La “Fabbrica di San Pietro” della giustizia penale
Per descrivere lo stato dell’arte dei lavori legislativi sulla giustizia penale è ormai d’obbligo attingere alle metafore “stanche” che designano un eterno lavorio, il rifacimento dell’appena fatto, la riscrittura del già deciso: la Fabbrica di San Pietro, la tela di Penelope, la fatica di Sisifo et similia. Mentre ci si accinge ad abrogare totalmente il reato di abuso d’ufficio, ignorando le argomentate critiche di larga parte della dottrina penalistica e dei magistrati impegnati sul campo, si propone anche di rimettere mano alla tormentata disciplina della prescrizione, già oggetto di tre interventi riformatori succedutisi nell’arco di pochi anni. L’auspicio di quanti operano nel mondo della giustizia è che la normativa in tema di prescrizione, per la straordinaria rilevanza degli interessi in gioco, cessi di essere terreno di uno scontro pregiudiziale delle forze politiche e divenga oggetto di una soluzione largamente condivisa e perciò destinata – finalmente – a durare nel tempo.
1. Ad Usum Fabrice / 2. Il reato di abuso d’ufficio: la discutibile scelta dell’abolitio criminis / 3. Si ritorna a parlare di prescrizione / 4. La ricerca di una soluzione largamente condivisa e perciò destinata a durare
1. Ad Usum Fabrice
«A.U.F.», ovvero «Ad Usum Fabrice».
Era questa la stampigliatura impressa sui materiali destinati al cantiere della Basilica di San Pietro che, in omaggio alla loro sacra destinazione, potevano attraversare i posti delle dogane pontificie senza pagare dazio.
A far tempo dal lontano 1506, data di inizio della secolare costruzione della basilica vaticana, a Roma l’espressione “Fabbrica di San Pietro” è divenuta sinonimo di beni e servizi ottenuti gratuitamente oppure di cantiere sempre aperto e mai concluso.
È dunque irresistibile e quasi obbligata l’evocazione della “Fabbrica di San Pietro” nell’assistere all’incessante lavorio del Governo e del Parlamento sulle regole del processo penale, accompagnato da più sporadici interventi su alcuni temi di diritto penale sostanziale.
Ma potrebbero risultare appropriate anche altre metafore “stanche”, ripetute e abusate – la tela di Penelope, la fatica di Sisifo et similia – che designano un eterno lavorio, il ripensamento dell’appena deciso, il ritornare sul già scritto per riscriverlo e magari stravolgerlo.
Come ricorda Andrea Natale nell’Introduzione al fascicolo, da lui curato con maestria e pazienza, la nostra Rivista, dopo aver pubblicato un articolato commento della legge delega per la riforma del sistema penale (Questione giustizia, n. 4/2021), ritorna sul tema con un nuovo numero monografico dedicato alla riflessione sul decreto delegato.
Si è dunque appena conclusa la prima fase di analisi e di studio su di un intervento innovatore ampio e ambizioso, ancorché in più punti molto discutibile e discusso, e certamente impegnativo per tutti gli operatori della giustizia penale.
Ma mentre pubblichiamo i risultati di questa fatica collettiva – ben illustrata nell’Introduzione di Natale, che apre la raccolta degli scritti – riprende o, meglio, ricomincia da capo la sequela dei progetti e dei provvedimenti di “riforma”.
Da un lato, infatti, il Consiglio dei ministri approva il disegno di legge in materia di giustizia penale del Ministro della giustizia Carlo Nordio, che si accinge a presentarlo in Senato come il primo di una lunga serie di interventi sui codici di diritto e procedura penale.
Dall’altro lato, la Camera dei deputati preannuncia che sarà impegnata nell’ennesimo tentativo di riscrittura del regime della prescrizione.
Le “riforme”, dunque, si inseguono e si accavallano, e talora vengono modificate prima ancora di entrare in vigore, costringendo magistrati, avvocati, accademici a una continua ed estenuante ginnastica.
Esercizio di agilità intellettuale che vale forse a preservare gli operatori della giustizia dai rischi di un precoce decadimento mentale, ma di certo poco giova alle tante volte invocata chiarezza e certezza del diritto.
