Magistratura democratica

Dal case law alla discriminazione istituzionale: la «Clinica legale per i diritti umani» tra formazione giuridica e pratica di giustizia sociale

di Alessandra Sciurba
Nel quadro dell’esperienza della «Clinica legale per i diritti umani» dell’Università di Palermo (Cledu), il contributo tratta di alcune azioni specifiche condotte nei suoi primi anni di lavoro nell’ottica della costruzione di un “modello” di intervento sistemico, per poi descriverne la necessaria rimodulazione in risposta ai veloci mutamenti politico-normativi del periodo più recente. Sarà così possibile porre in luce alcune caratteristiche dell’approccio clinico-legale nell’Italia contemporanea, e del ruolo del giurista ad esso connesso.

1. Introduzione

Questo contributo guarda al ruolo che le cliniche legali hanno e possono avere oggi in Italia, a partire dalla narrazione della specifica esperienza della «Clinica legale per i diritti umani» dell’Università di Palermo (Cledu).

Non mi soffermerò quindi sulla storia delle cliniche, la cui diffusione in questo Paese avviene in tempi recenti, ma che hanno origine già nei primi anni del XX secolo negli Stati Uniti e, da lì, si diffondono in molte parti del mondo. Tale fenomeno è stato, del resto, abbastanza esaminato da questo punto di vista[1], mentre un numero crescente di giuristi ha concentrato la propria attenzione anche sulle sue declinazioni italiane[2].

Accenno solo al fatto che esistono in Italia esperienze risalenti all’inizio degli anni novanta, che in effetti avevano già allora adottato, nei dipartimenti di giurisprudenza, quello che può essere senz’altro descritto come un approccio clinico legale, senza però definirlo esplicitamente come tale[3]. Ciò è forse riconducibile a una sorta di resistenza all’adozione del termine “clinica” da parte di docenti consapevoli dei rischi insiti nella pretesa universalizzante di quel discorso che Michel Foucault aveva esattamente definito come “clinico” in relazione alla clinica medica: un discorso capace di costruire e legittimare un «regime di verità» atto a definire distinzioni dicotomiche tra persone normali e «anormali»[4], sane o devianti, sulla base di un sapere costruito in funzione di determinate tecniche di potere[5].

La declinazione concreta dell’approccio clinico legale, però, appare molto distante dal concretizzare questi rischi. Invece di costruire un sapere posto a servizio o a giustificazione delle tecniche di potere, infatti, la conoscenza pratica accumulata attraverso gli interventi concreti in cui lo “sguardo clinico” di docenti e discenti di diritto si posa sui singoli casi, appare piuttosto finalizzato alla messa in campo di azioni sistemiche volte proprio a utilizzare il diritto per proteggere le persone dai poteri che, spesso, ne violano i diritti: «lo studente che fa esperienza di Sportello, con il sostegno dei suoi tutors, incontra non casi ma persone»[6], e condivide con loro – in quanto soggetti attivi e non oggetti di studio – le informazioni fondamentali sul diritto e sui diritti che li riguardano, come le scelte che orientano ogni intervento, spiegando esattamente anche le finalità della clinica e perché ci siano degli studenti e delle studentesse insieme agli avvocati.

Le esperienze cliniche italiane si pongono inoltre, al di là delle loro differenze, dentro una visione comune, in cui l’insegnamento del diritto attraverso la sua pratica è concepito direttamente come strumento atto a tutelare i principi di equità e giustizia che sostengono un ordine giuridico che si può considerare legittimo, e i cui risultati sono misurati anche in relazione all’impatto sul sistema valoriale ed etico degli studenti e delle studentesse[7].

In questa prospettiva, le cliniche legali italiane accolgono solitamente persone private di rappresentanza giuridica, politica, economica, sociale, sindacale, rispetto alle quali il diritto diventa uno strumento di accesso alla giustizia e ai diritti.

Non a caso, un’alta percentuale di queste esperienze cliniche è specializzata nell’assistenza legale gratuita a persone migranti e appartenenti a minoranze nazionali. Tra queste è la Cledu, la cui peculiarità risiede innanzitutto nell’essere situata in una zona di frontiera (la Sicilia, Palermo), potendo così rappresentare un punto di osservazione privilegiato sui rapidissimi mutamenti politici in materia di immigrazione e asilo, e sui correlati cambiamenti normativi, soprattutto rispetto alle conseguenze concrete degli uni e degli altri sulla vita delle persone oltre che sul contesto sociale e culturale.

Per tale ragione, raccontare le evoluzioni degli interventi di questa specifica clinica legale negli ultimi anni restituisce alcune suggestioni non solo su come queste realtà promuovano un particolare tipo di ruolo del giurista contemporaneo, ma anche, da una prospettiva particolare, su come l’intervento giuridico sia chiamato a riadattarsi velocemente alle nuove istanze di giustizia che promanano dal contesto in cui il diritto si trova ad essere applicato.

2. La Cledu: attività e metodologia di intervento

Le attività sviluppate dalla Cledu fin dalle sue origini hanno riguardato principalmente lo sportello di primo livello, avviato dal 2015 all’interno del Dipartimento di Giurisprudenza, che ha fino ad oggi preso in carico circa 600 persone. Ogni “caso” è stato seguito da un tutor, tra ricercatrici e avvocati, e da almeno uno studente o una studentessa, attraverso un confronto costante con tutto il gruppo che, alla fine di ogni pomeriggio di apertura settimanale al pubblico, si ritrova in una riunione di back office nel corso della quale ogni scelta viene valutata e argomentata in maniera condivisa. Qui gli interventi vengono definiti all’interno di una visione sistemica, intesa come «una pratica di pensiero per casi che aspira a sviluppare una comprensione del contesto (storico, sociale, economico, politico, ideologico) nel quale si sviluppa, si pratica e si fabbrica il diritto contemporaneo»[8].

