L’etica professionale dei magistrati:
non un’immobile Arcadia, ma un permanente campo di battaglia
1. La questione all’ordine del giorno: rigenerare e rinnovare l’etica professionale dei magistrati
Rigenerare e rinnovare l’etica professionale dei magistrati – come è necessario, nell’attuale momento di acuto travaglio – è un compito politico.
Così è stato in passato, a partire dalla fine degli anni sessanta, quando i magistrati si sono impegnati – e divisi – nella ricerca di un nuovo modello di magistrato e, corrispondentemente, di una nuova etica professionale adeguata ai tempi.
Così è oggi, quando, di fronte alle cadute, si avverte che non bastano le risposte d’occasione, i buoni propositi, le dichiarazioni di intenti. E neppure – va detto con chiarezza – gli slanci generosi, ma autodistruttivi che inevitabilmente finiscono con il ritorcersi contro la parte più viva e sensibile della magistratura.
Diventa indispensabile assolvere un compito di più ampio respiro: ridiscutere i valori e l’etica della professione ripercorrendone la storia, l’evoluzione, le conquiste e i cedimenti, e misurandone la corrispondenza ai problemi del presente.
Con la consapevolezza che l’etica professionale non è materia di lezioni[1], ma di scelte culturali e istituzionali da discutere appassionatamente, di quotidiani esempi positivi e di prassi collettive virtuose.
Come muoversi nella ricerca?
Riconoscendo, in primo luogo, che l’etica professionale dei magistrati è un aspro campo di battaglia.
Rifuggendo, inoltre, dalle astrazioni – sempre in agguato quando si discute di etica – per chinarsi sui casi concreti, sulle cadute, sulle torsioni della funzione del magistrato, per trarne motivi di ripensamento e di rinnovamento.
Ammettiamolo: mentre la più recente riflessione sull’etica del magistrato si è concentrata prevalentemente sui piani alti dell’edificio – il nodo della imparzialità, il rispetto della dignità degli attori del processo, la nuova etica della comunicazione –, i cedimenti sono giunti dai piani bassi, dai retrobottega, dalle cucine.
I luoghi dove si svolge l’amministrazione della giurisdizione; lo spazio della carriera; la sfera della gestione dei patrimoni sequestrati o confiscati in attuazione di misure di prevenzione; il campo della discrezionalità operativa propria della fase delle indagini preliminari: sono state queste aree “fluide”, meno soggette a controlli giurisdizionali e collettivi, a divenire il luogo delle peggiori cadute etiche.
Ed è in queste aree che si sono susseguiti – scivolando lungo un crinale inclinato – comportamenti solo disinvolti o eticamente riprovevoli, condotte contrastanti con i precetti del codice disciplinare, aperte e gravi violazioni del codice penale.
Bisogna dunque ricominciare da capo la fatica – insisto, tutta intellettuale e politica – di pensare e discutere un’etica collettiva, alla ricerca di regole e di prassi realmente praticate e condivise?
In altri termini: occorre ancora risollevare il macigno verso la vetta con il timore di vederlo ripiombare verso il basso, per la forza di gravità delle violazioni e degli scandali?
A una tale fatica non c’è alternativa, se si vuole che la magistratura non degradi, agli occhi dei cittadini, a élite disinvolta e immeritevole di fiducia, e resti una componente viva e indispensabile della società italiana e della democrazia repubblicana.
Come ha scritto un testimone dell’umanamente possibile, Albert Camus, «anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice»[2].
2. Le due parole chiave dell’etica professionale: “fiducia” e “riprovazione”
L’etica professionale, si è detto, non è un’immobile Arcadia, popolata di pastorelli e pastorelle che si muovono come gentiluomini e damine. Al contrario, è un frenetico cantiere sempre aperto e, spesso, un terreno di scontro.
Accanto a valori condivisi, che costituiscono il cemento e lo scudo indispensabile per difendere principi e regole fondanti della professione, emergono in continuazione nuove “questioni etiche” del lavoro del magistrato, capaci di suscitare contrasti e divisioni nella società, nel mondo giudiziario e tra gli stessi magistrati.
Del resto, che l’etica professionale sia una realtà severa, talvolta divisiva, non è affatto una novità.
In fondo, la prima etica professionale laica, sganciata da riferimenti religiosi, è stata l’etica degli affari, che si è affermata quando il danaro ha cessato di essere considerato lo “sterco del diavolo” e il prestito dietro interesse non è stato più considerato un peccato capitale.
E per capire quanto fosse dura e rigorosa, all’origine, l’etica degli affari, occorre trasferirsi con l’immaginazione lontano nel tempo, in una piazza della Firenze del Trecento, e assistere allo spettacolo di un gruppo di persone che si dirige minaccioso verso la bottega di un banchiere, vi fa irruzione e rompe il suo banco.
Sono gli altri banchieri, i “pari” del malcapitato che, con la rottura del banco e la preclusione di ogni futura attività creditizia, sanzionano l’espulsione dalla loro comunità del membro che si è rivelato insolvente e, quindi, inadempiente alle regole della corporazione. Con quel gesto, essi dicono all’espulso una cosa molto semplice: se tu, non onorando i tuoi impegni, comprometti la “fiducia” che deve essere riposta in tutti noi e che rappresenta la condizione essenziale per lo svolgimento della nostra attività, allora meriti la massima “riprovazione” e non puoi più restare nella nostra comunità.
Il credito, allora come ora, si basava infatti sul miracolo della fiducia, che consentiva – ricordiamo che siamo nel Milletrecento – che una lettera di credito firmata a Firenze venisse onorata sulla piazza di Londra.
La rottura del banco è la genesi della bancarotta, che poi diverrà uno dei più gravi reati contro l’economia. È l’anticipo del trattamento severissimo che lo Stato borghese classico riserverà, poi, al fallito come al bancarottiere. Ed è anche il momento in cui compaiono le due parole chiave dell’etica professionale laica: “fiducia” e “riprovazione”.
Fiducia dei cittadini, del pubblico in chi esercita un’attività delicata e cruciale; e riprovazione dei propri pari, riprovazione sociale per chi, con la sua condotta, incrina e compromette quella fiducia.
Sono parole che ricorreranno sempre nelle discussioni sull’etica professionale.
3. Uno sguardo alla storia: magistrati alla ricerca di una nuova etica negli anni sessanta e settanta
All’avvertenza iniziale sulla permanente durezza delle questioni dell’etica professionale deve accompagnarsi la consapevolezza storica.
Parlo della faticosa ricerca, compiuta a partire dalla fine degli anni sessanta, di un nuovo modello di magistrato e, corrispondentemente, di una nuova etica professionale coerente con quella idea di giudice e di pubblico ministero.
È la storia di una piccola rivoluzione o, meglio, della costruzione di una nuova casa con l’utilizzo di materiali antichi e preesistenti e con innesti innovativi ed arditi.
Concentriamoci sulle innovazioni, tutte realizzate attraverso non poche resistenze e contrasti.
Grazie a quella rivoluzione è cambiato, innanzitutto, il bene da tutelare attraverso l’applicazione di un’etica professionale rigorosa.
Non più l’astratto e formale valore del “prestigio” del corpo, punto di riferimento indiscutibile della magistratura degli anni cinquanta e sessanta, ma il più laico e concreto valore della “credibilità” del giudiziario, della fiducia dei cittadini, non in questo o quel magistrato, ma nel sistema della giustizia e nelle regole di funzionamento della giurisdizione.
Si è passati, inoltre, dal regime del segreto alla pubblicità e alla visibilità.
Il procedimento disciplinare, in origine connotato dalla totale segretezza, è divenuto, dapprima per scelta della stessa magistratura e poi per successivo riconoscimento legislativo, un procedimento non solo pubblico, al pari di ogni altro procedimento giudiziario, ma anche aperto alle più ampie forme di pubblicità, tra cui la trasmissione radiofonica del dibattimento disciplinare, ove vi sia il consenso dell’interessato.
Dunque credibilità versus prestigio, pubblicità versus segreto.
Due mutamenti radicali, fedelmente registrati in una importante decisione della Corte costituzionale, la sentenza n. 497 del 2000, che ha introdotto la possibilità per il magistrato incolpato di farsi difendere anche da un avvocato del libero foro.
In questa decisione – con evidente richiamo alla cultura dell’associazione dei magistrati e dei diversi gruppi associativi che la compongono – si è riconosciuto che la magistratura, «in molte delle sue componenti», ha avuto un importante merito storico. Da un lato, aver contribuito a realizzare, nell’ambito della giustizia disciplinare, l’abbandono di una vecchia nozione di prestigio del corpo a favore di una più moderna concezione del prestigio come «credibilità dell’esercizio delle funzioni giudiziarie presso l’opinione pubblica intesa in senso pluralistico».Dall’altro, aver concorso a ripudiare, attraverso prassi anticipatrici dei mutamenti legislativi, la segretezza del procedimento disciplinare a favore della sua pubblicità e della sua trasparenza «valore portante di ogni sistema autenticamente democratico».
