Commento al titolo IV del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 sulla disciplina organica della giustizia riparativa
Uno dei tratti di maggiore novità della riforma Cartabia è dato dall’innesto nel sistema della cd. giustizia riparativa. Il contributo ripercorre la disciplina introdotta dalla riforma, si concentra sui necessari chiarimenti definitori e concettuali, ragiona sulle modalità di funzionamento dell’innesto della giustizia riparativa nel giudizio di cognizione e nella fase esecutiva. Il quadro d'insieme restituisce l’immagine di una riforma che – in potenza – può avvicinare il sistema penale agli obiettivi ad esso assegnati dalla Carta costituzionale; peraltro, si intravedono alcuni rischi di sottovalutazione dei bisogni di tutela delle vittime di reato. Il contributo, poi, non manca di soffermarsi sugli aspetti organizzativi e sull’investimento formativo e di risorse che dovrà necessariamente accompagnare la riforma.
1. Lo stato dell’arte all’alba della riforma / 2. Giustizia riparativa: una riforma nell’interesse delle vittime? / 3. Le definizioni / 3.1. Definizione di giustizia riparativa / 3.2. Definizione di vittima / 4. Cosa s’intende per “riparazione” / 5. L’accesso / 5.1. Il discusso art. 129-bis cpp / 5.2. Il riconoscimento dei fatti / 6. Il diritto all’informazione e l’invio al centro di giustizia riparativa / 7. I programmi di giustizia riparativa / 8. La vittima surrogata / 9. Lo svolgimento degli incontri / 10. Gli esiti / 11. L’organizzazione
1. Lo stato dell’arte all’alba della riforma
Il titolo IV del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 introduce nel nostro sistema penale una disciplina organica della giustizia riparativa. Occorre rendere merito alla Ministra della giustizia dell’epoca, Marta Cartabia, di aver mantenuto fede – grazie alla sua indubbia determinazione – alla promessa contenuta nelle linee programmatiche dell’azione di governo sulla giustizia nel marzo 2021[1]. Tra gli obiettivi c’era, appunto, quello di «mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa», sparse sul nostro territorio in modo non sistematico e fondate su disposizioni sconnesse e frammentarie, disseminate tra i testi sulla giustizia minorile, sulla giustizia di pace e con qualche bagliore nel procedimento ordinario di cognizione e in sede di esecuzione penale.
A dire il vero, un primo tentativo di sistematizzazione della materia era stato fatto dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità con l’adozione di «Linee di indirizzo in materia di giustizia riparativa e tutela delle vittime di reato»[2], tenuto conto che, secondo il riparto di competenze all’interno del Ministero della giustizia, il Dpr 15 giugno 2015, n. 84 e il dm 17 novembre 2015 avevano previsto un coordinamento tra uffici ministeriali per promuovere la giustizia riparativa e, in particolare, la mediazione penale[3].
Nonostante una certa enfasi riferita all’esistenza di «ampie (…) forme di sperimentazione di successo», mancano dati precisi sulla consistenza e qualità dei progetti in atto. Solo recentemente è stata pubblicata una ricerca con un minimo di attendibilità, mediante una ricognizione sui programmi di giustizia riparativa realizzati in Italia nel 2019 e nel 2020[4]. Dall’indagine emerge innanzitutto il dato, prevedibile, che assegna alla giustizia minorile un netto primato (60% del totale) nella realizzazione di programmi riparativi[5], rispetto a quelli omologhi adottati nella giurisdizione ordinaria. Benché vi siano molte incertezze nella catalogazione delle misure riparative, è stata registrata una chiara preferenza per due tipi di programmi: da un lato, le attività riparative a favore della vittima o della comunità coerenti con il reato e, dall’altro, la mediazione penale. Nell’area minorile ci sono state 710 attività riparative e 800 mediazioni penali; nell’area adulti 550 attività riparative e 320 mediazioni penali. Più contenuti numericamente sono i gruppi di sensibilizzazione per autori di reato (che prevalgono tra gli adulti) e la mediazione allargata/gruppi di discussione[6]. Da ultimo, si segnalano gli incontri di ascolto con le vittime di reato che suscitano un certo interesse tra i minori (400 casi), decisamente scarso (30 casi) tra gli adulti.
La mediazione penale nella giustizia minorile contempla nell’80% dei casi l’incontro diretto tra le parti coinvolte, mentre tra gli adulti raggiunge appena il 40% dei casi, il 28% nella forma indiretta (senza contatto diretto tra le parti) e il 20% con il ricorso a una persona offesa da un reato diverso da quello contestato alla persona indicata come autore del fatto.
Un dato estremamente importante riguarda il rapporto tra l’invio disposto dall’autorità giudiziaria e la reale fattibilità della mediazione: nella giustizia ordinaria tocca il 40% dei casi con un’incidenza preoccupante (non meglio precisata) di esiti negativi[7].
Ben poco viene detto sulle caratteristiche delle vittime per una carenza di informazioni raccolte.
Qualche notizia più chiara riguarda il contesto procedimentale: i programmi riparativi vengono applicati agli adulti nella maggioranza dei casi nella fase della sospensione del processo con messa alla prova e nel 35% dei casi in fase esecutiva.
Questa premessa statistica appare doverosa per comprendere l’effettivo impatto della riforma sul sistema penale italiano, le potenzialità applicative e le eventuali criticità.
2. Giustizia riparativa: una riforma nell’interesse delle vittime?
Fin dalla presentazione del programma di governo sulla giustizia penale, la Ministra Cartabia ha fatto una precisa scelta di campo a favore di un sistema “riparativo” complementare al processo ordinario. La legge delega e il decreto legislativo hanno disciplinato questa complementarità, il cui fondamento rivela, altresì, la natura della giustizia riparativa. Infatti la giustizia riparativa, per ragioni logico-normative, non potrebbe «assurgere a paradigma autonomo di soluzione dei conflitti aventi rilevanza penale perché laddove le parti non intendano partecipare ad alcun percorso di giustizia riparativa il conflitto rimarrebbe irrisolto e il reato impunito»[8]. Non è pensabile una giustizia riparativa senza il presupposto dell’assoluta volontarietà dell’adesione ai suoi programmi, così come non è pensabile al di fuori dell’obbligatorietà e della coercibilità del diritto penale. Inoltre, la giustizia riparativa non possiede «un autonomo corpo di precetti, alla cui luce applicare i metodi di soluzione dei conflitti su base dialogica»[9]: in altri termini, non può essere disciplinata come branca autonoma del diritto. Non esiste un diritto riparativo.
Questa complementarità non muta, certamente, le finalità del diritto penale e gli scopi del processo penale. Tuttavia, arricchisce il sistema penale di una inedita funzione “riparativa” che, in tesi, si vorrebbe attenta agli interessi delle vittime, senza far venir meno i diritti di garanzia dell’accusato e del condannato.
L’attenzione verso le vittime è uno dei cardini della legge delega, laddove il Governo veniva incaricato di introdurre una disciplina della giustizia riparativa «nel rispetto delle disposizioni della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012», che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Credo, pertanto, che una seria analisi critica della riforma “riparativa” debba proporsi come obiettivo primario la verifica del “rispetto” dei diritti e degli interessi delle vittime. In altri termini, si tratta di accertare se la disciplina organica voluta dal legislatore delegante assicuri nel percorso normativo della giustizia riparativa pari dignità alla vittima e alla persona indicata come l’autore del reato. Mentre nel procedimento penale prevale la regola garantista a tutela dell’accusato quale soggetto debole nel rapporto con l’autorità pubblica che lo sottopone, contro la sua volontà, agli accertamenti previsti dalla legge[10], il percorso riparativo è fondato sulla volontarietà dell’accesso e sull’equidistanza orizzontale delle parti, entrambi garantiti dall’assenza di giudizio da parte del terzo mediatore.
La prospettiva della vittima è fondamentale per due motivi: uno politico e l’altro giuridico, che si mescolano tra loro. Sul sito del Ministero della giustizia, il 4 agosto 2022, il decreto legislativo appena approvato dal Consiglio dei ministri veniva presentato in questo modo: «La giustizia riparativa si affianca, senza sostituirsi, al processo penale, nell’interesse delle vittime dei reati». Autore e comunità non vengono citati. Il messaggio è chiaro: le ragioni della persona accusata o condannata e della comunità sono variamente garantite dalle norme esistenti. La giustizia riparativa offre finalmente alla vittima quello spazio e quelle risposte che il processo non può garantire: e si tratta di uno spazio condiviso con gli altri protagonisti per trovare risposte che rafforzino le relazioni personali e sociali.
L’esigenza proclamata nella legge delega di rispettare le disposizioni della direttiva 2012/29/UE non è, dunque, una mera clausola di stile, ma il segno di un intento di soddisfare bisogni che il processo ordinario non prende neppure in considerazione. Il legislatore, tuttavia, è ben consapevole che la direttiva 2012/29/UE non è la fonte eurounitaria per una disciplina nazionale della giustizia riparativa, bensì il quadro transnazionale istitutivo di norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. La fonte internazionale più pertinente – per quanto priva di efficacia vincolante – è la raccomandazione del 2018 sulla giustizia riparativa, di cui troviamo frequenti citazioni nella relazione illustrativa del decreto legislativo n. 150.
Penso, però, che un’analisi completa della riforma “riparativa” non possa eludere un interrogativo di fondo: qual è effettivamente la politica nazionale in materia di vittime di reato? Certo: il legislatore delegante non ha incaricato il Governo di provvedere a una disciplina organica per le vittime di reato, per quanto abbia stabilito il principio dell’accesso alla giustizia riparativa «senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità» (art. 1, comma 18, lett. c della legge 27 settembre 2021, n. 134). Tuttavia, poiché la giustizia riparativa si prefigge l’obiettivo di risolvere le «questioni derivanti dal reato» – secondo una formula orribile ripresa dal decreto n. 150 – bisognerà pur chiedersi quali sono, secondo lo Stato italiano, le conseguenze del reato per le vittime cui corrispondono degli obblighi per l’autorità pubblica di intervenire positivamente e, in particolare, quali – tra quelle conseguenze – possono essere affrontate mediante i programmi di giustizia riparativa.
È una domanda importante perché – posso anticiparlo – il legislatore delegato ha fatto una scelta particolarmente restrittiva sia nell’individuazione dei programmi che soddisfino i canoni della giustizia riparativa sia nell’escludere la figura del facilitatore tra gli attori delle attività riparative: l’art. 53 del decreto n. 150 prevede solo programmi declinati sul paradigma dell’incontro, della relazione dialogica tra le parti, modellata – a sua volta – sull’archetipo della mediazione diretta, dove il “riparare” si fonda essenzialmente sul lavoro della parola e della possibile comprensione di quanto accaduto. Con la giustizia riparativa non si riparano le altre conseguenze del reato che costituiscono comunque il danno e il pregiudizio subito. È dunque chiaro che, mentre la giustizia ordinaria offre alla vittima un eventuale accertamento dei fatti, un’eventuale sanzione e un eventuale ristoro materiale, la giustizia riparativa offre uno spazio di parola fondato sulla possibilità del recupero di una relazione accettabile con l’altro. Tutti gli altri interessi determinati dall’aver subito un’offesa costituente reato rimangono impregiudicati: informazioni, consigli, assistenza in materia di diritti di accesso ai sistemi nazionali di risarcimento e preparazione in vista di un eventuale processo, informazioni e invio presso servizi specialistici, sostegno emotivo e psicologico, consigli su aspetti finanziari e pratici, consigli sul rischio di vittimizzazione (art. 9 direttiva 2012/29/UE).
È importante precisare questo aspetto perché molti commentatori autorevoli ricorrono a espressioni fin troppo enfatiche nel descrivere la potenza benefica della giustizia riparativa: si parla di «rigenerazione esistenziale», di «rafforzamento del sé», di «negazione del sé per fare spazio alle istanze dell’altro»[11]; la stessa Relazione illustrativa al decreto si avventura ad attribuire al mediatore competenze idonee a garantire «la rielaborazione di eventi traumatici»[12], confondendo funzioni cliniche specialistiche con i compiti mediativi, per quanto professionalizzati. In altri termini: c’è il rischio concreto che la giustizia riparativa venga presentata come lo strumento taumaturgico per la soddisfazione di tutte quelle attese che la giustizia ordinaria non può appagare.
La giustizia riparativa in un sistema penale ha una funzione molto circoscritta, per quanto simbolicamente potente, e per preservarne la sua qualità ed efficacia non deve esserne alterata la natura.
