Magistratura democratica

Il nuovo volto delle indagini preliminari e il rischio della fuga dalla giurisdizione

di Gaetano Ruta

La riforma Cartabia, per quanto ampia negli orizzonti normativi, ha costellato la fase delle indagini preliminari di una congerie di adempimenti e controlli che imbrigliano il lavoro di pubblico ministero e giudice. Sovrapposizione di competenze e confusione interpretativa penalizzano la certezza del diritto e disorientano strategie investigative e atti di impulso processuale. Il rischio è quello del riflusso: un ripiego verso la non azione, mancanza di intervento e vuoto di tutela penale.

1. L’attuazione della delega / 2. L’intreccio tra profili ordinamentali e profili processuali / 3. Il contesto internazionale: la Procura europea quale modello di ufficio del pubblico ministero / 3.1. Le attribuzioni della Procura europea / 3.2. Riflessi nell’ordinamento nazionale / 4. Le novità di maggiore impatto / 4.1. Iscrizione della notizia di reato e controllo giurisdizionale / 4.2. Chiusura delle indagini / 4.3. Presupposti dell’archiviazione / 5. La distorsione del fine: dall’efficienza della giurisdizione alla fuga dalla giurisdizione 

 

1. L’attuazione della delega

Sul volto del sistema penale scaturito dalla riforma Cartabia (d.lgs 10 ottobre 2022, n. 150) è certamente importante mantenere uno sguardo alto, sforzandosi di osservare la spinta riformatrice nella sua dimensione unitaria e rifuggendo da letture circoscritte e parziali.

Alcuni aspetti, almeno nelle linee programmatiche, appaiono mossi da una spinta innovativa che oltrepassa i confini della disciplina normativa, collocandosi in una visione della società e dei rapporti umani davvero qualificante: la giustizia riparativa e il nuovo sistema sanzionatorio esprimono istanze riconciliative che superano la visione di un apparato punitivo basato su modelli autoritativi e repressivi, dando spazio a una società inclusiva e, se così può dirsi, fraterna.

La traiettoria è tuttavia molto complessa e si dipana secondo variabili di cui non è semplice tenere il filo. La riforma è stata preceduta e accompagnata dalla enunciazione di principi da cui è difficile dissentire: l’ispirazione di fondo, tracciata già dalla legge delega 27 settembre 2021, n. 134, è quella di assicurare maggiore efficienza al sistema penale, pur nella salvaguardia delle garanzie[1]. Da qui, ricorrendo a una sintesi semplificatoria, gli obiettivi di modernizzazione del processo, con l’introduzione di meccanismi telematici durante tutti gli snodi processuali, la necessità di assicurare tempi certi dando effettività alla ragionevole durata del processo, il rafforzamento delle garanzie difensive in funzione della tutela degli imputati come delle vittime del reato.

La distanza tra impostazione teorica e ricadute pratiche è tuttavia significativa, in diversi settori, e trova soprattutto nelle indagini preliminari un terreno friabile, esposto a scosse significative. 

La riforma di questa fase del procedimento sconta, va detto senza infingimenti, un pregiudizio nei confronti dell’ufficio del pubblico ministero. Una vulgata alimentata nel tempo ha fatto del pubblico ministero il punto di convergenza delle tensioni che scaturiscono dalle inefficienze del processo penale: le assoluzioni, le fughe di notizie, la gestione delle intercettazioni, la diluizione dei tempi sono sempre più spesso imputate a una cattiva gestione delle indagini, di cui responsabile è il pubblico ministero. Avere ritenuto questa figura un nervo scoperto ha portato a un rafforzamento dei controlli in capo al giudice nella fase delle indagini preliminari, considerata la più sensibile rispetto a possibili deviazioni da un fisiologico sviluppo del procedimento. Quando i controlli si fanno troppo pervasivi, tuttavia, il rischio è quello che perdano il carattere di verifica, per quanto seria e puntuale, su singoli atti, trasmodando in un sistema di co-decisione, ove le scelte sono il risultato del convergere di determinazioni che rimontano a pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari: una involuzione che sembra riportare a modelli processuali del passato, ove l’attività investigativa faceva perno, nella istruzione formale, sull’azione congiunta di pubblico ministero e giudice istruttore[2].

I punti della riforma che, per quanto concerne la fase delle indagini preliminari, espongono l’attività d’indagine a un più coinvolgente stress test sono quelli legati all’iscrizione del nominativo dell’indagato nel registro delle notizie di reato, al correlativo rispetto dei termini di durata delle indagini, alla fase di chiusura e ai nuovi presupposti dell’archiviazione.

 

2. L’intreccio tra profili ordinamentali e profili processuali 

Gli uffici requirenti non sono mondi separati.

Non lo sono, anzitutto, rispetto alla giurisdizione. Chi vi fa parte non esercita funzioni giurisdizionali in senso proprio, ma a tali funzioni dà impulso nella fase delle indagini, indirizzando al giudice le richieste su cui, per legge, questi è chiamato a pronunciarsi; al momento della conclusione delle indagini, assumendo le determinazioni sull’esercizio dell’azione penale; infine, partecipando al giudizio, nella fase di merito come in quella esecutiva.

Al loro interno gli uffici di procura sono articolati, al pari di organizzazioni complesse munite di compiti delicati, secondo una ripartizione di attribuzioni che rimonta a una normativa primaria e secondaria. 