In una parola, alla magistratura in «molte delle sue componenti» e al dibattito interno che in essa si è sviluppato, il giudice costituzionale ha dato atto del rovesciamento dei vecchi schemi – il “prestigio” e il “segreto” –, propri della cultura corporativa, a favore dei più moderni concetti di “credibilità” e “trasparenza”, propri del moderno Stato democratico di diritto.
Né le trasformazioni promosse si sono fermate qui.
Si pensi all’accettazione del principio della responsabilità sociale e culturale di ciascun magistrato per le decisioni assunte e per le scelte interpretative compiute, che si è sostituita alla preesistente concezione dell’attività di interpretazione e applicazione della legge come operazione neutrale, puramente tecnica, asettica e perciò culturalmente e socialmente irresponsabile.
Si pensi, ancora, alla battaglia intrapresa contro la regola non scritta per cui “un magistrato non critica mai le sentenze dei colleghi” e contro l’opinione, largamente diffusa, che bollava le critiche provenienti dall’interno del corpo dei magistrati come indebite “interferenze”. Scontro che ha portato alla progressiva affermazione e vittoria dell’opposto principio per cui, nella giurisdizione, “tutto può essere sottoposto a critica”, anche da parte degli stessi magistrati.
Il che significa che non ci sono arcana imperii da tutelare chiudendosi in se stessi e che la fiducia nella magistratura non si rafforza con l’omertà corporativa, ma con la discussione aperta e l’analisi critica della giurisprudenza anche da parte di magistrati.
Un approdo a prima vista scomodo o sgradevole, ma in ultima istanza in grado di garantire meglio legittimazione e credibilità dell’istituzione giudiziaria nel suo complesso.
Si rifletta, infine, al passaggio dalla regola del silenzio al riconoscimento che vi sono casi in cui gli uffici hanno il dovere di parlare, di rettificare, di spiegare e di spiegarsi e lo stesso singolo magistrato ha il diritto di prendere la parola a tutela della sua immagine, come da ultimo riconosciuto anche dalla Corte di cassazione.
Dunque, a far tempo dalla fine degli anni sessanta, almeno due generazioni si sono mosse lungo queste strade per costruire un’etica professionale adeguata al loro tempo.
Nessuna delle trasformazioni realizzate è stata scontata, indolore, facile. E ciascuna di esse potrà essere revocata in dubbio in futuro giacché il cantiere dell’etica professionale è sempre in fermento e ogni generazione, sospinta dai mutamenti storici e dalle nuove domande di una società esigente, dà vita alla sua etica, grazie all’uso combinato di secolari pietre angolari e di materiali high-tech di ultima generazione.
4. La Costituzione come prima fonte di imperativi etici
Il percorso di ricerca di una nuova etica – di cui sono state ora indicate alcune tappe – ha preso le mosse dalla Costituzione per svolgersi lungo le linee tracciate dai codici di procedura, giungendo all’elaborazione di un codice etico e alla scrittura di un codice disciplinare.
È questo complesso mosaico di fonti che regola e definisce il quadro del “dover essere” dei magistrati a partire dalla Costituzione, prima fonte di imperativi etici per il magistrato.
La Carta costituzionale, infatti, non contiene solo il catalogo generale di principi e valori cui ispirare l’esercizio della giurisdizione e la vita privata del giudice cittadino, ma fornisce anche le indicazioni fondamentali ed essenziali sulla sua etica professionale. Al punto che il codice etico e il codice disciplinare ben possono essere considerati come altrettanti luoghi nei quali i principi costituzionali sono stati tradotti in regole di condotta solo socialmente doverose, o in norme assistite da sanzione disciplinare in caso di violazione.
Così, il principio di eguaglianza e la regola di pari dignità delle persone rappresentano canoni fondamentali di condotta per accusatori e giudici, da osservare nei confronti di tutti coloro che, con ruoli diversissimi, compaiono nella scena del processo o assistono ad esso: le parti, i difensori, i testimoni, i collaboratori amministrativi, gli spettatori, gli operatori dei media.
Per altro verso, l’estrema attenzione che il legislatore costituente dedica alle garanzie volte ad assicurare un’indipendenza effettiva dell’intera magistratura dice al singolo magistrato che egli deve completare il disegno costituzionale divenendo il primo custode della sua indipendenza, considerandola come un dono prezioso, ma anche come un onere pesantissimo e come una fonte di responsabilità.
La “cura” che ciascun magistrato dedica alla sua indipendenza personale è dunque un tratto della sua professionalità, uno dei metri su cui essa viene legittimamente misurata, giacché senza tale cura rischiano di essere vanificate e divenire vuote ed inutili le molte garanzie costituzionali previste dalla Carta.
Del resto, quando il costituente afferma che i magistrati sono soggetti solo alla legge, che essi devono “obbedire” soltanto alla legge, sta dicendo anche – come ricordava sempre un maestro come Pino Borrè – che, quando è necessario, il magistrato deve saper “disobbedire” ad altri poteri e ad altri comandi che non siano quelli del legislatore. Un bivio di fronte al quale ciascun magistrato si trova più volte nel suo percorso professionale.
Infine, quando il Parlamento, nell’aggiornare la Carta costituzionale, ha affermato che la legge garantisce la «ragionevole durata» del processo ha fornito una direttiva al legislatore ordinario, ma ha anche ricordato che a tale obiettivo ogni magistrato deve contribuire per la sua parte, mettendo in campo una “ragionevole intensità di lavoro”, con tutto ciò che questo significa in termini di laboriosità, tempestività, fattivo concorso all’obiettivo collettivo del buon funzionamento della giurisdizione.
Direttamente dal testo costituzionale derivano, dunque, regole di etica professionale da osservare con lo scrupolo che è richiesto dalla fonte da cui promanano.
E lo stesso può dirsi per i codici di procedura civile e penale che, nel regolare il processo, tracciano in continuazione linee di condotta per il magistrato, stabilendo obblighi, ma anche stimolando valutazioni di opportunità, imponendo o suggerendo comportamenti da tenere nelle molte situazioni critiche che, nel corso del processo, possono presentarsi.
Si pensi solo alle norme poste a garanzia della visibile imparzialità del magistrato come quelle sull’astensione e ricusazione o ai termini “ordinatori” la cui violazione (in assenza di oggettive giustificazioni) non può essere considerata normale e naturale solo per la mancanza di sanzione giuridica.
5. Da un quadro di doveri dettato dal giudice disciplinare ai testi scritti del codice etico e disciplinare
Accanto a queste norme generali sono state, però, introdotte anche specifiche norme che fissano principi e modi della condotta del magistrato nella professione e fuori di essa, nella vita sociale.
Questa deontologia si è tradotta in norme in tempi relativamente recenti. In precedenza, essa derivava infatti esclusivamente da una fonte giurisprudenziale.
La formula dell’art. 18 della legge delle guarentigie assoggettava a sanzione disciplinare «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario».
Non vi era perciò alcuna tipizzazione delle fattispecie disciplinarmente rilevanti e nessuna predeterminazione delle correlative sanzioni che potevano essere liberamente scelte dal giudice disciplinare tra quelle elencate nella legge.
Tutto era rimesso, in sostanza, alla giurisprudenza della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, che, decidendo sulla incolpazione disciplinare, individuava ex post l’eventuale illecito e sceglieva la sanzione da applicare. Con la carenza di certezze e di garanzie che comporta un diritto sanzionatorio di fonte giurisprudenziale.
Poi sono venuti il codice etico del 1994[3] e il codice disciplinare del 2006.
Nell’area della specifica deontologia professionale, insistono ora due complessi di norme, che hanno diversa natura e funzione.
La distinzione tra il codice etico e le norme disciplinari è, in linea teorica, nettissima.
Esiste infatti un nucleo più ristretto di comportamenti, sanzionati disciplinarmente, che rappresenta il cerchio interno della deontologia professionale e segna il confine varcato il quale diviene necessario ricorrere all’extrema ratio della sanzione disciplinare.
Intorno a questa sfera se ne colloca un’altra di ben maggiori dimensioni, che include comportamenti eticamente doverosi, i quali, in caso di inosservanza, ricevono (o meglio, dovrebbero ricevere) la sanzione sociale, efficacissima quando sia effettivamente operante, della riprovazione dei propri pari e della collettività.
Si tratta, evidentemente, di piani da non confondere, anche se la deontologia, nel corso del suo progressivo sviluppo, ha conosciuto fraintendimenti e improprie commistioni tra questi due livelli, giustificando le iniziali perplessità e diffidenze dell’Associazione nazionale magistrati verso il compito di redazione del codice, assegnatole dal legislatore[4].
Nel tempo, vi sono stati aggiornamenti del codice etico del 1994, che non ne hanno però mutato l’impianto.