Tale confronto concretizza inoltre, per modalità e condivisione, la «fisionomia di bene comune» dell’insegnamento clinico, connotata innanzitutto dalla «struttura collettiva e non gerarchica che caratterizza vuoi il suo funzionamento, vuoi la produzione di sapere giuridico “del caso concreto” cui dà luogo»[9].

Alle attività di sportello si sono sin da subito affiancate quelle di formazione seminariale, realizzate due volte l’anno attraverso cicli di almeno sei incontri, volti all’analisi del contesto in cui la Cledu si trova a operare e a fornire i primi strumenti indispensabili all’inserimento nell’attività di sportello. Sportello e formazione hanno coinvolto non solo avvocati e ricercatrici in diritto, ma anche medici, psicologi, sociologi, operatori sociali.

L’approccio clinico-legale è, infatti, profondamente basato sulla multidisciplinarietà: se si interpreta il diritto come fatto sociale, sulla scorta degli insegnamenti del realismo giuridico, specie di quello americano, ma anche delle teorie critiche del diritto come la «Critical Race Theory»[10], che «inducono a un “intervento sul campo”, implicano il richiamo alla specificità, ai dettagli delle diverse condizioni dei soggetti (…) e implicano una ricognizione sui contorni, sui confini, sull’articolazione delle questioni»[11], la scienza giuridica non può essere considerata autonoma. Ciò è tanto più vero quando si tratta di prendere in carico persone appartenenti a minoranze etniche o a categorie come quelle dei richiedenti asilo, il cui accesso ai diritti di soggiorno deriva spesso dalle loro condizioni sociali e di salute, oltre che dal loro vissuto in relazione ai fattori politici e agli eventi intercorsi nei Paesi di transito e di origine[12].

A queste attività si sono poi unite quelle di cosiddetta “street law”, volte al trasferimento e al consolidamento delle capacità delle persone in diversi modi marginalizzate in termini di accesso alla conoscenza dei propri diritti e del diritto[13]: aiutarle a orientarsi nell’attuale disordine delle fonti di diritto che comprimono, ma che anche proteggono, i loro diritti significa favorire quell’accesso diffuso alla conoscenza legale che difende anche la “certezza” del diritto intesa in questa particolare accezione.

Anche le iniziative di ricerca-azione si sono presto affiancate agli interventi legali: indagini condotte in zone di frontiera, come Lampedusa, o in luoghi di sfruttamento lavorativo, come Campobello di Mazara, sono state portate avanti al fine di fare emergere i fattori che producevano le reali condizioni delle persone che, poi, giungevano allo sportello, e di sviluppare azioni che fossero il più possibile adeguate a intervenire sulle problematicità dei vari contesti, e non solo rispetto alla risoluzione dei casi individuali[14].

Infine, le attività della Cledu sono sempre state sviluppate in un’ottica di collaborazione e rafforzamento della rete degli attori territoriali attivi nella tutela dei diritti. Tale rete è sempre stata fondamentale rispetto all’invio di casi che presentavano istanze specifiche, come quelle relative al diritto del lavoro, che non è direttamente trattato all’interno della clinica legale, ma anche e soprattutto al fine di sviluppare interventi multidimensionali e coordinati che potessero realmente accrescere le capacità delle persone «di fare quelle cose a cui, per un motivo o per un altro, si assegna valore», guardando alla «rilevanza che nella libertà di una persona hanno le reali opportunità e gli effettivi processi coinvolti»[15].

3. I primi anni di sportello Cledu: dal 2015 al 2017

Era l’estate del 2015 quando un gruppo di ex dottorande di ricerca in diritti umani, insieme a qualche docente e a due giovani avvocati, immaginarono di dare vita a una clinica legale all’interno del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Palermo. Sin dalle prime riunioni, era emersa la necessità che la clinica attivasse uno sportello di primo livello, aperto al pubblico, innanzitutto per abbattere quella barriera troppo spesso esistente tra istituzioni accademiche e mondo circostante: una cd. clinica “in-house” e “live-clients”, quindi, per usare una terminologia in voga nel mondo statunitense, che si ispirava dichiaratamente al modello già messo in atto dalla «Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza» dell’Università di Roma Tre. Ciò appariva, però, tanto più importante e specificamente significativo rispetto al peculiare contesto di “quel” dipartimento di diritto situato nel cuore del centro storico di Palermo, luogo di estrema povertà, ma di vivacità culturale e sociale altrettanto rilevanti, in cui una rete di soggetti pubblici e privati collaborava da tempo nella costruzione di un “modello” che, pur con tutte le difficoltà e i limiti che ha incontrato, è stato in questi anni narrato da giornalisti, scrittori e artisti venuti a conoscerlo da molte parti del mondo.

Palermo che, da città di mafia, si proponeva di diventare città dei diritti; Palermo dell’accoglienza, col suo porto mai blindato in cui ogni volontario ha potuto a lungo rendersi utile a ogni “sbarco” di persone soccorse in mare e portate in un porto sicuro a terra, come il diritto prevede; Palermo, in cui decine di migliaia di minori soli, provenienti dai continenti africano e asiatico, erano giunti pensando a un futuro possibile; Palermo capitale della cultura, nel suo modo particolare di declinare questo termine, con la consapevolezza che «nel mondo reale dipende sempre dalla casualità storica e dalla attualità degli eventi stabilire a chi tocca il potere di tracciare i confini della comunità politica»[16], e che altrettanto si può dire di ogni “comunità culturale”.