Le “finestre di giurisdizione”, espressione entrata in voga per definire i nuovi ambiti di intervento del giudice in spazi prima riservati al pm, lasciano il dubbio che sistema processuale e quadro ordinamentale siano due mondi che non si parlano.

Il pubblico ministero, nell’esercizio delle proprie funzioni, non è una monade che circola in maniera casuale nel labirinto della giurisdizione, ma è il titolare di attribuzioni che esercita all’interno di un ufficio, secondo dettami organizzativi che si integrano con le previsioni del codice di procedura penale. Il tema è certamente uno dei più spinosi nell’ambito dell’organizzazione giudiziaria, collegato alla questione della “indipendenza interna” del singolo magistrato nei rapporti con chi riveste le funzioni apicali di procuratore della Repubblica e, laddove previsto, di procuratore aggiunto. Sono in gioco equilibri affidati alla disciplina normativa, primaria come secondaria.

Appare utile, per meglio chiarire il senso del discorso, un rapido richiamo alla legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, il d.lgs n. 106/2006, e alle circolari del Csm, in particolare la circolare del 16 novembre 2017, modificata il 16 giugno 2022.

Alcune delle questioni più spinose, oggetto del recente intervento normativo, erano in realtà già oggetto di disciplina sul piano ordinamentale.

Si consideri il profilo dell’iscrizione della notizia di reato. Il tema del controllo sulla tempestività di tale atto, nel codice di procedura penale assicurato all’art. 335 dall’uso dell’avverbio «immediatamente», è stato oggetto di disciplina nella legge di ordinamento giudiziario dopo la cd. riforma Orlando, intervenuta con l. 23 giugno 2017, n. 103. Il riferimento è anzitutto all’art. 1, comma 75, l. n. 103/2017, che ha modificato l’art. 1, comma 2, d.lgs n. 106/2006. Tale disposizione, definendo le attribuzioni del procuratore della Repubblica, così prescrive(va): «Il Procuratore della Repubblica assicura il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio». Dopo l’espressione «azione penale» è stato introdotto dalla l. n. 103/2017 l’inciso «l’osservanza delle disposizioni relative alla iscrizione delle notizie di reato». Analoga modifica ha investito i poteri di vigilanza del procuratore generale presso la corte d’appello: l’art. 1, comma 76, ha infatti modificato l’art. 6, comma 1, d.lgs n. 106/2006, che, definendo le «attività di vigilanza del procuratore generale presso la corte di appello», prescriveva che «[i]l procuratore generale presso la corte di appello, al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo, nonché il puntuale esercizio da parte dei procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti, acquisisce dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto ed invia al procuratore generale presso la Corte di cassazione una relazione almeno annuale». Anche in questo caso, la disposizione è stata interpolata con il riferimento, dopo l’espressione «azione penale» alla «osservanza delle disposizioni relative alla iscrizione delle notizie di reato». Dunque, secondo l’impostazione del legislatore, appena cinque anni prima rispetto alla riforma Cartabia, la disciplina sull’iscrizione delle notizie di reato presentava, sul piano del controllo sul puntuale rispetto dei tempi, come sulla vigilanza da parte del procuratore generale, rilevanza ordinamentale, con conseguenze in caso di deviazione da un corretto esercizio del potere/dovere di iscrizione di natura disciplinare. La violazione dell’«immediatamente», per intenderci, non aveva ricadute processuali[3]

Sempre sul piano ordinamentale, sono disciplinate le forme di assenso che il procuratore della Repubblica deve manifestare rispetto all’attività del magistrato appartenente all’ufficio, anche attraverso l’apposizione del «visto» (artt. 13 e 14 della citata circolare Csm), nonché attraverso il potere di revoca dell’assegnazione del procedimento (art. 15 della circolare).

Si tratta di un insieme di attribuzioni, con riflessi sul piano delle indagini e degli atti di impulso procedurale, che evidenzia come il legislatore avesse originariamente configurato un controllo interno all’ufficio del pubblico ministero, facendo leva sulla ripartizione delle competenze definite dalla legge sull’ordinamento giudiziario. Le “finestre di giurisdizione” appaiono come la risposta a una (ritenuta) insufficienza di tali controlli interni. Con l’effetto, tuttavia, di avere intrecciato i livelli di verifica, in una complessa stratificazione di atti. 

 

3. Il contesto internazionale: la Procura europea quale modello di ufficio del pubblico ministero

Le funzioni di pubblico ministero non vengono esercitate solo dagli uffici della Procura della Repubblica dislocati sul territorio dello Stato, ma, a partire dal giugno 2021, anche da un organismo sovranazionale, la Procura europea.

Sul piano normativo, assumono rilevanza due atti:

- il regolamento UE 2017/1939, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata sull’istituzione della Procura europea, al quale in Italia è stata data attuazione attraverso il d.lgs 2 febbraio 2021, n. 9, contenente norme per l’adeguamento della normativa nazionale al regolamento istitutivo della Procura europea;

- la direttiva Pif n. 1371/2017, relativa alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea, che definisce l’area degli illeciti penali di competenza della Procura europea.

Si tratta di un organo di estrema rilevanza, poiché ha il compito di esercitare funzioni giudiziarie in ambito penale nello spazio europeo: è un esempio di magistratura indipendente dagli Stati nazionali, che assolve la funzione di perseguire reati (quegli specifici reati in pregiudizio degli interessi finanziari dell’Ue) in tutti i Paesi che hanno aderito alla sua costituzione. 

Alla base della costituzione di questo organismo vi è una architettura complessa.

