Magistratura democratica

Le pene sostitutive: una nuova categoria sanzionatoria per spezzare le catene del carcere

di Riccardo De Vito

Un primo commento alla disciplina delle pene sostitutive. Questioni interpretative, problemi pratici al banco del giudice e riflessioni politiche.

1. Un cambiamento radicale / 2. La pena detentiva breve e le pene sostitutive: nuove categorie / 3. Dalle misure alternative alle nuove pene sostitutive / 3.1. La semilibertà sostitutiva (art. 55 l. n. 689/1981) / 3.2. La detenzione domiciliare sostitutiva (art. 56) / 3.3. Il lavoro di pubblica utilità sostitutivo (art. 56-bis) / 3.4. La pena pecuniaria sostitutiva (art. 56-quater) / 3.5. Le prescrizioni comuni alle pene-programma / 4. Il momento applicativo ed esecutivo / 4.1. I presupposti soggettivi / 4.2. Il potere discrezionale del giudice e i criteri guida / 4.3. La discrezionalità in movimento: il procedimento di applicazione / 4.4. La fase esecutiva / 4.5. La revoca e la conversione delle pene sostitutive / 4.6. Cumulo, rapporto con altre pene, sospensioni / 5. La disciplina transitoria e i rapporti con altri settori ordinamentali / 6. Lo spettro del carcere: aspetti critici della riforma / 7. I punti di forza 

 

1. Un cambiamento radicale 

Il 30 dicembre 2022 è iniziata la scommessa. La nuova categoria delle pene sostitutive – semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità, pena pecuniaria – ha sospinto fuori dall’ordinamento penale le tradizionali (e inutilizzate) sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata, con il definitivo obiettivo di riservare il carcere ai responsabili dei reati più gravi. Abbiamo già osservato, sulle pagine di questa rivista[1], che non si è trattato di maquillage, ma di una svolta copernicana: il momento di applicazione della pena fuoriesce dal monopolio del giudice di cognizione per diventare perno di una fase processuale partecipata anche dall’imputato e dal difensore. Un mutamento di paradigma nella direzione di un sentencing che chiama sia il giudice (più defilata la posizione del pubblico ministero) sia il difensore a uno sforzo di rinnovamento del bagaglio culturale e dell’approccio metodologico[2]

La posta in palio è spezzare definitivamente l’equazione “pena uguale carcere”, ridurre i numeri delle presenze nei penitenziari italiani e, soprattutto, riuscire a modellare un sistema sanzionatorio penale idoneo a reintegrare i condannati. Per conseguirla, occorre dimostrarsi da subito consapevoli di alcuni limiti intrinseci di questa riforma, frutto dei condizionamenti politici che ne hanno accompagnato la genesi. Il carcere, come i castelli incantati delle fiabe nere, rimane una presenza nell’ombra, non evidente ma minacciosa, e il mancato inserimento dell’affidamento in prova nel catalogo delle pene sostitutive inocula una pericolosa controspinta all’appetibilità del meccanismo sostitutivo. 

Per entrare nel vivo dell’analisi della disciplina – un intervento a ventaglio sui capi III e V della legge 24 novembre 1981, n. 689, sul codice penale, di rito e su varie leggi speciali, in gran parte contenuto nell’art. 71 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, entrato in vigore il 30 dicembre 2022 – occorre partire dall’usuale sforzo di classificazione.

 

2. La pena detentiva breve e le pene sostitutive: nuove categorie

Merita di essere subito messo in risalto il mutamento di vocabolario. Approdano nel codice penale – nuovo art. 20-bis – le «pene sostitutive delle pene detentive brevi». Niente più sanzioni sostitutive.

La modifica non è ispirata da intenzioni di mera cosmesi nominalistica, ma dalla volontà di chiarire, attraverso un uso preciso e performativo del linguaggio, che le pene sostitutive non sono alternative a basso costo a una penalità che, anche per pigrizia lessicale, è stata sempre fatta coincidere con il Moloch della pena carceraria.