In questo contesto, c’era moltissimo da fare rispetto agli interventi legali da mettere in campo, e questi interventi rappresentavano, nell’ottica dell’insegnamento clinico-legale, un patrimonio sconfinato di possibilità di apprendimento esperienziale per gli studenti e le studentesse di giurisprudenza. Da qui la scelta di avviare una «Clinica per i diritti umani», le cui attività portassero alla luce il paradosso strutturale insito nei principi sanciti dal processo di costituzionalizzazione dello Stato di diritto, ovvero la discrasia tra la pretesa di universalità di tali principi, e dei diritti fondamentali ad essi connessi, e la loro mancanza di effettività per le persone private della protezione di uno Stato, come i richiedenti asilo, che sin da subito sono stati gli utenti privilegiati della Cledu. Il diritto d’asilo, infatti, come ha spiegato Luigi Ferrajoli, rappresenta più di ogni altro diritto umano «l’altra faccia della cittadinanza e della sovranità, il limite imposto dai diritti fondamentali al potere statale»[17].

L’impegno dei ricercatori, degli avvocati, degli studenti e delle studentesse della Cledu nell’ambito degli interventi clinico-legali sull’immigrazione ha contribuito, quindi, a costruire un “sapere di frontiera”, in molti sensi. Da un lato, comprendendo come sia l’attraversamento materiale delle frontiere a porre gli utenti della Cledu in specifiche posizioni giuridiche, che sollevano precise problematiche e istanze in termini di diritto. Dall’altro, accorgendosi di come gli interventi legislativi e le prassi amministrative che riguardano l’immigrazione e l’asilo rappresentino, oggi più che mai, un “diritto di frontiera” che appare sfidare costantemente l’ordinamento giuridico in termini di legittimità costituzionale, ma, a volte, anche di mera legalità. L’insegnamento clinico del diritto, in tale contesto, si è trovato a fronteggiare, nella sua declinazione più evidente, la distanza a volte incolmabile tra diritto codificato e diritto vivente, giuridificando e proceduralizzando i problemi umani individuali, attraverso un supplemento di esperienza che prova a costruire dal basso, anche in questo senso, la garanzia dell’accesso alla giustizia, gettando al contempo nuova luce sul ruolo e la funzione del giurista contemporaneo già nella sua fase di formazione.

Con questo spirito, la Cledu ha concentrato innanzitutto i suoi sforzi relativamente alle procedure concernenti l’asilo e, prima ancora, l’accesso al diritto di diventare richiedenti asilo, tenendo sempre come principio-guida il fatto che tale diritto include «come minimo, il diritto di ingresso, il diritto di restare, il diritto di non essere allontanati dal territorio con la forza e il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona»[18]. Tutti diritti, in realtà, costantemente compromessi.

Dalle attività di ricerca-azione negli hotspot, al fine di comprendere in quali frangenti e con quali modalità venisse violato il diritto di accesso all’asilo, a quelle di street-law materialmente condotte nei luoghi di snodo delle persone migranti dopo lo sbarco – ad esempio, nelle stazioni da cui stavano partendo per chissà dove con un «foglio di via» in mano, che li stigmatizzava in massa come migranti economici senza alcun approfondimento della loro posizione individuale –, fino alla preparazione per affrontare le procedure standardizzate e tecnocratiche[19] della commissione territoriale nel corso delle interviste dei richiedenti atte a concedere o meno forme di tutela, e alle contestazioni delle richieste illegittime delle questure rispetto, ad esempio, al possesso di un valido passaporto per rilasciare tipologie di protezione che invece non richiederebbero questo requisito, la Cledu ha svolto un’azione sistemica declinata in centinaia di interventi volti a rendere effettivo il diritto d’asilo per altrettante persone[20].

Nei suoi primi anni di vita, tali interventi hanno effettivamente avuto un impatto concreto e misurabile in termini di implementazione dell’effettività di questo diritto e di mitigazione della «violenza del potere di ospitalità»[21] che impone al richiedente asilo di rendersi riconoscibile, adottando modalità di comunicazione univocamente stabilite, a partire dal pregiudizio che ogni richiedente sia un fingitore: il potenziale usurpatore di un diritto dichiarato come universale, ma trattato nei fatti come risorsa limitata da distribuire con modalità sempre più escludenti.

 Il lavoro clinico-legale portato avanti ha, quindi, permesso la produzione di un contro-sapere come strumento di difesa di soggetti “resi vulnerabili”[22] dalla loro messa ai margini del diritto stesso e dell’accesso alla giustizia.

Lo stesso può dirsi per le azioni della Cledu che hanno riguardato anche la maggior parte delle famiglie rom presenti nella città di Palermo, e alloggiate quasi tutte presso il cd. “campo nomadi” della città, luogo malsano e sprovvisto di ogni servizio, o in case occupate e comunque fatiscenti. Il vissuto di questa popolazione, vittima più di tutte le altre del pericoloso riduzionismo culturale[23] che alimenta molte discriminazioni e favorisce il rafforzamento in negativo di quelle che Benedict Anderson ha definito «comunità immaginate»[24], sulla base dell’esclusione degli “altri”, rappresenta in modo diverso, ma emblematico al pari di quello dei richiedenti asilo, la già citata distanza tra proclamata universalità dei diritti e loro applicazione concreta.

Le precarie condizioni di vita dei rom dipendevano, nel particolare contesto palermitano, soprattutto dalla posizione di irregolarità sul territorio, nonostante, in qualità di genitori di figli minori, avessero fatto istanza per il rilascio dell’autorizzazione a permanere sul territorio nazionale ex art. 31 d.lgs 25 luglio 1998, n. 286, e avessero ottenuto un parere positivo dal Tribunale per i minorenni. Ciò perché la Questura di Palermo, anche a fronte del provvedimento di tale Tribunale, in cui si intimava il rilascio del permesso di soggiorno all’intero nucleo familiare, si è sempre rifiutata di agire in tal senso adducendo la necessità di presentare, per ciascuno dei membri della famiglia, il passaporto o altro documento di identità equipollente. Ma, nella maggior parte dei casi seguiti dalla Cledu, le famiglie in questione provenivano dall’ex Jugoslavia e avevano abbandonato il loro Stato prima della sua disgregazione. Apolidi di fatto, non avrebbero saputo nemmeno a quale ambasciata rivolgersi per l’ottenimento di un documento, e tale impossibilità li ha a lungo relegati in condizioni di irregolarità forzata.

