Magistratura democratica

Cliniche legali e concezione del diritto

di Emilio Santoro
Il successo delle cliniche legali è dovuto principalmente all’idea che esse possano connotare in modo professionalizzante i corsi di laurea in giurisprudenza. Il continuo richiamo al “diritto in azione” e l’obiettivo di contribuire alla giustizia sociale sono, invece, relegati a mito legittimante. Solo se configurate come un laboratorio in cui gli studenti imparano a usare l’immaginazione giuridica per trasformare i problemi delle persone marginalizzate in rivendicazioni da portare di fronte a un giudice, le cliniche legali possono contribuire a favorire l’accesso alla giustizia di questi soggetti.

1. Premessa

Negli ultimi anni si registra, nei corsi di giurisprudenza delle università italiane, una significativa diffusione di esperienze che si definiscono di “clinica legale”. Il minimo comun denominatore di queste diverse esperienze è rappresentato da un metodo didattico del diritto che verte su un approccio “pratico”, volto ad affiancare, ma solitamente non a superare, l’insegnamento giuridico tradizionale dei contesti di civil law. Questa tendenza sembra inserire i corsi di diritto italiani all’interno di quello che è stato definito un «movimento clinico globale»[1] incentrato sulla valorizzazione dell’aspetto professionalizzante dell’insegnamento giuridico (evidenziata, in Italia, anche dalla recente inclusione nel curriculum di laurea magistrale di un semestre di pratica forense[2]). È questa valorizzazione che fa sostenere generalmente che, da un punto di vista didattico, l’approccio clinico rappresenti un significativo passo in avanti.

Integrando nei corsi di laurea l’insegnamento clinico legale, le università italiane aspirano a mettersi in linea con i corsi di laurea statunitensi dove, a partire dagli anni settanta, le cliniche legali si sono diffuse con successo in quelle che sono considerate le law schools di eccellenza (Harvard, Yale, Stanford, Columbia, NYU, Cornell, etc.). Secondo una recente indagine condotta per il Center for the Study of Applied Legal Education da R.R. Kuehn e D.A. Santacroce[3], nelle società considerate il modello per antonomasia di un’organizzazione dinamica capace di stare al passo con le richieste del mercato, nell’anno accademico 2016/2017, negli Stati Uniti erano attive ben 1433 cliniche legali, distribuite in 187 law schools, con una media di 7 cliniche per ognuna di esse.

Il successo delle cliniche legali è legato, in primo luogo, al loro proporsi come una risposta da parte dei corsi di laurea in giurisprudenza alla pressione sociale – assecondata/alimentata dalle stesse università – che chiede percorsi formativi in grado di “produrre” giuristi capaci di inserirsi rapidamente nel mondo professionale. In Italia, e in Europa in generale, questa pressione è stata eletta a perno del cd. Processo di Bologna, che segna il passaggio dei corsi universitari da luoghi istituzionalmente deputati all’elaborazione di una conoscenza e di una “cultura” finalizzate non alla loro commercializzazione, ma al miglioramento complessivo della vita sociale, a sedi di produzione di saperi professionalizzanti. Si è scelta la strada di concepire il sistema universitario non più come in primo luogo finalizzato alla produzione di un bene sociale, ma di una dotazione – una ricchezza – privata, esclusiva, da vendere sul mercato del lavoro[4]. In università che hanno subìto questa drammatica torsione, le cliniche legali sono lo strumento ideale per corsi di laurea in giurisprudenza che non devono più presentarsi come “meri” (sic!) produttori di conoscenze, ma devono soprattutto fornire skills, abilità o competenze vagamente sorrette da values (l’uso dei termini inglesi è voluto perché il modello è chiaramente statunitense).

2. Cliniche legali: la retorica del realismo giuridico e della “giustizia sociale”

Se, sul piano pratico, la diffusione delle cliniche legali è dovuta al loro apparire come lo strumento che finalmente consente anche agli insegnamenti giuridici di allinearsi con l’idea di una università professionalizzante, sul piano retorico esse si richiamano all’approccio giusrealista e rivendicano una vocazione “ontologica” alla giustizia sociale, intesa come facilitazione dell’accesso alla giustizia da parte di soggetti considerati “marginali”.

Sulle ali di questo mito fondativo, la diffusione delle cliniche legali si è accompagnata a una retorica che si richiama alla famosa contrapposizione tra law in books e law in action, elaborata quasi un secolo fa da uno dei padri del realismo giuridico americano: Roscoe Pound. Le cliniche sembrano, quindi, rivendicare un approccio al diritto che si contrappone in modo radicale alla tradizione illuminista. Apparentemente, rivendicano una connotazione dirompente rispetto alla concezione giuridica europea continentale dominante e, quantomeno, sovversiva rispetto alla tradizionale gerarchizzazione del sapere giuridico statunitense che, in ossequio a un modello di società imperniato sul contratto e sulla proprietà, attribuisce un ruolo di primo piano alla dottrina civilistica, assunta – al pari di quella che accompagna il codice napoleonico in Europa – come unitaria, sistematica e coerente.

A dispetto di queste rivendicazioni, la concezione tradizionale del diritto e del suo insegnamento ha mostrato, in questi decenni, una scontata capacità di resistere e neutralizzare le spinte critico-innovative del movimento clinico e di funzionalizzarlo al consolidamento del proprio dominio. Come ha sottolineato Duncan Kennedy[5], uno degli autori più influenti dei critical legal studies, ripercorrendo la sua carriera da studente di diritto a Yale alla fine degli anni sessanta del secolo scorso a docente ad Harvard vent’anni più tardi, le promesse di trasformazione degli studi giuridici che accompagnarono la nascita delle cliniche sono progressivamente scomparse. Esse sono state relegate al ruolo, appunto, di mito fondativo, lasciando spazio a una loro concezione di complemento professionalizzante del tradizionale insegnamento del diritto[6].

In effetti, Jerome Frank, tra i più celebri esponenti del realismo giuridico statunitense, è considerato uno dei primi sostenitori del metodo clinico-legale, in virtù del suo articolo intitolato «Why not a clinical lawyer school?», apparso nel 1933 sulla University of Pennsylvania Law Review, in cui egli affermava: «Le nostre scuole di diritto devono imparare dai corsi di medicina. Agli studenti di diritto deve essere data l’opportunità di vedere le operazioni legali» (ivi, p. 916, corsivo aggiunto). Il legame tra didattica clinica e giusrealismo, e con esso la connessione con l’attenzione per l’accesso alla giustizia dei soggetti deboli, appare però difficilmente sostenibile quando si consideri che, in Italia, il primo ad auspicare e sollecitare la diffusione dell’insegnamento clinico del diritto fu Francesco Carnelutti, fondatore della “scuola sistematica” o “storico-dogmatica”. Tracciando il suo profilo, Giovanni Tarello – massimo esponente del realismo giuridico italiano – liquida la connessione tra approccio clinico e attenzione per l’accesso alla giustizia dei soggetti deboli, scrivendo che Carnelutti eccelse nella professione di avvocato, «nella quale si procurò la nomea di uomo non disinteressato». Tarello prosegue sottolineando che:

«l’intervento di Carnelutti nelle discipline penalistiche ebbe un carattere nettamente formalistico, e svolse una funzione solidale con quella della scuola “tecnico-giuridica”, ed assolutamente inserita nella tendenza politica del regime fascista, volta a screditare, a tutto vantaggio di una politica criminale di concezione autoritaria, le scienze criminologiche non formali di metodo sociologico, ed a scoraggiare sotto il profilo accademico studi non tecnico-giuridici sulla sanzione penale»[7].