L’espressione «pene detentive brevi», viceversa, pur comparendo già nell’originario art. 53 l. n. 689/1981, muta il suo spettro semantico, finendo per ricomprendere, in luogo delle condanne fino a due anni, tutte le pene detentive che il giudice ritiene di dover determinare entro il limite di quattro anni (art. 20-bis cp e novellato art. 53 l. n. 689/1981). 

La soglia della pena sostituibile, dunque, finisce per coincidere con il limite edittale della pena sospendibile in sede esecutiva ai sensi dell’art. 656, comma 5, cpp – integrato dalla sentenza 2 marzo 2018, n. 41 della Corte costituzionale – e con quello entro il quale può essere ottenuta la misura di comunità dell’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47, comma 3-bis, o.p.). 

Il nuovo perimetro delle pene detentive brevi, oltre ad assumere un’importanza baricentrica per l’interprete, traccia un confine tra una penalità a bassa intensità, nella quale è possibile un’espiazione integralmente extra-carceraria, e una penalità ad alta intensità, nella quale l’ingresso in carcere – salvo fattori eccezionali esterni (età, figli minori, percorsi terapeutici, salute) – rimane obbligatorio. Sembra importante sottolineare che una tale distinzione può essere assecondata sotto il profilo concettuale e culturale soltanto a condizione di non derivarne, in futuro, una minor attenzione al bisogno di riforma che i circuiti dell’espiazione penitenziaria continuano a urlare. 

Delimitato il campo di applicazione, si possono ora esaminare tipologia e caratteristiche delle pene sostitutive, mettendone in chiaro il range applicativo (sempre artt. 20-bis cp e 53 l. n. 689/1981): la pena detentiva determinata entro l’intervallo di un anno potrà essere sostituita con la pena pecuniaria, il lavoro di pubblica utilità, la semilibertà e la detenzione domiciliare; entro l’intervallo compreso tra un anno e un giorno e tre anni, con il lavoro di pubblica utilità, la semilibertà e la detenzione domiciliare (scompare la possibilità della pena pecuniaria); entro l’intervallo di tre anni e un giorno e quattro anni, con le sole semilibertà e detenzione domiciliare (viene meno anche l’opzione dei lavori di pubblica utilità). Ai fini della determinazione dei limiti di pena entro i quali è possibile pervenire alla sostituzione, si tiene conto della pena aumentata ai sensi dell’art. 81 cp (art 53, comma 3, l. n. 689/1981). Ciò significa, come sottolineato dalla relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo, che «il giudice potrà sostituire la pena detentiva solo se, dopo aver determinato l’aumento di pena per il concorso formale o la continuazione dei reati, la pena detentiva risulti irrogata in misura non superiore a quattro anni»[3]. La previsione sembra di sfavore rispetto al precedente regime – in cui era possibile tener conto soltanto della pena da infliggere per il reato più grave, con conseguente possibilità di applicare pene sostitutive anche nel caso di successivo aumento massimo (il triplo) per il concorso formale o la continuazione –, ma rappresenta l’inevitabile portato dell’estensione sino a quattro anni della pena detentiva breve: un conto era sostituire sei anni (due anni per il reato più grave aumentato del triplo), un conto sarebbe ora sostituire una pena potenzialmente di dodici anni. Pena detentiva breve, dunque, si conferma quella entro il limite massimo dei quattro anni, comprensivi degli aumenti ex art. 81 cp.

È bene precisare che tra le pene sostitutive non sussiste un ordine gerarchico tipizzato dal legislatore e che l’applicazione dell’una o dell’altra, come si vedrà, rientra nella discrezionalità del giudice. 

Presupposto perché operi il meccanismo sostituivo, inoltre, è che il giudice decida di non sospendere la pena quando la stessa sia irrogata entro la misura prevista dall’art. 163, commi 1-3, cp. 