In collaborazione con l’amministrazione locale, negli anni la Cledu ha portato avanti una serie di interventi sistemici a partire dai singoli casi individuali, che andavano dalle istanze di riconoscimento di situazioni riconducibili alla piena apolidia, al far valere come il permesso di soggiorno che il questore è demandato a rilasciare a seguito dell’autorizzazione del Tribunale per i minorenni all’ingresso o alla permanenza nel territorio italiano del familiare, per motivi connessi ad esigenze primarie del minore stesso, «costituisce atto dovuto di “adempimento”, secondo la testuale dizione dell’art. 31 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, privo di qualsiasi connotato di discrezionalità»[25].Inoltre, di fronte alle necessità di identificazione segnalate dalla questura come principale motivo del diniego del permesso di soggiorno ex art. 31 Tui in assenza di passaporto, la Cledu ha fatto valere come il bisogno di identificazione dei genitori e dei minori che beneficerebbero di tale permesso trovasse una risposta soddisfacente nel lavoro già svolto, rispetto a queste famiglie, dai servizi sociali e dallo stesso Tribunale per i minorenni, che avevano condotto con tutta evidenza una dettagliata indagine preliminare all’emanazione del decreto di autorizzazione. Le azioni giudiziali portate avanti per affermare questi principi hanno, perciò, assunto le caratteristiche di strategic litigation volte a modificare una prassi locale, che marginalizzava e rendeva invisibili anche coloro in favore dei quali la competente autorità giudiziaria aveva già sancito il diritto alla permanenza sul territorio nazionale nell’interesse preminente del fanciullo. La Cledu ha inoltre svolto, rispetto a questa precisa problematica, un lavoro fondamentale relativo alla sua stessa emersione, rendendo edotto il Tribunale per i minorenni della mancata attuazione dei suoi provvedimenti rispetto alle famiglie di origine rom. Allo stesso tempo, la Cledu ha formalmente inviato un documento, elaborato da tutor e studenti insieme, all’Assessorato alle politiche sociali del Comune di Palermo, dal quale risultava evidente come la precisa prassi della questura sopra descritta fosse la principale ragione cui ricondurre l’inefficacia delle azioni sociali messe in campo dallo stesso Comune a favore della cosiddetta “integrazione” delle persone rom, esplicitando un principio elementare, ma spesso eluso: se non si procede dal riconoscimento dei diritti, nessun intervento sociale può essere efficace.

Lo stesso principio ha informato di sé tutte le attività della clinica legale anche in relazione ad altri ambiti e, come già detto, tra il 2015 e il 2017 i risultati raggiunti sono stati largamente soddisfacenti. Docenti e discenti della clinica legale palermitana hanno potuto concretizzare in azioni efficaci la loro presa di coscienza delle potenzialità del diritto come elemento performativo della realtà politica, culturale e sociale, oltre che giuridica. Come scrive Emilio Santoro, del resto, «sembrano ormai lontani i tempi in cui i marxisti qualificavano il diritto come “borghese”, rimproverandogli di essere pensato e usato esclusivamente come strumento di conservazione: il diritto gioca un ruolo rilevante nella stabilizzazione sociale delle rivendicazioni degli esclusi dai circuiti dei vari tipi di rappresentanza (politica, corporativa, localistica, ecc.)»[26].

A partire da un incontro quotidiano con «l’accidentale che è in ogni vita, ossia l’accidentalità di essere “questo e non altro” che capita a ognuno come il dato del suo stesso esser qui»[27], è stato quindi possibile imparare «a trasformare la narrazione dell’assistito in fatti suscettibili di diventare problemi da sottoporre agli organi istituzionali deputati alla loro risoluzione, e anche, dunque, agli organi giudiziari»[28].

4. Dalla costruzione di un modello alla difesa dell’esistente. Le attività della Cledu dal 2017 ad oggi

Come scrive Frank S. Bloch, le cliniche legali sono realtà «connesse al “mondo reale” delle prassi giuridiche e alla loro missione di giustizia sociale che è orientata dalla comunità in cui si trovano»[29]. È, pertanto, nella loro natura adattarsi ai cambiamenti politici sociali e culturali, specie quando questi si riflettono in mutamenti normativi, riorientando anche significativamente il proprio operato. Negli ultimi due anni, però, il contesto in cui le cliniche legali italiane si trovano ad agire appare davvero essere mutato con una velocità sorprendente. L’affermazione, senza precedenti, almeno dal Secondo dopoguerra ad oggi, di un concetto di sicurezza proprietario ed escludente, automaticamente associato alla supposta necessità di difendersi contro nemici individuati come rivali rispetto all’accaparramento delle risorse, nonché come differenti, o meglio “diversi”[30], e quindi pericolosi, ha favorito una percezione diffusa dei diritti come «un gioco a somma zero»[31] tra beni definiti come esauribili, invece che come un sistema la cui stessa esistenza è vincolata al rispetto dei principi fondamentali che lo sostanziano, a partire da quelli dell’universalità e dell’eguaglianza. Le persone a diversi livelli impoverite o depredate in Italia – secondo una dinamica in realtà diffusa in gran parte del mondo occidentale contemporaneo –, piuttosto che indirizzare le loro legittime frustrazioni contro le cause reali del disagio che vivono, hanno ceduto all’antico stratagemma del divide et impera, rivolgendo il proprio rancore verso il basso invece che verso l’alto[32].

In questo clima artatamente costruito, iniziative politiche come il «Memorandum di intesa» firmato tra Italia e Libia nel febbraio del 2017 hanno potuto essere messe in atto con il consenso di larga parte dell’opinione pubblica italiana ed europea, nonostante la loro grave illegittimità costituzionale, affermata da diverse sentenze[33].

