Elogio dell’associazionismo giudiziario
1. Un’esperienza personale
In pochi momenti come in questo l’associazionismo giudiziario è stato in crisi. La vicenda Palamara, con tutti i suoi addentellati e i suoi aloni, ha portato a evitabili generalizzazioni facendo apparire tutta l’attività delle correnti e dell’Associazione in generale come improntata al malaffare e all’iniquità, e rimettendo in discussione acquisizioni e concetti che pensavamo, erroneamente, ormai acquisiti.
Anch’io mi sono posto la domanda sotto un profilo prettamente personale, anche perché la mia vita professionale ha visto intrecciarsi le esperienze di lavoro e quelle associative. Il confronto in gruppi formali e informali (i pretori che si occupavano di penale del lavoro, i sostituti della “procurina”, Magistratura democratica, Area, Innovazione per Area, l’Anm) ha consentito nel mio piccolo di verificare il modo di lavorare e gli orientamenti che avevo, di arricchirmi, di imparare da nuove esperienze e, spero, di migliorare il mio lavoro. Ma, più in generale, mi ha “imposto” di uscire dalla mia scrivania e dalla mia stanza, cogliendo le molteplicità e le differenze dei diversi mestieri di magistrato, che altrimenti non avrei mai conosciuto né colto, affrontando le diverse scelte operate sulla politica giudiziaria, capendo il profondo impatto sulla quotidianità che queste venivano ad avere; mi ha consentito di rapportarmi con la società, le sue dinamiche e le sue tensioni.
Solo una logica collettiva consente di fare ciò e di capire, nell’ascolto, nel confronto e, a volte, nel conflitto il senso profondo del proprio lavoro, della nostra funzione, del nostro ruolo sociale. Il magistrato chino sui suoi fascicoli ed estraneo al mondo (versione moderna del giudice isolato nella sua torre eburnea) si priva di una visione generale, limita la sua crescita professionale e ciò non gli consente di evolvere in consonanza con la società e, in definitiva, di migliorare anche la qualità del proprio lavoro.
2. È necessario un associazionismo dei magistrati?
«(…) i giudici hanno diritto di aderire ad associazioni di magistrati, nazionali o internazionali, con il compito di difendere la missione della magistratura» (art. 12 Magna Carta dei giudici approvata nel 2010 dal Consiglio consultivo dei giudici europei).
«(…) i giudici devono essere liberi di formare o aderire a organizzazioni professionali che abbiano come obbiettivo di difendere la loro indipendenza, proteggere i loro interessi e promuovere lo stato di diritto» (raccomandazione n. 12 del 2012 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa).
L’associazionismo dei magistrati è stato, in particolare, incoraggiato nei Paesi che non conoscevano libere associazioni, come quelli dell’Est Europa, ma è sempre stato favorito come momento di crescita professionale anche dall’Onu sin dal 1985 (punti 8 e 9 dei «Principi fondamentali sull’indipendenza della magistratura» adottati dal Congresso Onu di Milano, 26 agosto - 6 settembre 1985, e confermati dall’Assemblea generale il 29 novembre e il 13 dicembre 1985).
In realtà, potremmo cominciare a chiederci se siano necessari gruppi associativi per qualsiasi corpo professionale, anche se – come poi vedremo – i magistrati, per ruolo e funzione sociale, hanno alcune specificità. La necessità di “mettersi insieme” per discutere del proprio lavoro, per cercare di ottenere migliori condizioni di lavoro e retributive è propria di ogni categoria lavorativa. È la ragione di nascita dei sindacati, che, con alterne fortune, sono comunque fondamentali in un moderno sistema di relazioni industriali. Quanto ai magistrati, questa esigenza si unisce con la particolarità di ruolo e funzione che impone una riflessione culturale sul ruolo (la missione citata nella Magna Carta dei giudici), un’analisi delle normative da cui e su cui parte il proprio lavoro, una visione del sistema di poteri e di contrappesi in cui si muove la propria attività. Riflessione, analisi e prospettiva che non può essere di singoli, ma che si nutre di esperienze, idee e persone diverse e che, come tale, inevitabilmente diviene collettiva in un gruppo o associazione. Gruppo o associazione che garantisce la varietà e la ricchezza dei contributi e il peso politico di non essere soli e, quindi, di poter far sì che idee e proposte possano avere valore. Del resto, l’esperienza che abbiamo in tutta Europa parla di un associazionismo dei magistrati presente in tutti i Paesi europei, sempre con questa peculiarità di assommare caratteri sindacali con caratteri politico culturali.