Tra sospensione condizionale della pena e applicazione di pene sostitutive si stabilisce ora un regime di incompatibilità: se la pena è sospesa non può essere sostituita; se la pena è sostituita non può essere sospesa (art. 61-bis l. n. 689/1981). Chiaro che tale incompatibilità è favorita dal disallineamento tra limiti di pena necessari per ottenere la sospensione (due anni) e quelli (quattro anni) in relazione ai quali è possibile ottenere la sostituzione. Tuttavia, la previsione che fa esplicito divieto di sospendere la pena sostitutiva, quando la medesima è applicata entro il limite edittale in cui concorre con l’istituto di cui all’art. 163 cp, si rivela determinante per un’effettiva rivitalizzazione del meccanismo sostitutivo, sino ad oggi paralizzato anche dalla sospensione condizionale. 

Rimane comunque, per il condannato a pena sostitutiva, la possibilità di ottenere la non menzione della condanna negli stessi limiti temporali previsti dall’art. 175 cp. Opzione tanto saggia da un punto di vista rieducativo quanto imposta dalla ragionevolezza: impensabile che lo stigma della menzione, con i suoi connotati desocializzanti, non operi nei confronti del condannato a pena detentiva e colpisca invece un condannato ritenuto meritevole di sostituzione.

Il definitivo ingresso nel codice penale della pena detentiva breve e la sua coincidenza con la pena sospendibile ai sensi dell’art. 656, comma 5, cpp induce a una riflessione critica sulla sottrazione di un punto del delicato settore delle misure cautelari all’azione riformatrice della legge delega. L’intenzione non è di piangere sul latte versato, ma di provare a richiamare l’attenzione del legislatore futuro su almeno un profilo rilevante. L’art. 275, comma 2-bis, cpp sancisce il divieto – salve le dovute eccezioni (categorie di reati particolarmente allarmanti, trasgressioni alle prescrizioni) – di applicazione della custodia cautelare in carcere nei casi in cui il giudice ritenga che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Le norma, introdotta nel 2014, palesava la ratio di evitare il più possibile la misura custodiale quando era prevedibile che, all’esito della condanna, l’ordine di esecuzione sarebbe stato sospeso ai sensi dell’art. 656, comma 5, cpp. Benché il legislatore abbia successivamente innalzato a quattro anni la soglia edittale per ottenere la misura dell’affidamento, la sospensione dell’ordine di esecuzione è rimasta possibile entro il limite di tre anni ed è stato necessario l’intervento interpolatore della Corte costituzionale (la già citata sentenza n. 41/2018) per elevare a quattro anni la soglia edittale di sospensione dell’ordine di esecuzione. Nel sistema, tuttavia, è rimasta una sfasatura evidente: il divieto di applicazione della custodia è rimasto legato alla prevedibilità di irrogazione di una pena inferiore a tre anni. La legge delega – che, come visto, ha definitivamente riparametrato il concetto di pena detentiva breve, tarandolo sulla pena sospendibile in sede esecutiva – avrebbe potuto offrire l’occasione per un riallineamento anche della disciplina dell’art. 275, comma 2-bis, cpp, creando un miglior coordinamento tra procedimento cautelare, meccanismo della sostituzione, fase esecutiva. È constatazione empirica, peraltro, che dalle misure cautelari arrivino i pericoli maggiori per i numeri del carcere.

 

3. Dalle misure alternative alle nuove pene sostitutive

La semplice lettura dell’elenco delle pene sostitutive, riportato all’inizio di questo approfondimento, lascia immediatamente intuire come la riforma anticipi all’esito del giudizio di cognizione le alternative al carcere. Le discipline della semilibertà e della detenzione domiciliare, non a caso, sono in gran parte mutuate dalle disposizioni riguardanti le omologhe misure alternative (artt. 47-ter e 48 o.p.). 

Come sopra precisato, tuttavia, l’art. 20-bis cp rinomina specificamente tali misure (così come il lavoro di pubblica di utilità e la pena pecuniaria), facendo seguire al nome di ognuna di essa l’aggettivo «sostitutiva/o». 

Anche in questa ipotesi non è un’operazione meramente terminologica, perché a nomi diversi si accompagnano sostanze differenti per aspetti non trascurabili. La detenzione domiciliare sostitutiva, ad esempio, assume caratteristiche assai differenti dalla detenzione domiciliare prevista dall’ordinamento penitenziario e si dimostra di gran lunga più appetibile. Discorso analogo vale per la semilibertà e per il lavoro di pubblica utilità, il quale ultimo, pur essendo ricalcato sulle norme di cui al d.lgs 28 agosto 2000, n. 274, assume una più marcata fisionomia di pena-programma.