2. Il reato di abuso d’ufficio: la discutibile scelta dell’abolitio criminis
Questione giustizia dedicherà al “ddl Nordio” analitiche riflessioni, centrate sul tema dei divieti di pubblicazione delle intercettazioni telefoniche dei terzi “estranei” e sulla scelta, peraltro circoscritta, di procedere all’interrogatorio prima dell’arresto nonché su quella, peraltro differita nel tempo, di affidare la decisione sulla custodia cautelare in carcere a un collegio di tre magistrati.
In tutti questi casi vi è uno scarto evidente tra l’enfasi propagandistica con cui le nuove misure vengono presentate all’opinione pubblica e la loro effettiva sostanza.
La “riforma Orlando” aveva già introdotto un rigoroso regime di accertamento della rilevanza processuale delle intercettazioni e di scarto di quelle irrilevanti, conservate, sotto la responsabilità dei procuratori della Repubblica, in un archivio riservato.
Oggi, all’interno del più ampio cerchio delle intercettazioni processualmente “rilevanti” tracciato dalla legge Orlando, il Ministro Nordio propone di rendere pubblicabili le sole intercettazioni menzionate nei provvedimenti dei giudici o utilizzate nel dibattimento.
Se si considera che, ai sensi della normativa sulla presunzione di innocenza, è il pubblico ministero a decidere di quali indagini dare notizia all’opinione pubblica e che, in base alla proposta di legge Nordio, nella lunga fase delle indagini e prima del dibattimento saranno i giudici a decidere delle conversazioni intercettate “pubblicabili” (richiamandole o meno nei loro provvedimenti), si profila una sorta di prolungato monopolio giudiziario dell’informazione che certo non gioverà alla sua adeguatezza e correttezza.
A presidio dei divieti di pubblicazione resta comunque il solo reato contravvenzionale di cui all’art. 684 cp, «Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale», aperto alla possibilità dell’oblazione, mentre resta inesplorata la strada di incisive sanzioni civili di carattere economico, l’unica davvero in grado di dissuadere dal pubblicare le conversazioni, penalmente irrilevanti, dei terzi estranei ai reati che siano stati intercettati nel corso delle indagini.
Radicale è, invece, la scelta compiuta sul versante del diritto penale sostanziale con la proposta di abrogazione totale della norma incriminatrice del reato di abuso d’ufficio. Una abolitio criminis che avrà l’effetto di un vero e proprio colpo di spugna, cancellando le 3623 condanne definitive che, per tale reato, risultano dal Casellario giudiziario tra il 1997 e il 2022, e priverà il sistema penale di una rete di chiusura pensata «per punire abusi di potere e conflitti di interesse che non integrano più gravi reati contro la pubblica amministrazione»[1]. Con l’effetto di rendere penalmente irrilevante perfino l’omessa astensione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio in presenza di «un interesse proprio o di un prossimo congiunto» proprio nella fase di attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che tra l’altro «consente affidamenti diretti fino a 150.000 euro»[2].
Se al depotenziamento del diritto penale si aggiunge l’evidente insofferenza manifestata dal Governo nei confronti dei controlli di natura amministrativa e contabile (si veda la vicenda della cancellazione del controllo concomitante della Corte dei conti sugli atti relativi all’attuazione del PNRR) si chiude un perfetto circolo vizioso per cui «da un lato si riducono i controlli amministrativi, sostenendo che se ci sono reati interverrà il magistrato penale, dall’altro lato si eliminano e riscrivono i reati, dicendo che saranno sufficienti i controlli amministrativi “mentre” in realtà sono depotenziati entrambi»[3].
All’indomani dell’abrogazione dell’art. 323 cp, sul versante dei reati contro la pubblica amministrazione si procederà dunque “senza rete” e, soprattutto, in «violazione degli obblighi internazionali che derivano dall’adesione dell’Italia alla Convenzione ONU sul contrasto alla corruzione e degli obblighi istituzionali e costituzionali che derivano dall’essere parte dell’Unione»[4].