Per sgomberare il campo da ogni equivoco, il filosofo del diritto genovese, ricorda che l’indirizzo di studi ispirato dalla “teoria generale del diritto”, elaborata da Carnelutti negli anni trenta del secolo scorso, «è stato chiamato (infelicemente, perché la denominazione crea confusioni con altri e più significativi movimenti della cultura giuridica) “realistico” o “naturalistico”. Nell’idea di Carnelutti – in effetti – (…) gli istituti si dispongono in un sistema immanente ad ogni ordinamento giuridico, sistema che il giurista “scopre” come lo scienziato naturale»[8].

Nel 1934, quindi negli stessi anni in cui appariva l’articolo di Frank, Carnelutti pubblicò il saggio intitolato «Clinica del diritto», nel quale, coerentemente con la sua posizione teorica, il côté giusrealistico non aveva nessun ruolo, così come l’attenzione per la giustizia sociale, mentre centrale era l’aspetto professionalizzante. L’opportunità di adattare il metodo della clinica medica allo studio del diritto non era visto come un modo di mettere in discussione i fondamenti della tradizione continentale europea, e tantomeno l’assetto sociale, ma come un modo per soddisfare l’esigenza di cominciare a fornire una palestra pratica ai futuri giuristi. Carnelutti, esattamente come Frank, constatava infatti che, alla pari del medico, il giurista è chiamato a risolvere problemi che nella vita reale interessano e spesso affliggono l’uomo. Senonché «a differenza del futuro medico, il futuro giurista, finché rimane nell’università, al contatto di quel reale, il cui possesso è la meta ultima della sua cultura, non arriva mai»[9].

La ragione del persistere del generico e, normalmente puramente retorico, richiamo alla matrice giusrealista che oggi caratterizza l’approccio clinico al diritto va ricercata nel fatto che esso permette alla cliniche legali di presentarsi come uno strumento didattico, oltre che professionalizzante, capace di adeguare l’insegnamento del diritto alla conclamata – e stra-proclamata – crisi del sistema delle fonti del diritto e della sua sistemazione gerarchica. In un momento in cui l’insegnamento del law in books, tradizionalmente incentrato sulle fonti e sulla loro gerarchia, appare delegittimato dall’impossibilità di fare affidamento su un quadro ordinato delle fonti del dritto, il richiamo alla tradizione giusrealista permette all’approccio clinico di presentarsi come uno strumento efficace per superare l’attuale discrasia tra diritto codificato e diritto vivente.

La “scoperta” del metodo clinico non si accompagna dunque all’intenzione di rimettere in discussione l’impostazione normativista e formalista che, nell’Europa continentale, ha caratterizzato l’approccio al diritto dai tempi del codice napoleonico. L’affermarsi dell’approccio clinico e della valorizzazione del diritto in azione contrapposto a quello nei libri (meglio: nei testi normativi) è oggi dovuto soprattutto a un contesto segnato dal crescente affermarsi di quella che viene confusamente definita “soft law” e dal prevalere di prassi attuative difformi e a volte considerate, in particolare dai legislatori, arbitrarie o illegittime (in una retorica in cui, spesso, si fa fatica a distinguere le letture costituzionalmente orientate dei testi normativi da parte delle corti dalla delegificazione). La crisi del mito illuminista di un sistema giuridico completo, capace di svolgere una funzione omni-regolativa, secondo l’idea del pannomion vagheggiata da Jeremy Bentham, porta alla valorizzazione didattica della pratica giuridica accompagnata dalla contrapposizione tra testi normativi e “diritto vivente”.

La configurazione che le cliniche legali stanno assumendo rivela, però, il retro-pensiero che tale situazione è concepita come temporanea. È evidente l’idea-speranza che, presto, saremo capaci di ridare coerenza e gerarchia al sistema delle fonti, per cui l’insegnamento clinico non dovrà più fare i conti con problemi teorici, cosa per il quale non sembra pensato, ma svolgerà semplicemente quel compito professionalizzante che gli è proprio e che oggi viene considerato un perno irrinunciabile della didattica giuridica.

L’approccio learning by doing, o del “diritto in azione”, è dunque ridotto all’obiettivo di far acquisire agli studenti competenze professionali, la “manualità” nell’opera di sussunzione del caso concreto sotto la regola generale. Questo approccio è, in qualche modo, implicito nell’analogia medica. Sulla falsariga delle “cliniche” dei corsi di medicina, opera la “clinica legale”: la pratica clinica dei medici non mette in discussione la scienza medica, così come quella giuridica non deve mettere in discussione l’apparato concettuale tradizionale dei giuristi, la “scienza giuridica”. Gli studenti di medicina, dopo aver imparato l’anatomia e l’anatomia patologica sui manuali nei primi anni di università, vanno in ospedali dove i corsi “clinici” permettono loro di fare esperienza sul campo e di professionalizzarsi, di essere pronti a essere “medici”[10]. Dopo aver studiato i testi normativi, i futuri giuristi, lavorando con i pratici sui casi, imparano come si sussumono questi ultimi. Emblematico di questa riduzione alla professionalizzazione dell’approccio clinico legale è l’enfasi sul lawyering, termine con cui si definiscono le abilità pratiche che esso mira a trasferire. Alla voce «Lawyering», il Collins Dictionary recita: «la professione legale; la pratica del diritto». Individuare nel lawyering il contenuto didattico delle cliniche è, quindi, un modo tacito di ridurre la pratica del diritto, il diritto in azione, alla pratica del professionista legale. Riduzione confermata anche dalle descrizioni del termine in lingua italiana, che dipingono le abilità pratiche da esso indicate come «colloqui con i clienti, esame dei fatti, studio delle soluzioni e delle strategie difensive, redazione di istanze, atti processuali e memorie»[11].

Che la connotazione realistica sia meramente retorica e superficiale, e non abbia alcun impatto sulla concezione di fondo del diritto insegnato nelle università, è confermato dal fatto che, spesso, l’insegnamento clinico consiste in pratiche di simulazione di attività legali e nello studio di casi giudiziari. In molte esperienze cliniche, infatti, il contatto diretto degli studenti con gli utenti è del tutto assente. Anche il caso attuale oggetto di studio viene presentato agli studenti non come un problema dalla specifica persona che lo avverte, ma come un mero problema legale posto dal coordinatore della clinica, che spesso è un avvocato. Del resto, lo stesso Frank, come visto, auspicava che le cliniche legali consentissero agli studenti di «vedere le operazioni giuridiche», quindi il “doing” era ridotto a oggetto di contemplazione.