La Procura europea è stata costituita attraverso un meccanismo di cooperazione rafforzata, al quale hanno preso parte 22 Stati membri. Ne sono rimasti fuori Polonia, Ungheria, Irlanda, Danimarca e Svezia.

La struttura organizzativa ruota intorno a due articolazioni: la sede centrale, in Lussemburgo, ove operano i procuratori europei, uno in rappresentanza di ciascuno Stato membro. Rilevanza fondamentale, nell’organizzazione dell’organismo e nella definizione di alcuni snodi processuali, rivestono il Collegio dei procuratori e le Camere permanenti. Il Collegio dei procuratori è composto dal procuratore capo e da tutti i procuratori europei, ha una funzione di indirizzo e di coordinamento, che esercita anche attraverso un’attività regolamentare (emanazione di guidelines). Le Camere permanenti sono organi collegiali, ciascuno composto da tre procuratori, cui sono affidate funzioni di controllo e decisorie rispetto alle indagini e, in particolare, alla fase di conclusione (la decisione se promuovere l’“indictment” o archiviare il caso). 

A livello decentrato, sul territorio, operano i procuratori europei delegati, che esercitano le funzioni tipiche di pubblico ministero secondo le disposizioni previste dal regolamento istitutivo e le norme del rispettivo ordinamento di appartenenza.

Si rivela di estrema importanza la dialettica tra Procuratori delegati e Camere permanenti, perché le decisioni nevralgiche del procedimento vengono assunte sulla base del confronto tra questi soggetti. È interessante osservare come i meccanismi di funzionamento interno della Procura europea, anche per quanto riguarda le decisioni di natura investigativa e processuale, sono improntati a una spiccata collegialità, con il coinvolgimento sempre di soggetti provenienti da Paesi diversi. Con il che non solo si imposta il lavoro secondo una dialettica interna, ma si valorizza anche una visione unitaria delle scelte, con il prevedibile effetto di realizzare (almeno come linea di tendenza) una uniforme applicazione della legge penale nei diversi Paesi ove opera la Procura europea.

La riforma non è pensata secondo una logica di coordinamento, sicché le disposizioni che disciplinano la Procura europea si intrecciano con le previsioni del codice, trovando applicazione in base al principio di specialità e di prevalenza dell’ordinamento comunitario sulla normativa nazionale. Ma esiste un modello di pubblico ministero, nel panorama dell’Unione europea, che ha regole organizzative proprie, una spiccata indipendenza, una trama di controlli interni e modalità di intervento che, almeno con riferimento ad alcuni istituti, derogano rispetto all’ordinamento nazionale[4].

 

3.1. Le attribuzioni della Procura europea

Come si è evidenziato, la competenza della Procura europea è definita sulla base dell’interesse che mira a perseguire, rappresentato dalla tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea. In linea generale, si può dire che la Procura europea è competente per quei reati, di natura economica e contro la pubblica amministrazione, nei quali vengano in rilievo lesioni a interessi finanziari dell’Unione.

Si tratta anzitutto di reati di natura fiscale, che hanno in particolare ad oggetto le ccdd. imposte armonizzate, il cui gettito concorre alla formazione del bilancio dell’Ue (Iva e imposte doganali). Sono previste soglie di rilevanza quantitativa, ma, soprattutto, la competenza della Procura europea è connessa alla dimensione transnazionale del reato: esso deve risultare commesso in più di uno Stato, tra quelli che hanno aderito alla cooperazione rafforzata per la costituzione della Procura europea.

Tra i reati di competenza della Procura europea rientrano, inoltre, tutte quelle violazioni che incidono sul piano degli impegni di spesa: non rileva la qualificazione giuridica del fatto, rileva la natura della violazione e l’effetto pregiudizievole sul piano economico. Si tratta, in linea generale, delle forme di appropriazione indebita e di truffa ai danni dell’Unione europea, quale che sia il nomen iuris attribuito nei singoli ordinamenti a queste manifestazioni illecite. La competenza è poi estesa alla corruzione: anche in questo caso, deve trattarsi del compimento di un fatto illecito che abbia attitudine lesiva per gli interessi finanziari dell’Ue. Il profilo soggettivo ha un’importanza limitata: ciò che rileva, anche rispetto al contrasto della corruzione, è l’incidenza che le pratiche corruttive comportano sul bilancio dell’Unione. Non ha importanza, quindi, il fatto che gli autori della corruzione siano pubblici funzionari nazionali o dell’Ue; rileva il fatto che la corruzione ne pregiudica gli interessi finanziari. Si tratta di un’impostazione sul piano giuridico complessa e dalle difficili implicazioni pratiche. La lesione dell’interesse finanziario dell’ente cui appartiene il funzionario, nella costruzione del fatto di reato, può anche mancare (quando, ad esempio, la corruzione non è collegata a impegni di spesa dell’ente, ma il funzionario si lascia corrompere come forma di stabile asservimento agli interessi privati del corruttore). Spesso, poi, lo stesso accertamento della lesione finanziaria avviene in un secondo momento, dopo che l’indagine è stata avviata, talvolta proprio alla fine: e sovente, considerata la complessità dei meccanismi finanziari all’interno dell’Unione europea, non è facile comprendere chi abbia concorso a certe spese (o a farne da garante), se l’Ue, attraverso propri organismi, o enti nazionali. Si tratta di un problema aperto, su cui ci si dovrà misurare con l’esperienza pratica. 