Fin qui gli argomentati rilievi critici mossi da accademici e magistrati alla prospettiva abolizionista del reato hanno lasciato insensibile il Ministro della Giustizia, ma dovrebbero interessare maggiormente i parlamentari in sede di discussione del disegno di legge, suggerendo soluzioni diverse dall’integrale abolitio criminis e scelte più rispettose degli obblighi internazionali ed europei del nostro Paese.
3. Si ritorna a parlare di prescrizione
Su di un altro versante, nei lavori della Camera dei deputati si ritorna a parlare di prescrizione.
Come è noto, in questa materia si sono succeduti, nel ventennio che ci sta alle spalle, quattro interventi di riforma.
Dapprima la legge 5 dicembre 2005, n. 251 – denominata legge “ex Cirielli” dopo il ripudio del suo proponente – ha profondamente modificato l’impianto originario del codice del 1930, introducendo nuovi criteri di calcolo del tempo necessario alla prescrizione e dilatazioni della durata della prescrizione per i recidivi nonché per i delinquenti abituali o professionali.
Successivamente, nell’arco di un quadriennio, la l. 27 giugno 2017, n. 103, nota come “riforma Orlando”, la l. 9 gennaio 2019, n. 3, cd. “riforma Bonafede”, e infine la “riforma Cartabia”, approvata con l. 27 settembre 2021, n. 134, hanno variamente rimodellato l’istituto della prescrizione, riscrivendone modi e tempi e affiancandolo, da ultimo, nella legge Cartabia, con un’inedita causa di improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione prevista nell’art. 344-bis del codice di rito.
Nella presente legislatura, la diffusa insoddisfazione e le meditate preoccupazioni nei confronti della mediazione contenuta nella legge Cartabia e del conseguente binomio “prescrizione sostanziale in primo grado - improcedibilità dell’azione nei giudizi di impugnazione” in essa disegnato hanno ispirato le presentazione di numerose proposte di legge sostanzialmente mirate a riportare indietro le lancette dell’orologio della prescrizione.
È particolarmente significativo che tali proposte provengano da forze politiche diverse, di maggioranza e di opposizione.
È infatti un deputato del partito di Italia Viva, Enrico Costa, l’unico firmatario della proposta di legge (AC n. 745, XIX legislatura) che propone di «ripristinare, in un quadro di coerenza sistematica, la precedente disciplina della prescrizione sostanziale come disciplinata dalla legge Orland0, in tutti i gradi di giudizio».
Appartiene invece al partito di Forza Italia l’On. Pittalis , primo firmatario di una proposta (AC n. 893, XIX legislatura) fortemente critica dell’attuale «sistema binario di prescrizione sostanziale e prescrizione procedurale» e intenzionata a «riportare l’istituto della prescrizione alla sua funzione e natura primigenie» di causa estintiva del reato commisurata sul tempo dell’oblio del reato e della cessazione dell’allarme sociale da esso generato».
Sono, infine, parlamentari del partito di Fratelli d’Italia l’On. Ciro Maschio e altri, i firmatari della proposta di legge n. 1036 (XIX legislatura), recante «Modifiche al codice penale in materia di prescrizione del reato».
Nell’ampia Relazione introduttiva di questa proposta di legge viene ripercorsa la successione delle leggi in materia di prescrizione e si riservano considerazioni critiche tanto alla riforma Bonafede quanto alla legge Cartabia, per giungere alla conclusione che è necessario «il ripristino della prescrizione sostanziale, anche variamente gradata sulla gravità e tipologia del reato o sulla pericolosità sociale accertata del reo, al fine di scongiurare quell’universo concentrazionario di indagati e di imputati a vita improvvidamente introdotto nel corso della precedente legislatura».
La proposta di legge mira perciò a «reintrodurre la disciplina relativa alla prescrizione previgente all’abrogazione attuata dalla riforma Bonafede», cioè in sostanza la legge Orlando.
Ai naviganti che si avventurino nelle acque agitate dei lavori parlamentari va, però, lanciato un warning.