Viene, così, completamente eliminata dal quadro dell’insegnamento giuridico l’idea che parte essenziale dell’esperienza del giurista siano la dimensione relazionale e quella sociale: l’empatia (o l’antipatia) per chi pone il problema e la condivisione del (o l’avversione per) l’interesse che vuole rivendicare. Ma, soprattutto, si elimina il fondamentale problema della traduzione in problema giuridico di ciò che – per seguire Carnelutti nell’estensione della metafora medica – affligge una persona: come se questa fosse un’operazione dall’esito vincolato, che non muta a seconda di chi la compie. Tacitamente, si fa rientrare nel learning by doing l’idea che si tratti di un’operazione scientifica (la sussunzione di un fatto all’interno di una fattispecie, il cui risultato non dipende dal soggetto che ha il problema e dal giurista che lo costruisce come un caso giuridico) e non di una scelta creativa, relazionale, rivendicativa, sociale e politica. In altre parole, si perde quello che, in un saggio risalente all’epoca in cui il movimento clinico doveva ancora consolidarsi, Mark Tushnet[12] presentava come uno dei valori più significativi delle cliniche legali: il fatto che esse danno agli studenti la possibilità di creare un’esperienza giuridica avendo a che fare con una situazione non strutturata, non ancora impostata in una relazione tra l’avvocato e l’assistito, non ancora definita dalle discipline accademiche o non ancora ricondotta ai massimari della giurisprudenza. L’avere a che fare con un’esperienza giuridica ancora da strutturare insegna agli studenti che il diritto ha a che fare con le persone, con le loro emozioni e con quelle che esse suscitano, prima ancora che con i casi e con i tecnicismi. In Italia, questa esperienza è pienamente garantita oggi da cliniche come la «Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza» creata dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre, e la «Clinica legale per i diritti umani» (Cledu) dell’Università di Palermo. Queste cliniche hanno istituito uno sportello all’interno delle università, presso il quale gli stranieri si recano personalmente e sono ricevuti dagli studenti a cui raccontano i loro problemi.

Concepite come uno strumento professionalizzante, le cliniche non innovano, ma rafforzano la concezione del giurista come professionista che vende il suo sapere tecnico al migliore compratore sul mercato, concezione molto lontana da quella di un attore sociale che compie scelte cariche di significato politico. Così inteso, l’approccio clinico appare perfettamente in linea con un mondo in cui il mercato è visto quale paradigma unico e “naturale” di organizzazione delle relazioni sociali, e la professione legale – di conseguenza – è pensata come un modo di stare su un mercato caratterizzato dallo sviluppo di quelle che, non a caso, vengono definite “law firms”. Il learning by doing,in questo contesto, si presenta semplicemente come un modo di integrare il tradizionale insegnamento del diritto, incentrato su identità tra testi normativi e norme, con prime istruzioni su come articolare la sussunzione dei casi pratici nel quadro normativo. A dispetto dei richiami alla tradizione giusrealista, l’attuale pratica dell’approccio clinico appare, perciò, perfettamente in linea con la concezione illuministica classica del giurista “bocca della legge”.

L’enfatizzazione dell’aspetto professionalizzante minimizza anche la valenza dei propositi di giustizia sociale che segna la retorica delle cliniche legali e la loro diffusione. Anche quando dichiarano di voler proseguire la linea che ha caratterizzato il loro boom negli Stati Uniti, recuperando l’attenzione per i diritti dei soggetti marginali o deboli, le cliniche legali italiane, come del resto molte di quelle statunitensi attuali, sembrano al più ricordare al giurista “attore sul mercato” che deve svolgere anche un’attività pro bono in funzione di cause nobili. L’attenzione ai soggetti marginali non è declinata come “costruzione di un diritto” che favorisca il loro empowerment, ma come un richiamo all’idea che il successo, misurato in termini economici – al quale comunque l’impegno in “un caso umanitario”, speso sui social media, può contribuire in modo significativo –, potrebbe non essere sufficiente a rassicurare, come voleva Calvino, l’avvocato sulla sua salvezza eterna. In linea con la concezione filantropica, che ha da sempre accompagnato lo sviluppo del mercato nei paesi anglosassoni, l’approccio clinico sembra avere quindi soprattutto il grande atout di legittimare il professionista che opera sul mercato, il socio della law firms, consentendogli di pensarsi come “buono”, saltuariamente attento ai bisogni di chi non può permettersi parcelle salate: «Come ti senti amico, amico fragile, se vuoi potrò occuparmi un’ora al mese di te»[13].

3. Dal learning by doing al learning by making up

Questo quadro mi fa guardare con diffidenza alle tesi di chi sostiene che il “movimento clinico globale” stia imponendo una riforma sostanzialmente uniforme dei curricula accademici in contesti diversissimi tra loro, riorientando la formazione dei giuristi verso la giustizia sociale[14]. Vedo, piuttosto, il metodo clinico come una lama tagliente: essa può essere usata per salvare una vita umana asportando un tumore, oppure per uccidere una persona. Il suo impiego non è, di per sé, una rivoluzione nella didattica giuridica. Come mostrano le esperienze non solo italiane, esso si presta benissimo a essere ridotto a strumento ancillare del modo di insegnamento tradizionale, rafforzandone gli aspetti professionalizzanti[15]. Solo un suo impiego che muova dalla convinzione che, prima ancora che i modi di insegnamento del diritto, vada profondamente rivista la concezione del diritto che viene insegnato porta a dare pieno sviluppo a elementi dell’approccio clinico che normalmente vengono relegati al piano retorico.

Il mio auspicio è che l’approccio clinico si configuri come uno strumento didattico utilizzato non per affiancare una parte pratica-professionalizzante ai tradizionali corsi basati sui testi normativi, ma per rivedere radicalmente l’insegnamento del diritto. Esso può e deve essere uno strumento da utilizzare non per assecondare, ma per opporsi alla riduzione professionalizzante dell’insegnamento universitario, destinata alla lunga a portare all’annichilimento del sapere giuridico. Le cliniche legali sono l’occasione per fare un lavoro, prima ancora che professionalizzante, di grande valore culturale, che – mi sia permesso di dirlo – è il lavoro delle università. Sono cioè l’occasione per riaffermare, andando in direzione opposta da quanto suggerito dal Processo di Bologna, che una cosa sono i corsi universitari e un’altra quelli della Scuola Radio Elettra[16].

Le cliniche legali sono interessanti, ai miei occhi, se consentono di affermare questa distinzione, non di ridurre i primi ai secondi.

Se le scuole di giurisprudenza scelgono di ridurre le cliniche legali a mero strumento professionalizzante, perdono un’occasione storica per ripensare l’insegnamento del diritto, abbandonando una concezione ideologica del fenomeno giuridico che i suoi studiosi sanno, da almeno mezzo secolo, essere superata. Il metodo clinico, se utilizzato in modo non ancillare rispetto all’insegnamento tradizionale, può essere il perno di corsi di laurea giuridici in grado di forgiare l’autonomia critica e, quindi, di produrre studenti capaci di essere innovativi e non conformisti.

Il compito di una didattica basata sulle cliniche legali dovrebbe essere quello di insegnare ai futuri giuristi ad affrontare le problematiche che gli individui incontrano e i conflitti che essi vivono, mettendoli in grado di fornire loro gli strumenti per proceduralizzarli e vincerli. Il metodo clinico consente di insegnare un diritto pensato non come un sistema di testi normativi più o meno ordinato, ma come un sapere che, utilizzando quei testi e le loro letture, si costruisce dal basso, dal problema e dal conflitto proposto, e si sviluppa costruendo insieme il problema giuridico (il “caso”) e la norma che lo regola. È grazie a questa caratteristica che esso può avere una funzione di giustizia sociale, insegnando agli studenti a preoccuparsi di come “costruire” l’accesso alla giustizia a chi non ha mai nemmeno pensato che il suo problema avesse dignità giuridica.