La Cledu non ha potuto fare a meno di rivolgere la propria attenzione anche a cambiamenti politici di questo tipo, rispetto alle conseguenze che essi hanno comportato sulle condizioni delle persone assistite da questa clinica legale. Già alla fine del 2017, ad esempio, nell’ambito della sessione del Tribunale dei popoli sulla violazione dei diritti delle persone migranti e rifugiate, l’esperienza dello sportello della Cledu è stata messa a servizio di denunce circostanziate, nel corso delle sedute tenutesi a Palermo, durante le quali la Cledu ha scritto e illustrato l’atto di accusa sulla base delle tantissime testimonianze raccolte nel corso della sua attività[34].

La Cledu si è infatti ritrovata ad accogliere, dalla fine del 2017 ad oggi, un numero di vittime di tortura senza precedenti, nonostante il drastico calo degli arrivi di profughi via mare: persone catturate in mare e riportate in Libia innumerevoli volte, lì rinchiuse nei centri di detenzione, anche da quando è apertamente scoppiata in quel Paese la guerra civile, e costrette a subire in maniera reiterata violenze volte ad estorcere alle famiglie rimaste in patria altro denaro.

Oltre alla necessità di attivare in maniera più strutturata relazioni con medici in grado di certificare le torture subite e psicologi in grado di accogliere persone sottoposte così a lungo a questi traumi, la Cledu ha dovuto poi far fronte alla negazione di fatto della rilevanza di questi vissuti rispetto alle valutazioni della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.

La dicotomica separazione tra “migranti forzati” e “migranti economici”, adottata da queste commissioni come criterio delle loro decisioni, non è stata infatti per nulla scalfita dal nuovo contesto geopolitico, e ha portato queste istituzioni a continuare a considerare solo le condizioni dei richiedenti asilo nel loro Paese d’origine, non tenendo tendenzialmente in conto il periodo di permanenza in Libia anche a fronte di persone rese estremamente vulnerabili dalle torture subite e, comunque, in fuga da un Paese in guerra. Solo in sede giudiziale è solitamente possibile far valere, invece, anche queste considerazioni, ma la maggior parte dei ricorsi sono in questo momento pendenti, e non è ancora realistico definire una percentuale di successi.

Le novità introdotte dal decreto-legge “immigrazione e sicurezza pubblica” (dl n. 113/2018), entrato in vigore il 5 ottobre 2018 e poi convertito dalla legge di conversione n. 132 del 1º dicembre 2018, ha inoltre comportato un aumento esponenziale del numero dei dinieghi alle richieste di protezione internazionale, e un’implementazione senza precedenti nella richiesta di attività giudiziali da parte della Cledu. Il decreto, infatti, ha abolito la protezione umanitaria a seguito della semplice osservazione, da parte del Ministro dell’interno in carica, che questa venisse conferita a un numero molto più esteso di richiedenti asilo rispetto a quelli che accedevano, invece, allo status di rifugiato o alla protezione sussidiaria, e quindi andasse assolutamente limitata. In questa retorica politica priva di argomentazioni non ha mai trovato posto alcun ragionamento, in termini di diritti o di diritto, che esplicitasse ad esempio come la diversa percentuale di protezioni umanitarie concesse fosse strettamente legata al tipo di tutela che tale protezione offriva: una protezione che rendeva in qualche modo effettivo l’articolo 10 della Costituzione italiana e che, come ha affermato la Corte costituzionale, era capace di «adempiere agli obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato», proteggendo «le situazioni non identificabili con quelle rientranti nelle ipotesi di rifugio o protezione sussidiaria, ove sia necessario offrire tutela ai diritti fondamentali della persona, garantiti dalla Costituzione, dalle carte sovranazionali e dai trattati internazionali»[35].

La conseguenza diretta della cancellazione della protezione umanitaria è stata quindi la “clandestinizzazione” di un numero sempre crescente di persone, anche tra quelle che avevano già ricevuto un permesso umanitario e che non sono state più in grado di convertirlo.

In questo contesto, gli operatori e le operatrici della Cledu si sono trovati spesso, per la prima volta, a doversi arrendere di fronte all’inadeguatezza del diritto come strumento di accesso ai diritti, nel momento in cui ad esso è contrapposto «un diritto speciale riservato ai migranti e alle minoranze, quando non un vero e proprio diritto contro»[36], e a dovere dichiarare ai propri assistiti che nessun intervento era più realizzabile.

5. Conclusioni. La Cledu come presidio di difesa dei principi costituzionali e della cultura dei diritti umani

Con la costituzionalizzazione dell’ordinamento giuridico, «la Costituzione ha cominciato a venire percepita come una sorta di tavola di valori che pervadono l’intero diritto: valori di origine morale che ancor oggi non sarebbero del tutto giuridicizzati, o positivizzati»[37]. I valori tradotti in principi costituzionali rappresentano un vincolo a ogni potere politico, anche democraticamente eletto (e sono stati, anzi, immaginati come un limite alle possibili derive delle democrazie). Si tratta, in via prioritaria, di diritti fondamentali che impongono il rispetto della dignità umana sopra ogni altra considerazione, e che imbrigliano il potere legislativo e quello politico anche attraverso i dettami del diritto internazionale dei diritti umani.

Come ha scritto Aldo Schiavello, però, «il riconoscimento universale dei diritti umani può essere paragonato al varodi una nave che poi bisogna sapere accompagnare in acque aperte e spesso tempestose»[38]. E, ancora, Stefano Rodotà ha ben spiegato che «i diritti non sono mai acquisiti una volta per tutte. Sono sempre insidiati, a rischio. La loro non è mai una vicenda pacificata. Il loro riconoscimento formale ci parla sempre di una battaglia vinta, ma immediatamente apre pure la questione del loro rispetto, della loro efficacia, del loro radicamento. I diritti diventano così, essi stessi, strumenti della lotta per i diritti»[39].