Se, però, mettiamo a confronto alcune centinaia di programmi riparativi l’anno con le centinaia di migliaia – se non i milioni – di vittime l’anno, viene abbastanza naturale chiedersi come mai la politica italiana non abbia pensato di privilegiare l’attuazione della direttiva 2012/29/UE che ha, invece, efficacia vincolante; come mai avremo a breve servizi di giustizia riparativa diffusi uniformemente nel nostro Paese e non servizi di assistenza alle vittime che dovrebbero garantire bisogni e necessità ben più complessi ed urgenti e decisivi nel sanare profonde ferite e nel favorire rapporti fiduciari tra gli offesi e le istituzioni.
Occorre chiedersi come mai la politica abbia deciso di investire strategicamente ed economicamente, nelle circostanze favorevoli offerte dal PNRR, in una riforma destinata a coinvolgere un numero estremamente limitato di persone e di fenomeni marginali della criminalità, come dimostrano le statistiche elaborate dal Dipartimento della giustizia minorile e di comunità e di cui si è dato conto in precedenza. Oltretutto, benché auspicabile, nessun vincolo europeo imponeva al nostro Paese questa disciplina, non solo organica ma anche piuttosto dettagliata. Da nazione in grave ritardo sul piano della sperimentazione della giustizia riparativa[13], ora abbiamo la legislazione di gran lunga più articolata. Quali saranno gli effetti per un modello di giustizia che aveva nella sua spinta dal basso, nella sua spontaneità, nella valorizzazione dell’autonomia e della responsabilità delle parti nonché nella sua adattabilità alle situazioni concrete il valore supremo? Non viene il dubbio che, ancora una volta, si siano avverate le parole profetiche del fondatore della giustizia riparativa, Howard Zehr: «il sistema di giustizia penale sembra essere così impregnato di interesse proprio, così adattativo, che accoglie ogni nuova idea, la modella e la modifica finché non si adatta agli scopi del sistema»?[14]
Ma procediamo a esaminare le norme.
3. Le definizioni
3.1. Definizione di giustizia riparativa
La definizione di giustizia riparativa (art. 42, comma 1, lett. a del decreto n. 150) non pone problemi. Essa rispecchia le definizioni contenute nelle fonti internazionali, compresa quella riportata nell’art. 2, comma 1, lett. d della direttiva 2012/29/UE. Anzi: la arricchisce, valorizzando l’apporto di «altri soggetti appartenenti alla comunità» e specificando come il ruolo del terzo imparziale debba essere affidato a persona adeguatamente formata, denominata «mediatore». La precisazione del nome “mediatore” intende risolvere ambiguità derivanti dalla figura del “facilitatore”, entrata nel linguaggio corrente dei pratici e avvalorata da una fonte europea come la raccomandazione (2018)8 del Comitato dei ministri agli Stati membri sulla giustizia riparativa in materia penale e dalle linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del 2019.
La funzione della giustizia riparativa è descritta con la pessima formula della «risoluzione delle questioni derivanti dal reato». Dal reato non derivano “questioni”: non siamo di fronte a una disputa. Dal reato derivano conseguenze. Le più diverse. Ma sempre riferibili al danno patrimoniale o non patrimoniale subito dalla vittima. E le conseguenze si affrontano, non si risolvono. Qui pesa una risalente letteratura che identifica il reato con il conflitto e che, forse, necessita di un qualche approfondimento. Non è questa la sede per farlo. Tuttavia, se si prendono in considerazione le conseguenze di un’offesa costituente reato è più facile capire quali di esse possano essere ragionevolmente affrontate alla luce degli strumenti e delle misure che la giustizia riparativa è in grado di offrire. O meglio: in ragione degli strumenti e delle misure che il nostro legislatore ha messo a disposizione del sistema. Proprio in ragione della scelta restrittiva più volte ricordata, valeva la pena individuare una formula meno asettica e più pertinente al campo operativo dei programmi riparativi descritti nell’art. 53 del decreto n. 150.
3.2. Definizione di vittima
La vittima del reato è la persona fisica che, in conseguenza di un reato, ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale, nonché il familiare della persona fisica deceduta in conseguenza del reato e che lamenti un danno in conseguenza di quella morte (art. 42, comma 1, lett. b). Si è vittima anche a prescindere dalla presentazione di una denuncia e dall’esistenza di un procedimento penale: così è stabilito dall’art. 8, comma 5, direttiva 2012/29/UE. Il che vale ai fini dell’accesso ai servizi di assistenza alle vittime di reato. Il decreto sembra però limitare il diritto di accesso ai servizi di giustizia riparativa, prima che si instauri un procedimento penale, ai casi in cui si tratti di delitti perseguibili a querela (art. 44, comma 3 del decreto). In altri termini, in assenza di un procedimento penale, la vittima di un delitto procedibile d’ufficio potrà accedere presso un servizio di assistenza – ammesso che ve ne sia uno – ma non presso un servizio di giustizia riparativa.
Il decreto n. 150 ha esteso considerevolmente il ruolo del famigliare ben oltre il perimetro stabilito dalla direttiva 2012/29/UE che, ovviamente, ha preso in considerazione solo la prospettiva della vittima. Qui c’è un dichiarato interesse di sviluppare dei programmi riparativi capaci di coinvolgere anche il contesto famigliare – nel senso più lato del termine – della persona indicata come autore del fatto. La giustizia riparativa ha fatto tesoro, a livello internazionale, delle prime esperienze in Nuova Zelanda e in Australia, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, quando sono stati valorizzati – soprattutto nel settore minorile – i legami famigliari e comunitari per rafforzare il senso di responsabilità e di appartenenza dei giovani accusati di comportamenti illeciti. Ne parlerò più avanti.
Molto più problematica, soprattutto dal punto di vista concettuale, è l’estensione dei diritti e delle facoltà attribuite alla vittima del reato anche al «soggetto giuridico offeso dal reato» (art. 42, comma 2 del decreto). Questa equiparazione è stata definita, giustamente, «acrobatica» e «stonata»[15] in relazione ai limiti imposti dalla delega, che potranno dirsi rispettati anche in ossequio ai principi della restorative justice, che prevedono una partecipazione della comunità non solo come promotrice di interventi reintegrativi, ma anche come soggetto collettivo offeso[16]. Credo, invece, al di là dei superabili profili di eccesso di delega, che questa estensione riveli una discutibile forzatura, per estensione, della definizione giuridica di «vittima» contenuta nella direttiva 2012/29/UE. La relazione ha giustificato questa equiparazione alla vittima persona fisica, quanto a diritti e facoltà, per «consentire la partecipazione ai programmi di giustizia riparativa agli enti con o senza personalità giuridica, giusta l’ampiezza del criterio di delega che apre la giustizia riparativa potenzialmente ad ogni reato, quindi anche, per esempio, agli illeciti penali con vittima “sfumata” o diffusa»[17]. Parlare di vittime “sfumate” o “diffuse” è, innanzitutto, poco appropriato e un po’ irriguardoso. O si è vittima o non lo si è. Evidentemente, qui si voleva far riferimento a quegli enti esponenziali di diritti e interessi, questi sì, diffusi, in quanto riferibili a una molteplicità di soggetti.
In realtà, l’art. 42, comma 2 del decreto rivela uno slittamento concettuale della nozione di “vittima” su quella di persona offesa e/o danneggiata. Non c’è alcun dubbio che un soggetto giuridico possa ritenersi offeso e/o danneggiato (basti pensare al ricorrente furto in danno di un supermercato) e, in quanto tale, esercitare i diritti e le facoltà riconosciuti alla persona offesa e alla parte civile. E, conseguentemente, aver titolo a partecipare a un programma di giustizia riparativa.
Ma i diritti e le facoltà della vittima sono disciplinati dalla direttiva 2012/29/UE ed essi fanno esclusivo riferimento alla persona fisica e non a quella giuridica (vittima è «una persona fisica che ha subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono stati causati direttamente da un reato»: art. 2, comma 1, lett. a e i della direttiva). Quei diritti e quelle facoltà che, nel quadro della direttiva, tutelano la vittima nell’accesso ai servizi e nella partecipazione al procedimento penale, sono finalizzati a una valutazione individualizzata dei bisogni e a una diagnosi del rischio di una seconda vittimizzazione esclusivamente riferibili a una persona fisica. La distinzione tra vittima, persona offesa e persona danneggiata, a seguito dell’emanazione della direttiva, è stata fonte di notevoli difficoltà interpretative e applicative. L’individuazione di un soggetto giuridico offeso che diventi titolare degli stessi diritti e facoltà previsti per la vittima persona fisica, complica solo ulteriormente il lavoro esegetico e introduce una nozione di vittima a geometria variabile, a seconda dei servizi o delle procedure alle quali abbia accesso.
4. Cosa s’intende per “riparazione”
Il decreto n. 150 ha individuato dei precisi principi e delle finalità che segnano la profonda alterità della giustizia riparativa rispetto ai principi e alle finalità che governano il diritto e il processo penale. Il diritto penale nasce attraverso la rottura del rapporto bilaterale offeso/offensore e l’instaurazione di un rapporto trilaterale garantito da un giudice terzo imparziale, mentre la resorative justice recupera l’originaria radice relazionale, con il coinvolgimento della “comunità”, affidando a un terzo mediatore un ruolo attivo, prossimo alle parti e, soprattutto, non giudicante. Radicalmente distanti sono anche le finalità dei due sistemi: il diritto penale è finalizzato alla prevenzione generale dei delitti e alla prevenzione generale delle pene arbitrarie o sproporzionate[18]; la restorative justice è finalizzata alla promozione del riconoscimento della vittima del reato, alla responsabilizzazione della persona indicata come autore dell’offesa e alla ricostituzione dei legami con la comunità (art. 43, comma 2 del decreto).
Poiché, però, il legislatore ha optato per un rapporto di complementarità tra i due sistemi, si tratta di comprendere, nel dettaglio, con quali tecniche è stata garantita quella che l’art. 43, comma 1, lett. b del decreto definisce l’equa considerazione dell’interesse della vittima del reato e della persona indicata come autore dell’offesa. Si tratta di capire, nelle soluzioni normative, quale equilibrio è stato individuato tra l’aspirazione della vittima a veder soddisfatta l’aspettativa (non di giustizia ma) di riparazione e la legittima pretesa dell’accusato/condannato a non vedere compromessi nella giurisdizione i diritti di garanzia: su tutti la presunzione d’innocenza fino al giudicato irrevocabile e una pena giusta e proporzionata in caso di condanna.
Il procedimento riparativo si presenta, dunque, come una zona e un tempo franco dove operano principi, finalità e regole profondamente diverse da quelle del diritto e del processo penale: benché, paradossalmente, li presuppongano.
Innanzitutto: la partecipazione è volontaria, deve essere attiva e fondata sul consenso informato. A tutela dei diritti giurisdizionali della persona indicata come l’autore del fatto, le dichiarazioni e le attività svolte nel corso del programma riparativo restano riservate e gli esiti – in particolare, gli accordi raggiunti tra le parti – devono essere ragionevoli e proporzionati (art. 43 del decreto).
Ma cosa s’intende esattamente per “riparazione”?
Non è stata seguita la strada, proposta da Massimo Donini, di ripensare la pena in chiave riparativa, fondata su una nuova regola di parte generale individuante il delitto riparato come titolo autonomo da collocare a fianco del delitto tentato, e una cornice autonoma di parte speciale la cui misura sia tesa a rafforzare la motivazione a risolvere il conflitto[19].
La riforma ha lasciato intatta la pena classica: anzi, la presuppone e la legittima.
La riforma ha preso le distanze anche dagli allargamenti delle maglie definitorie della giustizia riparativa che sono stati registrati nelle prassi di questi decenni, «senza che tali attività prevedessero alcuno scambio dialogico, alcuna messa in relazione (diretta o indiretta) fra le parti»[20]. Si è osservato come alcune professioni (avvocati, operatori dei servizi della giustizia e del territorio di supporto agli autori come alle vittime di reato) avrebbero provato ad appropriarsi di funzioni riparative nell’esercizio della loro professione senza garantire la terzietà e l’indipendenza propria del mediatore. Non è stata accolta la definizione “lata” riportata dall’art. 59 della raccomandazione (2018)8, secondo cui la giustizia riparativa:
«include approcci innovativi alla riparazione, al recupero della vittima e al reinserimento dell’autore dell’illecito. Ad esempio, programmi riparativi di comunità, consigli di riparazione, restituzioni dirette alla vittima, programmi di supporto alle vittime e ai testimoni, circoli di supporto alle vittime, gruppi terapeutici, corsi di sensibilizzazione per le vittime, educazione di detenuti e autori dell’illecito, tribunali di problem solving, circoli di supporto e responsabilità, cerimonie di reinserimento degli autori dell’illecito e progetti che coinvolgono gli autori dell’illecito e le loro famiglie o altre vittime di reato. Tutte queste iniziative, tra le altre, possono essere realizzate in un’ottica riparativa, se vengono svolte in conformità ai principi fondamentali della giustizia riparativa».