Ma a chi oggi dipinge l’associazionismo giudiziario in termini fondamentalmente negativi voglio ricordare alcuni dei passaggi in cui l’Anm è stata protagonista e che oggi consentono all’Italia di avere una delle magistrature più indipendenti al mondo.
- La battaglia contro i ruoli chiusi e a favore di progressioni nella qualifica svincolate dal ruolo effettivamente ricoperto, che ha consentito di eliminare la progressione per concorso e per cooptazione – in cui le retribuzioni più elevate e i ruoli di appello e di legittimità erano riservati a pochi –, rendendo effettivo il principio costituzionale dell’eguaglianza delle funzioni.
- Un sistema di adeguamento periodico delle retribuzioni commisurato sulla media degli aumenti degli stipendi del pubblico impiego, evitando così alla magistratura la necessità di periodiche vertenze per aumenti stipendiali.
- La chiusura della fase restauratrice in materia di giustizia della bicamerale nel 1998, grazie (anche) alla relazione tenuta al XXIV Congresso Anm dalla presidente Elena Paciotti[1], e alla sua integrale condivisione da parte dell’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro.
- L’impegno coraggioso, nella quotidianità e nelle proposte, nel contrasto a un terrorismo feroce che ha mietuto tante vittime anche tra i magistrati, e che in certi momenti sembrava endemico e ineliminabile dalla società italiana – impegno che, a livello culturale e giudiziario, ha consentito di vincere il fenomeno nelle aule di giustizia e con gli strumenti della legalità.
- L’eliminazione degli elementi più pericolosi e devastanti della controriforma ordinamentale dell’allora ministro Roberto Castelli (promozioni solo per concorso per titoli ed esami, reintroduzione dei ruoli chiusi, separazione delle carriere dopo il concorso, gerarchizzazione, inasprimento disciplinare), anche se con un risultato finale comunque insoddisfacente a fronte di un Parlamento ostile alla magistratura anche dopo il 2006.
In Italia, troppo spesso, manca la memoria, ma questi passaggi sono il risultato della maturazione e promozione di una cultura, di lotte – sfociate a volte in scioperi – di cui l’associazionismo giudiziario italiano è stato protagonista e che non possono essere dimenticate.
3. La magistratura ha una visione e un substrato comune?
L’ipotesi da cui molti partono, che è figlia del nostro tempo, è che non ci siano differenze di fondo all’interno della magistratura, che ci sia un approccio di base su cui non si può che essere uniti e che, quindi, le divisioni che si sono create con le correnti siano in realtà espressione di potere e non di idee.
Si dimentica semplicemente la storia. La magistratura, non un secolo fa, ma per decenni dopo la Liberazione, era sostanzialmente prona al sistema politico. L’indipendenza era solo formale e quanto contava era solo l’indipendenza esterna. Quella interna, semplicemente, non esisteva. In particolare in procura, dove vigeva sempre il vecchio art. 70 dell’ordinamento giudiziario (del 1941), che recitava: «Il Procuratore della Repubblica anche a mezzo dei dipendenti sostituti (…)»; ma anche negli uffici giudicanti, dove i processi delicati venivano assegnati con criteri politici a sezioni e giudici “affidabili”. Del resto, a fronte di una indipendenza formale molto forte, tutte le indagini più delicate venivano puntualmente affossate, e anche solo non conformarsi agli orientamenti della Cassazione in materia civile o scrivere un libro sulla magistratura veniva visto con sospetto o punito disciplinarmente (è la vicenda di Dante Troisi, con il suo libro Diario di un giudice[2]). Una magistratura in cui i carichi di lavoro erano indubbiamente molto minori, mal pagata, che faceva del naturale ossequio al potere politico e del conformismo la sua ragion d’essere. Del resto, le vergognose vicende del processo per la strage di Piazza Fontana, per altre stragi, come per i fondi neri dell’Iri, per i petroli o per altri scandali economici ben descrivono la realtà di un corpo della magistratura che, anche se non più monolitica a partire dagli anni sessanta, era a livello grandemente maggioritario assestata su queste posizioni di consonanza con il potere e di quieto vivere. La scoperta della Costituzione e dei suoi valori, l’indipendenza reale dei magistrati, l’assegnazione sulla base di criteri oggettivi e prederminati, un sistema di mobilità effettivo e trasparente (ammesso che oggi siano generalizzati) sono conquiste costate anni di contrasti, lacerazioni, discussioni e non una tranquilla acquisizione comune[3]. E questo è avvenuto anche grazie alle forti divisioni che esistevano all’interno della magistratura, divisioni ideali che erano approdate alla costituzione di gruppi che partivano da scelte ideologiche e valoriali, risentendo inevitabilmente delle divisioni politiche esterne.