Mentre la proposta di legge dell’On. Pittalis, che mira a “restaurare” il regime prescrizionale classico (anteriore alla riforma Orlando), prevede l’abrogazione dell’art. 344-bis del codice di rito – cioè della norma che ha introdotto l’istituto dell’improcedibilità dell’azione – né la proposta che reca la firma dell’On. Costa né quella che ha come primo firmatario l’On. Maschio ne contemplano la cancellazione.
Esse prefigurano perciò la “coesistenza” tra i meccanismi della riforma Orlando (regime di temporanea sospensione della prescrizione nei giudizi di impugnazione) e il congegno estintivo dell’improcedibilità dell’azione introdotto dalla riforma Cartabia.
Soluzione, questa, insostenibile tanto per le contraddizioni di natura sistematica che introdurrebbe nella disciplina della prescrizione, quanto per gli effetti, del tutto imprevedibili, che la descritta “coabitazione” produrrebbe a contatto con la multiforme realtà dei giudizi e delle loro vicende temporali.
Essendo questo lo stato dei lavori parlamentari, è legittimo porsi più di un interrogativo.
La ripresa dell’iniziativa legislativa in tema di prescrizione, per il momento fondata su basi fragili e poco coerenti, comporta il rischio che il legislatore finisca con l’infilarsi in una nuova impasse?
E non sarebbe più saggia una moratoria, in attesa di verificare effetti e risultati dell’ultima normativa sulla prescrizione – la legge n. 134 del 2021 – approvata grazie alla mediazione promossa dalla Ministra Cartabia?
La risposta a queste domande dipende dal giudizio che si dà della coerenza e dell’efficacia dell’istituto dell’improcedibilità, in una parola: della capacità di “tenuta” di tale nova res, valutata alla luce dei parametri di eguaglianza e ragionevolezza e dei principi del processo scritti in Costituzione.
4. La ricerca di una soluzione largamente condivisa e perciò destinata a durare
Chi scrive ha già avuto modo di osservare che l’addizione e la messa in sequenza del regime della prescrizione sostanziale e dell’improcedibilità dell’azione non garantirà solidi equilibri nello svolgimento dei processi[5].
Vi saranno infatti processi «rapidamente definiti in primo grado che potranno estinguersi per il mancato rispetto dei termini per la celebrazione dei giudizi di impugnazione (in particolare di appello) quando sarà ancora lontano il termine della prescrizione sostanziale», così come vi saranno «processi che si concludono in primo grado a ridosso della scadenza del termine di prescrizione sostanziale e che verranno prolungati, oltre il termine dell’oblio sociale da questa regolato, a causa dell’entrata in funzione degli ulteriori termini procedurali previsti per i giudizi di appello e di cassazione, assistiti dalla sanzione dell’improcedibilità»[6].
Nel magma dei “casi” concreti potrà dunque essere contraddetta o alterata – per difetto o per eccesso – la logica che collega il venir meno della pretesa punitiva dello Stato al decorso di un determinato lasso di tempo dalla commissione del reato in ragione della “forza deleteria del tempo” e del venir meno dell’interesse pubblico alla repressione di fatti criminosi molto risalenti[7].
Ai dubbi di costituzionalità che potranno scaturire da situazioni come quelle ora descritte si aggiungeranno quelli sulla ragionevolezza del regime delle proroghe, che differenzia la posizione degli imputati di uno stesso reato in ragione dei caratteri propri del processo nel quale sono coinvolti e delle differenti valutazioni delle corti sulla complessità dei processi, con il rischio di generare casuali e irrazionali disparità di trattamento (art. 3 Cost.).
E lo stesso principio di ragionevole durata del processo potrebbe risultare violato e contraddetto dalla possibilità del susseguirsi, senza limiti di tempo, di “ulteriori” proroghe per i processi riguardanti i reati di maggiore allarme sociale[8].
Ai molteplici dubbi di legittimità costituzionale del compromesso Cartabia si aggiungono, poi, i complessi problemi di coordinamento posti dall’immissione nell’ordinamento del novum dell’improcedibilità dell’azione.