Il decreto n. 150 avrebbe, pertanto, operato una scelta – almeno nelle intenzioni – di purezza, dove l’esito riparativo scaturisce dallo scambio dialogico tra le parti, dove verrebbe superata la logica reo-centrica del diritto penale classico, dove le vittime farebbero «qualcosa per se stesse» e dove persino la comunità possa scegliere di essere riparata[21].
5. L’accesso
L’accesso ai servizi di giustizia riparativa presuppone l’esistenza di un procedimento penale per i delitti procedibili d’ufficio. Qualora si tratti di delitti perseguibili a querela, l’accesso è possibile «prima che la stessa sia proposta» (art. 44, comma 3 del decreto). È difficile immaginare che, in questo caso, si attivi la persona indicata da una vittima come autore di reato. Un potenziale querelato che voglia prevenire la presentazione di una querela rivolgendosi a un servizio di giustizia riparativa è un’ipotesi ai limiti dell’impossibile.
È ragionevole, invece, pensare che una persona offesa possa rivolgersi a un mediatore prima di presentare una querela. È una scelta che presuppone un’informazione precisa. Tra i soggetti in grado di fornirla (art. 47, comma 2 del decreto) l’unico che potrà invogliare la vittima a percorrere quella strada è un legale. Difficilmente la polizia giudiziaria – alla quale l’offeso si rivolga – si assumerà la responsabilità di distogliere la vittima dall’intenzione di querelarsi. Indicazioni in tal senso potrebbero essere offerte dai servizi di assistenza alle vittime, difficilmente reperibili sul territorio italiano.
La Relazione al decreto ha commentato positivamente questa facoltà per il «reale effetto deflattivo»[22] della norma. Le maggiori perplessità di questa disposizione riguardano, però, gli sviluppi dell’eventuale accesso al centro di giustizia riparativa da parte della vittima. Come procederà il mediatore? A che titolo potrà convocare colui o colei che non risulta iscritto/a sul registro delle notizie di reato? Come si concluderà l’iter? Dell’attività svolta dovrà essere informato qualcuno? La Relazione precisa che «restano estranee all’ambito di applicazione della presente disciplina la giustizia riparativa in ambito sociale (…) e ovviamente le altre forme di mediazione dei conflitti»[23]. Ma, in questo caso, siamo di fronte a una tipica mediazione tra privati, per un dissidio privato, da parte di un organo pubblico in funzione sociale.
Al di fuori di questa ipotesi, la regia per l’accesso al programma di giustizia riparativa spetta all’autorità giudiziaria.
In astratto, non ci sono preclusioni nell’accesso che possano dipendere dalla fattispecie di reato o dalla sua gravità, dallo stato o grado del procedimento, dall’eventuale fase esecutiva della pena o della misura di sicurezza. L’attività riparativa disciplinata dal decreto è possibile anche una volta esaurita l’esecuzione e persino nei casi di improcedibilità per difetto di una delle condizioni, anche ai sensi dell’art. 344-bis cpp, per superamento dei termini di durata massima del giudizio d’impugnazione (art. 44 del decreto).
5.1. Il discusso art. 129-bis cpp
L’innesto del programma riparativo sul procedimento penale è disciplinato dall’art. 129-bis cpp, introdotto dal decreto n. 150. È, probabilmente, l’unica norma ad aver suscitato, nel quadro di una riforma “riparativa” accolta benevolmente, qualche polemica[24] nel merito e qualche perplessità sulla collocazione, immediatamente successiva alla previsione codicistica dell’obbligo dell’immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità. La vittima e l’imputato, personalmente o per mezzo di un procuratore speciale, possono presentare richiesta di accesso a un programma di giustizia riparativa. L’istanza verrà presentata al pubblico ministero o al giudice a seconda della fase del procedimento penale. Il giudice sente le parti, i difensori nominati e provvede con una ordinanza. Durante le indagini preliminari, il pubblico ministero provvede con decreto: non è chiaro se abbia, anch’egli, l’onere di sentire gli interessati al percorso riparativo. È auspicabile che, provenendo la richiesta dall’indagato, abbia cura di sentire la vittima e viceversa.
Il magistrato è tenuto a una triplice valutazione di ammissibilità. Innanzitutto, il programma riparativo deve essere “utile” «alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto»: sarebbe stata opportuna, almeno nella relazione, una maggior limpidezza espositiva con riferimenti più diretti al danno e/o al pregiudizio che costituiscono l’ossatura di una offesa lamentata e alle potenzialità riparative delle tecniche adottate. In secondo luogo, il magistrato dovrà assicurarsi dell’assenza di pericoli per gli interessati. Infine, il percorso riparativo non dovrà pregiudicare l’eventuale successivo accertamento dei fatti.
Il criterio dell’utilità costituisce una chiave di orientamento del magistrato in funzione della congruenza riparativa del mezzo rispetto all’offesa sottoposta al suo esame. Ciò significa che, nonostante l’universalismo della giustizia riparativa, l’adeguatezza dello strumento dovrà essere valutata in relazione a quei fatti concreti che si prestano a essere “trattati” nelle forme comunicative individuate dall’art. 53: la mediazione, il dialogo riparativo e i programmi dialogici. Non solo: nell’analisi dei “rischi” per le parti, l’utilità dovrà essere intesa anche come probabilità di successo dell’attività del mediatore. In questo senso, bisognerebbe far tesoro dei rilevamenti effettuati dal Dipartimento della giustizia minorile e di comunità sulle esperienze del recente passato[25], che consigliano molta cautela nell’invio, considerate le sensibili percentuali di impraticabilità del percorso mediativo.
Come intendere, invece, il riferimento al pericolo concreto per gli interessati? Le ipotesi sono infinite, anche se il pensiero corre immediatamente ai rischi di violenza fisica e psicologica che possono scaturire da qualsiasi contatto tra le parti, non adeguatamente preparato. Tuttavia, questa era certamente la sede in cui il legislatore avrebbe dovuto richiamare l’importanza di una valutazione individualizzata dei rischi di seconda vittimizzazione, in tutte le sue manifestazioni considerate dalla direttiva 2012/29/UE: valutazione che non può certo essere rimessa al mediatore, proprio a tutela della sua funzione terza rispetto alle parti.
E, ancora: come intendere il pericolo per l’accertamento dei fatti? Certamente la maggiore preoccupazione riguarda il possibile condizionamento della funzione cognitiva del processo penale: l’alterazione potrebbe derivare da un pregiudizio negativo sulla responsabilità dell’imputato qualora, inviato d’ufficio al centro, non partecipi al percorso riparativo o nel caso in cui il programma termini con un esito fallimentare; l’alterazione potrebbe anche riguardare l’eventuale prova dichiarativa processuale della vittima condizionata dal confronto avuto con l’imputato durante l’incontro con il mediatore[26].
Questi ultimi aspetti meritano un approfondimento. Infatti, quando siano le parti a proporre e ad accettare l’invio al centro di giustizia riparativa, i rischi d’insuccesso e di ricaduta negativa per le persone e sull’eventuale seguito processuale sono ridotti al minimo. L’art. 129-bis cpp prevede, però, che l’autorità giudiziaria possa disporre d’ufficio l’invio al centro dell’imputato e della vittima. «Il giudice che spinge l’imputato a soluzioni riparative viola la presunzione d’innocenza»[27], si è sostenuto. Il timore è «che, in ogni caso, durante la fase di cognizione, il sottrarsi alla strada individuata unilateralmente nel programma riparativo, dal pm o dal giudice, pregiudichi lo svolgimento del successivo accertamento di responsabilità secondo i canoni del giusto processo e della presunzione d’innocenza»[28].
Ritengo che la previsione di un invio d’autorità dell’accusato persegua un palese obiettivo deflattivo tutte le volte che sia auspicabile una definizione anticipata nell’interesse dell’imputato. Quella norma ha certamente uno spirito paternalistico e, a dirla tutta, non credo piaccia molto neppure ai puristi della giustizia riparativa. È vero: c’è un rischio che il giudice o il pm s’infastidiscano se l’imputato non si presenta al centro di mediazione. Potrebbero dispiacersi per non essere riusciti a togliersi di mezzo un fascicolo: ma, se dovessimo prendere in considerazione questi risvolti psichici del magistrato, ci inoltreremmo in una spirale inquisitoria senza fine verso i possibili pregiudizi dell’autorità giudiziaria. Atteniamoci, pertanto, alle disposizioni normative (artt. 48, 54 e 58 del decreto), concepite proprio per escludere conseguenze negative derivanti dalla mancata adesione o dal fallimento di quell’invio. Poteva essere più coerente ricalcare il meccanismo utilizzato per la sospensione del processo con messa alla prova, lasciando al solo imputato (e ora anche al pubblico ministero) la facoltà di formulare la richiesta di accedere a un programma riparativo. Si è voluto percorrere la strada dell’incentivo, esportando dall’economia comportamentale e dalla filosofia politica la tecnica del «nudge»[29], la “spintarella gentile”, che ci ha indicato nuove prospettive nel descrivere i margini effettivi di libertà dell’individuo. Il processo penale dev’essere luogo aperto alle trasformazioni positive. Non è – ammesso che lo sia mai stato – un luogo sacro: “sacro” può esserlo l’imputato o il condannato e non mi pare che questo decreto ne calpesti i diritti. Ma qui la legge processuale si arresta per dare spazio a una parentesi governata da altre regole prive d’impatto negativo sul processo ordinario.
D’altra parte il magistrato, nell’esercizio dei suoi poteri officiosi, non potrà comunque entrare nel merito della formulazione del programma riparativo. Un conto è la valutazione di ammissibilità del percorso riparativo che rientra nelle competenze dell’autorità giudiziaria, altro è la valutazione di fattibilità che appartiene alle competenze dei mediatori e che costituisce un segmento della fase preparatoria del programma «quando – dopo aver conosciuto le parti, aver ascoltato le narrazioni di ciascuna ed eventualmente essersi anche confrontati con i rispettivi legali, e dopo aver raccolto il consenso dei diretti interessati – anche il mediatore opera una propria valutazione»[30]. Le statistiche offerte dal Dipartimento di giustizia minorile e di comunità segnalano una quota importante di programmi ritenuti non fattibili dai mediatori, soprattutto nella giurisdizione ordinaria. Certamente ci vorrà del tempo perché il linguaggio e la cultura dei magistrati entri in sintonia con il lavoro dei mediatori (e viceversa) e si possa, così, contenere il numero delle “restituzioni”: in ogni caso, occorre assumere l’impossibilità di un percorso riparativo, così come la sua interruzione o il suo esito negativo, non già come uno scacco, un fallimento destinato a ripercuotersi negativamente sul processo o sulla vita delle persone, bensì come un’occasione che segna gli incontri tra persone e luoghi, lascia tracce, rappresenta un’utilità su cui riflettere e destinata ad appartenere al patrimonio morale della persona. Si tratta di un’occasione che vale la pena sfruttare piuttosto che perdere: così sosteneva uno dei padri della mediazione francese, Jean François Six[31].
In realtà, se una critica deve essere mossa, essa non attiene tanto alle garanzie dell’accusato quanto alla tutela della vittima. È curioso che, di fronte a una disciplina organica della giustizia riparativa che «si affianca, senza sostituirsi, al processo penale, nell’interesse della vittima di reati»[32] (comunicato ufficiale del Ministero della giustizia, 5 agosto 2022), nessuno abbia commentato l’art. 129-bis cpp rispetto al ruolo dell’offeso. Il giudice infatti, in vista dell’invio, è tenuto a sentire le parti e i difensori nominati. Non la vittima. Insolita asimmetria, posto che il luogo di destinazione degli inviati presuppone la loro pari dignità. Ancor più preoccupante è la spiegazione offerta dalla Relazione allo schema di decreto: «non appesantire eccessivamente il procedimento onerando il giudice della ricerca della vittima e della sua audizione»[33]: una pietra d’inciampo, certo non un soggetto di diritti. Ci sarà dunque, per questa via, un programma di giustizia riparativa senza vittima? E nell’interesse di chi? Fin dall’incipit, questa riforma “riparativa” – contrariamente alle affermazioni di principio – non è stata concepita nel rispetto dell’equilibrio degli interessi in gioco e della pari dignità delle parti sostanziali.