Non c’è da scandalizzarsi. Quanto avvenuto, ed è normale che avvenga, è che gli stessi grandi fenomeni che investono la società investono la magistratura e con questo modellano e condizionano la stessa nascita e caratteristica dei gruppi associativi. Ciò spiega perché era semplicistico, come veniva narrato nelle cronache giornalistiche, dipingere Magistratura indipendente come destra giudiziaria, Unicost come centro e Magistratura democratica come sinistra, ma d’altro lato questo affondava nelle idealità e proposte da cui i vari gruppi partivano. Anche se poi il grande orientamento era cosa molto diversa dal collateralismo, come del resto scelte concrete hanno dimostrato – ricordo solo la campagna per il “No” nel referendum del 1989 sulla responsabilità civile dei magistrati di Magistratura democratica, quando tutti i partiti (salvo il Partito repubblicano), compresi quelli di sinistra, davano indicazione per il “Sì”.
La grande polemica era sulla politica in magistratura e sulla politicità della giurisdizione. Polemiche che riprendono dubbi antichi. Nel 1909, il ministro della giustizia Vittorio Emanuele Orlando condanna la nascita dell’Associazione generale fra i magistrati italiani: «[è] indifferente la considerazione che una eventuale associazione fra magistrati si dichiari (e come potrebbe essere diversamente ?!) apolitica. Lasciamo anche stare che tutte le associazioni tra funzionari cominciano col porre detta affermazione, ma poi nella loro effettiva attività difficilmente vi si mantengono fedeli». Questioni che oggi appaiono più scontate, ma che per decenni hanno visto confronti al calor bianco con chi sosteneva la totale impoliticità della giurisdizione e l’isolamento dalla politica, per poi magari scoprire che proprio chi asseriva estraneità e lontananza era il più vincolato a poteri oscuri e clandestini come la P2. Questa costruzione di un substrato comune è stato il frutto di anni di pluralismo, di confronto e di adeguamento alla realtà sociale: oggi la difesa dell’indipendenza, anche interna, l’eguaglianza di tutte le funzioni, la gestione democratica degli uffici sono, almeno sotto il profilo formale, patrimonio di tutti, anche se magari spesso violati e diversamente declinati. Ma su molto altro vi sono opinioni, proposte e orientamenti molto diversi e inevitabili, per provenienza, cultura, elaborazione. Del resto, chiunque abbia vissuto come il sottoscritto esperienze nell’Anm come nel Csm, rileva facilmente come vi sia una chiarissima differenza – ma, oserei dire, antinomia – tra chi pone in primo piano la tutela del singolo, anche quando questa sia in contrasto con l’interesse generale, e chi, anche a costo di dire dei “no”, cerchi di fare l’interesse dell’amministrazione; tra chi metta in primo piano l’interesse del singolo e chi cerchi di vedere le esigenze del servizio. Non si tratta neppure di corporativismo, che, come tutela dei diritti e degli interessi professionali della categoria, può essere nobile e positivo, ma di un micro-corporativismo tanto utile dal punto di vista clientelare quanto dannoso per la maggioranza dei magistrati e per un corpo della magistratura che, per la sua funzione, deve volare alto.