Tutto ciò rende particolarmente allettante, agli occhi di chi scrive, la prospettiva di tirarsi fuori, finché si è ancora in tempo, da un ginepraio che si preannuncia inestricabile, ripristinando la più lineare disciplina della prescrizione dettata dalla legge 27 giugno 2017, n. 103.
A patto, naturalmente, che il ripristino della legge Orlando sia considerato come “alternativo” e non “concomitante” con il regime dell’improcedibilità dell’azione, che dovrebbe essere cancellato abrogando il neonato art. 344-bis del codice di procedura penale.
Comunque, quali che siano le loro personali opinioni e preferenze, nel prossimo futuro professori, magistrati e avvocati dovranno seguire con attenzione i lavori parlamentari e le audizioni appena iniziate alla Camera dei deputati per comprendere quale sarà la direzione di marcia prescelta dal legislatore.
Con l’auspicio che la normativa in tema di prescrizione, per la straordinaria rilevanza degli interessi in gioco, cessi di essere terreno di uno scontro pregiudiziale delle forze politiche e divenga oggetto di una soluzione largamente condivisa e perciò destinata – finalmente – a durare nel tempo.
Luglio 2023
1. Così G. Gatta, intervistato da L. Milella: Gatta boccia la riforma, La Repubblica, 16 giugno 2023.
2. Il dato è sottolineato da chi scrive nell’intervista a G. Salvaggiulo: Guanti di velluto coi colletti bianchi in una logica da Far West, La Stampa, 15 giugno 2023.
3. Ivi.
4. In questi termini D. Ceccarelli, viceprocuratore EPPO (European Public Prosecutor’s Office), intervistato da L. Milella, Cancellare il reato di abuso di ufficio ci mette contro l’Europa, La Repubblica, 14 giugno 2023, dove si sottolinea tra l’altro che, «quando la condotta del pubblico ufficiale può avere un impatto sugli interessi finanziari dell’Unione, la criminalizzazione è imposta dalla Direttiva sulla Protezione degli interessi finanziari dell’Unione, che è la base normativa sostanziale dell’azione della Procura Europea».
5. Mi sia consentito rinviare sul punto al mio scritto, Sui tempi del processo si profila un cattivo compromesso, in Questione giustizia online, 19 luglio 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/sui-tempi-dei-processi-si-profila-un-cattivo-compromesso).
6. Su questi profili e sugli aspetti di possibile contrasto della legge n. 134/2021 con la Costituzione, cfr. il mio contributo, La disciplina del tempo del processo alla prova della prassi, in R.E. Kostoris e R. Orlandi (a cura di), Nuovi limiti temporali per l’accertamento penale, Giappichelli, Torino, 2022, p. 137.
7. In dottrina è stato autorevolmente prospettato (P. Ferrua, Improcedibilità e ragionevole durata del processo, in Penale - Diritto e procedura, 24 gennaio 2021, p. 14) un radicale contrasto tra la disciplina dell’improcedibilità, informata al principio di ragionevole durata, e la regola dell’obbligatorietà dell’azione penale dettata dall’art. 112 Costituzione. Solo l’estinzione del reato – per il decorso del tempo dell’oblio e della fine dell’allarme sociale che ha generato – potrebbe impedire la prosecuzione dell’azione penale, in quanto «l’azione è una domanda, e in tanto ha senso definirla obbligatoria, in quanto al suo valido esercizio segua l’obbligo del giudice di rispondere accertandone la fondatezza (…): la persecuzione penale non è materia disponibile» (P. Ferrua, ibid.).
8. Cfr. P. Ferrua, Improcedibilità, op. ult. cit., p. 9. Per una sintetica rassegna delle questioni di legittimità costituzionale della nuova normativa, cfr. G. Spangher, Art. 344 bis c.p.p.: questioni di incostituzionalità e criticità applicative, in Giustizia insieme, 2 dicembre 2021. Va aggiunto che sul potere del giudice di prolungare la durata dei giudizi di impugnazione non si appunteranno solo i sospetti di incostituzionalità ora accennati, ma anche le dure reazioni di chi si riterrà colpito dalle decisioni dei giudici.