Se prendiamo sul serio la matrice giusrealista del metodo clinico, potremmo usarlo non (sol)tanto per sviluppare un insegnamento che prenda atto delle caratteristiche del diritto contemporaneo e delle sue trasformazioni. Le cliniche rappresentano l’occasione per informare l’insegnamento del diritto all’idea che esso viene creato quotidianamente da una comunità di giuristi che operano nello iato esistente tra il testo normativo (prodotto dal legislatore) e la norma, costruita dalla comunità stessa attraverso il dialogo, il vaglio critico incrociato e il controllo dei diversi gradi giurisdizionali. Rappresentano l’occasione per portare in primo piano questa consapevolezza, relegata per decenni dall’ideologia illuminista (normativista, formalista, imperativista, etc.) ai discorsi dei teorici del diritto – discorsi culturali e non professionalizzanti – o alla consapevolezza di fondo, non interferente con la loro attività, dei pratici (“so che esiste la teoria della relatività di Einstein, ma per fare cose nella vita – professionale – di tutti i giorni mi basta il sistema newtoniano”). Le cliniche legali devono essere lo strumento che consente di insegnare agli studenti non un “doing” professionalizzante, come si usa in pratica la scienza giuridica, come si opera la sussunzione, ma un “making up” che costituisce, in primo luogo una rottura culturale[17].

Per compiere questa operazione non è necessario rivolgersi al realismo statunitense: basta guardare a quello italiano e, in particolare, all’opera di Giovanni Tarello. Il teorico del diritto genovese è stato infatti, in Italia, il critico più determinato e sagace della dottrina secondo cui l’interpretazione giuridica è conoscenza di norme precostituite e, quindi, impresa scientifica (da cui l’idea delle “scienze giuridiche” che campeggia nel nome di una pletora di dipartimenti giuridici italiani) e non invece produzione di norme (e, quindi, impresa politica)[18]. Quando nessuno pensava (più) alle cliniche legali, Tarello ci ricordava che, nella pratica giuridica, «operatori diversi, in tempi diversi o contemporaneamente, per fini diversi o perseguendo con mezzi diversi gli stessi fini, individuano negli stessi testi legislativi norme diverse e magari tra loro confliggenti»[19].

Le cliniche sono lo strumento per sviluppare, finalmente, un insegnamento che muova dalla considerazione che gli enunciati normativi contenuti nelle fonti del diritto non sono mai passibili di una sola interpretazione, ma semmai di una pluralità di interpretazioni, nessuna delle quali è per ciò stesso “vera”. Se una interpretazione è ammissibile o meno, quali siano le norme per le quali sussistono “le condizioni di asseribilità” lo decide, nei diversi momenti storici, la comunità degli interpreti, cioè dei giuristi[20] o, come la definisce Tarello[21], la «cultura giuridica interna». In questa concezione “realistica” del diritto, ogni articolo di legge, ogni comma, non è una “norma”, ma un campo di battaglia nel quale vari attori si scontrano per definire la norma da ricavarne. Ma questo scontro avviene utilizzando un linguaggio preciso, se vogliamo “tecnico”, e i testi che esso assume come punto di riferimento sono un insieme, non solo cronologicamente (oggi, grazie alla crisi del sistema delle fonti, ne siamo consapevoli), aperto, in continuo divenire.

Nella misura in cui il diritto vigente si compone di norme, lo studente di diritto non può fare a meno di studiare la «costruzione giuridica»[22], cioè come avviene la produzione del significato di un testo normativo, delle tecniche utilizzate per argomentare la scelta della norma ricavata da esso. Le cliniche appaiono come uno strumento didattico particolarmente adatto per far comprendere che, nell’opera di costruzione, il giurista si muove sempre tra un piano descrittivo e uno persuasivo/prescrittivo. Il primo piano è quello della «teoria dell’interpretazione»[23], vale a dire il piano ricognitivo di come, nella prassi giudiziaria e amministrativa, gli operatori giuridici hanno letto e impiegato fino a quel momento i documenti normativi. Il secondo è il piano dell’«ideologia dell’interpretazione»[24], cioè quello di un discorso persuasivo: un discorso che mira a creare le condizioni di asseribilità per l’interpretazione di un testo normativo, mentre ne raccomanda l’adozione.

4. L’accesso alla giustizia e l’immaginazione giuridica

Così intese, le cliniche legali sono uno strumento che consente di far capire agli studenti che, da giuristi, il loro mestiere sarà quello di dedicarsi alla creazione giudiziale e dottrinale delle norme. In primo luogo, devono essere consci che non sono e non saranno rotelle di un ingranaggio mosse da una rotella più grande, il legislatore, ma che, ogniqualvolta eserciteranno il loro mestiere, compiranno scelte intrinsecamente e inevitabilmente politiche. Una volta sviluppata questa consapevolezza, i futuri giuristi potranno cominciare a pensare se orientare le loro scelte in base ai risultati pratici che producono, all’impatto sulle vite delle persone, oppure all’ossequio di costruzioni dogmatiche eleganti o all’opinione più consolidata (criteri assunti, spesso, come indici di “verità” che convalidano l’operazione di esegesi), o ancora a criteri di produttività e celerità delle decisioni, che sembrano richiesti non solo dal mercato delle professioni forensi, ma anche da modalità organizzative della professione giudiziaria già in voga o minacciate da proposte di riforme.

Le cliniche legali si trovano dinanzi allo stesso tipo di scelta: potranno strutturarsi con l’obiettivo di stimolare l’immaginazione degli studenti su come difendere i soggetti deboli e marginali o, usando un’espressione più ampia, che rende meglio l’idea dell’impresa, su come creare i loro diritti. Ma potranno anche essere semplicemente professionalizzanti, dando agli studenti di giurisprudenza la capacità di costruire il diritto che è più richiesto e meglio pagato dal mercato; potranno avviarli alla costruzione di una law firm come spin-off della loro attività.

Una clinica legale può fare questa scelta in primo luogo attraverso l’area tematica cui decide di dedicarsi. L’attenzione alla giustizia sociale si manifesta anche, o forse soprattutto, nel dato che le cliniche legali si sono per lo più sviluppate in settori che, più spesso e più problematicamente, coinvolgono soggetti deboli (diritto di famiglia, diritto del lavoro, diritto dell’immigrazione, diritto penale, diritto dell’esecuzione penale) o interessi collettivi (diritto dell’ambiente e diritti dei consumatori). Nel 47 per cento delle law schools statunitensi, lo scorso anno accademico era attiva una clinica legale in materia di “criminal defense”; nel 17 per cento, una clinica in ambito di “criminal prosecution”(focalizzata, quindi, sulla difesa delle vittime); nel 9 per cento, una clinica in tema di “prisoners’ rights”. Quindi, una parte significativa delle cliniche legali statunitensi si occupa tanto di autori di reato, durante il processo e poi nella fase dell’esecuzione della pena – perciò di soggetti la cui rivendicazione di diritti fondamentali appare delegittimata dal loro comportamento –, quanto delle vittime (ad esempio, donne e minori) in cerca di sostegno per la tutela dei propri diritti. Significativo è che l’attenzione per i soggetti deboli non fa apparire questi due percorsi contraddittori, come avviene nel discorso comune (che contrappone i diritti degli autori del reato a quelli delle vittime), ma come parte di uno stesso approccio. Peraltro, la delimitazione dell’ambito non è di per sé sufficiente a caratterizzare l’orientamento di una clinica: in ogni ambito, si potrà assumere un approccio radicale, progressista o conservatore.