4. La crisi di idee e ideologie e la crisi dell’associazionismo
Nel momento in cui in tutta la società, ma oserei dire in tutto il mondo, con la fine dei muri nel 1989 e la globalizzazione, crollano ideologie e visioni generali (con la progressiva fine, in Italia, delle antinomie decennali “comunismo/anticomunismo”, “partiti laici/partiti confessionali”), emergono interessi e nuovi collanti, locali da un lato (il vincolo più immediato e facile), di potere dall’altro. Questo risulta particolarmente forte in un corpo come la magistratura, che il potere lo ha davvero per la funzione che svolge. Quanto è successo a livello politico generale è così avvenuto anche nella magistratura, derivando dalle stesse dinamiche. L’individualismo domina e viene esaltato e l’impegno collettivo, specie se disinteressato, appare desueto e privo di valore. Sempre più, gli stessi gruppi organizzati diventano mezzi e veicoli da prendere per soddisfare le proprie ambizioni personali, con un’evidente strumentalizzazione, pronti a scendere alla prima occasione utile. I veleni a lento rilascio diffusi da una cultura affermatasi come dominante nella società, ma introdotta o favorita progressivamente da normative che hanno riguardato specificamente la magistratura, hanno prodotto e stanno producendo danni e mutazioni anche dentro di noi. Così è stato per un sistema elettorale del Csm che, nato sulla carta per combattere le correnti (obiettivo, come vediamo, miseramente fallito), ha esaltato il singolo candidato svincolato da programmi e gruppi; così è per l’arrivismo derivante da una torsione del nuovo sistema di progressione in carriera e dalla fine dell’anzianità come criterio principe per le nomine; così è per un sistema disciplinare che si è cercato di impostare come strumento di governo della magistratura; così è per un produttivismo cieco che ha fatto diventare statistiche e tempi la dittatura che orienta i singoli. Si badi bene: spesso, queste riforme nascevano da esigenze reali e del tutto condivisibili (superare la gerontocrazia, giungere a un sistema di valutazione di professionalità effettivo, sanzionare comportamenti illeciti e scorretti, migliorare le performance degli uffici), ma il modo con cui venivano concretizzati e il clima culturale in cui si inserivano portavano a conseguenze distorte e spesso desolanti.
5. I gruppi associativi e la loro evoluzione
Queste progressive trasformazioni hanno inevitabilmente coinvolto i gruppi associativi. Del resto, a fronte degli autentici terremoti che hanno colpito il mondo politico e sindacale, sarebbe risultato strano e anomalo che la magistratura e le sue espressioni ne fossero indenni. Unità per la Costituzione (ricordiamo, frutto di una fusione tra un gruppo centrista a vocazione sindacale come Terzo Potere e un gruppo di sinistra moderata come Impegno costituzionale), proprio per la sua vocazione a essere gruppo di gestione del potere, si trovava probabilmente, almeno sino all’esplosione del “caso Palamara”, a essere il meno colpito. Magistratura indipendente subiva una lenta e non so quanto consapevole trasformazione da espressione della destra giudiziaria a gruppo sempre più di potere, oltre che fedele interprete del micro-corporativismo sindacale. Non si tratta solo dell’attenzione al trattamento economico e alle condizioni di lavoro (fatti che, di per sé, possono essere ampiamente positivi), ma alla cura dell’interesse particolare del singolo, all’adeguamento della propria linea alla “pancia” della magistratura, con l’abbandono di orientamenti storici. Così, il gruppo che più difendeva la gerarchia e il potere dei capi è diventato il più critico al riguardo, sostenendo la più totale indipendenza interna anche in uffici come le procure, che qualche problema di coesione e di unitarietà ce l’hanno. Il cd. “ferrismo” – dal nome del segretario di Mi che ha condotto questa trasformazione e il rilancio dell’associazione – è stato vincente, approdando a risultati prima impensabili. Fino a pochi anni fa, l’idea che un segretario di Mi venisse prima nominato sottosegretario e, poi, eletto parlamentare in un gruppo di centrosinistra come il Partito democratico sarebbe stata impensabile. Oggi questa è (o era) la realtà con un segretario ombra che, come più fatti hanno evidenziato, dall’esterno continuava a ingerirsi e a condizionare la vita della corrente e, indirettamente, della magistratura.
Proprio la trasformazione di Mi provocava la nascita del nuovo gruppo di Autonomia e Indipendenza, in parte frutto della ripulsa di questa trasformazione e in parte gruppo personale nato sulla base del trascorso professionale e della popolarità di Piercamillo Davigo.