Più precisamente, nel 2010, il testo del 1994 è stato ritoccato in qualche punto, in particolare per adeguarlo alla società dell’informazione e della comunicazione, e all’accresciuta sensibilità sulla questione morale. Così come sono state introdotte procedure per adottare, anche in via cautelare, la sanzione dell’espulsione dall’Associazione nei confronti degli iscritti coinvolti in gravi vicende penali.
Il quadro dei doveri dei magistrati è stato poi completato con l’approvazione, nel 2006, del codice disciplinare (d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109), emanato in attuazione della legge delega proposta e fatta approvare dal ministro della giustizia Roberto Castelli. Codice profondamente modificato – prima ancora della sua entrata in vigore – dalla maggioranza parlamentare del Governo “Prodi bis”, con la legge n. 269 del 2006.
L’analisi del codice disciplinare, scaturito da una vicenda legislativa assai accidentata e complessa, esula dai limiti di questo scritto.
Basterà qui ricordare che, nel d.lgs n. 109/2006, si dava vita a un diritto disciplinare del silenzio e dell’apparenza, giacché l’art. 2, comma 1, lett. bb dello stesso decreto sanzionava disciplinarmente «il rilasciare dichiarazioni ed interviste in violazione dei criteri di equilibrio e di misura», mentre l’art. 3, lett. f qualificava come illecito disciplinare «la pubblica manifestazione di consenso o dissenso in ordine a un procedimento in corso quando, per la posizione del magistrato o per le modalità con cui il giudizio è espresso, sia idonea a condizionare la libertà di decisione nel procedimento medesimo».
A corredo di queste previsioni stava, poi, la norma di chiusura dell’art. 3, lett. l del decreto, che includeva tra gli illeciti «ogni altro comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza».Norma, questa, destinata a trovare nella parola pubblica e nella partecipazione alla vita sociale del magistrato il suo campo elettivo di applicazione.
Una vera e propria stretta liberticida che, grazie all’ampio uso di formule tanto indeterminate quanto minacciose, avrebbe dovuto ingenerare nei destinatari del codice una permanente incertezza sui comportamenti passibili di intervento disciplinare e ripristinare il silenzio come indiscussa regola di condotta dei magistrati, sia nell’esercizio delle funzioni che nella dimensione pubblica.
La circostanza che il testo originario non sia mai entrato in vigore ha fatto sì che molti magistrati non abbiano mai avuto piena cognizione, consapevolezza e soprattutto concreta esperienza né delle norme repressive contenute nel d.lgs n. 109/2006 né delle singolarità del procedimento disciplinare, caratterizzato dalla assoluta obbligatorietà dell’azione disciplinare e dalla compresenza , nel dibattimento disciplinare, di due accusatori paralleli: la Procura generale e il rappresentante del Ministro della giustizia.
6. Il codice etico dei magistrati: un’occasione mancata?
Se la diffidenza iniziale verso il compito di redigere un codice etico aveva delle giustificazioni, l’Associazione nazionale magistrati fu comunque poco lungimirante nello sminuirne il valore e nel gestirlo, per così dire, sotto tono.
Infatti, l’attribuzione all’Anm del compito di redigere il codice etico era ed è un significativo riconoscimento istituzionale e un rilevante fattore di legittimazione del suo ruolo e della sua funzione.
Il legislatore ha preso atto che l’Anm – in forza della sua cultura, del suo patrimonio di riflessione e di continua elaborazione sulla figura del magistrato e sul ruolo che deve svolgere nella società e nelle istituzioni – è la naturale depositaria e l’interprete di un’etica professionale molto complessa come è quella del magistrato, e che essa è, se non l’unico, almeno il primo soggetto in grado di enucleare e aggiornare i valori e le regole di questa etica.
C’è qui il riconoscimento – meditato – di una funzione sociale e istituzionale e del ruolo storico dell’associazionismo italiano.
Non è un riconoscimento di poco conto. Soprattutto se lo si confronta con le polemiche politiche contingenti, nel cui ambito l’Associazione e l’associazionismo sono spesso indicate come realtà anguste, corporative, meramente sindacali e, perciò, incapaci di attingere a una visione generale dei problemi della giurisdizione.
Del resto, questo contrasto tra l’asprezza delle polemiche contingenti e la presa d’atto, in sedi più riflessive, della funzione positiva e modernizzatrice svolta dall’associazionismo si ritrova anche in altri luoghi, come nella già menzionata pronuncia n. 497 del 2000 della Corte costituzionale.
L’Anm, dunque, sottovalutò il significato e la valenza istituzionale del compito che le fu affidato dal legislatore di redigere un codice etico.
Ma non è questa la principale critica che può esserle mossa.
È ben più grave che essa non abbia fatto tutto quello che poteva e doveva per valorizzarne il reale contenuto: un impegno assunto con i cittadini, unilaterale nel momento in cui è stato formulato, ma pattizio, consensuale, bilaterale nella sua attuazione concreta.
In altri termini , il codice doveva – e può ancora – divenire l’oggetto di un vero e proprio “patto” con i cittadini nel quale – a fronte del riconoscimento da parte della collettività dell’indipendenza e della ineliminabile discrezionalità interpretativa del magistrato nell’esercizio delle sue funzioni – i magistrati, attraverso la loro rappresentanza collettiva, si impegnano a osservare quelle regole di correttezza istituzionale, ma anche di cortesia, di umanità, di rispetto, di efficienza nell’adempimento dei propri compiti che stanno scritte nel codice. Con il corollario che possono essere chiamati a rispondere delle violazioni non sempre davanti al giudice disciplinare, perché non ogni violazione del codice è infrazione disciplinare, ma davanti al tribunale dell’opinione pubblica interna ed esterna alla magistratura e al mondo forense: in una parola, dinanzi al tribunale morale di una società giustamente esigente nei confronti dei suoi giudici, che ha il diritto a pretendere che essi rispettino gli impegni assunti[5].
Questo avrebbe richiesto e richiede una più ampia pubblicizzazione del codice, forme istituzionali e permanenti di sua divulgazione (quale, ad esempio, l’affissione all’ingresso di tutti i tribunali), la presentazione sistematica nelle scuole, un invio del testo in tutte le sedi istituzionali e in tutti i giornali, in modo da rendere a tutti noti e, per questa via, più cogenti ed esigibili gli impegni di comportamento assunti.
C’è ancora tempo per realizzare questo patto con i cittadini, ma è grave che non sia stato fatto tutto quello che era necessario in questa direzione.
7. L’etica di chi governa la magistratura: i doveri dei componenti laici e togati del Consiglio superiore
Se è stato complessivamente modesto il risalto pubblico dato al codice etico dei magistrati, ancora più fitta è stata l’ombra nella quale sono rimaste immerse le regole riguardanti “i doveri” e “i comportamenti” dei componenti del Csm, che pure erano stati oggetto di un’ampia delibera consiliare risalente al 20 gennaio 2010.
In tale atto ci si preoccupava, opportunamente, di chiarire le implicazioni pratiche del principio di «libera autodeterminazione di ciascun componente del Consiglio», impegnando i consiglieri a studiare di persona le questioni da affrontare e a non rendersi acritici interpreti, in sede consiliare, «di posizioni di gruppi politici o di singoli esponenti politici nonché di gruppi dell’associazionismo giudiziario o di singoli magistrati anche solo per ragioni di appartenenza o di debito elettorale».
Con il corollario del rifiuto di far discendere da accordi assunti all’esterno dell’istituzione e da pratiche spartitorie le scelte consiliari, con particolare riferimento alle nomine a uffici direttivi o semidirettivi e al conferimento di altri incarichi.
Si poneva, inoltre, l’accento sull’indipendenza dei consiglieri di nomina parlamentare, ai quali si chiedeva di non mantenere in vita, anche di fatto, situazioni generatrici di incompatibilità e di attuare una effettiva sospensione delle attività professionali durante la consiliatura.
Il quadro dei doveri, rectius, degli impegni professionali e morali assunti con la carica era completato da richiami alla diligenza e alla laboriosità, al rispetto del riserbo e della segretezza sanciti dagli artt. 18 e 19 del regolamento interno del Consiglio, all’obbligo di astensione da dichiarazioni pubbliche interpretabili come indebite interferenze in procedimenti giudiziari in corso.
Chiunque abbia seguito, nel corso degli anni, le vicende consiliari sa che non sono state poche le violazioni di queste “naturali” regole di condotta da parte dei consiglieri superiori.
Ed è un fatto che tali violazioni siano state solo di rado polemicamente stigmatizzate nei dibattiti in seno al Consiglio e che – al di fuori delle decisioni imposte dalla legge per i casi di violazione di norme di legge sulle incompatibilità o di conclamata violazione del segreto di ufficio – non si conoscano atti del Consiglio diretti a richiamare singoli consiglieri al rispetto delle regole proprie del ruolo svolto.
Sono mancate, in altri termini, proprio la vigilanza e la “riprovazione” dei propri pari, necessarie per conferire alle prescrizioni etiche una reale efficacia e capacità di penetrazione nei diversi ambiti dell’esperienza consiliare.