A mio modo di vedere, le cliniche legali che si propongono di rivolgersi ai soggetti deboli e marginali devono imparare a coniugare le tesi di Mauro Cappelletti sull’accesso alla giustizia con quelle del sociologo statunitense Charles Wright Mills sulla «immaginazione sociologica». Per Cappelletti, l’accesso alla giustizia non è solamente un diritto individuale da universalizzare, ma un indicatore il cui sviluppo misura «un incessante progresso sociale, che implica un dibattito costante sia sulle modalità di accesso, che sull’idea di giustizia che ne risulta»[25]. Dal canto suo, Mills[26] sollecitava i sociologi interessati alla difesa dei soggetti marginali a sviluppare l’«immaginazione sociologica», cioè un linguaggio capace di mettere le donne e gli uomini in condizioni di trasformare i loro “guai personali” in “problemi pubblici”. Analogamente, le cliniche legali che si propongono di essere attente all’accesso dei soggetti marginali alla giustizia devono sviluppare, per richiamare il titolo di un saggio di Pietro Costa, l’«immaginazione giuridica»: un discorso capace di trasformare i “guai privati” dei soggetti marginali in problemi giuridici, in rivendicazioni da presentare di fronte a un giudice. Scrive Costa[27], a conclusione del suo saggio (che ogni giurista dovrebbe leggere e meditare):

«Il giudice agisce come risolutore istituzionale di un conflitto alla luce di un ordine (apparentemente) già dato ed immobile, che però dispiega le sue potenzialità progettuali proprio nel momento in cui il giudice lo riformula in funzione di una dinamica intersoggettiva sempre nuova e diversa. L’immaginazione giuridica si dispiega in un racconto programmaticamente sospeso fra la raffigurazione di un ordine che esiste solo in quanto “descritto” (nel mondo possibile del giurista) e la messa a punto di un progetto che esiste solo in quanto attuato (nell’ambito della quotidiana interazione sociale)».

L’immaginazione giuridica è uno strumento fondamentale per passare da un ordine “descritto”, che tende a classificare le condizioni di marginalità come “guai privati”, a un progetto, che esisterà solo in quanto costruito dai giuristi, in cui esse assurgono a quella particolare configurazione di un problema pubblico che è un “caso giudiziario”.

Normalmente, le persone marginali non hanno gli strumenti per individuare la soluzione dei loro “guai personali” nella rivendicazione di diritti da far rispettare. Per trasformare i guai privati in problemi giuridici, l’operato del diritto deve vedere l’intreccio dei poteri (economico, sociale, fisico, etc.) che sta dietro a quei guai, e capire se e come è attivabile un potere autonomo rispetto alla stratificazione sociale del potere: quello giuridico. Come ci ha insegnato Weber, infatti, il potere giuridico serve spesso a compensare gli altri poteri sociali, colmando il divario di “potenza” che affligge i soggetti marginali.

Si prenda in considerazione il seguente esempio, che riguarda questioni oggi molto discusse: essere nato nel Nord del Mali, flagellato da guerre ed eccidi, è un “guaio personale”. Porre in modo convincente, casomai sottolineando le responsabilità post-coloniali degli Stati occidentali in sedi istituzionali e nel dibattito politico, il problema di come la comunità internazionale possa farsi carico di garantire la vita alle persone che nascono in Mali e salvarle dagli eccidi che lì vengono compiuti, trasformando quel “guaio personale” in “un problema pubblico”, è il compito che Mills affida all’immaginazione sociologica. Garantire a coloro che sono nati nel Nord del Mali, casomai senza rischiare la vita nella traversata della Libia e del Mediterraneo, l’accesso alla procedura di asilo (cioè l’accesso alla giustizia) e, possibilmente il suo successo, è compito dell’immaginazione giuridica: il compito che si assume un giurista elaborando un ordine immaginario, in cui i diritti fondamentali di tutte le persone sono garantiti, da presentare a un giudice perché lo renda concreto.

Il discorso dei giuristi ha un’importanza fondamentale sul modo in cui le condizioni di debolezza sono oggettivate e interiorizzate, entrano a far parte del senso comune. Solo se, nell’usare i testi normativi, muovono dall’importanza di offrire forme di tutela giuridica (diritti) e di proceduralizzazione dei conflitti, gli interpreti possono contribuire a restituire alle persone marginali una vita dignitosa. Per raggiungere questo obiettivo, i giuristi devono imparare a usare la loro “immaginazione” per costruire un discorso giurisprudenziale mirato a compensare, e non ad accentuare, le condizioni di isolamento ed esclusione, in cui normalmente vivono i “soggetti deboli”. Il compito di una clinica orientata alla tutela di questi soggetti è quello di stimolare la «immaginazione del giurista», per dirla con Costa, la sua capacità di «inventare» il diritto, trovandolo o creandolo, per usare invece il linguaggio di Paolo Grossi[28], che consenta alle molte persone che vivono ai margini dei diritti, senza essere in grado di usarli, di accedere agli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento.

5. Un piccolo esperimento didattico: le cliniche legali dell’Università di Firenze

La Scuola di Giurisprudenza dell’Università di Firenze ha accolto la proposta de «L’altro diritto – Centro interuniversitario di ricerca su carcere, devianza, marginalità e governo delle migrazioni» di attivare, nell’ambito dei propri corsi, tre cliniche legali che provano a sperimentare l’approccio realista che è stato illustrato in queste pagine.

L’operazione è resa possibile dall’ambiente culturale che caratterizza la didattica della Scuola. Gli studenti frequentano, da un lato, corsi di storia del diritto improntati agli insegnamenti della “Scuola fiorentina”, di cui Paolo Grossi e Pietro Costa sono stati protagonisti e grandi maestri. Attraverso i corsi di filosofia del diritto, che fin dal primo anno li introducono al realismo giuridico, “costringendoli” a studiare «Diritto e giustizia» di Alf Ross, gli studenti familiarizzano inoltre con l’idea che questo approccio possa costituire un interessante punto di vista per orientarsi nel diritto post-moderno. Viene loro suggerito che il realismo, specialmente nella versione “culturale” di Ross, rappresenti una teoria che permette di orientarsi in un mondo giuridico caratterizzato dalla crisi della gerarchia delle fonti e, forse, dello stesso concetto di “fonte del diritto”. È, infatti, Ross che ci insegna che è la comunità degli interpreti che “inventa” le fonti del diritto e non queste che “creano” il diritto. Questa linea “culturale” è sviluppata anche attraverso il corso di argomentazione giuridica, tutto incentrato sulle tesi di Tarello sulla distinzione tra testo normativo e norma, e mirato a far conoscere la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Questa Corte, ormai da molti anni, rivendica infatti che il suo ruolo non è quello di “applicare” la legge – nel suo caso, la Cedu – ma di renderla uno strumento vivente, capace di tutelare i diritti fondamentali tenendosi al passo con i tempi e incrementando progressivamente il livello di protezione, muovendosi attraverso le culture giuridiche e i testi normativi di quarantasette Stati. Grande attenzione al modo in cui la Corte “costruisce” in particolare i diritti dei detenuti è dedicata anche dal corso di sociologia del diritto, incentrato sulla sociologia della pena e della devianza, in questo ordine, in virtù di una precisa scelta culturale in favore dell’approccio della labelling theory.