5.2. Il riconoscimento dei fatti
L’esame della regolamentazione dell’accesso ai programmi di giustizia riparativa non sarebbe completo se non si affrontasse la questione “sensibile” del riconoscimento dei fatti quale condizione per la partecipazione al programma di giustizia riparativa.
Le fonti europee sono piuttosto chiare.
Il § 30 della raccomandazione (2018)8 prevede che la partecipazione ai percorsi di giustizia riparativa dovrebbe avere come «punto di partenza (…) generalmente il riconoscimento a opera delle parti dei fatti principali della vicenda».
L’art. 12, comma 1, lett. c della direttiva 2012/29/UE stabilisce che la vittima possa avere accesso ai servizi di giustizia riparativa a condizione che «l’autore del reato [abbia] riconosciuto i fatti essenziali del caso».
La legge delega e il decreto n. 150 tacciono sul punto. È pacifico che il silenzio sia voluto al fine di garantire la persona indicata come autore del fatto da qualsiasi violazione della presunzione di non colpevolezza nel procedimento penale (art. 27, comma 2, Cost.). Il nostro legislatore, pertanto, non ha inteso accontentarsi di una clausola protettiva come quella sulla inutilizzabilità delle dichiarazioni o delle informazioni emerse nel corso del programma (art. 51 del decreto) o quella sull’improduttività di effetti sfavorevoli del programma nei confronti della persona indicata come autore dell’offesa (art. 58 del decreto). Ha proprio voluto escludere qualunque riconoscimento dei fatti (essenziali o principali) sia da parte dell’autore che da parte della vittima quale condizione per l’accesso alla giustizia riparativa.
Si è osservato come l’oggetto del percorso riparativo non sia «il fatto reato e la sua ascrizione all’imputato, bensì l’offesa e il superamento delle conseguenze di questa»[34]. Qui non si tratterebbe di accertare dei fatti, dunque, ma una vicenda in cui il riconoscimento dell’altro e dei suoi bisogni è piuttosto un orizzonte verso il quale dirigersi e non un presupposto per l’accesso all’incontro tra le parti. Si è aggiunto che il silenzio del legislatore è «teso a rimarcare la separazione tra giustizia riparativa e processo e rafforzare la salvaguardia del principio di presunzione di innocenza»[35].
La questione, a mio avviso, va affrontata chiarendo quale sia la natura del procedimento riparativo perché, è di tutta evidenza, non è un procedimento giurisdizionale. Il programma riparativo e le attività che gli sono propri appartengono all’ordine di un servizio pubblico di cura della relazione tra persone, non diversamente da altri servizi di cura relazionale ormai diffusi in diversi settori della sanità e del sociale. Ciò significa che all’interno del procedimento riparativo operano regole non mutuabili da quelle del processo penale. Anzi, operano regole incompatibili con quelle del processo penale: volontarietà, equa considerazione degli interessi tra autore e vittima, consensualità, riservatezza, segretezza.
Ma proprio perché l’oggetto e la finalità del percorso riparativo sono completamente diversi da quelli del processo penale, non possono operare gli stessi principi. Il commento ufficiale alla raccomandazione (2018)8[36] ci spiega che, in assenza del riconoscimento dei fatti principali ad opera delle parti, «la possibilité de pervenir à un accord est limitée et le risque de victimisation augmente». Non è in questione la colpevolezza, non si tratta di responsabilità giuridica. La partecipazione al programma riparativo o le dichiarazioni rese durante il percorso riparativo non possono essere usate come prova della responsabilità penale. L’accesso alla giustizia riparativa è oggetto di una libera scelta che, si ripete, non può avere alcun effetto sfavorevole per l’accusato nel procedimento penale.
Dunque: il regime di complementarità tra procedimento penale e procedimento riparativo deve prevedere il rispetto reciproco di principi differenti affinché non ci sia una contaminazione dannosa tra gli autonomi territori. Così come il processo penale è retto da un principio di pubblicità e di controllo delle garanzie assicurate all’accusato incompatibile con l’intimità della stanza dei mediatori, così il procedimento riparativo è retto da un principio di riservatezza incompatibile con la formazione di prove dichiarative nel pubblico dibattimento.
Va qui osservata una differenza non lieve tra il § 30 della raccomandazione (2018)8 e l’art. 12, lett. c della direttiva 2012/29/UE, che forse può aiutarci nell’affrontare il nodo della questione. La raccomandazione (2018)8 fornisce un’indicazione generale che riguarda le parti, affinché il riconoscimento dei fatti principali della vicenda costituisca il «punto di partenza» – non il punto d’arrivo – del percorso riparativo. L’avverbio «generalmente», l’aggettivo «principali» riferito ai fatti e il sostantivo «vicenda», in luogo di «reato» o di «offesa», illustrano perfettamente la preoccupazione di rendere efficace e non meramente formale l’incontro tra i protagonisti dei fatti, stemperando ogni ricorso alle definizioni giuridiche che possano richiamare il contesto penalistico. In altri termini: la raccomandazione (2018)8 vuole assicurare la più ampia libertà e volontarietà nella partecipazione delle parti all’incontro tra loro e con i mediatori e, al tempo stesso, un approccio convergente cognitivo ed emotivo in ordine a quanto accaduto, senza il quale il lavoro dei mediatori sarebbe votato all’insuccesso. Così posta la prospettiva interpretativa, si comprende bene come il riconoscimento dei fatti principali non si pone come presupposto di ammissibilità, bensì di fattibilità del programma riparativo.
Per contro, la direttiva 2012/29/UE concentra la propria attenzione sull’onere che ricade sull’autore del reato (per noi, sulla persona indicata come autore dell’offesa) qualora la vittima scelga di partecipare a un procedimento di giustizia riparativa: deve riconoscere i fatti essenziali del caso. A parte le differenze linguistiche («essenziali» in luogo di «principali»; «caso» in luogo di «vicenda»), nella direttiva muta completamente la prospettiva rispetto alla raccomandazione. Mentre per quest’ultima, come si è detto, l’obiettivo è costituito dal risultato auspicabile (il successo dell’incontro e della riparazione), per la direttiva l’obiettivo è costituito dalla tutela dei diritti della vittima, affinché non sia esposta al rischio di «vittimizzazione secondaria e ripetuta, dall’intimidazione e dalle ritorsioni». Poiché l’incontro con chi nega persino la stessa sussistenza di un “caso” o di una “vicenda” comune alle parti o nega la sua partecipazione a “fatti” che riguardino la vittima costituisce un evidente rischio di seconda vittimizzazione, appare del tutto convincente la scelta normativa della direttiva di pretendere questa e altre “garanzie” («Diritto a garanzie» è il titolo dell’art. 12) a tutela della partecipazione della persona offesa al procedimento riparativo.
Qui è importante ricordare che la direttiva non propone una visione vittimocentrica della giustizia riparativa, così come non prende partito a favore di una concezione accusatoria o inquisitoria del procedimento penale o, ancora, di un sistema penale fondato sull’obbligatorietà o discrezionalità dell’esercizio dell’azione penale. La direttiva si limita a preservare la vittima dai rischi di seconda vittimizzazione, qualunque sia il contesto procedimentale nel quale la vittima venga a trovarsi, volontariamente (ad esempio, all’interno di un programma riparativo) o meno (ad esempio, in occasione di una testimonianza).
E, tuttavia, non vi è dubbio che l’art. 12 della direttiva, nella parte in cui pone come condizione per la partecipazione della vittima al procedimento riparativo il riconoscimento dei fatti essenziali del caso da parte dell’autore, sia disposizione self executing, non risultando inserito – come stabilito in altre norme della direttiva – il rinvio al diritto nazionale[37]. Pertanto: tutte le volte che venga coinvolta una vittima diretta dovrà intervenire la garanzia suddetta, fatta salva – ovviamente – un’espressa rinuncia da parte dell’offeso a volersene avvalere.
L’accertamento della sussistenza di tale garanzia dev’essere, però, una prerogativa attribuita ai mediatori e non all’autorità giudiziaria perché costituisce una condizione di fattibilità, come indicato dalla raccomandazione (2018)8, e non di ammissibilità. Mentre l’ammissibilità del percorso riparativo comporta un controllo di legalità riservato alle competenze del magistrato, la fattibilità – la cui funzione è salvaguardata dal filtro dell’autorità giudiziaria – esige invece competenze specifiche rientranti nell’abilità del mediatore. È vero che tutti i Paesi europei che disciplinano la giustizia riparativa impongono quel presupposto[38] e, in alcuni casi, prevedono addirittura l’ammissione dei fatti, la confessione o l’assunzione della responsabilità penale. Se, però, la cultura processualpenalistica italiana si distingue proprio per l’attenzione e la sensibilità particolare alle garanzie dell’accusato, la soluzione che qui si propone mi pare possa felicemente contemperare le chiare indicazioni delle fonti europee con le caratteristiche proprie del nostro ordinamento vivente. Spetterà, dunque, ai mediatori condividere delle linee-guida per meglio definire i criteri di fattibilità dei programmi riparativi.
Sulla base di queste considerazioni è possibile, allora, affermare che:
1) il riconoscimento dei fatti costituisce un punto di partenza e non di arrivo per il procedimento riparativo;
2) è largamente preferibile che il procedimento riparativo si fondi su questo riconoscimento, ma esso non costituisce un presupposto indispensabile e vincolante, data la molteplicità dei possibili programmi riparativi;
3) tuttavia, qualora venga coinvolta la vittima diretta, occorrerà verificare se l’atteggiamento della persona indicata come autore del fatto neghi la sussistenza stessa dei fatti, in senso lato, o la sua partecipazione, esponendo così la vittima a un rischio di vittimizzazione;
4) tale verifica rientra nei compiti del servizio di giustizia riparativa nell’ambito della valutazione di fattibilità riservata, appunto, ai mediatori.
6. Il diritto all’informazione e l’invio al centro di giustizia riparativa
Come vittima e persona indicata come autore del reato vengono messe a conoscenza della possibilità di accedere a un programma di giustizia riparativa?
Per la persona offesa, secondo la tradizione formalistica italiana, l’art. 90-bis cpp si arricchisce di ulteriori due obblighi informativi (oltre ai precedenti quattordici) a carico dell’autorità procedente per segnalare il possibile accesso a programmi di giustizia riparativa: si tratta di obblighi che verranno assolti nella solita comunicazione cartacea. Per la vittima di reato – qualora non coincida con la persona offesa – è stato inserito un apposito art. 90-bis.1 cpp.
Per l’accusato, l’indicazione è assicurata dal pubblico ministero attraverso l’informazione di garanzia (art. 369, comma 1-ter, cpp), dalla polizia giudiziaria in sede di arresto o fermo (art. 386, comma 1, lett. i-bis, cpp), con il decreto di fissazione dell’udienza a seguito di richiesta di applicazione della pena (art. 447 cpp), con il decreto di condanna (art. 460, comma 1, lett. h-bis, cpp).
Indagato e persona offesa sono informati attraverso la richiesta di archiviazione (art. 408, comma 3, cpp), con il provvedimento del giudice che non accoglie la richiesta di archiviazione (art. 409, comma 2, cpp), con l’avviso di conclusione delle indagini (art. 415-bis cpp), con l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare (art. 419, comma 3-bis, cpp), con il decreto che dispone il giudizio (artt. 429, comma 1, lett. d-bis, cpp e 552, comma 1, lett. h-bis, cpp) e con il decreto di citazione per il giudizio d’appello (art. 601, comma 3, cpp).
Il programma allegato all’istanza di messa alla prova potrà contenere lo svolgimento di programmi di giustizia riparativa (art. 464-bis, lett. c, cpp).
Il condannato dovrà essere informato della possibilità di ricorrere a programmi di giustizia riparativa con l’ordine di esecuzione delle pene detentive (art. 656 cpp) e delle pene pecuniarie (art. 660 cpp).
Chi dispone l’invio della vittima e della persona indicata come autore dell’offesa al centro di giustizia riparativa?
Il pubblico ministero provvede con decreto nella fase delle indagini preliminari; a seguito del decreto di citazione diretta a giudizio, provvede il giudice delle indagini preliminari fino a quando il fascicolo non sia fisicamente nella disponibilità del giudice del dibattimento. Anche a seguito della sentenza, la regola sulla competenza a decidere è fissata in base alla disponibilità del fascicolo. Durante la pendenza del ricorso in cassazione, decide il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (art. 45-ter disp. att. cpp).