Le trasformazioni che hanno investito l’area progressista della magistratura sono, come spesso succede per quest’area, le più complesse. Proprio le trasformazioni in atto nella società e in magistratura portavano i due gruppi storici di Magistratura democratica e del Movimento della Giustizia a condurre prima un’alleanza e, poi, alla vera e propria creazione di un gruppo autonomo, che gestiva associazionismo e autogoverno. Non si trattava di una fusione, né tantomeno di una fusione a freddo. Non era una fusione perché la nuova creatura non portava a sciogliere i gruppi originari, che continuavano la loro attività culturale e di politica giudiziaria (di cui è un esempio questa Rivista, «promossa da Magistratura democratica», che nel 1982 ha raccolto l’eredità di Quale giustizia, pubblicata dal 1970); né tantomeno una fusione a freddo, essendo stata prima sperimentata per lunghi anni una profonda consonanza in un lavoro comune in Consiglio e nell’associazione. Rimane che la costruzione del tutto originale, e in larga parte anomala, così creatasi inevitabilmente vive di periodiche fibrillazioni. Da un lato, anche per le continue emergenze, non si sono fatti i conti fino in fondo con il profondo cambiamento culturale e politico avutosi dagli anni novanta, con la crisi della cultura democratica (anche giuridica), la mutazione di età e provenienza delle nuove generazioni di magistrati (derivante dal concorso di secondo grado), la perdita di interlocutori politici. Dall’altro, la stagione della conventio ad excludendum, che aveva portato sino quasi al 2000 a vedere come rara avis qualsiasi esponente di Md o dell’area progressista nominato dirigente o ad altri incarichi, è finita. È seguita una stagione senza più discriminazioni preliminari generalizzate, in cui nomine e incarichi erano possibili sia per motivi anagrafici che di maggior peso interno al Consiglio, oltre che per una più ampia discrezionalità nelle scelte di cui veniva a godere quest’ultimo (la riforma del 2006, che aveva abbandonato il parametro dell’anzianità come determinante nelle nomine, è decisiva). Questo ha voluto dire passare da una relativamente facile opposizione, in un sistema che era dominato dal trinomio “Unicost + Mi + laici Dc o di centrodestra”, a responsabilità di governo, con tutte le difficoltà, i compromessi e anche gli errori che ne sono derivati, normalmente ispirati all’ottimo intento di dare agli uffici il miglior dirigente, ma che hanno portato a perdere quella “innocenza” (di essere corretti, alieni da compromessi al ribasso e nomine discutibili) che era una delle principali forze del gruppo. Una realtà complessa tuttora in discussione e in evoluzione, ma che comunque, in un panorama desolante di gruppi sindacali e progressisti che procedono all’insegna della frammentazione, ha avuto il coraggio di mettersi in discussione e di unirsi, sperimentando il pregio del confronto e della contaminazione.
A parte, e in questo vi è una forte analogia con quanto accaduto nel mondo politico e sindacale, vi è stato il sorgere di un settore aspramente critico verso l’associazionismo e il modo con cui è stato declinato, con una condanna generalizzata dell’intero sistema. Settore che non ha mai avuto seguito e fortuna a livello di elezioni, ma estremamente presenzialista in particolare nella mailing list associativa, curiosamente diventata momento di continuo attacco ai vertici associativi, al Csm e alle correnti.
Questo quadro è, comunque, radicalmente mutato, non sappiamo ancora in che termini, all’esito del vero e proprio terremoto prodotto dal “caso Palamara”.
6. Il “caso Palamara”
Al di là di come viene presentata, la nota vicenda dell’intrigo sorto per assicurare un procuratore della Repubblica di Roma “gradito” è l’esatto contrario del correntismo e delle logiche di appartenenza. Il candidato prescelto dai componenti di Unicost e Mi coinvolti (oltre che da esterni) non era il candidato forte di Mi, né quello di Unicost, ma il candidato che, in apparenza, si riteneva avrebbe assicurato la discontinuità con la gestione della Procura del procuratore Giuseppe Pignatone. Dominanti sono logiche di potere individuali strumentali alle proprie ambizioni personali, condotte con spregiudicatezza e con – cosa ancora più grave – la commistione di elementi estranei al Consiglio, tra cui addirittura un parlamentare indagato dalla stessa Procura. Un salto di qualità negativo che, però, è anche il segnale di un limite superato in modo irreversibile e che pone la necessità inequivoca di una nuova fase dell’associazionismo, che segni una radicale rottura con questi metodi, ma anche con quel brodo di coltura di arrivismi, opacità, compromessi, logiche di appartenenza che ne ha consentito lo sviluppo.
7. Una nuova fase dell’associazionismo
Nessuno ha la bacchetta magica, dato che la crisi dell’associazionismo giudiziario si inserisce in una crisi più generale del sindacalismo e della rappresentanza politica. Ma, al di là dell’ottima e coraggiosa reazione delineata nell’immediatezza dall’Anm come risposta alla crisi, credo che per cambiare davvero e non trovarci – come probabile – a non cambiare nulla, finito il clamore della vicenda, occorrano due presupposti e tre requisiti. Il primo presupposto è fare i conti fino in fondo con una crisi di idealità che ha ragioni lontane e con le evoluzioni che, spesso inconsapevolmente, si sono prodotte nella vita associativa e nei diversi gruppi. Il secondo è ribadire il valore dell’associazionismo, del ragionare insieme, del pluralismo (con gli attuali o con nuovi gruppi), del riuscire, come solo in Italia si è positivamente fatto, a tenere insieme l’originale costruzione di un’Associazione unitaria e gruppi associativi che operano al suo interno, garantendo in tal modo forza contrattuale, peso politico e diversità di orientamenti. L’Italia, sotto questo profilo, è un’eccezione positiva e, laddove l’associazionismo giudiziario si è articolato in due o più gruppi rivali, il prezzo pagato è stato l’irrilevanza.
