle sempre più sofisticate applicazioni industriali. Con il progresso tecnico si sono diffusi numerosi fattori di rischio, di cui non sempre è chiara la portata e di cui è difficile affermare la causalità.
6. L’anticipazione della tutela penale del lavoro e la crisi del processo penale dell’evento
Consapevole di queste nuove esigenze, il legislatore, nel corso degli anni, ha anticipato la tutela dei beni in pericolo sviluppando il “diritto della prevenzione”, nel tentativo di impedire, per quanto è possibile, gli eventi dannosi. Così come proprio l’esigenza di anticipazione della tutela dei beni giuridici della salute e dell’incolumità individuale ha suggerito al legislatore del d.lgs n. 81/2008 di introdurre nell’ordinamento la responsabilità amministrativa degli enti, estesa ai casi in cui i delitti colposi di omicidio e lesioni personali siano stati commessi con violazione delle norme di prevenzione sul lavoro. Si è ritenuto, cioè, che il coinvolgimento degli enti collettivi che rispondono sul piano amministrativo possa riequilibrare il rapporto tra le esigenze di prevenzione, certamente sentite nel mondo post-industriale, e le esigenze di garanzia che devono presiedere all’accertamento della responsabilità penale individuale. Spostando il peso della responsabilità prevenzionale sulla sfera amministrativa (ed economica) degli enti, il legislatore tenta di salvaguardare i canoni classici della responsabilità penale diretti ad accertare colpa e causalità individuali. Ed è ancora questa la ragione per la quale, attraverso i criteri stabiliti nell’art. 30 d.lgs n. 81, si è cercato di diffondere modelli di organizzazione e di gestione della sicurezza la cui adozione, comportando l’efficacia esimente della responsabilità amministrativa, può assolvere meglio le funzioni di tutela dal rischio nei luoghi di lavoro.
Bisogna dire, però, che lo strumento normativo che consente di attribuire all’ente la responsabilità dell’evento è ancora utilizzato molto timidamente dai giudici del merito. Si aggiunga che queste innovazioni legislative non hanno evitato i tentativi di adottare pericolose scorciatoie per superare le insidie della crisi del diritto penale dell’evento. Si spiegano così le imputazioni per reati dolosi di generico pericolo in luogo delle tradizionali contestazioni dei reati di evento per colpa: rivolte, da un lato, a evitare le difficoltà della prova dell’esistenza della causalità individuale e, dall’altro, a ottenere pene più severe per un delitto “più grave”. Si tratta di un tentativo che riporta alla storica divisione presente nel codice penale tra i reati “gravi” puniti per dolo e i reati “meno gravi” puniti a titolo di colpa. Questa distinzione, certo, era giustificata in un tempo in cui il legislatore aveva a che fare con una società pre-industriale, che non conosceva eccessivi rischi nelle attività produttive. Ma oggi l’organizzazione del lavoro è così complessa, le fonti di rischio così numerose e i centri di imputazione della responsabilità così diversi, da non consentire più di ritenere che i delitti colposi siano delitti “minori”.
Resta tuttora forte nella percezione comune, e anche in quella di molti giuristi, la convinzione relativa alla centralità del fatto doloso e alla residuale importanza del fatto colposo. Questa cultura impedisce di comprendere che l’indifferenza verso i doveri sociali e la violazione delle norme di prudenza e di cautela hanno gravissime ricadute sul vivere civile. Si aggiunga che il ripiegamento sulle fattispecie dolose da parte del giudice, oltre a costituire una discutibile scorciatoia sul piano giuridico, finisce per allontanare ancora di più la necessaria presa di coscienza dell’importanza e della rilevanza penale delle condotte colpose. Quali che siano, poi, le difficoltà della prova insite nella contestazione delle fattispecie dolose, resta il fatto che tale attitudine si pone in qualche modo come “antistorica” rispetto all’evoluzione della scienza, della tecnica e della pratica industriale, che pretendono dai singoli perizia, diligenza e attenzione come condizioni necessarie della vita associata. Forse è giunto il momento in cui il legislatore dovrebbe prendere atto che, nella moderna società del rischio, i “reati della modernità” sono appunto i reati colposi. Il futuro del diritto penale del lavoro e la tutela dei beni fondamentali della salute e della vita non saranno affidati a improbabili elaborazioni di fattispecie dolose, stirate a fatica per colpire negligenze, imprudenze e organizzazioni del lavoro inadeguate. La più efficace tutela delle condizioni di lavoro nelle imprese sarà ancora legata alla contestazione dei reati colposi, visti finalmente come reati propri della società complessa, che richiede ai consociati diligenza, capacità, perizia, preparazione e il rispetto solidale per i diritti altrui.
[1] Da molti anni, il d.lgs n. 758/1994 consente un adeguamento generalizzato alle prescrizioni impartite dai servizi di prevenzione, almeno per quanto riguarda le aziende controllate.
[2] In questo senso, vds. I. Scordamaglia, Il diritto penale della sicurezza del lavoro tra i principi di prevenzione e di precauzione, in Dir. pen. cont., 23 novembre 2012, www.penalecontemporaneo.it/upload/1353541107SCORDAMAGLIA2012b.pdf.
[3] Dati forniti a livello regionale dal coordinamento sulle attività dei servizi per la prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro (SPSAL) – cfr., in proposito, l’articolazione delle attività del Gruppo tecnico interregionale per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro (SSLL).
[4] Vds. il Contributo delle Regioni e Province Autonome ai temi della Salute e Sicurezza sui luoghi di Lavoro, 27 settembre 2019.
[5] Vds. il Primo rapporto CIIP sugli infortuni e le malattie professionali in Italia. Analisi degli open data Inail, anni 2010-2018 (aggiornamento: novembre 2019; www.ciip-consulta.it/index.php?option=com_phocadownload&view=file&id=41:primo-rapporto-ciip-su-infortuni-e-m-p-2010-2018&Itemid=609).
[6] Gruppo tecnico interregionale SSLL, attività 2007-2016 (cfr., per gli anni 2013-2017: www.quotidianosanita.it/allegati/allegato4074223.pdf).
[7] Se si considera l’anno 2016 l’ultimo per il quale disponiamo di tutti i dati, a fronte di 114.817 infortuni gravi sono state svolte solo 11.582 inchieste dalla polizia giudiziaria delle asl, poco più di una ogni dieci infortuni gravi. Le cose vanno leggermente meglio per quanto riguarda gli anni precedenti e sono spiegabili con la grave contrazione degli organici delle asl negli ultimi anni.
[8] Sul tema, si rinvia al contributo di Carlo Brusco, La scienza davanti ai giudici: il mesotelioma e le conseguenze delle esposizioni all’amianto dopo l’iniziazione della malattia, che chiude il presente fascicolo della Rivista.