I programmi di giustizia riparativa vengono favoriti nei piani di trattamento tanto per i condannati quanto per gli internati (art. 13 o.p.). La norma è rivolta innanzitutto agli operatori dell’ordinamento penitenziario, ma la Relazione al decreto circonda la prospettiva con molte cautele: l’accesso deve essere assolutamente volontario, occorre evitare ricadute negative sul piano dei benefici, soprattutto quando il mancato svolgimento degli incontri dialogici sia dipeso dall’indisponibilità di una delle parti. La giustizia riparativa – si precisa – non deve «essere confusa con gli strumenti del trattamento penitenziario ma nello stesso tempo obbliga le autorità pubbliche a favorire, proprio nella cornice tracciata dal trattamento, il ricorso libero e spontaneo a percorsi di giustizia riparativa»[39].
Sempre in sede esecutiva, l’autorità giudiziaria di sorveglianza può disporre l’invio di condannati e internati a programmi di giustizia riparativa la cui partecipazione e il cui eventuale esito positivo vengono valutati ai fini dell’assegnazione al lavoro all’esterno, della concessione di permessi premio e delle misure alternative alla detenzione, della liberazione condizionale nonché dell’eventuale esito positivo dell’affidamento in prova (artt. 15-bis e 47 o.p.). Una previsione simile è stata introdotta con le modifiche apportate nell’ordinamento giudiziario minorile (artt. 1 e 1-bis d.lgs 2 ottobre 2018, n. 121). Secondo la Relazione, l’introduzione di un’autonoma disciplina “riparativa” nella fase esecutiva – anziché il mero rinvio alle disposizioni generali – sarebbe giustificata dall’esigenza di condurre dei programmi riparativi «anche nell’interesse delle vittime». Quale sia l’interesse del condannato è piuttosto evidente. L’interesse delle vittime – soprattutto in fase di esecuzione della pena – non può essere dato per scontato ed esigerebbe cautele pari a quelle che la Relazione riserva al condannato (sia esso detenuto che libero).
Si è sottolineata, nel commento all’art. 129-bis cpp, la grave discriminazione tra vittima e persona indicata come autore dell’offesa rispetto all’invio d’ufficio del magistrato nel processo di cognizione. Qui, la consultazione della vittima non è neppure presa in considerazione come eventualità lasciata alla totale discrezionalità del magistrato di sorveglianza. La direttiva 2012/29/UE sparisce completamente dall’orizzonte, per quanto la vittima abbia diritto a essere assistita anche «per un congruo periodo di tempo dopo il procedimento penale» (art. 8, comma 1, direttiva 2012/29/UE). Chi valuterà l’interesse dell’offeso a partecipare a un programma riparativo? È consapevole il nostro legislatore del possibile impatto negativo (per non dire traumatico) che una vittima può subire se sollecitata, a distanza di molti anni, a riconsiderare eventi spesso sotterrati e cancellati? Non è compito del mediatore stabilire il contatto con la vittima sia perché il suo intervento presuppone che l’invio ci sia già stato – mentre in questo caso si tratta di valutare l’opportunità e l’interesse della vittima all’invio – sia perché la vittima, in questo caso, non necessita di un terzo ma di un alleato. La giustizia riparativa nella fase esecutiva può far tacere le preoccupazioni garantiste a fronte di un accertamento passato in giudicato, ma ne alimenta di nuove perché la riparazione “interpersonale” – come la definisce Massimo Donini – coinvolge il condannato in luoghi dove sperimenta spesso, a sua volta, una condizione “vittimaria” di cui è causa la stessa istituzione che vorrebbe promuovere comprensione e riparazione. Qui, più che nelle altre fasi, il trascorrere del tempo consolida, dal lato della vittima, il risentimento – come ha osservato Jean Amery –, la rimozione o la positiva elaborazione dell’eventuale trauma: l’attenzione tardiva verso la vittima favorirebbe solo, nella maggior parte dei casi, una inaccettabile riapertura dei sentimenti offesi. In altre parole: per rispetto nei confronti delle giuste aspirazioni del condannato di mitigare la pena a fronte di condotte riparative, i relativi programmi dovrebbero prescindere dalla partecipazione delle vittime e recupererebbero, così, quelle forme spurie da cui il legislatore ha voluto prendere le distanze, in nome di una giustizia dialogica.
È proprio in questa fase che diventa netta la percezione di una riforma riparativa protesa verso un’attenuazione della risposta repressiva anche a costo di calpestare i diritti e gli interessi delle vittime dirette.
La riforma non incide sulle giurisdizioni specializzate se non per aspetti lessicali e organizzativi extraprocessuali, attesa la costituzione dei centri di giustizia riparativa, che sostituiranno o stabilizzeranno le attuali strutture, per lo più private, convenzionate o attivate mediante bandi nazionali o locali.
In particolare, il giudice di pace potrà inviare le parti davanti a un centro di giustizia riparativa (art. 29, comma 4, d.lgs 28 agosto 2000, n. 274) mentre in precedenza il ricorso al mediatore dipendeva dall’eventuale esistenza di centri di mediazione privati o dalla buona volontà di qualche ente pubblico virtuoso, ben poco sfruttati, comunque, da quella giurisdizione. È, però, piuttosto stupefacente che nella Relazione non si trovi una riflessione sul fallimento della funzione mediativa e conciliativa di questo giudice onorario, tenuto conto del dichiarato intento – cito letteralmente la Relazione di accompagnamento del d.lgs n. 274/2000 – di esaltarne le funzioni attraverso la «sperimentazione, su un terreno particolarmente propizio, degli emergenti schemi di mediazione penale»[40]. Era l’anno 2000.
7. I programmi di giustizia riparativa
Cosa sono i programmi di giustizia riparativa?
L’art. 53 del decreto ne individua tre: a) la mediazione tra la persona indicata come autore dell’offesa e la vittima del reato, con la possibile estensione ai gruppi parentali e con la possibile sostituzione della vittima diretta con altra persona offesa da «un reato diverso da quello per cui si procede»; b) il dialogo riparativo; c) ogni altro programma dialogico guidato da mediatori.
I mediatori (la figura del mediatore in azione è necessariamente plurale) incontreranno separatamente i partecipanti per fornire le informazioni precise sui programmi disponibili, sul loro svolgimento, sui potenziali esiti, sulle garanzie e sui rispettivi doveri (artt. 47, comma 3, e 54, comma 1 del decreto).
Non è per nulla chiaro il riferimento ai «gruppi parentali» (evidentemente, tanto côté vittima quanto côté accusato) nell’attività di mediazione prevista dalla lettera a. Non si comprende se la partecipazione di costoro alla mediazione diretta costituisca un dispositivo “responsabilizzante”, sul lato dell’accusato, rivolto anche al coinvolgimento dei parenti della vittima per una migliore illustrazione e comprensione degli effetti dell’offesa (come avviene nel modello del “family group conferencing” di tradizione neozeloandese), o se si tratti di un’attività di mediazione volta a trattare anche la conflittualità intergruppale di cui il reato sia espressione o conseguenza. La Relazione illustrativa non aiuta: infatti, nello spiegare le caratteristiche del secondo tipo di programma riparativo – il dialogo riparativo – si fa riferimento all’espressione inglese “restorative dialogue” (diretto o indiretto) tra la persona indicata come autore dell’offesa e la vittima, così riproducendo lo schema della mediazione (diretta o indiretta) indicata nella lett. a[41]. Di difficile comprensione è anche l’illustrazione offerta dalla Relazione al “tipo” residuale di programma riparativo contenuto nella lett. c. Secondo la Relazione illustrativa, infatti, esempio tipico di «ogni altro tipo di programma dialogico» sarebbe il cd. “circle”, «metodo che non ha un equivalente terminologico nella lingua italiana ma che indica uno spazio di parola e di ascolto aperto a componenti della comunità»[42]. Ora: i circles sono un istituto operativo nei Paesi di common law per permettere alla vittima e/o alla comunità di «esprimersi non solo sulle questioni che attengono alla richiesta di riparazione o alla quantificazione del risarcimento, ma anche su quelle relative alla determinazione della pena»[43]. Ma i sentencing circles (o peacemaking circles) nell’esperienza anglosassone (Canada, Nuova Zelanda, Australia, Stati Uniti) sono delle sessioni, successive alla decisione giudiziaria, cui possono partecipare – oltre alle parti processuali – anche esponenti della comunità e funzionari di servizio sociale, finalizzate alla commisurazione della pena. Non è pensabile, però, che il nostro legislatore abbia potuto introdurre, per questa via, un’innovazione così dirompente rispetto alla funzione giurisdizionale della determinazione della pena sia nella fase di cognizione sia nella successiva fase esecutiva.
Di circles (“restorative circles” e “responsive circles”) si parla anche in relazione a una galassia piuttosto indefinita di interventi volti a promuovere percorsi rieducativi interni al carcere per autori di gravi reati, alla gestione di conflitti in ambito scolastico o al disagio generato da eventi traumatici o luttuosi non necessariamente provocati da azioni illecite[44].
Non credo sia condivisibile questa incertezza e indeterminatezza nella definizione degli strumenti e delle metodologie dei programmi riparativi. Un conto è la necessaria “flessibilità” per concepire dei programmi individualizzati e riconoscere ai mediatori una certa autonomia[45]; altro è dilatare la scelta apparentemente rigorosa della riparazione interpersonale – fondata sull’archetipo della mediazione diretta victim-offender – per approdare a schemi operativi sfuggenti che non risultano neppure elaborati sulla base di una seria ricognizione della sperimentazione compiuta in oltre trent’anni di storia di giustizia riparativa italiana, nei suoi aspetti positivi e in quelli fallimentari.
Credo si debba partire dall’esistente, altrimenti le leggi diventano dei manifesti e non promuovono il cambiamento. In questa prospettiva può essere utile il rilevamento, già citato, del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità negli anni 2019 e 2020. Quell’analisi ha individuato 6 programmi: 1) mediazione victim-offender; 2) gruppi di sensibilizzazione con autori di reato; 3) mediazione allargata/gruppi di discussione; 4) incontri tra vittime e autori di reato analoghi a quello subito; 5) attività riparative coerenti con il reato; 6) incontri di ascolto con le vittime di reato. I risultati del monitoraggio sono piuttosto chiari nell’evidenziare, nonostante la limitatezza del dato quantitativo[46], la buona appetibilità delle attività riparative coerenti con il reato sia per adulti che per minori, la predilezione del contatto diretto victim-offender e dell’ascolto con le vittime nella giustizia minorile, un contenuto interessamento tra gli adulti per gruppi di sensibilizzazione rivolti agli autori di reato e per la mediazione allargata con gruppi di discussione. È lo stesso 2° Rapporto sulla giustizia riparativa a riconoscere che «nel contesto italiano la Giustizia riparativa si declina in forme solo in parte corrispondenti a ciò che nella letteratura internazionale viene definito come tale»[47]. Di qui la proposta di costruire una piattaforma per il rilevamento delle attività riparative che dovrà fare i conti con il catalogo voluto dalla riforma e inserito nell’art. 53 del decreto. La rilevazione dovrebbe fondarsi su tre “macrotipologie” di attività: a) programmi di giustizia riparativa in senso stretto nei quali, però, vengono fatti rientrare i circles; b) attività di sensibilizzazione e responsabilizzazione per autori di reato; c) attività a valenza riparativa. Ciò significa, però, ammettere che le attività riparative coerenti con il reato, risultate appetibili per minori e adulti, non rientrano nella definizione di giustizia riparativa in senso stretto voluta dalla riforma e che pone il dialogo tra le parti come base legittimante il programma riparativo.
In conclusione: è possibile affermare, per dare un minimo di concretezza e coerenza al sistema, che i programmi di giustizia riparativa sono solo quelli che contemplano, sempre, il coinvolgimento della vittima e della persona indicata come autore del reato e la presenza del mediatore come facilitatore del dialogo tra le parti; è possibile un allargamento – ma non una sostituzione vicaria – del dialogo riparativo a famigliari (in senso lato) e a persone legate da vincoli di parentela; il dialogo riparativo è ammesso anche nella sua forma indiretta, vale a dire senza il contatto diretto, visivo o uditivo, tra le parti. In ogni caso, tali programmi dovranno essere svolti nell’interesse della vittima e della persona indicata come autore. In difetto di interesse di alcuna delle parti, non potrà dirsi integrata la fattispecie del programma riparativo.