8. C’è ancora un’etica che divide i magistrati
Le fonti sin qui richiamate e i principi desumibili dalla Costituzione, dai codici di procedura, dal codice etico e da quello disciplinare costituiscono la trama uniforme dell’etica del magistrato.
Ma i fili dell’ordito si incaricano di comporre disegni sempre diversi, mossi, variegati, talora bizzarri e difficilmente decifrabili.
Emerge in essi il versante problematico che accompagna ogni etica professionale, ma che, nel caso dei magistrati, è enfatizzato e drammatizzato dalla natura dei loro compiti e dall’incidenza delle loro decisioni sui beni fondamentali delle persone: la libertà, l’onore, la reputazione, i diritti di proprietà, il lavoro.
Se è vero che la grande forza dell’etica professionale sta nell’unire gli appartenenti a un corpo intorno ad un nucleo di valori tipici, condivisi, che si vogliono salvaguardare anche a prezzo di forti resistenze rispetto alle pressioni esterne, c’è anche un’etica che divide.
Per i magistrati, le faglie di possibile frattura corrono su due linee.
I magistrati possono infatti dividersi tra di loro quando affrontano, nell’attività giudiziaria, questioni eticamente spinose. Si pensi, ad esempio, ai temi della bioetica, alle questioni del fine vita o, per stare ancorati alla più stretta attualità, alla valutazione e comparazione delle circostanze attenuanti e aggravanti dei delitti contro la persona oppure all’interpretazione delle cause di giustificazione che chiamano direttamente in causa la sensibilità sociale e la percezione, da parte del magistrato, del grado di disvalore di determinati comportamenti.
Inoltre, i magistrati si dividono nell’interpretare, e ancor più nel mettere quotidianamente in pratica, l’etica professionale giacché, come ognuno può constatare, convivono nella loro comunità atteggiamenti rigorosi e comportamenti più disinvolti fino all’estremo dei casi, che hanno drammaticamente portato alla ribalta la questione morale in magistratura.
Di più: su alcuni temi, particolarmente problematici, il contrasto diviene culturale e teorico poiché sono differenti la lettura degli imperativi etici, la loro gerarchia e le loro forme di traduzione nell’esperienza del fare giustizia.
Gli esempi dell’etica che divide sono molti: il modo di intendere l’imparzialità del giudice e del pubblico ministero; la ricerca dell’equilibrio tra libertà di espressione del pensiero, dovere di riserbo e dovere del magistrato di spiegare e di spiegarsi; il modo di intendere l’eguaglianza e la dignità dei cittadini che entrano nelle aule di giustizia.
Nascono i dilemmi etici che connotano la storia e il dibattito sulla magistratura, si profilano le diverse alternative che pure germinano da un comune terreno di idee, di aspirazioni, di esigenze.
9. I problemi dell’oggi: l’emersione prepotente dell’interesse personale
A questi temi alti è stata dedicata in questi anni, come ho accennato in esordio, grande e prevalente attenzione nella discussione collettiva dei magistrati e degli studiosi.
È stata una singolare forma di presbiopia (o, se si preferisce, di snobismo intellettuale) se è vero che su altri terreni, meno problematici in termini intellettuali, ma assai spinosi nella pratica quotidiana, si sono verificate le più gravi défaillances.
Fallimenti etici caratterizzati, pur nella loro grande diversità, da un minimo comune denominatore: il venir meno del “disinteresse personale” nella vita professionale e nell’esercizio delle funzioni giudiziarie o di amministrazione della giurisdizione.
Nutrire ambizioni di carriera non esclusivamente sostenute dal merito; valersi dell’impegno nelle associazioni della magistratura al fine di trarne indebiti vantaggi professionali; ottenere utilità o dispensarle grazie ai poteri di gestione o di nomina in vario modo connessi all’attività giudiziaria: ecco alcuni dei fronti sui quali l’interesse personale, in casi limitati, ma gravi e allarmanti, ha potuto prendere il sopravvento ispirando condotte solo eticamente riprovevoli o apertamente contrastanti con il codice disciplinare e con quello penale.
Ora, chiunque abbia letto il testo del codice etico sa che il richiamo al «disinteresse personale» del magistrato è una costante e che esso è considerato una sorta di requisito primario di ogni condotta eticamente corretta nella vita professionale e sociale.
Non è dunque agli estensori del codice etico che si può imputare la presbiopia che ha distolto l’attenzione dai profili più quotidiani e ricorrenti dell’etica per concentrarla sulle questioni più controverse e, apparentemente, più nobili e alte.
Sin dal suo primo articolo, il codice etico afferma che «nello svolgimento delle sue funzioni, nell’esercizio di attività di autogoverno ed in ogni comportamento professionale il magistrato si ispira a valori di disinteresse personale» unitamente a quelli di indipendenza, anche interna, e di imparzialità, mentre , nel delineare la condotta da tenere nei rapporti con le istituzioni, con i cittadini e con gli utenti della giustizia, l’art. 2 del codice ricorda al magistrato il dovere di respingere «ogni pressione, segnalazione o sollecitazione comunque diretta ad influire indebitamente sui tempi e sui modi di amministrazione della giustizia» e di astenersi «da ogni forma di intervento che possa indebitamente incidere sull’amministrazione della giustizia ovvero sulla posizione professionale propria o altrui».
Altrettanto nitido è il codice nell’enunciare, all’art. 10, gli obblighi di correttezza del magistrato, prescrivendogli di non servirsi «del suo ruolo istituzionale o associativo per ottenere benefici o privilegi per sé o per altri»; prevedendo che « il magistrato che aspiri a promozioni, ad assegnazione di sede e ad incarichi di ogni natura non si adopera al fine di influire impropriamente sulla relativa decisione, né accetta che altri lo facciano in suo favore»; chiedendogli di astenersi «da ogni intervento che non corrisponda ad esigenze istituzionali sulle decisioni concernenti promozioni, trasferimenti, assegnazione di sede e conferimento di incarichi».
È un’etica particolarmente severa, dunque, quella che la magistratura ha imposto a se stessa come contropartita individuale e collettiva della posizione istituzionale alta e privilegiata di cui gode nell’ordinamento.
Ed è, soprattutto, un’etica consapevole delle molte insidie che l’esercizio di un “potere” nella giurisdizione o nella sfera del governo autonomo reca con sé.
10. Alla ricerca di antidoti. Le proposte di modifica del codice etico avanzate dal Comitato direttivo dell’Anm
Ora, se non mancano e anzi sono particolarmente dettagliate e specifiche le norme che ricordano ai magistrati il valore del disinteresse personale nella vita professionale e sociale, quale reazione occorre avere di fronte alle cadute più frequenti, motivate soprattutto da interessi individuali di carriera o da un esercizio spregiudicato dei poteri di amministrazione della giurisdizione nelle nomine a incarichi direttivi o di natura affine?
Si tratta solo di prendere atto di questi cedimenti, addebitandoli alla natura umana e alle manchevolezze dei singoli, o non occorre invece interrogarsi anche sull’ambiente culturale, professionale, istituzionale nel quale le violazioni sono risultate possibili, realizzabili, e sono state percepite come ammissibili e consentite?
Una riflessione, questa, che va unita alla ricerca di orientamenti culturali e di modifiche ordinamentali che possano ridurre lo spazio delle deviazioni e restituire effettività al prerequisito del disinteresse personale.
Proviamo, innanzitutto, ad analizzare le modifiche apportate allo Statuto dell’Anm dall’Assemblea generale del 14 settembre 2019 e le proposte di modifica al codice etico avanzate dal Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati al fine di saggiarne l’efficacia e l’effettiva rispondenza alle esigenze poste dalla realtà.
Come è noto, il 14 settembre 2019 l’Assemblea generale ha approvato numerose modifiche dello Statuto dell’Associazione[6], alcune delle quali incidenti anche sul codice etico e sul procedimento disciplinare interno all’Anm, mentre il Comitato direttivo ha formulato una base di proposte di modifica al codice etico«dirette a delimitare la libertà nella richiesta o nell’accettazione d’incarichi o candidature al CSM», che sono state presentate all’Assemblea, avviando così l’iter di consultazione dei magistrati attraverso assemblee locali, «al fine di raccogliere il più ampio e motivato consenso possibile su questi od altri interventi di revisione del codice etico»[7].
Dalla lettura del nuovo articolo che si propone di aggiungere al codice etico (art. 7-bis), emergono con chiarezza le finalità perseguite.
Da un lato, si intende interrompere il circolo – giudicato vizioso – tra la presentazione di candidature al Csm e incarichi già “in atto” nell’Associazione o in istituzioni interne ed esterne alla magistratura (consigli giudiziari, Comitato direttivo della Scuola della magistratura, incarichi che comportano il collocamento fuori del ruolo organico della magistratura).
Dall’altro lato, si vuole precludere una accentuata contiguità temporale – anch’essa considerata discutibile e negativa sul piano etico – tra la fine del mandato di consigliere del Csm e l’assunzione di incarichi di direzione degli uffici giudiziari o presso altre istituzioni.