 

3.2. Riflessi nell’ordinamento nazionale

L’istituzione di questo organismo non è priva di effetti nell’ordinamento nazionale. Vi è il convergere di uffici requirenti diversi, indipendenti l’uno dall’altro, la cui ripartizione di attribuzioni è disciplinata dalla legge secondo il parametro normativo che si è sopra delineato e che ha a che vedere con la tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea.

La Procura europea ha una competenza unica nazionale: la suddivisione dei procuratori europei delegati presso le sedi dislocate nel territorio nazionale (individuate con decreto ministeriale) assolve a una funzione meramente organizzativa, priva di riflessi sul piano processuale (art. 9, comma 2, d.lgs n. 9/2021).

La Procura europea può entrare in contrasto con le procure nazionali, rispetto al perimetro delle proprie competenze: tali contrasti vengono risolti dalla Procura generale presso la Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 16 d.lgs n. 9/2021.

La Procura europea può esercitare la competenza, «sentita l’autorità nazionale», rispetto a reati che rientrano in un’area di attribuzioni facoltative – art. 25, comma 2, reg. (UE) 2017/1939.

La Procura europea, soprattutto, per quel che qui interessa, «esercita, in via esclusiva e fino alla definizione del procedimento, nel [proprio] interesse (…) e conformemente alle disposizioni del regolamento e del presente decreto, le funzioni e i poteri spettanti ai pubblici ministeri nazionali» (art. 9, comma 1, d.lgs 9/2021) e, sul piano ordinamentale, non è soggetta al potere di direzione del procuratore della Repubblica né al potere di vigilanza del procuratore generale presso la corte d’appello (art. 9, comma 3, d.lgs n. 9/2021). L’indipendenza nei confronti del procuratore generale presso la corte d’appello ha degli effetti anche sul piano processuale: rispetto ai procedimenti che rientrano nella competenza della Procura europea non trovano applicazione, a titolo esemplificativo, le disposizioni di cui agli artt. 409, comma 3, cpp (avviso al procuratore generale della fissazione dell’udienza di non accoglimento della richiesta di archiviazione), 412 cpp (avocazione delle indagini preliminari per mancato esercizio dell’azione penale), 413 cpp (richiesta di avocazione delle indagini al procuratore generale della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa dal reato), 415-bis, comma 5-bis ss. cpp (richiesta motivata di differimento della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini da parte del pubblico ministero al procuratore generale, facoltà del procuratore generale in caso di inerzia del pubblico ministero), 415-ter cpp (poteri del procuratore generale su impulso della persona sottoposta a indagine e della persona offesa in caso di inosservanza dei termini di conclusione delle indagini preliminari). 

 

4. Le novità di maggiore impatto

Occorre concentrare l’attenzione sulle novità più significative, presentate come tali nel dibattito dottrinale seguito alla riforma Cartabia. Gli snodi più importanti, per quanto riguarda la fase delle indagini preliminari, riguardano il momento genetico di iscrizione della notizia di reato (in particolare, del nominativo della persona sottoposta a indagine), la fase di conclusione delle indagini (in particolare, con riferimento ai ritardi del pubblico ministero nella definizione del procedimento), ai nuovi presupposti per la richiesta di archiviazione.

L’obiettivo appare quello di assicurare certezza nei tempi di definizione delle indagini, evitare tempi di latenza ingiustificati, rafforzare anche attraverso forme di contraddittorio endoprocedimentale il controllo sull’azione penale e comprimere così il numero dei procedimenti.

Emerge, tuttavia, una cornice di grande complessità sul piano descrittivo, che prelude peraltro a un significativo cambio di paradigma rispetto a profili nevralgici della procedura penale, di cui questi istituti erano in qualche modo espressione. La gamma di controlli che permea la fase delle indagini preliminari e il restringimento nei criteri di valutazione che preludono all’esercizio dell’azione penale, prossimi anche per similitudine semantica a quelli della fase del giudizio, sembra travolgere lo stesso rapporto che, nella fisionomia originaria del codice, distingue(va) la fase delle indagini preliminari da quella del giudizio vero e proprio. 

Il quadro presenta incertezze interpretative – di cui vi è traccia nei commenti che si sono succeduti dalla entrata in vigore della riforma, anche sul piano istituzionale – che rendono la misura delle difficoltà applicative cui prevedibilmente si andrà incontro. 

 

4.1. Iscrizione della notizia di reato e controllo giurisdizionale 

Il primo elemento di novità è rappresentato dall’iscrizione della notizia di reato. È stato riformulato l’art. 335 cpp. Il legislatore ha fornito una definizione di notizia di reato come «rappresentazione di un fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice». È stato inserito un comma 1-bis, a mente del quale «[i]l Pubblico Ministero provvede alla iscrizione del nome della persona alla quale il reato è attribuito non appena risultino, contestualmente alla iscrizione della notizia di reato o successivamente, indizi a suo carico». Chiude la parte riformulata di questo articolo l’inserimento del comma 1-ter, che consente l’iscrizione ora per allora del nominativo della persona sottoposta a indagine, quando il pubblico ministero ritenga che gli indizi a suo carico fossero emersi in epoca antecedente, così da consentire una retrodatazione del termine di indagine, anche ai fini della richiesta di proroga o della chiusura della stessa. Sono stati modificati i termini di indagine, ai sensi dell’art. 405, comma 2, cpp (un anno per i delitti, sei mesi per le contravvenzioni, un anno e sei mesi per i delitti di cui all’art. 407, comma 2, cpp[5]). Del termine ordinario di durata delle indagini, come anche era consentito prima della riforma Cartabia, è possibile richiedere la proroga, che tuttavia è diversamente modulata rispetto al passato: essa può essere chiesta una sola volta e per un tempo non superiore a sei mesi (art. 406 cpp).