Non rientrano tra i programmi riparativi (anche se sono stati censiti come tali dal 2° Rapporto più volte citato): le mere prestazioni riparative a favore delle vittime o della comunità, comprese quelle a titolo di volontariato (ancorché coerenti con il reato per cui si procede) e a meno che costituiscano l’esito di un accordo tra le parti; incontri di ascolto per le vittime; gruppi di sensibilizzazione con e tra autori di reato.
8. La vittima surrogata
Un approfondimento merita la figura legale, introdotta dall’art. 53, comma 1, lett. a del decreto, della «vittima di un reato diverso da quello per cui si procede» (cd. “vittima surrogata”)[48]. La possibilità di ammettere tra i programmi riparativi anche la mediazione con una vittima cd. aspecifica è giustificata dalla Relazione sulla base del suo riconoscimento da parte dell’Handbook delle Nazioni Unite e della letteratura internazionale tra i «quasi-restorative programs». Secondo la Relazione, «la vittima del reato differente non è un “sostituto” della vittima “diretta” e non è meno vittima di quest’ultima. Anche la vittima aspecifica, infatti, è vittima, ancorché vittima di un reato e non del reato»[49]. L’interesse da soddisfare non sarebbe più quello della vittima diretta, ma quello della vittima intervenuta in surrogazione. Volontà e consenso andrebbero accertati non presso chi ha subito l’offesa ma saggiando la disponibilità di altra vittima. Questa sostituzione – non vedo come definirla diversamente – sarebbe «uno specifico valore aggiunto della giustizia riparativa rispetto a quella “convenzionale”: un esempio per tutti è la possibilità di coinvolgere in programmi di giustizia riparativa la persona offesa di un reato che resta a carico di ignoti, persona alla quale, di tutta evidenza, la giustizia “classica” non ha nulla da offrire»[50]. Difficile trovare un esempio meno fuorviante e più impertinente. La vittima di un reato commesso da ignoti ha di fronte a sé la prospettiva, del tutto opposta, del possibile incontro con un autore surrogato (o aspecifico). Forse il legislatore avrebbe dovuto, più correttamente, delineare anche il ruolo distopico di sostituto imputato o sostituto condannato. Ma anche a voler ammettere simile mostruosità giuridica, davvero il nostro legislatore pensa alle vittime di reati commessi da ignoti come a un’umanità in cerca di una giustizia dialogica, alternativa a quella, ordinaria, che non ha saputo, potuto (e a volte persino voluto, come dimostrano i numerosi processi per depistaggi) accertare i fatti e individuare i responsabili?
Nessuno nega l’importanza, per molte vittime, di affrontare il vuoto di verità, l’impossibile incarnazione dei fantasmi che hanno devastato la loro esistenza, anche attraverso incontri significativi con persone dai trascorsi simili a quelli di coloro da cui sono stati offesi. Nessuno nega l’importanza, per alcune vittime, anche quando sappiano perfettamente chi sono i responsabili, di intraprendere percorsi di comprensione ed elaborazione con altri autori di reato. Ma questa è una aspettativa, un interesse della vittima che, per essere realizzati, non necessitano di alcuna disciplina processuale, come dimostrano diverse esperienze in atto, da tempo già passate al vaglio della magistratura[51].
La vera questione è un’altra. Nel disciplinare l’attività di mediazione e, in generale, i programmi riparativi, il legislatore non può autorizzare nessuno (tanto meno il magistrato o il mediatore) a tralasciare l’interesse, la volontà e il consenso della vittima diretta. La sostituzione, nel dialogo riparativo, del diretto interessato, della sua volontà e del suo consenso – al di fuori di eventuali casi di rappresentazione legale o giudiziale – costituisce un atto autoritario, potenzialmente lesivo della vita privata (art. 8 Cedu). Il mancato rispetto dell’interesse della vittima diretta – e dunque l’omessa consultazione – ai fini di una mediazione con altra vittima, espone la prima a un evidente rischio di seconda vittimizzazione che la direttiva 2012/29/UE impone di accertare e, soprattutto, di evitare.
C’è un principio generale secondo cui nessuno ha diritto a riconciliarsi – o, semplicemente, d’incontrarsi – in nome d’altri e per offese commesse ad altri. C’è un principio di personalità e di autodeterminazione che avrebbe dovuto essere rispettato quantomeno con chiare indicazioni sulla ricerca del consenso della vittima diretta a essere surrogata da un terzo, anche ai fini di una valutazione del rischio di vittimizzazione secondaria.
La previsione della vittima sostitutiva si giustifica solo nella prospettiva del prevalente interesse dell’accusato/condannato, indicando così la possibilità di accedere a un programma di giustizia riparativa anche quando la vittima diretta non sia disponibile, sia contraria, sia deceduta, non sia stata reperita. Se davvero si fosse coltivata la prospettiva dell’eguale interesse, vi sarebbe stata un’altra norma che avrebbe previsto per la vittima la possibilità di accedere a un programma di giustizia riparativa anche in caso di indisponibilità, di contrarietà, di decesso o di irreperibilità dell’accusato/condannato. Ma così non è. Si è osservato che, se venisse preclusa la possibilità di coinvolgimento di una vittima aspecifica, si produrrebbero degli effetti discriminatori in danno di imputati o condannati per fattori non dipendenti dalla loro volontà, così privandoli di strumenti utili alla loro risocializzazione[52]. In realtà, ci sono molteplici programmi riparativi alternativi che permettono di evitare il potenziale effetto discriminatorio derivante dall’indisponibilità della vittima diretta. Le domande che dovremmo porci sono: può essere riparativo ciò che non è stato per nulla riparato? Una riparazione unilaterale non è un’aperta violazione del principio affermato in sede di definizione della giustizia riparativa? È giustizia riparativa un percorso nel quale l’adesione della vittima non è stata ottenuta o, il che è lo stesso, sia frutto di una coercizione o di un vizio nella manifestazione della sua volontà?
Sarà pertanto cura dei mediatori e della magistratura garantire quelle cautele e quelle tutele degli interessi della vittima diretta che il legislatore ha omesso.
9. Lo svolgimento degli incontri
La disciplina dello svolgimento delle attività dei mediatori – si ripete: in formazione plurale nell’attuazione del programma – è estremamente asciutta (artt. 54 e 55 del decreto). Durante la fase preliminare, le parti possono essere assistite dai propri difensori. Durante lo sviluppo del programma, invece, gli interessati partecipano personalmente salvo l’assistenza di persone di supporto, anche in relazione alle loro capacità. La norma parrebbe far riferimento al supporto necessario a persone che per età, condizione fisica o psichica potrebbero soffrire di limitazioni nella piena e consapevole partecipazione alle sessioni riparative. Per le persone minori di età, opera la regola del superiore interesse (che si tratti di vittima o di persona indicata come autore dell’offesa); inoltre, opera la garanzia dell’assegnazione al programma di «mediatori dotati di specifiche attitudini, avuto riguardo alla formazione e alle competenze acquisite» (art. 46 del decreto).
La stanza della mediazione è un luogo d’incontro non giudicante anche se, nei fatti, gli interventi dei mediatori possono essere più o meno direttivi[53]. È uno spazio intimo e riservato, proprio per permettere alle parti di affidarsi ai mediatori e, in prospettiva, anche reciprocamente. Sarebbe ingenuo pensare che l’accesso al programma riparativo non sia motivato da propositi strumentali sia da parte della vittima (si pensi al desiderio di scatenare la propria rabbia e di squalificare l’immagine dell’accusato di fronte a un terzo) sia da parte della persona indicata come responsabile (si pensi agli indubbi vantaggi conseguibili sul piano del trattamento sanzionatorio o, addirittura, nella prospettiva dell’impunità), Tuttavia: poiché la strategia del procedimento riparativo mira a una migliore e più profonda conoscenza dei comportamenti tenuti e delle percezioni vissute, le tecniche dei mediatori convergono nel governare un possibile abbassamento delle difese nonché una progressiva apertura degli sguardi. È in questo contesto che la strumentalità dell’accesso può essere esaminata dalle stesse parti e ridotta in funzione di atteggiamenti più autentici.
L’intimità delle comunicazioni tra le parti durante il programma riparativo permette loro di rivelare circostanze utili ad affrontare le conseguenze dell’offesa, ma potenzialmente sconvenienti per la loro immagine pubblica. Per questo occorrono delle precise forme di tutela che riguardano, innanzitutto, il dovere di riservatezza dei mediatori, del personale dei centri e degli stessi partecipanti, fino alla conclusione del programma e del procedimento penale, fermo restando il consenso dell’interessato e il rispetto della disciplina dei dati personali (art. 50 del decreto). Questo è un aspetto fondamentale per la protezione della vita privata delle parti.
Ma, poiché sullo sfondo del programma riparativo rimane l’ipoteca del procedimento penale o delle modalità di esecuzione della pena eventualmente irrogata, con le loro regole e i loro rischi (non solo per l’accusato), le rivelazioni permesse dal clima di intimità delle comunicazioni possono anche ripercuotersi negativamente proprio sul piano penale complementare, pregiudicando l’innocenza dell’accusato o la credibilità della vittima. Per questo è stata stabilita l’inutilizzabilità nel procedimento penale e nella fase dell’esecuzione della pena delle dichiarazioni e delle informazioni acquisite nel corso del programma (art. 51 del decreto). Per la stessa ragione, sono previsti una serie di divieti quanto a obblighi di deporre e di denuncia per il mediatore, di sequestro di carte e documenti circa l’oggetto del programma, di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni nei luoghi di svolgimento del programma o di quelle dei mediatori (art. 52 del decreto). Salvo, ovviamente, il limite costituito dalla necessità di evitare la commissione di gravi reati o qualora le dichiarazioni integrino di per sé un reato.
10. Gli esiti
Il legame di complementarità tra giustizia riparativa e giurisdizione penale opera (dovrebbe operare) solo a favore delle parti e, in modo particolare, a favore dell’accusato o del condannato, i quali hanno tutto l’interesse a trarre beneficio dall’esito positivo del programma riparativo. La mancata effettuazione del programma, l’interruzione o il mancato raggiungimento di un esito riparativo «non producono effetti sfavorevoli nei confronti della persona indicata come autore dell’offesa» (art. 58 del decreto). È questo meccanismo “a senso unico” che mi ha indotto a catalogare l’invio d’ufficio a un centro di giustizia riparativa disposto dal magistrato, ai sensi dell’art. 129-bis cpp, come “nudge”[54] e a ritenere infondate le preoccupazioni per una possibile violazione della presunzione d’innocenza.
Si è sostenuto, in uno dei primi commenti[55] alla disciplina degli esiti riparativi, che questa normativa abbraccerebbe una concezione della riparazione del danno nella sua dimensione globale: è un chiaro errore di inquadramento sulle funzioni della giustizia riparativa, il cui cuore e i cui limiti sono segnati dalla dimensione relazionale incentrata sull’offesa. Come ho avuto modo di precisare anche in precedenza, il lavoro riparativo ha un potere eventualmente risanante del rapporto tra gli interessati, con tutte le conseguenze dirette che questo comporta. Ma la giustizia riparativa non ha alcuna funzione di cura globale della vittima, non realizza servizi di cura nei suoi aspetti medici e psicologici, né si propone – come invece vuole la direttiva 2012/29/UE – di affrontare i molteplici bisogni materiali determinati, fin dall’immediatezza dei fatti, dalle perdite fisiche ed economiche. Non ha alcun compito di orientamento e accompagnamento per la soddisfazione di quei bisogni. Non prevede e non ambisce al lavoro sul trauma, tanto più quando si manifesti in forme gravi.
In caso di conclusione positiva del programma, il decreto prende in considerazione due ipotesi: l’esito simbolico e l’esito materiale.
Quanto all’esito simbolico, l’art. 56 del decreto stabilisce che esso è caratterizzato da «dichiarazioni», da «scuse formali», «impegni comportamentali pubblici o rivolti alla comunità», «accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi». Mi sembra che in questa categoria “simbolica” rientrino semplicemente delle forme dichiarative scritte od orali, alcune unilaterali (ad esempio, le scuse), altre reciproche o convergenti (ad esempio, accordi). Queste dichiarazioni comportano un esito positivo in quanto rappresentino una comune, accettabile soddisfazione per il percorso compiuto, soprattutto rispetto alle attese iniziali. Possiamo, dunque, intendere l’aspetto simbolico dell’esito riparativo, consistente in dichiarazioni, nel suo doppio significato letterale: sia una riparazione trascurabile dal punto di vista materiale e quantitativo ma, in qualche modo, significativa di un riconoscimento di un “obbligo” verso la parte lesa, sia una riparazione rappresentativa ed emblematica, di per sé, di un incontro soddisfacente per i protagonisti.