A partire da questo contesto, il Centro interuniversitario e la Scuola di Giurisprudenza hanno sviluppato tre cliniche legali mirate a stimolare l’immaginazione degli studenti affinché “costruiscano” modi di trasformare in diritti i guai privati delle persone in esecuzione penale e di quelle che arrivano in Italia chiedendo una protezione internazionale, e affinché imparino il linguaggio della Corte Edu e comincino a praticare l’uso che essa fa dell’immaginazione giuridica.

Le tre Cliniche hanno una dichiarata finalità di protezione dei diritti dei soggetti deboli fin dalla loro denominazione: non sono cliniche legali sull’esecuzione penale, sull’asilo o sulla Cedu, ma su «I diritti dei richiedenti protezione internazionale», «La protezione dei diritti delle persone in esecuzione penale» e «La protezione dei diritti da parte della Corte Edu». Quindi, sono cliniche dichiaratamente votate alla “costruzione” dei diritti dei soggetti marginali.

Le due Cliniche dedicate ai diritti dei richiedenti protezione internazionale e a quelli delle persone in esecuzione penale non sono condotte, come è nella consolidatissima tradizione clinica, con avvocati. In una prima parte seminariale, gli studenti prendono familiarità con i discorsi giuridici specialistici, dopodiché vanno ad affiancare i giudici della Sezione specializzata per l’immigrazione o del Tribunale di sorveglianza e, per la Clinica sui diritti dei richiedenti protezione internazionale, gli operatori dei centri di accoglienza, preparando i richiedenti al colloquio con la Commissione asilo o, in base a una convenzione stipulata con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, i volontari de «L’altro diritto» onlus. Questa onlus ha attivato, all’interno di varie carceri italiane, una serie di sportelli per la tutela dei diritti dei detenuti, con l’obiettivo di sostenere questi ultimi nella stesura dei reclami alla magistratura di sorveglianza e alle altre autorità di volta in volta competenti.

Questa scelta è stata fatta, da un lato, per assicurare che gli studenti partano sempre dal vissuto dei soggetti che enunciano il loro “guaio personale” e dal racconto che essi stessi fanno di questo “guaio”, e non abbiano intermediari che trasformino preventivamente il guaio personale in un caso giuridico. Dall’altra, perché essi possono sempre confrontare il guaio personale, da cui si muove, con la decisione che gli dà connotazione giuridica e con le modalità che portano ad essa, per poter valutare criticamente la scelta politica operata dal giudice. La scelta di affiancare i magistrati si fonda sul fatto che la Sezione specializzata per l’immigrazione del Tribunale di Firenze ritiene, giustamente, suo dovere ascoltare i richiedenti protezione internazionale. Lo studente, quindi, ascolta la storia, il guaio personale, e all’inizio della sua esperienza – come dice Frank – “vede” come il giudice lo trasforma in un caso giuridico, mentre, alla fine di essa, discute con lo stesso giudice questa operazione e le sue assunzioni politiche e le sue conseguenze sulla vita dei richiedenti. Presso il Tribunale di sorveglianza, gli studenti hanno anche modo di capire, attraverso i fascicoli dei soggetti in esecuzione penale, come il vissuto (il guaio personale) sia, passaggio per passaggio, burocratizzato, trasformato in un dato giuridico-amministrativo, e come questa costruzione influisca sull’effettività dei diritti delle persone.

L’unica clinica legale che non prevede né un contatto diretto con le persone e i loro “guai” né un affiancamento dei “giudici al lavoro” è la Clinica sulla tutela dei diritti di fronte alla Corte Edu, e ciò, in gran parte, per ovvie difficoltà logistiche[29]. La scelta di sviluppare questa clinica, anche al netto di tali difficoltà, è dovuta al fatto che, come detto, il diritto convenzionale è, per esplicita e ripetuta rivendicazione della Corte stessa, un diritto che rifiuta il tradizionale rapporto con il testo. La Corte dichiara esplicitamente di non pensarsi e di non voler essere “bocca della legge”, ma di voler essere “creatrice” del significato del testo in base a un parametro che è il consenso sul livello minimo di tutela diffuso nella “grande Europa”, quella composta dai quarantasette Stati membri del Consiglio d’Europa. Una tale rivendicazione la rende un unicum nel panorama europeo.

A fondamento della creazione di questa clinica sta anche il fatto che non esistono ancora, nelle università italiane, corsi specificamente dedicati alla Convenzione dei diritti dell’uomo “così come interpretata dalla Corte”. Questo a dispetto del fatto che la Convenzione è entrata nel nostro ordinamento dai piani alti – direi “dall’attico”, se mi si consente la metafora –, cioè attraverso il modo in cui la Corte costituzionale ha creato il significato dell’art. 117 della nostra Carta fondamentale per inquadrare il rapporto tra la sua giurisprudenza e quella della Corte Edu, e dare concretezza al principio di sussidiarietà che innerva la relazione tra diritto statale e convenzionale. Nel contesto di cliniche legali create per sviluppare l’immaginazione capace di giuridificare i guai personali dei soggetti marginali, è importante notare che il diritto convenzionale dovrebbe entrare nel nostro ordinamento anche dai piani bassi – direi, per continuare nella metafora, “dalla cantina”. Infatti, da qualche anno, introducendo per la prima volta nel nostro ordinamento una fonte giurisprudenziale, l’art. 35-ter dell’ordinamento penitenziario prevede che una persona possa chiedere al magistrato di sorveglianza o, una volta scarcerato, al giudice civile, il risarcimento per essere stata detenuta «in condizioni di detenzione tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo» (corsivo naturalmente mio). Sotto questo profilo, la Clinica sulla tutela dei diritti da parte della Corte Edu è sinergica con quella sulla tutela dei diritti delle persone in esecuzione penale.

Infine va ricordato, in materia di accesso alla giustizia che definisce il livello di civiltà giuridica, che la Corte, con un approccio radicalmente giusrealista, ma condiviso anche da Kelsen – che vede nel diritto non l’ordine basato sulla forza, ma la regolamentazione dell’uso della forza –, ha disgiunto, sul piano teorico, la titolarità dei diritti dalla cittadinanza. Questo approccio l’ha resa essa stessa il punto di riferimento per molti cittadini non europei che non avevano un giudice davanti al quale portare i loro guai privati.

Come recita il titolo stesso della Convenzione, essa enuncia i «Diritti dell’Uomo», quindi la Corte è chiamata a garantire questi diritti a tutti gli esseri umani. Naturalmente, questo non vuol dire che il potere di adire la Corte spetti a chiunque, in qualsiasi parte del mondo, consideri violato un suo diritto previsto dalla Convenzione. Questa vincola solo gli Stati appartenenti al Consiglio d’Europa.