Assumono profili di spiccata novità le disposizioni che consentono al giudice di ordinare l’iscrizione della persona gravata da indizi di reità (art. 335-ter cpp) e l’accertamento della tempestività dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato (art. 335-quater cpp): come si è detto sopra, l’iscrizione costituiva infatti atto insindacabile sul piano processuale (sez. unite, sentt. Tammaro e Lattanzi), come tale insuscettibile di valutazione da parte del giudice e passibile di verifica solo sul diverso piano disciplinare.

Occorre procedere con ordine.

La prima questione investe i presupposti normativi dell’iscrizione. Era invalso nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo cui l’iscrizione della persona sottoposta a indagine fosse dovuta in presenza di «specifici elementi indizianti», locuzione il cui significato appare spiegato in maniera quanto mai chiara nella circolare n. 3225/17 del procuratore della Repubblica di Roma: «La scelta di iscrizione a Mod. 44 o a Mod. 21 è, a sua volta, assai delicata e andrà effettuata sulla base di un attento scrutinio degli atti: alla stregua della consolidata giurisprudenza di legittimità (che sul punto si è espressa a più riprese anche a Sezioni Unite) si procederà ad iscrizione a Mod. 21 solo nei casi in cui a carico di un soggetto identificato emergano non meri sospetti ma “specifici elementi indizianti”, ovverosia una piattaforma cognitiva che consente l’individuazione, a suo carico, degli elementi essenziali di un fatto astrattamente qualificabile come reato e l’indicazione di fonti di prova. Si sottolinea, in proposito, l’esigenza di non procedere ad iscrizione a Mod. 21 in modo affrettato ed in assenza dei necessari presupposti. Se invero è evidente la funzione di garanzia che riveste l’iscrizione all’interno del procedimento, non può essere trascurato che la condizione di indagato è connotata altresì da aspetti innegabilmente negativi, tanto da giustificare – secondo la Corte Costituzionale, sent. 174/1992 – la previsione di un termine delle indagini preliminari. Non può essere infatti trascurato che dall’iscrizione – e dai fisiologici atti processuali che ne conseguono – si dispiegano, per la persona indagata, effetti pregiudizievoli non indifferenti sia sotto il profilo professionale sia in termini di reputazione (…). Queste considerazioni impongono di abbandonare una concezione formalistica imperniata sull’approccio ispirato ad una sorta di favor iscritionis, criterio non formalizzato ed estraneo al sistema». Si trattava di una logica ispirata a criteri prudenziali.

Non è chiaro se tale impostazione debba ritenersi perdurante o, in qualche modo, superata dalla nuova formulazione dell’art. 335, commi 1 e 1-bis, cpp. In particolare, non è chiaro se i presupposti dell’iscrizione debbano intendersi più dilatati: è stato denunciato il rischio di indagini condotte surrettiziamente nei confronti di ignoti, laddove i soggetti gravati da indizi sono identificati, così da eludere la disciplina sui termini di durata delle indagini[6].

Vi sono argomenti di tipo normativo e logico per ritenere che l’impostazione preesistente – elaborata dalla giurisprudenza delle sezioni unite e declinata nei suoi risvolti concreti dalla “circolare Pignatone” – conservi la sua validità. Essa appare in linea con il principio di proporzionalità, oltre che con regole di comune buon senso.

Sul piano normativo, va evidenziato come il nuovo art. 335-bis cpp, nel definire i limiti all’efficacia dell’iscrizione ai fini civili e amministrativi – chiarendo come da essa non possano discendere effetti pregiudizievoli di natura civile o amministrativa – sembra confermare la chiave interpretativa preesistente. Proprio la necessità di evitare effetti extrapenali, che la legge comunque si premura di rimuovere, impone una valutazione su basi prudenziali. Su un piano logico, poi, l’allargamento dei presupposti dell’archiviazione dovrebbe portare all’irrigidimento di quelli dell’iscrizione della persona nel registro delle notizie di reato: si giungerebbe altrimenti al nonsenso di promuovere iscrizioni… destinate a sfociare in richieste di archiviazione. Se l’obiettivo del legislatore è quello di un più rigoroso controllo sull’azione penale, esso deve aver origine sin dal momento genetico dell’iscrizione, onde evitare superflue e pregiudizievoli proiezioni nello sviluppo del procedimento. 

Quanto al tema del controllo giurisdizionale sul momento dell’iscrizione, esso pone problemi di particolare allarme sul piano applicativo, per le conseguenze facilmente percepibili che ne possono derivare: se al giudice è consentita la retrodatazione dell’iscrizione del nominativo della persona sottoposta a indagine, l’effetto è quello della possibile inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo il ricalcolo del termine di scadenza.