In altri termini, ai magistrati si propone di assumere su di sé un nuovo imperativo etico: onorare fino alla naturale scadenza gli impegni associativi o istituzionali assunti e, soprattutto, non considerarli impropriamente come un “trampolino di lancio” verso nuove e più ambite mete di carattere professionale o istituzionale.
Si tratta, all’evidenza, di una risposta alle incertezze, agli ondeggiamenti e ai cedimenti della politica e del legislatore in questa materia, attraverso la quale si mira a frapporre una sorta di barriera etica laddove altre barriere, apparentemente più solide ed efficaci, si sono dimostrate labili e facilmente aggirabili.
L’aspetto certamente apprezzabile della proposta – altamente significativo sul piano dell’etica professionale – sta nel richiamare i magistrati al pieno rispetto, fino alla scadenza del naturale mandato, dei propri impegni associativi e/o istituzionali. Tale richiamo è destinato a chiudere la strada al disinvolto ricorso a dimissioni anticipate, che restano naturalmente sempre possibili senza però che vengano meno, prima del tempo, gli oneri morali assunti all’atto dell’accettazione di un determinato incarico e le preclusioni ritenute eticamente doverose all’immediato passaggio ad altri compiti e ruoli.
Il limite fisiologico dell’opzione sta nel suo essere indirizzata pressoché esclusivamente al versante delle cd. “carriere parallele”, costruite attraverso percorsi a tappe, spesso accuratamente programmati in anticipo, che sfruttano indebitamente le relazioni e la visibilità connesse a determinati incarichi per raggiungere ulteriori traguardi.
Un fenomeno, questo, di cui non sono certo mancati esempi vistosi – al confine tra il cattivo gusto istituzionale e l’aperta strumentalizzazione dei ruoli ricoperti –, che hanno suscitato disappunto e riprovazione in sempre più ampi settori della magistratura.
Restano, però, al di fuori (non della discussione in corso sull’etica, ma) delle proposte di modifica del codice etico molte altre questioni, destinate ad assumere un rilievo decisivo nel quadro di una rivisitazione e di un ripensamento profondi dell’etica dei magistrati.
Il self-restraint dell’Associazione nell’intervenire, con proposte di modifica, sul testo del codice appare comprensibile e giustificato data la peculiare natura dei precetti etici e i loro naturali limiti a fronte di interessi, aspettative e diritti nascenti dalla normativa di ordinamento giudiziario e dal complessivo assetto dell’organizzazione giudiziaria.
Ciò non significa, tuttavia, che la magistratura italiana possa – nel riflettere sui temi della professione – eludere i temi di fondo oggi sul tappeto e rinunciare a chiedere innovazioni e riforme che diano vita a un ambiente istituzionale e ordinamentale propizio alla rinascita di un’etica professionale vitale ed elevata.
Esplorare le nuove frontiere dell’etica significa, perciò, porsi interrogativi radicali sull’assetto della carriera, sul rapporto con la politica, sulla vigilanza istituzionale e collettiva necessaria ad assicurare correttezza, regolarità ed efficienza della giurisdizione.
11. Le nuove frontiere dell’etica professionale. Disinnescare il “carrierismo”
In quest’ottica, ci si trova subito di fronte ai nodi della “carriera” dei magistrati, del ruolo dei dirigenti degli uffici e dell’emersione di una vera e propria carriera dirigenziale, con il corollario della spinta al carrierismo.
È davvero possibile disinnescare il carrierismo – divenuto la fonte della maggior parte dei problemi – salvaguardando al contempo un ruolo forte e significativo della dirigenza degli uffici?
La risposta deve tener conto di due evidenze storiche apparentemente in contrasto l’una con l’altra.
La prima: è stata la magistratura “senza carriera” ad aver svolto, nel periodo repubblicano, un ruolo di straordinaria importanza, promuovendo nuovi valori, adeguando la giurisprudenza alle mutate sensibilità collettive, contrastando mafia e terrorismo e orientando l’attenzione sulla criminalità politico-amministrativa ed economica, in precedenza troppo a lungo negletta.
La seconda: è stata l’attenzione dedicata, negli ultimi due decenni, ai temi della “organizzazione” e della “dirigenza” ad aver realizzato – nei limiti consentiti dai nostri farraginosi codici di procedura – significativi guadagni sul versante dell’efficienza e dell’efficacia della giurisdizione, oltre che della coerenza e omogeneità della giurisprudenza. Con il risultato che, oggi, la dirigenza degli uffici giudiziari è complessivamente migliore di quella selezionata sulla base del precedente criterio dell’anzianità senza demerito.
Da entrambe queste evidenze, assai difficilmente contestabili, scaturisce una prima indicazione utile per disinnescare la mina morale e professionale del carrierismo, preservando gli indubbi vantaggi organizzativi e culturali della scelta per una dirigenza dinamica e incisiva.
Si tratta di salvaguardare e valorizzare il ruolo attivo e incisivo della dirigenza e, al contempo, di sganciarla dalla prospettiva di una “carriera dirigenziale” diversa da quella propria del magistrato e potenzialmente destinata a snodarsi attraverso passaggi da un incarico direttivo a un altro.
Questo obiettivo è realizzabile in un solo modo. Prevedendo che, al termine di un incarico di direzione, il magistrato sia ricollocato – per un congruo periodo di tempo, almeno pari alla metà del tempo dell’incarico svolto – nella stessa posizione professionale di provenienza o in altra analoga, senza possibilità di richiedere e ottenere un nuovo incarico direttivo per tale lasso di tempo.
Solo escludendo o limitando drasticamente la “carriera dirigenziale” e vanificando le relative aspettative si può, infatti, rendere chiaro a “tutti” (i magistrati diretti e lo stesso magistrato dirigente) che il ruolo di direzione di un ufficio giudiziario non è uno status, ma un incarico temporaneo, di durata adeguata a garantirne l’incisività, che non istituisce differenze permanenti tra dirigenti e diretti, ma solo una temporanea diversità di funzioni.
Non si è osservato abbastanza che la temporaneità delle funzioni direttive e la parallela riduzione dei requisiti di anzianità per l’accesso a incarichi di direzione – a lungo rivendicate dalla stessa magistratura – sono state introdotte dalla “riforma Castelli” senza essere accompagnate dalla previsione di un lungo intervallo obbligatorio nel quale il dirigente dovesse ritornare, una volta terminato il suo incarico, a svolgere esclusivamente il lavoro di magistrato.
Questo assetto ha stimolato una impropria “rinascita della carriera”, allineando la magistratura ad altre carriere burocratiche nelle quali il cursus honorum inizia con incarichi di direzione più modesti, per passare progressivamente a incarichi via via più prestigiosi.
L’obiezione mossa alla “cesura” che si propone di introdurre è ben nota: il rischio di perdere l’apporto prezioso di dirigenti che hanno dato buona prova di sé in un precedente incarico.
Ora – a parte il fatto che la soluzione prospettata non preclude lo svolgimento di due incarichi di direzione nel corso della vita professionale – l’obiezione è tutt’altro che decisiva.
Da un lato, si può replicare che nel mondo della magistratura i talenti acquisiti e l’esperienza maturata nel positivo svolgimento di un incarico dirigenziale possono essere proficuamente reimpiegati in molteplici sedi: nel circuito del governo autonomo, nel settore della formazione, nelle molteplici attività di coordinamento all’interno degli uffici. Dall’altro, va messo in rilievo che un più intenso avvicendamento negli incarichi direttivi e la più ampia diffusione delle esperienze organizzative possono rivelarsi estremamente positivi e fruttuosi in un contesto, come quello della magistratura, nel quale non mancano talenti e competenze da valorizzare nella chiave della dirigenza.
Inoltre, il guadagno che ne verrebbe in termini simbolici, culturali ed etici sarebbe altissimo, giacché la cessazione di un incarico dirigenziale e il ritorno alle funzioni di magistrato non potrebbe – se previsto dalla legge – essere vissuto come una sorta di deminutio e inciderebbe in profondità sulla psicologia dei cittadini, dei magistrati e degli stessi interessati, dando vita finalmente a una diversa considerazione del ruolo direttivo, meglio rispondente al dettato costituzionale, che prevede la distinzione dei magistrati solo sulle base delle funzioni svolte e non autorizza l’emersione di una parallela carriera di dirigente.
Si tratterebbe, in definitiva, di ritornare alle proposte originarie della magistratura associata che – nel rivendicare la temporaneità delle funzioni direttive – l’aveva sempre collegata alla prospettiva di un lungo rientro nei ranghi ordinari al termine dell’esperienza dirigenziale.
Restituendo al dirigente una posizione di temporaneo “primus inter pares”, una siffatta scelta ordinamentale – di fronte alla quale si arrestò la riforma del 2006 – non diminuirebbe l’autorità e i poteri del dirigente nel corso del mandato, ma imporrebbe una battuta di arresto, psicologica e istituzionale, alle spinte carrieristiche che rischiano di mutare la fisionomia della nostra magistratura.