L’esito materiale – di cui parla l’art. 56, comma 3 del decreto – è costituito, in realtà, da una prestazione, da un “dare”, da un “fare” o da un “non fare”, anziché da un “dire”. Qui c’è evidentemente il rischio di confondere l’esito tangibile, valutabile del programma “dialogico” con le attività riparative in senso lato (o quasi-riparative), da cui il legislatore sembra aver voluto prendere le distanze in nome di una concezione restrittiva della giustizia riparativa. Da un lato, è evidente la differenza tra il mero risarcimento del danno e un risarcimento come conseguenza di un avvicinamento e di una reciproca comprensione tra vittima e persona indicata come autore del danno. Dall’altro lato, sarà la concreta applicazione della nuova disciplina a fornirci elementi utili per valutare l’utilità di questa tipologia di esito riparativo. Il “nuovo” art. 62, n. 6, cp contiene infatti un’aggiunta per contemplare l’effetto attenuante la pena dell’esito positivo di un programma riparativo.
Si deve, però, osservare un’incongruenza: mentre per l’art. 53, comma 3 del decreto l’esito è considerato positivo per il solo fatto dell’assunzione di «impegni comportamentali pubblici o rivolti alla comunità», secondo il “nuovo” art. 62, n. 6, cp, quando «l’esito riparativo comporti l’assunzione da parte dell’imputato di impegni comportamentali, la circostanza è valutata solo quando gli impegni sono stati rispettati». Dunque: mentre l’assunzione di un impegno pubblico potrà essere presa positivamente in considerazione di per sé – ad esempio, nella graduazione della pena –, potrà valere ai fini della circostanza attenuante generale ex art. 62, comma 1, n. 6, cp solo in conseguenza del rispetto degli impegni assunti. La ratio è facilmente rintracciabile: solo l’adempimento dell’obbligo assunto può essere equiparato – ai fini del beneficio di questa attenuante – all’esito riparativo di un programma che abbia previsto anche la partecipazione della vittima diretta (non di quella surrogata). In altri termini: il mancato adempimento dell’impegno assunto deve essere interpretato come fatto significativo della mancata soddisfazione dell’interesse pubblico o della comunità. Questa ricostruzione pone, però, un interrogativo: che differenza c’è tra un impegno comportamentale pubblico (ripulire un tratto di strada) – di per sé apprezzabile – assunto all’esito di un percorso riparativo cui, però, non si abbia dato seguito e un programma valutato negativamente proprio a causa dell’inadempimento degli impegni assunti?
Una disciplina simile, in tema di impegni comportamentali, è stata adottata per i reati perseguibili a querela con una modifica dell’art. 152 cp. La remissione della querela si considera tacita quando il querelante abbia partecipato al programma riparativo conclusosi positivamente. Ma: se l’esito riparativo consiste nell’assunzione da parte dell’imputato di impegni comportamentali, la remissione scatta solo se gli impegni siano stati rispettati.
C’è da chiedersi quanto sarà effettivamente appetibile per le persone offese la strada della giustizia riparativa nell’area dell’illecito perseguibile a querela. Il fallimento dell’impresa conciliativa fondata sul ruolo compositivo del giudice di pace nelle materie penali costituisce un chiaro monito. È ovvio che le funzioni giurisdizionali del giudice di pace non sono paragonabili a quelle mediative dei programmi di giustizia riparativa. Per contro, i giudici di pace avevano una diffusività territoriale che giustificava quanto meno l’auspicio di costituire un buon regolatore della microconflittualità che si esprime tipicamente attraverso le fattispecie perseguibili a querela.
Le risorse messe a disposizione della giustizia riparativa non potranno certo rimediare a quel fallimento. Secondo la Relazione tecnica[56] al decreto n. 150, «i Centri per la giustizia riparativa potranno essere finanziati mediante trasferimento di risorse agli enti locali a valere sulle disponibilità del Fondo di cui all’art. 67, considerato che l’onere stimato in euro 290.000 annui è stato calcolato in via prudenziale sulla base di un numero medio di strutture pari a due all’interno di ciascun distretto di Corte d’Appello e ad un costo medio unitario pari a 5.000 euro». Dunque: se si tiene conto che i centri di giustizia riparativa verranno prevalentemente richiesti – l’ipotesi è fondata sui dati raccolti dal Dipartimento della giustizia minorile e di comunità – nell’ambito di percorsi di messa alla prova e per ottenere benefici penitenziari, è del tutto evidente che mancheranno risorse umane ed economiche per soddisfare compiti e obiettivi di governo della microconflittualità. Quand’anche si raggiungesse il tetto di due centri di giustizia riparativa per ogni distretto di corte d’appello, la totale assenza di prossimità dei mediatori (se non per alcune medio-grandi città) costituisce un impedimento insormontabile rispetto a quella funzione compositiva. Sembra, pertanto, piuttosto lontano «l’obiettivo di ridurre le forme di conflittualità tra privati, tipicamente nel contesto dei rapporti di vicinato o dei rapporti interni alla comunità locale» che, nella disamina di una intelligente studiosa, dovrebbe proprio far leva sulla spinta propulsiva dell’ente locale per favorire la diffusione di una cultura riparativa[57].
Questi aspetti particolari degli esiti riparativi ci portano direttamente a esaminare il riparto di competenze tra mediatori e magistratura in ordine alla “valutazione” dell’esito riparativo.
Infatti: secondo l’art. 57 del decreto, il mediatore (qui al singolare) redige una relazione con la descrizione delle attività svolte e dell’esito riparativo raggiunto. Il mediatore compie un’attività valutativa dell’esito riparativo? Si è sostenuto che il mediatore non dovrebbe limitarsi a facilitare il dialogo. Per evitare di vanificare tutto il percorso mediativo con una valutazione ex post da parte del magistrato, il mediatore sarebbe abilitato a compiere «una valutazione su liceità, ragionevolezza e proporzionalità»[58] dell’esito del programma e, in particolare, degli accordi raggiunti dalle parti.
In realtà la «valutazione», secondo la sez. II del capo III del titolo IV del decreto n. 150, risulta essere un’attribuzione riservata all’autorità giudiziaria. Al mediatore spetta un compito descrittivo tanto dell’attività quanto dell’esito del programma riparativo: il che non esclude un approfondimento sulle incertezze e sulle ambivalenze nel comportamento delle parti. Se vi fosse una valutazione anche da parte del mediatore, si dovrebbe prospettare un inammissibile conflitto con il magistrato tutte le volte che questi non condivida quella dell’operatore del centro di giustizia riparativa; occorrerebbe attribuire al mediatore un potere giurisdizionale – sia pure in condominio con l’autorità giudiziaria – nella determinazione della pena o nella concessione o meno dei benefici previsti dalla disciplina organica in commento. Si tratta di una valutazione – quella del magistrato – che incide sulla gradazione della pena tra i limiti edittali, sulla concessione di circostanze attenuanti (artt. 62, n. 6, e 62-bis cp), sull’esito della messa alla prova, sui benefici penitenziari e sulle misure alternative, sulle misure penali di comunità per i minorenni, sugli esiti estintivi del reato e della pena anche per i fatti di competenza del giudice di pace.
Come si è osservato in precedenza, l’esito negativo del programma riparativo (la mancata effettuazione, l’interruzione o il mancato raggiungimento di un esito riparativo) non produce effetti sfavorevoli nei confronti della persona indicata come autore dell’offesa (art. 58, comma 2 del decreto n. 150). A maggior ragione, la relazione del mediatore non solo dovrebbe essere descrittiva ma, soprattutto, massimamente sintetica.
11. L’organizzazione
Sono convinto che il successo della riforma “riparativa” dipenderà essenzialmente dal funzionamento e dalla messa a punto della macchina organizzativa che sosterrà i servizi di giustizia riparativa.
Nel corso degli ultimi trent’anni, si sono moltiplicate – soprattutto nel settore della giustizia minorile – le attività riparative e, in particolare, si sono diffusi centri di mediazione penale che hanno garantito lungo tutta la penisola e le isole la formazione e la sensibilizzazione di diverse centinaia di operatori, spesso organizzati attraverso associazioni e cooperative. Il Ministero della giustizia e, a volte, anche gli enti locali hanno permesso – sia pure sempre in forma precaria – la sopravvivenza delle esperienze che, finalmente, la Ministra Cartabia ha ritenuto dovesse essere messa a sistema.
Questo sistema ruota intorno alla figura del mediatore, che opera sempre in formazione collegiale, anche se, in concreto, i colloqui preliminari con le parti separatamente potranno essere condotti da un solo mediatore (art. 54, comma 1 del decreto). Proprio perché la mediazione penale ha, ormai, una sua storia risalente di qualche decennio, le disposizioni transitorie hanno previsto l’inserimento nell’elenco dei mediatori esperti (art. 60 del decreto) – che abilita alla conduzione del dialogo riparativo – coloro che hanno, alla data di entrata in vigore del decreto stesso, completato una formazione alla giustizia riparativa e con un’esperienza almeno quinquennale (purché acquisita nel decennio precedente). Possono essere iscritti nell’elenco anche coloro che, alla data di entrata in vigore del decreto, avevano completato una formazione teorica e pratica equipollente a quella prevista per i “nuovi” mediatori. Infine, possono essere inseriti nell’elenco coloro che prestano servizio «presso i servizi minorili della giustizia o gli uffici di esecuzione penale esterna», sempre che abbiano completato un’adeguata formazione (art. 93 del decreto). Quest’ultima disposizione denuncia un pregiudizio negativo nei confronti degli operatori che hanno operato all’interno di servizi di assistenza alle vittime, siano essi pubblici che privati, ai quali non è concessa l’iscrizione nell’elenco, a conferma di un evidente sbilanciamento – anche sotto l’aspetto della formazione degli operatori – nella valorizzazione degli interessi in gioco. La circostanza colpisce perché la formazione pratica dei mediatori – secondo l’art. 59, comma 6 del decreto – deve fornire competenze e abilità «con specifica attenzione alle vittime, ai minorenni e alle persone vulnerabili».
Per i futuri mediatori, l’iscrizione all’elenco prevede una formazione iniziale di almeno 240 ore, di cui un terzo dedicate alla teoria e due terzi alla pratica, seguite da 100 ore di tirocinio presso il centro di giustizia riparativa. I mediatori hanno l’obbligo di un aggiornamento annuale di 30 ore. Le materie di base sono: diritto e procedura penale, diritto penitenziario, diritto minorile, criminologia, vittimologia e «materie correlate».
La formazione teorica sarà curata dalle università, mentre quella pratica dagli stessi centri di giustizia riparativa e, in particolare, da mediatori esperti che abbiano una lunga esperienza e attitudini alla formazione. Occorre la laurea e il superamento di una prova culturale e attitudinale. Il percorso formativo si conclude con una prova teorico-pratica. Forme e tempi della formazione saranno disciplinati da un decreto del Ministro della giustizia. Sempre presso il Ministero della giustizia è istituito l’elenco dei mediatori esperti.
Il centro per la giustizia riparativa è, dunque, il motore di questa riforma e il suo funzionamento dovrà essere garantito dall’ente locale. Come ho ricordato in precedenza, secondo la Relazione tecnica allegata al decreto, le risorse economiche permetteranno, al più, l’istituzione di due centri per ogni corte d’appello, salvo ovviamente investimenti aggiuntivi da parte degli stessi enti locali che, in tempi di vacche magre, sono da escludersi. L’ente locale potrà organizzare direttamente il servizio oppure stipulare un contratto d’appalto o, ancora, convenzionarsi con un ente del terzo settore. Il contratto d’appalto o la convenzione dovranno prevedere caratteristiche e modalità di svolgimento dei programmi di giustizia riparativa, la durata, gli obblighi e le modalità di copertura assicurativa, le forme di controllo amministrativo da parte dell’ente locale nonché i casi di decadenza e di risoluzione per inadempimento. Ovviamente, il personale che svolge i programmi di giustizia riparativa dovrà possedere la qualifica di «mediatore esperto» (art. 64 del decreto) e il centro stesso sarà responsabile del trattamento di tutti i dati personali dell’utenza (art. 65 del decreto).