Il controllo viene configurato dal legislatore come eccezione di parte: esso è soggetto a termini di decadenza in relazione alla fase processuale e al momento di conoscenza dell’atto da cui emergerebbero i presupposti dell’iscrizione. L’esercizio del diritto è altresì soggetto a un onere di allegazione della parte, che deve indicare «le ragioni che sorreggono la retrodatazione e gli atti del procedimento dai quali è desunto il ritardo» (art. 335-quater, comma 1, cpp). Il giudice dispone la retrodatazione «quando il ritardo è inequivocabile e non è giustificato» (art. 335-quater, comma 2, cpp). La decisione del giudice deve quindi fondarsi su dati evidenti, che devono essere forniti dalla parte istante, tali da non lasciare margini di dubbio sulla emersione dei presupposti, in termini di specifici elementi indizianti, che comportano l’iscrizione della persona. Il legislatore – sembra potersi inferire – non vuole consentire una sovrapposizione del giudice sull’esercizio di un potere/dovere discrezionale del pubblico ministero, ma intende consentire una censura riguardo alle patologie gravi, che si manifestano attraverso una evidente disfunzione generatrice del ritardo. Allo stesso tempo, tuttavia, deve evitarsi una lettura troppo lata del participio «giustificato» che possa condurre a soluzioni di comodo: non dovrebbe essere giustificato il ritardo, ad esempio, per ragioni organizzative (come il carico di lavoro dell’ufficio) o comunque per ragioni esterne al procedimento. Il ritardo può trovare giustificazione in questioni interpretative della fattispecie, relative alla configurazione del reato, al procedimento di sussunzione, al profilo soggettivo nel concorso di persone; o per via delle dimensioni del procedimento, che impongono molteplici valutazioni e il raccordo di una pluralità di elementi. Si deve trattare, in ogni caso, di una “giustificazione” per ragioni interne al procedimento. 

 

4.2. Chiusura delle indagini

È lo snodo in cui la riforma sembra incagliarsi in modo più vistoso. Il tema è quello di assicurare tempi certi alla definizione del procedimento, in una fase che, nella prassi, presenta talvolta significativi rallentamenti.

La materia aveva formato oggetto, nel 2017, della riforma Orlando, incentrata su un controllo di tipo verticistico, che faceva capo alle procure generali presso la corte d’appello, tenute a monitorare i tempi di chiusura delle indagini, potendo se del caso provvedere alla avocazione del procedimento. Nella prassi questo controllo veniva generalmente esercitato attraverso un flusso di informazioni dalle procure ordinarie alla procura generale competente, talvolta ristretto a determinate tipologie di reati, per evitare un profluvio di dati difficilmente controllabile. Non si era, tuttavia, registrato un cambiamento significativo: il meccanismo aveva dato vita esclusivamente a un passaggio burocratico aggiuntivo tra uffici dello stesso distretto.

Da qui la necessità di rimodulare questa fase, inserendo la previsione di un controllo giurisdizionale anche attraverso poteri di iniziativa degli interessati, la persona sottoposta ad indagine e la persona offesa dal reato. Ne è uscito un quadro oltremodo complesso, con due disposizioni – gli artt. 415-bis e 415-ter cpp – che presentano risvolti descrittivi non facili da coordinare. Una fase che tradizionalmente era appannaggio del pubblico ministero, trattandosi del momento della valutazione sull’esercizio dell’azione penale, vede ora il coinvolgimento di una pluralità di soggetti e l’anticipazione di un contraddittorio endoprocedimentale non sul merito, ma sull’esercizio di un potere di impulso.

Un lavoro di sintesi, sul piano descrittivo, è pressoché impossibile perché tanti sono i risvolti e gli innesti di competenze. Il pubblico ministero deve controllare i tempi di definizione del procedimento: se non è in grado di emanare i provvedimenti di chiusura indagine (richiesta di archiviazione, avviso di conclusione delle indagini), deve formulare una richiesta di differimento che dev’essere autorizzata dal procuratore generale (art. 415-bis, commi 5-bis e 5-ter, cpp), in caso di inottemperanza è soggetto a un potere di controllo del giudice su impulso delle parti private, persona sottoposta a indagine e persona offesa dal reato, che prelude a un ordine di assunzione delle determinazioni conclusive (art. 415-bis, comma 5-quater, cpp).

Sussiste un obbligo legale di deposito degli atti al termine di scadenza delle indagini, quando il pm non abbia adottato le determinazioni inerenti alla conclusione delle stesse (art. 415-ter cpp). Su tale obbligo, come in generale sul rispetto della procedura di chiusura, vigila il procuratore generale. 

 

4.3. Presupposti dell’archiviazione 

È stato abrogato l’art. 125 disp. att. cpp, che definiva il perimetro dell’infondatezza della notizia di reato, avendo riguardo al giudizio prognostico di non idoneità degli atti a sostenere l’accusa in giudizio[7].

L’attuale formulazione dell’art. 408 cpp prevede che il pubblico ministero presenti al giudice richiesta di archiviazione «quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di misure di sicurezza diverse dalla confisca». Si tratta di formulazione sovrapponibile a quella prevista dalla nuova versione dell’art. 425, comma 3, cpp rispetto ai presupposti della sentenza di non luogo a procedere, a mente del quale «il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna».

La torsione logica cui è sottoposto il sistema processuale appare evidente: se l’obiettivo è quello di decongestionare la fase del giudizio e arginare il trend delle assoluzioni (che, peraltro, possono dipendere da una molteplicità di fattori), la strategia adottata sembra produrre l’effetto di sovvertire l’impianto del processo. La fase delle indagini preliminari – lo si insegna dall’entrata in vigore del codice vigente – è strumentale a quella del giudizio e le determinazioni inerenti all’esercizio (o al non esercizio) dell’azione penale non comportano alcun giudizio di colpevolezza (o di non colpevolezza), essendo fondate su una valutazione di tipo prognostico (tale dovendosi intendere il parametro della «idoneità degli atti a sostenere l’accusa in giudizio»). La stessa caducità del provvedimento di archiviazione, suscettibile di superamento – in base alla originaria formulazione dell’art. 414 cpp – con la richiesta di nuove investigazioni, esprimeva un dinamismo interno alla fase funzionale alle determinazioni per il successivo giudizio. La stessa riformulazione dell’art. 414 cpp, che specifica come la riapertura delle indagini possa essere ammessa solo in presenza di fonti di prova che possano determinare l’esercizio dell’azione penale, prelude a un restringimento e a un conseguente rafforzamento degli effetti preclusivi del provvedimento di archiviazione.