Più flessibile potrebbe essere, invece, la disciplina degli incarichi semidirettivi, per i quali la cesura successiva all’incarico dovrebbe essere ribadita, ma potrebbe essere più breve di quella prevista per i dirigenti, disciplinando queste funzioni in modo da renderle più vicine e compenetrate con quelle proprie del magistrato e valorizzandone il positivo apporto alla organizzazione interna degli uffici.
Un corollario naturale di questa scelta dovrebbe consistere nell’impegno del magistrato nominato dirigente o investito di un qualsiasi incarico semidirettivo a svolgere “integralmente” l’incarico assunto, con la sola possibilità di rinunciarvi in corso di mandato, tornando alle funzioni ordinarie.
Onorare fino in fondo gli impegni connessi alle funzioni direttive o semidirettive sarebbe il modo più efficace per evidenziare la natura di “servizio” che le connota, e per evitare che un incarico di direzione sia considerato come un gradino di una scala da percorrere per raggiungere mete ulteriori.
Ulteriore vantaggio di un tale assetto sarebbe quello di ridurre l’attuale girandola di nomine e di precludere i passaggi di ufficio e di funzione concepiti in funzione dello sviluppo di carriera, conferendo maggiore linearità e serietà alle scelte del Csm.
12. Tracciare una più netta linea di demarcazione con la politica
Vi è, poi, la questione annosa del rapporto con la politica.
La magistratura di orientamento democratico ha mantenuto viva negli anni un’idea alta della politica, del suo dinamismo, della sua responsabilità, e non intende certo rinunciarvi.
È divenuto, però, via via più evidente che le profonde trasformazioni verificatesi nel sistema politico italiano negli ultimi decenni hanno inciso sulle modalità di partecipazione del giudice-cittadino alla vicenda politica del Paese[8].
Tanto la lunga fase politica caratterizzata da sistemi elettorali tendenzialmente maggioritari e dal bipolarismo, quanto la successiva esplosione nel Paese di movimenti di segno dichiaratamente populista e l’asprezza assunta dal conflitto politico, hanno reso problematica la diretta partecipazione di magistrati alla competizione per il potere politico (la politic), mentre hanno rafforzato la necessità di una magistratura più autonoma e più capace di una visione d’insieme della politica, ispirata a valori della Carta costituzionale (la policy)[9].
In quest’ottica, la magistratura ha apertamente condiviso le proposte di legge, sinora peraltro sempre abortite, dirette a precludere il ritorno in magistratura di quei magistrati che abbiano scelto di prendere parte alla competizione politica (ad avviso di chi scrive, anche solo candidandosi alle elezioni politiche o amministrative), prevedendo la loro ricollocazione – al termine del mandato o in caso di mancata elezione – in altri comparti dell’amministrazione, come ad esempio l’avvocatura dello Stato.
Si tratta, in sostanza, di aumentare la distanza tra sistema politico e potere giudiziario per salvaguardare il libero svolgimento delle loro dinamiche interne, mettendoli al riparo anche solo dal sospetto di impropri condizionamenti e indebite influenze reciproche[10].
Distanza da salvaguardare con determinazione, in un contesto istituzionale nel quale la fine dell’immunità parlamentare, nella sua versione forte, e il rilievo mediatico e politico assunto da particolari indagini e processi hanno talvolta dato vita a cortocircuiti, rivelatisi dannosi per l’immagine e la credibilità tanto della politica quanto della giurisdizione.
In definitiva, va contrastata – nei limiti del possibile e nel rispetto del diritto, costituzionalmente sancito, di elettorato passivo – la “spendita” nella sfera politica di meriti o di visibilità raggiunta in quella giudiziaria, rendendo irreversibile e per ciò stesso straordinaria la scelta del magistrato di trasformarsi in attore politico.
13. Intensificare la vigilanza istituzionale e collettiva
Naturalmente, ogni intervento sui fattori ambientali e sul versante professionale deve essere accompagnato, per risolversi in un significativo guadagno dell’etica professionale della categoria, da una più intensa vigilanza sugli standard di correttezza dei magistrati.
Ci si riferisce, in primo luogo, alla vigilanza istituzionale dei dirigenti degli uffici e dei consigli giudiziari sulla base del duro insegnamento impartito dall’esperienza: silenzi, coperture, compiacenze verso condotte professionalmente o eticamente riprovevoli, più o meno conosciute all’interno degli uffici, sono totalmente controproducenti se si vuole difendere l’istituzione.
E ciò perché, quasi sempre, quello di cui si parla o si mormora “all’interno” è destinato, in un breve arco di tempo a esplodere fragorosamente “all’esterno”, con grave danno per l’immagine degli uffici e della collettività dei magistrati.
L’effettivo esercizio di tale vigilanza deve, dunque, divenire uno dei più significativi parametri di valutazione dell’operato dei dirigenti, anche ai fini della loro conferma dopo il primo quadriennio.
Non si tratta – è bene chiarirlo – di invocare una sorta di responsabilità oggettiva, ma di ribadire che, in questo ambito, esiste ed è effettivamente operante una “culpa in vigilando” tutte le volte che non vengano portate alla luce situazioni professionali critiche o scorrettezze più o meno note all’interno degli uffici.
Anche ai singoli magistrati e ai gruppi associativi va chiesto un costante impegno culturale ed etico per contrastare attivamente il “corporativismo del silenzio” che si esprime in forme di tolleranza e di acquiescenza verso condotte individuali scorrette, che rischiano di ripercuotersi sulla credibilità di tutti i magistrati e di ritorcersi contro gli onesti e i corretti.
È stata tempestiva e decisiva la spontanea reazione di indignazione e di ripulsa che si è manifestata nelle assemblee di magistrati svoltesi all’indomani dello scandalo romano delle nomine, reazione che si è tradotta nella richiesta di dimissioni dal Csm dei componenti in vario modo coinvolti.
Ad avviso di chi scrive, quando si riguarderà questa vicenda in una prospettiva di più ampio respiro, si dovrà prendere atto che la magistratura – a differenza di altri settori della politica e della classe dirigente del Paese – non ha avuto alcun atteggiamento di indulgenza o di copertura verso i suoi membri.
Ma l’etica professionale non si salvaguarda solo manifestando capacità di reazione alle cadute o ricordando che sono stati altri magistrati a rivelare il bubbone sviluppatosi nel cuore delle istituzioni. Essa è affidata anche, e soprattutto, alla fisiologia della vita professionale, nella quale devono trovare posto la critica pubblica e, all’occorrenza, la denuncia di condotte anomale, contrastanti con l’elevato standard professionale ed etico che ogni magistrato è tenuto a rispettare.
Sarà questa la migliore risposta e la più credibile alternativa a chi ha immaginato proposte estreme e inappropriate (che, per la verità, ora sembrano abbandonate) dirette a introdurre nel mondo della giustizia figure analoghe a quella del whistleblower o, addirittura, a consentire e incentivare segnalazioni anonime sull’operato dei magistrati.
[1] Che non si possa “insegnare” ai magistrati a essere indipendenti, imparziali, coraggiosi, gentili (magari con una particolare attenzione alla gentilezza, valore non di rado trascurato nel catalogo dei valori primari della professione) è quanto ricordava qualche anno fa, con la consueta finezza intellettuale, Elvio Fassone. Si può curare – egli sosteneva – l’aggiornamento professionale continuo dei magistrati, preoccupandosi così del loro “sapere”. Si possono aiutare i magistrati a “saper fare”, stimolandoli a riflettere sui metodi di lavoro, sull’organizzazione, sulle forme nelle quali si attua la paziente ricerca di orientamenti condivisi. Il “sapere essere”magistrato, invece, non potrebbe essere oggetto di “somministrazione didattica” e potrebbe essere appreso solo attraverso un severo tirocinio personale e professionale, nel quale contano le esperienze individuali e l’esempio di altri magistrati. È difficile non essere d’accordo con l’idea che l’etica professionale costituisce, invece, l’oggetto di una lunga e permanente ricerca nel viaggio della professione a contatto con la realtà, le sue insidie, le sue tentazioni. E che sia così è provato dal fatto che l’etica, interessantissima, coinvolgente, divisiva quando si affrontano i singoli casi concreti e le questioni controverse, è sempre a rischio di apparire banale quando si enunciano in astratto principi e regole di comportamento, senza esplorarne la genesi storica e senza discuterne le contaminazioni con la realtà.
[2] Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano, 1947 (ed. or. 1942), p. 121.
[3] Il testo del codice è pubblicato sul sito dell’Anm. Chi scrive ha avuto la ventura di concorrere alla stesura del primo codice etico e al suo aggiornamento nel 2010. Nel 1993 venne individuato un piccolo gruppo di lavoro, composto da Gioacchino Izzo, Gabriella Luccioli, Nello Rossi e Vladimiro Zagrebelsky, incaricato di redigere il testo base del codice da sottoporre poi alla discussione e all’approvazione degli organismi dell’Associazione. Un testo “breve” che non subì significativi mutamenti nella fase di approvazione da parte degli organismi locali e nazionali dell’Associazione nazionale magistrati.