Queste considerazioni appaiono oggi più che mai significative, in un momento in cui, effettivamente, «il pendolo della cultura occidentale, dopo essere stato a lungo dalla parte della retorica dei diritti, sembra essere rapidamente ritornato dalla parte delle retoriche utilitariste (non universalistiche) per cui appare giustificato sacrificare i diritti dei pochi in nome del benessere collettivo, specialmente se questi pochi possono essere dipinti come “estranei”»[40].

Le cliniche legali italiane si inseriscono in questo frangente storico, e quelle come la Cledu, che si occupano di diritti umani di persone private più di altre di rappresentanza, possono verificare le conseguenze dirette di questo cambiamento ogni giorno, cercando di riorientare il proprio operato per farvi fronte.

In maniera sempre più esplicita e consapevole, la Cledu è oggi impegnata in interventi che cercano di concorrere, attraverso il sostegno offerto ai singoli casi individuali, non più solo a instaurare cause strategiche in grado di aggredire disfunzioni e violazioni reiterate, ma anche a difendere e rilanciare i valori costituzionali di equità e giustizia, intendendo il legame necessario tra diritto e giustizia[41] anche nel senso di una possibilità effettiva di accesso alla giustizia garantita per ogni persona, indipendentemente dal suo status.

Ciò ha comportato, come già accennato per le persone provenienti dalla Libia, una presa in carico ancora più multidimensionale degli utenti che hanno portato le loro istanze allo sportello, lavorando ancora più in rete con gli altri servizi territoriali, sostenendo e facendo valere nelle sedi opportune le battaglie per l’accesso alla residenza anagrafica dei richiedenti asilo, inibito anch’esso dal già citato dl n. 113/2018 e già ritenuto inattuabile da alcuni significativi pronunciamenti dei tribunali[42], od offrendo un contributo costante in termini di consulenza legale agli interventi di inserimento socio-lavorativo necessari per favorire la conversione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari in scadenza, o a quelli di inserimento abitativo – resi sempre più urgenti dallo smantellamento di fatto del sistema di accoglienza – portati avanti da associazioni come “Refugees Welcome”.

L’esperienza della clinica legale dei diritti umani dell’Università di Palermo non è, in questo senso, isolata. Pur essendo certamente possibile affermare che il metodo clinico del learning by doing applicato al diritto rimarrebbe estremamente efficace, in termini di preparazione di futuri giuristi tecnicamente ineccepibili, anche se fosse slegato da ogni istanza di giustizia sociale, la realtà ci racconta di come le cliniche legali italiane siano generalmente costruite da persone che hanno adottato una specifica concezione di cosa significhi oggi essere e diventare un giurista: una concezione orientata a una difesa dei diritti fondamentali che si estende anche oltre le aule giudiziarie, risignificando la categoria della loro universalità «da un’infinità di direzioni, per riemergere nuovamente come il risultato di una traduzione culturale»[43]. Un impegno assunto da altre cliniche legali di altri Stati e continenti, che appaiono anch’esse, non a caso, tendenzialmente aver preso piede in contingenze legate a crisi sociali e politiche significative.

[1] Per una storia delle cliniche legali, cfr. M. Romano, The history of legal clinics in the US, Europe and around the world, in C. Bartoli (a cura di), Legal clinics in Europe: for a commitment of higher education in social justice, in Diritto e questioni pubbliche, numero speciale, maggio 2016.

[2] Cfr., ad esempio, A. Maestroni – P. Brambilla – M. Carrer (a cura di), Teorie e pratiche nelle cliniche legali, Giappichelli, Torino, 2018.

[3] È il caso, soprattutto, del Centro di documentazione «L’altro diritto», fondato con la sua omonima associazione nel 1996 presso il Dipartimento di Teoria e storia del diritto dell’Università di Firenze. È significativo, infatti, che dopo più di due decenni in cui studenti e studentesse fiorentini hanno potuto praticare il diritto nelle carceri, negli istituti psichiatrici, nei centri per migranti, avviando veri e propri sportelli di consulenza giuridica gratuita, solo a partire dal 2018 da L’altro diritto siano nate tre cliniche legali formalmente definite come tali.

[4] M. Foucault, Gli anormali (1974-1975), Feltrinelli, Milano, 2000, p. 17.

[5] M. Brigaglia, Foucualt e il potere, in Diritto e questioni pubbliche, n. 14/2014, p. 532.

[6] G. Di Chiara, Cercando un cielo. Legal clinic, formazione del giurista e tutela della vulnerabilità, in G. Di Chiara e A. Sciurba (a cura di), Esperienze di tutela dei minori soli richiedenti asilo e percorsi di formazione del giurista: la Clinica legale per i diritti umani di Palermo, in Minorigiustizia, Franco Angeli, Milano, n. 3/2017, p. 182.

[7] In questo senso, le esperienze cliniche italiane appaiono prevalentemente impegnate, in vari ambiti e con differenti modalità e metodologie di intervento, nel presidio di una visione in qualche modo contigua a quella neocostituzionalista del diritto, specialmente nella sua declinazione à la Dworkin, mettendo in campo anche “azioni affermative” come azioni volte a restituire un’eguaglianza sostanziale tra gli individui. Cfr. R. Dworkin, Giustizia per i ricci, Feltrinelli, Milano, 2013 (edizione originale: Justice for Hedgehogs, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA, 2011). Nelle cliniche legali, attraverso le attività stragiudiziali e di street law, di cui si parlerà in seguito, tale visione viene inoltre rilanciata in una difesa dei diritti fondamentali che si estende anche oltre le aule giudiziarie.

[8] J. Perelman, Pensare la pratica, teorizzare il diritto in azione: le cliniche legali e le nuove frontiere epistemologiche del diritto, in F. Di Donato e F. Scamardella (a cura di), Il metodo clinico legale. Radici teoriche e dimensioni pratiche, Editoriale Scientifica, Napoli, 2016, p. 108.