La Corte non ha competenza universale: i diritti riportati dalla Convenzione non sono sempre azionabili da tutti gli esseri umani, pur essendo attribuiti a tutti gli esseri umani. L’astratta attribuzione diviene possibilità di proporre ricorso, quindi la tutela del diritto diviene effettiva solo quando a violare il diritto sia un funzionario di uno degli Stati che hanno sottoscritto la Convenzione, ovunque avvenga la violazione e qualsiasi essere umano sia il soggetto vittima della violazione. Nella misura in cui il diritto è una situazione giuridica, una pretesa o una immunità[30] per tutelare la quale l’ordinamento giuridico attribuisce la possibilità di rivolgersi a un giudice, i diritti previsti dalla Cedu esistono, cioè sono azionabili, solo quando a violarli siano i funzionari di uno Stato firmatario della Convenzione stessa[31].

Quindi, in virtù dei suoi artt. 1 e 34, rubricati rispettivamente «Obbligo di rispettare i diritti dell’uomo» e «Ricorsi individuali», la Convenzione hacapovolto la logica del riconoscimento dei diritti. Questi non sono attribuiti in base all’appartenenza a una nazione, concretizzatasi in uno Stato: la possibilità di azionarli non dipende dal potere conferito da uno Stato a un soggetto individuale appartenente alla comunità politica che esso rappresenta, a un suo cittadino. Il diritto si concretizza, conferisce il potere di agire in giudizio, quando l’essere umano, suo titolare, a prescindere dalla propria nazionalità, è vittima dell’esercizio di un potere da parte di un funzionario di certi Stati, quelli firmatari della Convenzione. Per la prima volta, al carattere universale dei diritti corrisponde la possibilità concreta e sistematica della loro giurisdizionalizzazione a prescindere dallo Stato di appartenenza, purché la violazione venga compiuta ad opera di uno degli Stati che hanno aderito alla Convenzione.

[*] Ringrazio Gianmarco Gori, Carlo Botrugno, Chiara Stoppioni, Lucia Re, Rosaria Pirosa, Gusieppe Caputo, Salomé Archain, Katia Poneti, Bianca Cassai, Letizia Palumbo, Sofia Ciuffoletti, Antonella Mascia e Alessandra Sciurba, per aver letto e commentato, nel contenuto e nei dettagli stilistici, questo testo. Senza il loro prezioso lavoro, esso sarebbe stato molto peggiore. Una versione più estesa di questo articolo, intitolata Guai privati e immaginazione giuridica: le cliniche legali e il ruolo dell’università uscirà sulla Rivista di filosofia del diritto, n. 2/2019 e, in inglese, con il titolo Private Troubles and Legal Imagination. Legal Clinics: a Radical View, uscirà sul n. 3/2019 della Revista de Estudos Constitucionais, Hermenêutica e Teoria do Direito (RECHTD – quadrimestrale della Universidade do Vale do Rio dos Sinos, São Leopoldo, Brasile).

[1] F. Bloch e M. Menon, The Global Clinical Movement, in F. Bloch (a cura di), The Global Clinical Movement. Educating Lawyers for Social Justice, Oxford University Press, Oxford, 2012.

Per rendersi conto del successo dell’approccio didattico clinico nell’Europa continentale, basti ricordare le università che hanno attivato cliniche legali, tra cui: “Sciences Po” (Parigi), “Humboldt” (Berlino), “Carlos III” (Madrid). Sullo sviluppo delle cliniche legali in Italia, si veda la ricerca condotta da C. Bartoli, The Italian legal clinics movement: Data and prospects, in International Journal of Clinical Legal Education, vol. 22, n. 2/2015, pp. 213-226. Per una ricognizione dello sviluppo del movimento clinico in Europa, cfr. Id., Legal Clinics in Europe: for a Commitment of Higher Education in Social Justice, in Diritto e questioni pubbliche, numero special, Maggio 2016, https://heinonline.org/HOL/LandingPage?handle=hein.journals/dirquesp2016&div=2&id=&page=. Un rapido quadro dello sviluppo delle cliniche legali nel mondo e del loro carattere polimorfico si trova in M.R. Marella ed E. Rigo, Le cliniche legali, i beni comuni e la globalizzazione dei modelli di accesso alla giustizia e di lawyering, in Rivista critica del diritto privato, vol. XXXIII, n. 4/2015, pp. 540 e 541.

[2] Con la convenzione quadro siglata il 24 febbraio 2017 tra il Consiglio nazionale forense (Cnf) e la Conferenza dei direttori dei dipartimenti di scienze giuridiche, è stata data attuazione alla riforma dell’ordinamento della professione forense (legge 31 dicembre 2012, n. 247), che a sua volta aveva modificato parzialmente le modalità di svolgimento del tirocinio per l’accesso alla stessa. Ora, lo studente di giurisprudenza iscritto all’ultimo anno può svolgere un semestre di pratica forense all’interno del corso di studi, anticipando così parte dei diciotto mesi di tirocinio che, originariamente, potevano essere svolti solo dopo aver conseguito il diploma di laurea. La convenzione prevede che il professionista presso il quale si svolge la pratica garantisca, sotto la vigilanza del Consiglio dell’Ordine, l’effettivo carattere formativo del tirocinio, favorendo la partecipazione dello studente alle udienze, alla redazione degli atti e alle ricerche funzionali allo studio delle controversie.

[3] Vds. The 2016-17 Survey of Applied Legal Education, research paper n. 639, Università del Michigan, luglio 2019 (https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3397322).

[4] Su questi temi, si veda l’importante articolo in tema di cliniche legali di Maria Rosaria Marella ed Enrica Rigo, Le cliniche, op. cit., che si conclude rivendicando il valore sociale della cultura e dell’insegnamento e proponendo di considerare le cliniche legali un bene comune.

[5] D. Kennedy, Legal Education and the Reproduction of Hierarchy, in Journal of Legal Education, vol. 32, n. 4/1982, pp. 591-615; Id., The Political Significance of the Structure of the Law School Curriculum, in Seton Hall Law Review, vol. 14, n. 1/1983, pp. 1-16.

[6] Cfr. C. Jamin, Cliniques du droit: innovation versus professionnalisation?, in Recueil Dalloz, n. 11/2014, p. 675.

[7] G. Tarello, Carnelutti, Francesco, in Aa. Vv., Dizionario biografico degli Italiani, vol. XX, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1977, pp. 452-456.

[8] Ivi.

[9] F. Carnelutti, Clinica del diritto, in Riv. dir. proc., 1935, I, pp. 169 e 170.

[10] Ivi.

[11] Vds. il documento redatto a cura del Dipartimento di Scienze giuridiche “Cesare Beccaria” dell’Università di Milano, Nascita e diffusione delle cliniche legali, accessibile dalla pagina dedicata alle legal clinics (www.beccaria.unimi.it/ecm/home/legalclinics), che sintomaticamente e simbolicamente adotta la denominazione inglese (www.beccaria.unimi.it/extfiles/unimidire/385401/attachment/nascita-e-diffusione-delle-cliniche-legali-1.pdf).