È evidente che il richiamo alla valutazione sulla colpevolezza finisce per schiacciare verso il basso ciò che è tipicamente oggetto del giudizio. Occorre attendere l’assestarsi di un indirizzo giurisprudenziale, considerato il prevedibile incremento delle archiviazioni, per verificare se effettivamente – dopo questa riforma – si andrà incontro a un allargamento delle maglie dell’archiviazione. O se invece, più che sulla «condanna», la giurisprudenza si orienterà verso la riconferma di un giudizio prognostico, sotteso alla locuzione «ragionevole previsione», che precede nella formulazione della norma il riferimento alla «condanna». In tal modo, il cambio di paradigma normativo finisce per risolversi in un gioco di parole: occorre comprendere la distinzione che corre tra «idoneità degli atti a sostenere l’accusa in giudizio» (vecchio art. 125 disp. att. cpp) e «ragionevole previsione di condanna» (nuovo art. 408 cpp), ma viene comunque riaffermato il principio del giudizio prognostico e della natura strumentale della valutazione. La semantica alla fine soccombe, non è in grado di travolgere i principi su cui si regge l’edificio della procedura penale. 

 

5. La distorsione del fine: dall’efficienza della giurisdizione alla fuga dalla giurisdizione

Occorre far sedimentare le norme e comprendere come si stabilizzerà la giurisprudenza. E, forse, alcune novità sono più apparenti che reali. Si intravede tuttavia un rischio, verrebbe da dire più di natura psicologica che di ordine normativo. Il richiamo al rispetto dei tempi, in uno con la tendenza, quantomeno suggerita dalla nuova formulazione dell’art. 408 cpp (e, correlativamente, dall’art. 425 cpp), ad ampliare le maglie dell’archiviazione, porteranno presumibilmente a un incremento di esse, a discapito dell’esercizio dell’azione penale. Resta certamente fermo il potere di opposizione della persona offesa ed è prevedibile lo sviluppo di frequenti forme di contraddittorio, ma la tendenza sarà presumibilmente questa.

Il decongestionamento dei tribunali e il rispetto di tempi ragionevoli di durata del procedimento non devono preludere a vuoti di tutela. L’esercizio della giurisdizione è complesso, ma va salvaguardato, le istituzioni si rafforzano se sono efficienti, non se si ritraggono dai loro compiti. 

 

 

1. M. Cartabia, Ridurre del 25% i tempi del giudizio penale: un’impresa per la tutela dei diritti e un impegno con l’Europa, per la ripresa del Paese, in Sistema penale, 31 maggio 2021; G. Canzio, Le linee del modello “Cartabia”. Una prima lettura, ivi, 25 agosto 2021. 

2. Mi permetto di richiamare, riportandone uno stralcio, l’articolo di commento che avevo scritto su questa Rivista dopo la approvazione della legge delega, ove ho approfondito i temi qui solo accennati: Verso una nuova istruzione formale? Il ruolo del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, in Questione giustizia trimestrale, n. 4/2021, pp. 115-126 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/992/4-2021_qg_ruta.pdf): «Nessuno avrebbe mai posto in dubbio la centralità del pubblico ministero nelle indagini preliminari, nell’assetto del codice del 1989. Due norme ne scolpiscono la funzione, l’art. 326 e l’art. 358, attribuendogli la direzione delle indagini in vista delle determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale. La tendenziale impermeabilità del dibattimento al materiale conoscitivo delle indagini costituisce ragione di equilibrio del sistema. Al giudice è riservata, durante le indagini preliminari, una funzione di controllo meramente incidentale, che trova attuazione nella fase cautelare, rispetto ad alcuni mezzi di ricerca della prova (autorizzazione delle intercettazioni e incidenti sui sequestri), nonché rispetto alla proroga delle indagini e ai presupposti per l’assunzione anticipata della prova, con incidente probatorio. Quello del giudice è un potere tutt’altro che marginale rispetto alle iniziative del pubblico ministero, che sul piano normativo si è andato rafforzando nel corso degli anni. Un potere, va aggiunto, di grande responsabilità, che se non correttamente esercitato può causare pericolose deviazioni nella fase delle indagini: si pensi, solo per fare alcuni esempi, ai casi di rigetto delle richieste di intercettazione o di incidente probatorio, e alle decisioni di incompetenza per territorio ai sensi degli artt. 22 e 27 cpp. Tutti casi in cui, come ben sa qualunque operatore pratico, la possibilità di correttivi o rimedi è tutt’altro che agevole. E tuttavia, siamo sempre nello spettro dei “controlli” incidentali. Un controllo completo da parte del giudice, che ha ad oggetto l’intero compendio indiziario raccolto, si ha soltanto a conclusione delle indagini, rispetto alle determinazioni finali assunte dal pubblico ministero. Questa fisionomia, va detto senza infingimenti, sembra incrinarsi. La legge delega presenta margini di incertezza e occorre verificare come in concreto il legislatore delegato riempirà gli spazi vuoti. Ma quando si rimette al giudice la possibilità di stabilire il momento in cui si assume la qualifica di indagato o quando si prevede che il giudice, con proprio intervento, “rimedi alla stasi del procedimento”, si infrange il bilanciamento dei rapporti che abbiamo sino ad ora conosciuto. Non vi è più solo un potere di controllo, per quanto pervasivo o più esteso rispetto a quello originariamente congegnato. Vi è una potenziale sovrapposizione rispetto a passaggi qualificanti, che costituiscono (costituivano) l’in sé dell’attività del pubblico ministero. Non abbiamo più, per riprendere le parole di Giovanni Leone, un pubblico ministero agente: abbiamo, se così può dirsi, un coagente, che certamente preserva fondamentali prerogative, al quale si affianca come alter ego il giudice, con intrecci che possono rivelarsi anche molto problematici» (p. 117). 