[9] M.R. Marella ed E. Rigo, Cliniche legali, commons e giustizia sociale, in Parolechiave, n. 1/2015.

[10] Sul realismo giuridico americano si rimanda al testo classico di Giovanni Tarello: Il realismo giuridico americano, Giuffrè, Milano, 1962. Sulla «Critical Race Theory» si rimanda invece a K. Thomas e G. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti, Diabasis, Reggio Emilia, 2005.

[11] T. Casadei, Postfazione. Le teorie critiche del diritto. Tra filosofia giuridica e filosofia politica, in M.G. Bernardini e O. Giolo (a cura di), Le teorie critiche del diritto, Pacini, Pisa, 2017, p. 391.

[12] Ad esempio, la Cledu ha sviluppato una collaborazione formale con il Dipartimento di Medicina legale dell’Università di Palermo, i cui specializzandi svolgono un ruolo fondamentale nel certificare violenze subite, come torture o mutilazioni genitali. Allo stesso tempo, tra i tirocinanti della Cledu non pochi sono stati studenti e studentesse di scienze politiche e relazioni internazionali, e hanno spesso coordinato le ricerche relative allo stato dei diritti umani nei Paesi di origine e transito delle persone prese in carico. Un’ulteriore collaborazione anche con etnologi, inoltre, permetterebbe di accedere più rapidamente a quell’insieme di conoscenze necessarie per offrire controprove alle storie raccontate dai richiedenti asilo relativamente, ad esempio, a rituali violenti in vigore nella loro società di appartenenza.

[13] Vari autori hanno definito la street law come uno dei modi in cui le cliniche legali possono direttamente ed efficacemente influenzare le questioni di giustizia sociale. Tale attività condivide, infatti, molte delle caratteristiche di altri programmi di educazione giuridica clinica poiché altamente formativa per gli studenti e, allo stesso tempo, volta a offrire un servizio di informazione legale, solitamente per persone che non sono in grado di accedere a questa consulenza attraverso canali più convenzionali. Cfr., ad esempio, R.H. Grimes - D. McQuoid-Mason - E. O’Brien - J. Zimmer, Street Law and Social Justice Education, in F.S. Bloch (a cura di), The Global Clinical Movement, Educating Lawyers for Social Justice, Oxford University Press, Oxford-New York, 2011.

[14] La missione a Lampedusa è stata programmata e attuata nel febbraio del 2016 – dopo che, nei mesi precedenti, non si era arrestato il flusso di persone che avevano raggiunto lo sportello della Cledu – con un decreto di respingimento differito consegnato all’interno degli hotspot siciliani, in particolare in quello di Lampedusa. Tale decreto veniva consegnato dopo che ai naufraghi appena sbarcati sull’isola era fatto firmare un “foglio notizie” in cui, quasi sempre del tutto inconsapevolmente, dichiaravano di non essere richiedenti asilo. La missione ha reso la Cledu consapevole, anche per le esplicite richieste delle associazioni presenti a Lampedusa, della necessità di produrre dei documenti informativi da distribuire ai migranti già al momento del loro arrivo in banchina, che li rendessero edotti non solo dei loro diritti, ma anche delle prassi, in gran parte illegittime, cui sarebbero stati sottoposti, e di come potere reagire ad esse una volta trasferiti da Lampedusa in altre località siciliane. Questo materiale informativo è stato prodotto con una partecipazione attiva degli studenti e delle studentesse, e distribuito poi da un’associazione presente sull’isola di Lampedusa. Oltre a produrre un documento dall’immediata utilità per i suoi destinatari, questa esperienza è risultata essere particolarmente proficua perché ha permesso agli studenti e alle studentesse della Cledu di confrontarsi direttamente con gli effetti del nuovo corso delle politiche europee sulle migrazioni e sull’asilo lanciato dal 2015 in poi, nonché con un caso di cattiva implementazione delle stesse da parte delle autorità nazionali di un Paese membro. Studenti e studentesse hanno inoltre preso consapevolezza della necessità di affiancare all’intervento legale, effettuato in questo caso contestualmente, attraverso la stesura dei ricorsi avverso i decreti di respingimento differito, un’attività di informazione che trascendesse la mera elencazione di diritti sanciti e norme, ma che rendesse edotte le persone di quello che sarebbe concretamente accaduto loro, mettendole quindi nelle condizioni di potersi difendere.

[15] A. Sen, L’idea di giustizia (2009), Mondadori, Milano, 2010, pp. 275 e 276.

[16] J. Habermas, L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 129.

[17] L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico (a cura di Ermanno Vitale), Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 25.

[18] M.T. Gil-Bazo, Refugee Status and Subsidiary Protection under EC Law, in New Issues in Refugee Research, research paper n. 136, 2006, p. 8.

[19] J. Valluy, Reject des exilés. Le grand retournement du droit de l’asil, Éditions du croquant, Parigi, 2009.

[20] Sulle procedure stragiudiziali relative al diritto d’asilo e gli interventi della Cledu in merito, mi permetto di rimandare a una trattazione più approfondita: cfr. A. Sciurba, Al confine dei diritti. Richiedenti asilo tra normativa e prassi, dall’hotspot alla decisione della Commissione territoriale, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2018, www.questionegiustizia.it/rivista/2018/2/al-confine-dei-diritti-richiedenti-asilo-tra-norma_541.php.

[21] A. Dufourmantelle e J. Derrida, De l’hospitalité, Calmann-Lévy, Parigi, 1997, p. 133.