Nella vasta letteratura sul codice etico, cfr. E. Di Palma, Un codice etico per la magistratura, in La magistratura, n. 4/1993, pp. 26 ss.; P. Giordano, Il codice etico: un adempimento solo formale?, in Giustizia, 1994, pp. 27 ss.; S. Cassese, I codici di condotta, in Doc. giustizia, n. 7-8/1994, pp. 1372 ss.; R. Magi, Deontologia, processo, sistema. Riflessioni sul codice etico della magistratura, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 4/1994, pp. 766 ss.; L. De Ruggiero e G. Ichino, Il codice etico dei magistrati. Una prima riflessione in tema di deontologia, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 1/1994, pp. 17 ss.; A. Cerri, La bozza di “codice etico” del magistrato, in Critica del diritto, n. 2/1994, pp. 43 ss.; M. Cicala, Leggi e ordinamento giudiziario: interrogativi sul codice etico, in Corr. giur., n. 5/1994, pp. 525 ss.;. G. Barbagallo, I codici etici delle magistrature, in Foro it., n. 1/1996, III, pp. 36 ss.; G. Izzo, Sulla crisi applicativa del codice etico dei magistrati, in Doc. giustizia, n. 1/1996, pp. 2207 ss.; M. Sapignoli e F. Zannotti, I codici etici delle magistrature italiane, in P. Zatti (a cura di), Le fonti di autodisciplina. Tutela del consumatore, del risparmiatore, dell’utente, Cedam, Padova, 1996, pp. 247 ss.; V. Mele, Codice etico per i magistrati: comportamenti e indipendenza, in Doc. giustizia, n. 6/1997, p. 1237; C. Viazzi (magistrato e presidente di sezione presso il Tribunale di Genova), relazione sul tema «Magistratura onoraria: deontologia e profili disciplinari», Genova, 15 febbraio 2006. Sul tema, mi sia consentito rinviare anche a due miei scritti: N. Rossi, Prime riflessioni sul codice etico della magistratura, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 4/1993, pp. 804 ss., e Id., L’elaborazione del codice etico dell’ANM, in Aa.Vv., Deontologia giudiziaria, Jovene, Napoli, 2006, pp. 205-221.
[4] Come è nato e che valore ha il codice etico? E quali le ragioni della diffidenza dell’Anm? L’art. 58-bis del d.lgs 3 febbraio 1993, n. 29, che dettava norme in materia di «Razionalizzazione della organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421», prevedeva che la Presidenza del Consiglio dei ministri, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, adottasse codici di comportamento dei dipendenti pubblici. Per le magistrature, invece, si prevedeva che l’introduzione di codici etici avvenisse a opera degli organi delle associazioni di categoria, entro il termine di centoventi giorni dalla data di entrata in vigore del d.lgs n. 29, da sottoporre all’adesione degli appartenenti alla magistratura interessata. Decorso inutilmente il termine fissato dal legislatore, il codice sarebbe stato adottato dall’organo di autogoverno. L’Associazione nazionale magistrati venne dunque stimolata dal legislatore alla redazione di un codice etico e, in qualche misura, messa in mora perché la sua inerzia avrebbe significato attribuire al Csm il compito della redazione del codice. L’Associazione non nascose le sue perplessità e perfino un certo fastidio verso l’onere che la legge, o meglio, un decreto legislativo le accollava. Chi rilegga il breve testo di introduzione e di presentazione del codice etico, che risale al 1994, trova chiaramente manifestate quelle perplessità e, se si vuole, i timori dell’epoca, che si tradussero in una certa diffidenza verso il codice etico, di cui pure l’Associazione era l’autrice e la responsabile. Nel preambolo del codice, l’Associazione esprimeva perplessità sulla costituzionalità della norma istitutiva del codice etico tanto sotto il profilo dell’eccesso di delega quanto sotto il profilo della possibile violazione della riserva assoluta di legge in materia di ordinamento giudiziario. L’Associazione si preoccupava, inoltre, di chiarire che il codice conteneva indicazioni di principio prive di efficacia giuridica, destinate a collocarsi su di un piano diverso rispetto alla regolamentazione degli illeciti disciplinari. La diffidenza espressa nel preambolo, che oggi può sembrare miope e incomprensibile, aveva una giustificazione. Si temeva che – in assenza di un codice disciplinare, in mancanza di una adeguata tipizzazione delle fattispecie di illecito disciplinare e vigendo la formula generica dell’art. 18 della legge delle guarentigie – le regole liberamente dettate dal codice etico per delineare una figura alta, ideale, di magistrato e i suoi doveri subissero una inammissibile torsione e potessero essere interpretate tout court come altrettante fattispecie di illecito disciplinare, alla stregua di norme incriminatici. Una torsione non da poco e non poco preoccupante. Per intenderci: come se in una società il libro della morale, magari religiosa, divenisse il codice penale. Insomma, il modello delle società teocratiche, che hanno fatto – o tuttora fanno – della Bibbia o del Corano, o di qualsiasi altro testo etico-religioso, la legge regolatrice dei rapporti sociali. La preoccupazione originaria è stata confermata, sia pure solo sporadicamente, nel corso degli anni giacché alcune regole dettate dal codice etico sono state trasfuse in capi di incolpazione disciplinare. I promotori dell’azione disciplinare – il Ministro della giustizia e lo stesso ufficio del procuratore generale – hanno, talvolta in maniera disinvolta e irriflessiva, compiuto questa operazione e, almeno in un caso, la Corte di cassazione a sezioni unite l’ha avallata in una sua pronuncia, smentendola poi in altre decisioni. Solo la sezione disciplinare ha tenuto la barra ferma, sottolineando più volte la differenza genetica e funzionale delle norme del codice etico dalla materia disciplinare. Se è evidente che la violazione di alcuni (solo alcuni) dei precetti di condotta contenuti nel codice etico può coincidere con un illecito disciplinare, è altrettanto evidente che il codice etico non poteva essere considerato come una sorta di “guardaroba” cui attingere per rivestire in modo accettabile una incolpazione disciplinare inappropriata.
[5] Fondamentale, su questo terreno, resta il riferimento alla «Carta dei diritti del cittadino nella giustizia», proclamata da Cittadinanzattiva il 14 giugno 2001 e diffusa, con iniziative pubbliche, nei tribunali di ventisette città italiane. La Carta enuncia sette fondamentali diritti inerenti al rapporto dei cittadini con il “servizio giustizia” e i suoi operatori, diritti formalmente sanciti dalla legge ma, spesso, nella sostanza ampiamente violati:
«1. Diritto all’informazione
Ogni cittadino ha diritto di ricevere informazioni adeguate, comprensibili e complete da parte dei diversi operatori della giustizia, siano essi avvocati, magistrati, forze dell’ordine, cancellieri o addetti agli uffici, in merito agli iter procedurali, alle spese che dovrà affrontare, ai tempi di svolgimento del procedimento e alle eventuali conseguenze.
2. Diritto al rispetto
Il cittadino ha diritto di vedere rispettata la propria dignità, sia che egli rivesta il ruolo di parte che di testimone, e di non essere oggetto di prassi e di comportamenti lesivi della sua integrità fisica, psichica, morale e sociale.
3. Diritto all’accesso
Ogni cittadino ha diritto di non essere discriminato nell’accesso alla giustizia a causa delle proprie condizioni economiche e sociali, soprattutto in relazione ai crescenti oneri per le investigazioni difensive nel processo penale e alle ingenti tariffe previste per il processo civile.
4. Diritto a strutture adeguate
Il cittadino ha diritto a utilizzare strutture adibite alla giustizia, adeguate, dignitose e funzionali per ciò che concerne l’igiene, l’ubicazione e la logistica, le suppellettili, il numero delle aule, l’accessibilità dei locali per persone disabili.
5. Diritto alla partecipazione
Il cittadino ha diritto di partecipare all’amministrazione della giustizia, così come previsto dall’art. 102 della Costituzione, anche all’interno dei consigli giudiziari e con la promozione di azioni di monitoraggio civico circa il funzionamento del servizio e lo sviluppo di forme di interlocuzione con le autorità competenti.
6. Diritto a un processo celere
Il cittadino ha diritto di vedere rispettato il suo tempo nei confronti della giustizia e a non subire danni, dovuti alla lunghezza dei processi e delle procedure giudiziarie, in linea con i principi e i diritti sanciti a livello europeo.
7. Diritto alla qualità
Il cittadino ha diritto a usufruire di giustizia e qualità in quanto a risultati attesi ed accettabili, preparazione degli operatori e correttezza delle procedure».