I centri verranno coordinati all’interno di ogni distretto di corte d’appello da una «Conferenza locale» composta da rappresentanti del Ministero della giustizia, della Regione, delle Province o Città metropolitane, dei Comuni sedi di uffici giudiziari e di ogni altro Comune nel quale siano in atto esperienze di giustizia riparativa. Infatti, uno dei primi compiti della conferenza locale sarà proprio quello di assicurare una ricognizione delle esperienze di giustizia riparativa (art. 63 del decreto) secondo una prospettiva piuttosto singolare: una ricognizione avrebbe dovuto essere fatta preliminarmente alla disciplina organica e non a seguire. Ancora più singolare è la previsione di svolgere questa ricognizione anche sulla base delle indicazioni delle autorità giudiziarie del distretto di corte d’appello e del Consiglio dell’Ordine degli avvocati che, salvo rarissime eccezioni, non conoscono quelle esperienze. Di fatto, pertanto, la ricognizione sarà affidata ai sei esperti-consulenti della Conferenza nazionale per la giustizia riparativa, che saranno senz’altro scelti tra coloro che, in questi decenni, hanno lavorato sul campo, soprattutto attraverso attività di formazione e sensibilizzazione (artt. 61, comma 2, e 63, comma 5 del decreto).
La conferenza locale individuerà gli enti locali disponibili presso cui installare un centro di giustizia riparativa, in modo che siano garantiti il fabbisogno del servizio, l’offerta di tutta la gamma dei programmi di giustizia riparativa e i livelli essenziali delle prestazioni «con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica» (art. 63, comma 6 del decreto).
I servizi di giustizia riparativa di tutto il Paese verranno coordinati dal Ministero – avvalendosi della Conferenza nazionale – per la programmazione delle risorse, la proposta dei livelli essenziali delle prestazioni e il monitoraggio dei servizi erogati. La Conferenza è composta dal Ministro e dai rappresentanti delle Regioni e dei Comuni, dal rappresentante della Cassa delle ammende e da sei esperti con funzioni di consulenza tecnico-scientifica.
Per garantire il funzionamento del sistema è stato istituito un fondo di euro 4.438.524, a decorrere dall’anno 2022. Il Ministro della giustizia stabilirà con decreto, ogni anno, la quota da trasferire agli enti presso i quali sono stati istituiti i centri per la giustizia riparativa.
1. https://i2.res.24o.it/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/QUOTIDIANI_VERTICALI/Online/_Oggetti_Embedded/Documenti/2021/03/19/Cartabia%20Linee%20programmatiche%20marzo%202021%20totale%2018_03%20Senato.pdf.
2. www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.page?contentId=SPS322404&previsiousPage=mg_2_5_11.
3. Alcune osservazioni sui compiti “promozionali” del Ministero della giustizia in questa materia erano state sviluppate in questa Rivista trimestrale: vds. M. Bouchard e F. Fiorentin, Sulla giustizia riparativa, 23 novembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/sulla-giustizia-riparativa).
4. Mi riferisco al 2° Rapporto nazionale sulla Giustizia riparativa in area penale, curato da I. Mastropasqua e N. Buccellato, in Quaderni dell’Osservatorio sulla devianza minorile in Europa (Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità - Centro europeo di studi di Nisida), Gangemi, Roma, giugno 2022.
5. Ivi, p. 164.
6. Ivi, p. 165.
7. Ivi, p. 167.
8. G. Mannozzi e G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, Giappichelli, Torino, 2017, p. 369.
9. Ivi, p. 370.
10. Secondo L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 329: «la legge penale è giustificata in quanto legge del più debole, finalizzata alla tutela dei suoi diritti contro la violenza arbitraria».
11. R. Bartoli, Una breve introduzione alla giustizia riparativa nell’ambito della giustizia punitiva, in Sistema penale, 29 novembre 2022.
12. Vds. la Relazione illustrativa al d.lgs 10 ottobre 2022, n. 150, in G.U., Supplemento straordinario n. 5, 19 ottobre 2022, p. 556, commento art. 59 («Formazione dei mediatori esperti in programmi di giustizia riparativa»).
13. I primi casi in Europa sono stati registrati negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, in Inghilterra, Norvegia e Finlandia, mentre in Italia compaiono agli inizi degli anni novanta.
14. H. Zehr, Retributive Justice, restorative justice, in New perspectives on crime and justice: Occasional Papers of the MCC Canada Victim Offender Ministries Program and the MCC U.S. Office of Criminal Justice, n. 4/1985 (vds. www.antoniocasella.eu/restorative/Zehr_1985.pdf), t.n.
15. V. Bonini, Una riforma organica della giustizia riparativa tra attese decennali e diffidenze contemporanee. Definizioni, principi e obiettivi (artt. 42-46), in G. Spangher (a cura di), La riforma Cartabia. Codice penale – Codice di procedura penale – Giustizia riparativa, Pacini, Pisa, 2022, p. 731.
16. Sulla distinzione della comunità come vittima o danneggiata, come destinatario per il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo e come attore sociale, vds. G. Mannozzi e G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa, op. cit., pp. 92 ss.
17. Vds. Relazione illustrativa, cit., p. 532.
18. Luigi Ferrajoli, Diritto e ragione, op. cit., p. 328.
19. M. Donini, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, in Diritto penale contempraneo, n. 2/2015, p. 246. Ma si vedano le critiche mosse da G. Fiandaca, Note su punizione, riparazione e scienza penalistica, in Sist. pen., 28 novembre 2020.
20. F. Brunelli, Programmi di giustizia riparativa, in G. Spangher (a cura di), La Riforma Cartabia, op. cit., pp. 756 ss.
21. Ivi, pp. 758 e 759. Secondo l’Autrice, verrebbe anche superata la visione vittimo-centrica della direttiva 2012/29/UE. In realtà, la direttiva non ha alcuna visione della giustizia riparativa come non ce l’ha della giustizia ordinaria. La direttiva si limita a stabilire quali siano i diritti delle vittime in ogni contesto con il quale entrano in contatto in conseguenza di un fatto-reato: un’autorità pubblica, non necessariamente giudiziaria, servizi di assistenza o di giustizia riparativa, forze dell’ordine, per fare solo alcuni esempi.
22. Relazione illustrativa, p. 538.
23. Ibid.
24. Mi riferisco soprattutto ai numerosi interventi, comparsi sul quotidiano Il Dubbio nell’estate 2022, di accademici quali Valentina Bonini e Oliviero Mazza, e di avvocati quali Lorenzo Zilletti, Michele Passione e Gianluca Gambogi.
25. Come ho ricordato in precedenza, il 2° Rapporto nazionale sulla Giustizia riparativa riferisce percentuali rilevanti di valutazioni di “non fattibilità” della mediazione rispetto agli invii dell’autorità giudiziaria: 25% nell’area minorile; 40% tra gli adulti.
26. Così la Relazione illustrativa, p. 578.
27. O. Mazza, Il decreto attuativo della riforma Cartabia (ignorato dai partiti) ha vizi di costituzionalità, Il Dubbio, 20 agosto 2022, ha definito apertamente la riforma «un sistema di decisionismo processuale avente carattere anti-cognitivo e potestativo, in cui l’efficienza repressiva è il portato di un sostanzialismo etico».
28. L. Zilletti, Nella giustizia riparativa di Cartabia insidie che è difficile minimizzare, Il Dubbio, 27 agosto 2022.
29. R.H. Thaler e C.R. Sunstein, Nudge. La spinta gentile, Feltrinelli, Milano, 2014.
30. F. Brunelli, Programmi, op. cit., p. 765.
31. J.-F. Six, Le temps des médiateurs, Seuil, Parigi, 2015.
32. Comunicato ufficiale del Ministero della giustizia, 5 agosto 2022.
33. Così la Relazione illustrativa, pp. 577-578.
34. V. Bonini, Una riforma organica, op. cit., p. 733.
35. F. Brunelli, Programmi, op. cit., p. 772.
36. Vds. Commentaire à la Recommandation CM/Rec (2018) XX du Comité des Ministres aux Etats membres relative à la justice restaurative en matière pénale, Strasburgo, 20 aprile 2018 (https://rm.coe.int/pc-cp-2017-12-f-rev-5-commentaire-a-la-recommandation-cm-rec-2018-xx-r/16807bcf61).
37. S. Allegrezza, Il ruolo della vittima nella direttiva 2012/29/UE, in L. Luparia (a cura di), Lo Statuto europeo delle vittime di reato. Modelli di tutela tra diritto dell’Unione e buone pratiche nazionali, CEDAM-Wolters Kluwer, Milano, 2015, p. 5. In giurisprudenza, Trib. Torino, sez. gip, ord. 28 gennaio 2014, in Dir. pen. cont., 3 marzo 2014; Corte appello Catania, 15 luglio 2021, in La Magistratura (https://lamagistratura.it/giurisprudenza-di-merito/?meta_entegiudicanteeluogo=Corte%20di%20appello%20di%20Catania).
38. F. Dünkel - J. Grzywa-Holten - P. Horsfield, Restorative Justice and Mediation in Penal Matters. A stock-taking of legal issues, implementation strategies and outcomes in 36 European countries, Forum Verlag Godesberg, Mönchengladbach, 2015.
39. Relazione illustrativa, pp. 591-592.
40. Vds. la Relazione governativa (www.penale.it/legislaz/rel_dlgs_28_8_00_274.htm#uno).
41. Non si ottiene maggiore chiarezza con Federica Brunelli, Programmi, op. cit., pp. 760-761, che fa rientrare il dialogo allargato a gruppi parentali (family e community group conferencing) nella lettera b.
42. Relazione illustrativa, p. 550.
43. G. Mannozzi e G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa, op. cit., p. 292.
44. Ivi, p. 242.
45. F. Brunelli, Programmi, op. cit., p. 757.
46. Tra i minori, sono state registrate circa 800 mediazioni victim-offender, circa 700 attività riparative coerenti con il reato e circa 400 incontri di ascolto con le vittime di reato. Tra gli adulti, sono state registrate circa 300 mediazioni victim-offender, circa 500 attività riparative coerenti con il reato e poco meno di 200 incontri di mediazione allargata/gruppi di discussione. Vds. il più volte citato 2° Rapporto nazionale, p. 165.
47. Ivi, p. 169.
48. Sulla vittima surrogata, vds. M. Bouchard e F. Fiorentin, Sulla giustizia riparativa, op. cit., par. 10.
49. Relazione illustrativa, p. 532.
50. Ibid.
51. Trib. sorv. Venezia, ord. 7 gennaio 2012, n. 5 (pres. Pavarin, imp. M.O.); G. Mannozzi, La reintegrazione sociale del condannato tra rieducazione, riparazione ed empatia, in Dir. pen. proc., n. 7/2012, pp. 833 ss., laddove l’incontro del condannato con l’Associazione costituitasi tra le vittime dei reati commessi dagli appartenenti al gruppo criminale di cui il condannato faceva parte e con i genitori di una delle vittime non era stato possibile. In quel caso, aveva dato la propria disponibilità il figlio di un maresciallo ucciso dalle Brigate Rosse.
52. E. Mattevi, La rieducazione nella prospettiva della giustizia riparativa: il ruolo della vittima, in A. Meneghini e E. Mattevi (a cura di), La rieducazione oggi. Dal dettato costituzionale alla realtà del sistema penale (Atti del convegno di Trento, 21-22 gennaio 2022), in Quaderni della Facoltà di giurisprudenza, Università di Trento, 2022, p. 75.
53. G. Mannozzi e G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa, op. cit., p. 265.
54. M. Bouchard, Giustizia riparativa, se la vittima diventa “pietra d’inciampo”, Il Dubbio, 21 settembre 2022.
55. F. Brunelli, Programmi, op. cit., p. 768, in cui si fa riferimento alla «dimensione emotiva, psicologica, relazionale dell’offesa, che riguarda la produzione di insicurezza personale e collettiva, le modificazioni degli stili di vita, delle abitudini e del comportamento».
56. Vds. la Relazione tecnica allo schema di decreto legislativo recante attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, pp. 131 ss.
57. A. Lorenzetti, Giustizia riparativa ed enti locali: quale possibile ruolo?, in Queste istituzioni, n. 1/2021, p. 130. L’articolo fa espresso riferimento alla possibilità per l’ente locale di inserire «clausole riparative» ai fini dell’aggiudicazione di appalti pubblici locali, di favorire la formazione dei propri dipendenti anche in funzione di un buon governo della conflittualità interna, nonché di promuovere direttamente la giustizia riparativa attraverso la sensibilizzazione della popolazione locale. Dello stesso Autore, si segnala: Giustizia riparativa e dinamiche costituzionali. Alla ricerca di una soluzione costituzionalmente preferibile, Franco Angeli, Milano, 2018.
58. F. Brunelli, Programmi, op. cit., p. 769.