[12] M. Tushnet, Scenes from the Metropolitan Underground: A Critical Perspective on the Status of Clinical Education, in George Washington Law Review, vol. 52, 1984, pp. 272-279.

[13] F. De André, Amico fragile, in Id., Volume 8, 1975. La strofa prosegue così: «“Lo sa che io ho perduto due figli”, “Signora lei è una donna piuttosto distratta” (…)».

[14] Vds. F. Bloch e M. Menon M., The Global Clinical Movement, op. cit., p. 273.

[15] Secondo i sostenitori della “tesi entusiastica” (vds. F. Bloch e M. Menon, op. ult. cit., p. 271), la metodologia delle cliniche legali che si sta diffondendo prepara gli studenti di legge «a comprendere e assimilare le proprie responsabilità in quanto membri di una professione di interesse pubblico, volta all’amministrazione della giustizia, alla riforma della legge, a rendere equa la distribuzione dei servizi giuridici nella società, alla protezione dei diritti individuali e degli interessi pubblici, nonché ad affermare gli elementi fondamentali della propria professionalità». Questa descrizione appare tratteggiare, più che una riforma dei curricula accademici, una loro integrazione con una parte professionalizzante, colorita dall’enfatizzazione dei doveri etico-deontologici.

[16] Nel “Chi siamo” del sito della Scuola (www.scuolaradioelettra.it/index.asp), si legge «SCUOLA RADIO ELETTRA. Formazione professionale dal 1951. Centro accreditato per la formazione professionale, Scuola Radio Elettra eroga corsi teorico-pratici fortemente orientati al mondo del lavoro. L’offerta formativa, originariamente specializzata in impiantistica, elettronica e informatica, è oggi estesa anche ai settori food, bellezza e benessere, salute e servizi sociali. Attiva dal 1951, Scuola Radio Elettra ha formato più di 1 milione di persone».

[17] «Possiamo senza dubbio immaginare che certi uomini si divertano a giocare con una palla in un prato; e precisamente, che comincino diversi giuochi, tra quelli esistenti, senza portarne a termine qualcuno; che tra un giuoco e l’altro gettino la palla in alto senza scopo, si diano l’un l’altro la caccia con la palla, gettandosela addosso per scherzo, ecc. E ora uno potrebbe dire: Per tutto il tempo costoro hanno giocato un giuoco di palla attenendosi, ad ogni lancio, a determinate regole. E non si dà anche il caso in cui giochiamo e – “make up the rules as we go along” [facciamo le regole via via che procediamo]? E anche il caso in cui le modifichiamo – as we go along?» (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, 1953, Blackwell-Suhrkamp, Oxford-Francoforte sul Meno, par. 83; trad. it. Einaudi, Torino, 1967, pp. 55-56).

[18] Il percorso argomentativo di Tarello inizia con Il “problema dell’interpretazione”: una formulazione ambigua, del 1966, seguito dal lungo saggio Studi sulla teoria generale dei precetti. I. Introduzione al linguaggio precettivo, del 1968 (ora entrambi raccolti in Id., Diritto, enunciati, usi. Studi di teoria e metateoria del diritto, Il Mulino, Bologna, 1974), e trova pieno compimento nell’opera L’interpretazione delle leggi, del 1980. Anche la sua opera storiografica (Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto, vol. I, Il Mulino, Bologna, 1976) è dedicata a ricostruire come, in epoca moderna, si sia proceduto a tecnicizzare e depoliticizzare il ruolo dei giuristi.

[19] Vds. la sua recensione a N. Irti: G. Tarello, Introduzione allo studio del diritto privato, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 1976-1977, p. 936.

 Sull’insegnamento di Tarello, si veda il primo capitolo di R. Guastini, Saggi scettici sull’interpretazione, Giappichelli, Torino, 2017. Sulla distinzione tra «testo normativo» e «norma» cfr. sempre R. Guastini, Interpretare e argomentare, Giuffrè, Milano, 2011. Tra gli autori stranieri che hanno sostenuto con chiarezza la stessa tesi, merita di essere segnalato Michel Troper, Pour une théorie juridique de l’État, Presses Universitaires de France (PUF), Parigi, 1994, trad. it. Guida, Napoli, 1998. Anche sull’opera di Troper, si possono vedere i Saggi scettici sull’interpretazione di Guastini, in particolare, il cap. V.

[20] Cfr. E. Santoro, Diritto e diritti: Lo Stato di diritto nell’era della globalizzazione, Giappichelli, Torino, 2008, pp. 281-334.

[21] G. Tarello, La nozione di diritto positivo, in Id., Cultura giuridica e politica del diritto, Edizioni di Comunità, Milano, 1967, pp. 205 ss.

[22] Cfr. R. Guastini, Interpretare, op. cit., pp. 105-228; Id., Saggi scettici, Giappichelli, Torino, 2017, pp. 20 ss. e 80 ss.

[23] Id., Interpretare, op. cit., pp. 407-432.

[24] Ivi., pp. 433 ss.

[25] M. Cappelletti e B. Garth (1981), Access to Justice and the Welfare State. An Introduction, in M. Cappelletti (a cura di), Access to Justice, vol. 4, European University Institute, Firenze, 1981, p. 2 – si deve la citazione a M.R. Marella ed E. Rigo, op. cit., pp. 539 e 540.

[26] C.W. Mills, The Sociological Imagination, Oxford University Press, Oxford, 1959 (prima edizione italiana: L’immaginazione sociologica, Il Saggiatore, 1962, ultima ristampa 2014).

[27] P. Costa, Discorso giuridico e immaginazione. Ipotesi per una antropologia del giurista, in Diritto pubblico, Cedam, Padova, n. 1/1995, pp. 33 e 34.

[28] L’ultimo libro di Paolo Grossi si intitola, non a caso, L’invenzione del diritto (Laterza, Roma-Bari, 2018), titolo che gioca in modo abbastanza scoperto sul significato moderno di “invenzione” come creazione ex nihilo, e su quello antico, latino, dello stesso termine: “inventio”, cioè “scoperta”, “ritrovamento” di qualcosa che già evidentemente esiste, ma anche “stratagemma”.

[29] Si cerca di organizzare comunque la presenza degli studenti a un’udienza di Grande Camera e, in quell’occasione, viene organizzato anche un incontro seminariale a Strasburgo con alcuni giudici della Corte. Vari giudici della Corte sono chiamati a partecipare, a Firenze, ai lavori della Clinica e fanno parte delle giurie del moot court, che ha luogo in francese o inglese, lingue veicolari della Corte. Nel moot court si sostanzia l’attività pratica degli studenti.

[30] W.N. Hohfeld, Fundamental Legal Conceptions as applied in judicial reasoning, Yale University Press, New Haven (CT), 1953; e A. Ross, On law and Justice, Stevens and Sons, Londra, 1958, trad. it. Einaudi, Torino, 1990, pp. 149-159.

[31] Per un caso famoso, che riguarda l’Italia, in cui l’immaginazione giuridica della Corte, l’ordine da essa immaginato, si è trasformato in realtà, in interpretazione autentica della convenzione, si veda il caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia [GC], ric. n. 27765/09, 23 febbraio 2012, https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-109231%22]} .