[22] La vulnerabilità come bene si impara nel contesto delle cliniche legali, non è infatti una condizione ontologica. Nell’introduzione al volume intitolato proprio Vulnerability, i curatori Mackenzie, Rogers e Dodds sottolineano in questo senso come la vulnerabilità possa essere prodotta o alimentata da situazioni personali, sociali, politiche, economiche o ambientali che colpiscono una persona o un gruppo sociale, incluse le relazioni interpersonali, l’oppressione sociopolitica e l’ingiustizia. Si tratta quindi di definire la vulnerabilità in termini situazionali e relazionali, enfatizzando «i modi in cui l’ineguaglianza di potere, dipendenza, capacità o bisogno rende alcuni soggetti vulnerabili alla violenza o allo sfruttamento da parte di altri»: cfr. C. Mackenzie – W. Rogers – S. Dodds, Introduction: What Is Vulnerability and Why Does It Matter for Moral Theory?, in Id. (a cura di), Vulnerability. New Essays in Ethics and Feminists Philosophy, Oxford University Press, Oxford, 2014, p. 6. Lo stesso approccio alla vulnerabilità è adottato anche in I. Atak – D. Nakache – E. Guild – F. Crépau, Migrants in Vulnerable Situations” and the Global Compact for Safe Orderly and Regular Migration, in Queen Mary School of Law Legal Studies, research paper n. 273, 2018.

[23] Questo concetto è ampiamente definito e utilizzato in A. Sen, Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari, 2006.

[24] B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996.

[25] Tar Emilia-Romagna – Parma, sez. I, 28 luglio 2009, n. 655.

[26] E. Santoro, I rifugiati e le nostre categorie di morale, politica, diritto e democrazia, in M.G. Bernardini e O. Giolo (a cura di), Le teorie critiche, op. cit., p. 169.

[27] A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 181.

[28] G. Di Chiara, Cercando un cielo, op. cit., p. 181.

[29] F. Bloch, Access to Justice and the Global Clinical Movement, in Washington University Journal of Law & Policy, vol. 28, 2008, p. 115, – traduzione dell’Autrice (ndR).

[30] La distinzione tra “diversità” e “differenza”, nonostante i termini siano spesso usati come sinonimi, non è questione da poco: il verbo latino divergere presuppone un’identità centrale da cui ci si allontana più o meno gradualmente, ovvero un parametro assunto come neutrale rispetto al quale si segnala una più o meno accentuata distanza; il verbo differire, invece, implica il portato valoriale dell’equidistanza, indicando semplicemente la non omogeneità tra due oggetti o soggetti, senza assumerne uno come parametro.

[31] E. Santoro, Dalla cittadinanza inclusiva alla cittadinanza escludente: il ruolo del carcere nel governo delle migrazioni, in Diritto e questioni pubbliche, n. 6/2006, pp. 39-79 e 69.

[32] In questo senso, come scriveva Luciano Gallino, la lotta di classe esiste ancora, ma solo una delle parti ne è consapevole: quella di chi detiene la ricchezza ed esercita il potere. I poveri e gli impoveriti, invece, troppo indotti a condurre la loro guerra tra miseri e più miseri, non hanno alcuna idea di chi siano i loro veri antagonisti: «il fatto che le classi sociali ci siano, ma quasi nessuno le veda, le senta, le interpreti, ne rappresenti gli interessi, ha provocato notevole danno ai processi di integrazione sociale», portando con sé «il declino del senso di comunità, di appartenenza a una collettività», e lasciando invece il posto a un «individualismo rozzo», che non può che invocare, appunto, una sicurezza escludente e meramente difensiva. Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe. Intervista a cura di Paola Borgna, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 203.

[33] Cfr., tra le più recenti, la sentenza del gip di Trapani del 23 maggio 2019 (dep. 3 giugno 2019). La sentenza, relativa al celebre caso dei naufraghi soccorsi dalla nave commerciale “Vos Thalassa” che si erano opposti con determinazione al fatto di essere riportati verso la Libia, da cui erano riusciti a fuggire, dichiara illegittimo il Memorandum adducendo diverse e ben argomentate ragioni. La prima e più evidente è che la Libia non può in alcun modo essere considerata un porto sicuro, in cui, secondo il diritto internazionale del mare, è possibile condurre dei naufraghi senza violare il principio di non refoulement stabilito all’art. 33 della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, che opera in stretta relazione con gli artt. 2 e 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Pertanto, il Memorandum di intesa con la Libia è privo di validità perché in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale. Lo stesso risulta, inoltre, essere illegittimo da un punto di vista formale e procedurale, perché è un atto mai ratificato dal Parlamento italiano, nonostante si occupi di temi per cui la nostra Costituzione prevede tale ratifica.

[34] Cfr. www.tppsessionepalermo.it/da-palermo-atto-accusa-violazione-diritti-migranti/.

[35] Cfr. La protezione umanitaria nella Costituzione. Le sentenze dei Tribunali di Firenze, Genova e Roma, in questa Rivista online, 26 febbraio 2018, www.questionegiustizia.it/articolo/la-protezione-umanitaria-nella-costituzione_26-02-2018.php.

[36] T. Casadei, Il rovescio dei diritti umani. Razza, discriminazione, schiavitù, DeriveApprodi, Roma, 2016, p. 9.

[37] M. Barberis, Filosofia del diritto. Un’introduzione teorica, Giappichelli, Torino, 2003, p. 24.

[38] A. Schiavello, Ripensare l’età dei diritti, Mucchi, Modena, 2016, p. 18.

[39] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2012, pp. 31-32.

[40] E. Santoro, I rifugiati, op. cit., p. 172.

[41] Per una celebre tesi che sostiene la necessità di questo legame, cfr. R. Alexy, On Necessary Relations between Law and Morality, in Ratio juris, vol. 2, n. 2/1989.

[42] Cfr., ad esempio, Tribunale di Firenze, ordinanza 18 marzo 2019, est. Carvisiglia (xxx c. Comune di Scandicci).

[43] J. Butler, Fare e disfare il genere, Mimesis, Sesto San Giovanni (Mi), 2014, p. 323.