3. Su questo punto, la giurisprudenza di legittimità si era assestata con due successive pronunce a sezioni unite, che avevano riaffermato la insindacabilità, da parte del giudice, del momento dell’iscrizione della notizia di reato e, soprattutto, del nominativo della persona sottoposta ad indagine, negando la possibilità della retrodatazione, anche ai fini del rispetto dei termini di durata delle indagini (Cass., sez. unite, 21 giugno 2000, n. 16, Tammaro; Cass., sez. unite, 24 settembre 2009, n. 40538, Lattanzi). 

4. Per una bibliografia di massima sulla Procura europea, si vedano: R.E. Kostoris (a cura di), Manuale di procedura penale europea, Giuffrè, Milano, 2017; V. Manes e M. Caianiello, Introduzione al diritto penale europeo, Giappichelli, Torino, 2020; G. Di Paolo - L. Pressacco - R. Belfiore - T. Rafaraci (a cura di), L’attuazione della Procura Europea. I nuovi assetti dello spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia, Editoriale Scientifica, Napoli, 2022; H. Herrnfeld - D. Brodowsky - C. Burchard, European Public Prosecutor’s Office. Article by Article Commentary, Beck/Hart/Nomos, Monaco di Baviera/Oxford/Baden-Baden, 2021; G. Stampanoni Bassi (a cura di), La corruzione, le corruzioni, Wolters Kluwer, Milano, 2022; L. Salazar, Definitivamente approvato il regolamento istitutivo della procura europea, in Diritto penale contemporaneo, n. 10/2017, pp. 328-331 (https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/pdf-viewer/?file=%2Fpdf-fascicoli%2FDPC_10_2017.pdf#page=328); L. De Matteis, Autonomia e indipendenza della Procura europea come garanzia dello Stato di diritto, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2021, pp. 111-116 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/945/2-2021_qg_dematteis.pdf); A. Venegoni, Il rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia (caso C-281/22): l’EPPO alla sua prima, importante prova, in Giurisprudenza penale, n. 12/2022 (12 dicembre 2022: www.giurisprudenzapenale.com/2022/12/12/il-rinvio-pregiudiziale-davanti-alla-corte-di-giustizia-caso-c-281-22-leppo-alla-sua-prima-importante-prova/). 

5. Va evidenziato come il comma 2 dell’art. 407 cpp faccia riferimento a una pluralità di casi: quelli inclusi alla lettera a sono costituiti da titoli di reato di particolare allarme sociale (reati di criminalità organizzata, terrorismo, armi, stupefacenti, omicidio, pedopornografia); le ipotesi di investigazioni «particolarmente complesse» (lett. b), di indagini che richiedono il compimento di atti all’estero (lett. c), di procedimenti «in cui è indispensabile mantenere il collegamento tra più uffici del Pubblico Ministero a norma dell’art. 371 c.p.p.» (lett. d). Deve quindi dedursi che, nella prassi applicativa, rispetto alle indagini «complesse», il termine di durata è di un anno e sei mesi. 

6. M. Gialuz, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della riforma Cartabia, in Sistema penale, 2 novembre 2022. La questione non è chiara, e anche le linee interpretative che sono state date, in dottrina come nelle sedi istituzionali, oscillano «tra esigenze di garanzia (che condurrebbero ad anticipare il più possibile l’iscrizione) ed esigenze di certezza (che porterebbero a posticipare il momento dell’iscrizione a quando si è raggiunto un compendio indiziario serio)» (ivi). 

7. Va, in questa sede, rammentata una risalente sentenza della Corte costituzionale, la n. 88/1991, che aveva offerto una descrizione del significato dei presupposti della richiesta di archiviazione ispirandosi a una logica incentrata sulla duplicità delle fasi. La Corte affermò come «limite implicito alla obbligatorietà dell’azione penale, razionalmente intesa, è che il processo non debba essere instaurato quando si appalesa oggettivamente superfluo», e appunto «il problema dell’archiviazione sta nell’evitare il processo superfluo senza eludere il principio di obbligatorietà ed anzi controllando caso per caso la legalità dell’inazione». Una valutazione di questo tipo richiede la completezza delle indagini preliminari, posto che dal combinato disposto degli artt. 326 e 358 cpp emerge che il pubblico ministero deve compiere «ogni attività necessaria» ai fini delle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, ivi compresi «gli accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona assoggettata alle indagini». Cfr. altresì G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, Giappichelli, Torino, 2020, p. 109.