Le tre esigenze che possono costituire la base per un rilancio che investa i gruppi organizzati odierni o quelli che nasceranno, sono partecipazione, trasparenza e valori.
La democrazia si nutre di partecipazione, di pluralismo, di capacità di coinvolgere e far diventare protagonisti il maggior numero di persone. Già oggi, gli assetti associativi e di autogoverno della magistratura consentono la partecipazione, tra giunte locali, organi nazionali dell’Anm, consigli giudiziari, Csm, Scuola della magistratura e formazione decentrata oltre ad altri incarichi (referenti distrettuali per l’innovazione, magistrati referenti per l’informatica, referenti per l’archivio di merito), di oltre mille magistrati. Una grande prova e possibilità di democrazia, che deve essere implementata consentendo e incoraggiando tutti, nei ruoli a loro più congeniali, a mettersi alla prova e dare alle istituzioni e all’associazionismo il loro talento e le loro capacità. Le scelte statutarie di incompatibilità e di durata massima dei vari incarichi verranno a essere positive solo se stimoleranno una rotazione e nuove partecipazioni, non se verranno a creare steccati e a disincentivare possibili vocazioni e impegno.
Passiamo al secondo requisito sopra menzionato: la trasparenza. I sospetti oggi esistenti o latenti su possibili intrighi, compromessi al ribasso, accordi occulti sono costanti e possono essere smentiti solo con la massima trasparenza, sia a livello istituzionale che associativo. Ogni decisione deve essere chiara e spiegata; se una decisione non può essere ostensibile, semplicemente non deve essere presa.
I valori e le idee – il terzo requisito – sono la base e il collante di qualsiasi gruppo. Nel momento in cui le grandi divisioni del passato sono finite e non vi sono più visioni palingenetiche della società, occorre riscoprire e rilanciare quali siano le idee e le proposte su cui ciascuno si basa, giustificando la sua stessa esistenza. Come è avvenuto per idee forza che, nel passato, sono state ampiamente mobilitanti, quali la scoperta della Costituzione o l’effettiva eguaglianza di tutte le funzioni, occorre rilanciare il sogno di una giustizia vera, che sia capace di concretizzare i diritti costituzionali di eguaglianza e libertà e i diritti sociali. Abbiamo il privilegio e l’onere di poter realizzare un bene, la giustizia, anelato dall’umanità in tutta la sua storia. Abbiamo la possibilità, nell’era della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale, di lavorare meglio, in modo più efficace e vicino ai cittadini. Abbiamo un futuro da realizzare e qualsiasi gruppo, degno di esistere, deve fare i conti con queste speranze, senza ridursi a essere mero portatore di interessi o espressione di localismi e clientele. Solo un associazionismo profondamente radicato nella quotidianità, ma che nel contempo sappia volare alto, può darci un futuro ed essere appetibile. Non partiamo da zero e la storia del nostro associazionismo, pur con inevitabili difetti ed errori, ci deve inorgoglire. Ma un salto di qualità è indispensabile.
[1] Relazione di Elena Paciotti, presidente Anm, al XXIV Congresso Anm «Giustizia e Riforme costituzionali», Roma, 1998, ora in E. Bruti Liberati e L. Palamara (a cura di), Cento anni di Associazione magistrati, Ipsoa (Wolters Kluwer Italia), Milano, pp. 181 ss, www.associazionemagistrati.it/allegati/cento-anni-di-associazione-magistrati.pdf.
[2] D. Troisi, Diario di un giudice, Einaudi, Torino, 1955. Troisi, con l’accusa di avere diffamato la magistratura, venne condannato alla sanzione disciplinare della censura.
[3] Per chi voglia approfondire, vds. E. Paciotti, Breve storia della magistratura italiana, ad uso di chi non sa o non ricorda, in questa Rivista online, 7 marzo 2018, www.questionegiustizia.it/articolo/breve-storia-della-magistratura-italiana-ad-uso-di-chi-non-sa-o-non-ricorda_07-03-2018.php; E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, Bari, 2018.