[6] Queste le novità più significative scaturite dal processo di revisione dello Statuto:
- tipizzazione degli illeciti disciplinari degli associati, rimessi al Collegio dei probiviri, attraverso il rinvio ai singoli precetti contenuti nel codice etico, senza previsioni di automatismi nelle sanzioni, poiché la valutazione di proporzionalità è sempre rimessa agli organi associativi (art. 9); attraverso il rinvio dell’art. 9, potranno essere inseriti nel codice etico eventuali vincoli cogenti per gli associati in relazione ad attività ritenute temporaneamente o permanentemente inconciliabili con la vita del magistrato o con suoi incarichi precedenti;
- ampliamento delle garanzie procedurali per l’incolpato nel procedimento disciplinare (interno all’Anm, va ribadito) e introduzione della sospensione cautelativa dell’incolpato dall’attività associativa (artt. 9 e 10);
- l’inserimento dell’ufficio sindacale tra gli organi centrali dell’Anm, così che possa proseguire anche nei quadrienni successivi il lavoro avviato dall’ufficio attuale (artt. 12, 30-32 e 38-ter);
- l’assunzione automatica d’impegno da parte degli associati a portare a compimento i loro mandati elettivi fino alla loro scadenza naturale (art. 25-bis);
- l’utilizzo degli strumenti telematici per alcune forme di partecipazione alla vita associata (artt. 25, 26, 27, 28, 43, 54, 55 e 58).
[7] Di seguito il testo del nuovo articolo – il 7-bis – che si propone di introdurre nel codice etico:
«Art. 7 bis – Cariche associative e istituzionali.
Il magistrato componente del Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati, delle Giunte Esecutive Sezionali, delle presidenze e delle segreterie nazionali dei gruppi associativi (comunque denominate) non si candida al Consiglio Superiore della Magistratura prima della scadenza naturale dell’organo di appartenenza.
Il magistrato componente dei Consigli giudiziari e del Consiglio direttivo della Scuola Superiore della Magistratura non si candida al Consiglio Superiore della Magistratura prima della scadenza naturale dell’incarico.
Il magistrato fuori ruolo non si candida al Consiglio Superiore della Magistratura prima del decorso di due anni dal ricollocamento in ruolo.
Il magistrato già appartenente al Consiglio Superiore della Magistratura non presenta domanda per ufficio direttivo o semidirettivo, ove non ricoperto in precedenza, e non accetta incarichi fuori ruolo prima del decorso di due anni dal ricollocamento in ruolo».
[8] Su questa problematica cfr., in particolare, N. Rossi (a cura di), Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, Quaderni di Questione giustizia, Franco Angeli, Milano, 1994.
[9] Particolarmente significative, al riguardo, le considerazioni svolte nella recente sentenza 20 luglio 2018, n. 170, della Corte costituzionale, che ribadendo la legittimità costituzionale della normativa che vieta ai magistrati la loro iscrizione a un partito politico, sanzionando disciplinarmente tale condotta, ha ricordato di aver «già affermato che, in linea generale, i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino» e «al contempo precisato che le funzioni esercitate e la qualifica rivestita dai magistrati non sono indifferenti e prive di effetto per l’ordinamento costituzionale, al fine di stabilire i limiti che possono essere opposti all’esercizio di quei diritti (sentenze n. 224 del 2009 e n. 100 del 1981)». Tali limiti, ha sostenuto la Corte, «sono giustificati sia dalla particolare qualità e delicatezza delle funzioni giudiziarie, sia dai principi costituzionali di indipendenza e imparzialità (artt. 101, secondo comma, 104, primo comma, e 108, secondo comma, Cost.) che le caratterizzano». Così,«la Costituzione, all’art. 98, terzo comma, demanda al legislatore la facoltà di bilanciare la libertà di associarsi in partiti, tutelata dall’art. 49 Cost., con l’esigenza di assicurare l’indipendenza dei magistrati (nonché di alcune altre categorie di funzionari pubblici). E se tale facoltà viene utilizzata, come è accaduto, il bilanciamento deve essere condotto secondo un preciso obbiettivo, cioè quello di impedire i condizionamenti all’attività giudiziaria che potrebbero derivare dal legame stabile che i magistrati contrarrebbero iscrivendosi ad un partito o partecipando in misura significativa alla sua attività. Questo è il senso della facoltà di stabilire con legge limitazioni al diritto dei magistrati d’iscriversi a partiti politici. La Costituzione, in tal modo, mostra il proprio sfavore nei confronti di attività o comportamenti idonei a creare tra i magistrati e i soggetti politici legami di natura stabile, nonché manifesti all’opinione pubblica, con conseguente compromissione, oltre che dell’indipendenza e dell’imparzialità, anche della apparenza di queste ultime: sostanza e apparenza di principi posti alla base della fiducia di cui deve godere l’ordine giudiziario in una società democratica».
[10] Nella vastissima letteratura sull’argomento, cfr. G. Arangio Ruiz, Eleggibili ed eletti. Abbozzi di questioni costituzonali, Jovene, Napoli, 1885; A. Barak, La discrezionalità del giudice, Giuffrè, Milano, 1995; S. Bartole, Il potere giudiziario, Il Mulino, Bologna, 2006; F. Biondi, Considerazioni di ordine costituzionale sui limiti per i magistrati alla partecipazione alla vita politica (a margine di una questione di costituzionalità) , in AIC, 7 aprile 2009; N. Bobbio, Quale giustizia, quale legge, quale giudice, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n 1/2004, pp. 1 ss.; P.Borgna e M. Maddalena, Il giudice e i suoi limiti. Cittadini, magistrati e politica, Laterza, Roma-Bari, 2003; G. Borrè, Articolo 98, in G. Branca e A. Pizzorusso (a cura di), Commentario alla Costituzione, Zanichelli, Bologna, 1994; G. Borrè, Le scelte di Magistratura democratica, in N. Rossi (a cura di), Giudici e democrazia, op. cit. pp. 246 ss.; G. Borrè, Md e Questione giustizia. I compiti che ci aspettano, in Aa.Vv., Compiti della politica. Doveri della giurisdizione, Quaderni di Questione giustizia, Franco Angeli, Milano, 1998, pp. 332 ss.; E. Bruti Liberati, Imparzialità e apparenza di imparzialità dei magistrati in Europa, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 2/2006, pp. 377 ss.; P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Le Monnier, Firenze, 1959; M. Cappelletti, Giudici legislatori?, Giuffrè, Milano, 1984; G. Cascini, Politicità della giurisdizione e consapevolezza del proprio ruolo, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 6/2012 pp. 247 ss.; G. Conso, Un valore da rimeditare: il prestigio dell’ordine giudiziario, in Quaderni costituzionali, 1981, pp. 601 ss.; L. Ferrajoli, Orientamenti della magistratura in ordine alla funzione politica del giudice interprete in Quale giustizia, nn. 17-18/1972, pp. 563 ss.; Id., Nove massime di deontologia giuridica, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 6/2012, pp. 74-82; G. Ferri, Magistratura e potere politico, Cedam, Padova, 2005; C. Guarnieri, Magistratura e politica in Italia, Il Mulino, Bologna, 1992; Id., Dibattito: magistrati, politica, competizioni elettorali, forum con M. Dogliani, G. Palombarini e N. Rossi a cura di A. Caputo e L. Pepino, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano n. 6/2005; G. Maranini, Giustizia in catene, Edizioni di Comunità, Milano, 1964; T. Massa, Appartenenza all’ordine giudiziario e affiliazione alla massoneria: una questione aperta, nota a Corte Edu, 2 agosto 2001, N.F. c. Italia, in Cass. pen., 2002, p. 815; E. Moriondo, L’ideologia della magistratura italiana, Laterza, Bari, 1967; N. Pignatelli, Il divieto di iscrizione dei magistrati ai partiti politici: un “cavallo di Troia”, in Aa. Vv., Scritti dei dottorandi in onore di Alessandro Pizzorusso, Giappichelli, Torino, 2005, pp. 342-352; A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. La magistratura nel sistema politico e istituzionale, Einaudi, Torino, 1990; Id., I magistrati in Parlamento, in Democrazia e diritto, anno XIX, nn. 4-5/1979, pp. 693-697; Id., Politica e giustizia in Italia dal dopoguerra ai nostri giorni, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 4/2002, pp. 791 ss.; R. Romboli, L’attività creativa di diritto da parte del giudice, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 6/2008, pp. 195 ss.; Id., L’interesse politico come motivo di ricusazione del giudice in Riv. dir. proc., 1982, pp. 454 ss.; Id., Sul progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario, in Quaderni costituzionali, n. 2/2004, pp. 388-391; N. Rossi, Dibattito, forum con M. Dogliani, C. Guarnieri e G. Palombarini, op. cit.; Id., Democrazia maggioritaria e giurisdizione, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, nn. 3-4/1992, pp. 506 ss.; G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Giappichelli, Torino, 1997; Id., La responsabilità politica, in S. Panizza - A. Pizzorusso - Romboli (a cura di), Ordinamento giudiziario e forense, Edizioni Plus, Pisa, 2002.