Un ragionamento a parte merita la pena pecuniaria: l’unica superstite delle “antiche” sanzioni sostitutive, infatti, viene vestita dalla riforma con abiti europei e all’altezza della prospettiva risocializzante, in direzione della quale anche la sanzione patrimoniale deve essere incanalata.

Una descrizione delle pene sostitutive è ora indispensabile, sia pure limitata agli aspetti più significativi. L’analisi dettagliata procederà dalla più alla meno afflittiva, seguendo l’ordine logico di trattazione sotteso al testo normativo.

 

3.1. La semilibertà sostitutiva (art. 55 l. n. 689/1981)

Si tratta, come noto, dell’unica pena sostitutiva che comporta la permanenza in carcere per una parte della giornata. Due dati normativi, che verranno in seguito scrutinati – il riferimento al minor sacrificio della libertà personale tra i criteri che guidano la discrezionalità del giudice e l’obbligo motivazionale rafforzato che assiste la decisione in favore della più afflittiva delle pene sostitutive –, inducono a ritenere che la semilibertà si configuri come opzione da perseguire soltanto quando le misure meno afflittive non siano in grado di contemperare in modo adeguato il progetto di risocializzazione del condannato con le esigenze di sicurezza e prevenzione. Sarà importante verificare che la prassi giudiziaria, troppo spesso assorbita dai cliché del dibattito sulla paura della criminalità[4], mantenga la semilibertà del campo delle opzioni residuali, al fine di non vanificare la mission di decarcerizzazione delle pene brevi che accompagna la riforma e di non affollare i già insufficienti reparti dedicati ai semiliberi, situati oltre il muro di cinta del carcere (a tutto svantaggio, peraltro, di chi raggiunge la semilibertà quale tappa del percorso di riduzione dell’ergastolo). 

Mentre l’art. 48 dell’ordinamento penitenziario, nel prescrivere il contenuto della misura alternativa, fa generico riferimento a una parte della giornata da trascorrere in carcere, l’art. 55 precisa che l’obbligo di permanenza in carcere deve essere di almeno otto ore al giorno. In altri termini, il giudice può ridurre a otto ore la componente detentiva della “giornata tipo” del semilibero, stabilendo che la residua parte, fino a sedici ore, sia occupata dallo svolgimento di attività di lavoro, di studio, di formazione professionale o comunque utili alla rieducazione e al reinserimento sociale secondo un programma di trattamento predisposto dall’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe). 

La formulazione del programma di trattamento da parte dell’Uepe costituisce, assieme alle altre di cui si dirà, innovazione non trascurabile, segnando anche un ulteriore profilo di discrimine dalla misura alternativa applicabile dal tribunale di sorveglianza. L’art. 101 del dPR 30 giugno 2000, n. 230 (meglio noto come regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario), applicabile alla pena sostitutiva in quanto compatibile, prescrive che l’ordinanza di ammissione alla semilibertà venga inviata in copia alla direzione dell’istituto penitenziario e che sia poi il direttore, entro cinque giorni, a formulare il programma di trattamento, anche in via provvisoria, destinato a essere approvato dal magistrato di sorveglianza. La disciplina della pena sostitutiva, al contrario, in un’ottica più marcatamente risocializzante, sottrae alle direzioni la formulazione del programma per affidarla all’Uepe e, di fatto, inverte la scansione temporale: prima il programma dell’Uepe e poi l’ordinanza di ammissione da parte del giudice, se necessario corredata da ulteriori e opportune prescrizioni. Siamo di fronte, dunque, a un vero e proprio esperimento e le prassi maturate nei tribunali di sorveglianza sorreggeranno soltanto fino a un certo punto l’avvio della riforma. Una conferma la si trova nella circostanza, sottolineata dalla relazione illustrativa, che nel 2021 le persone ammesse alla misura alternativa della semilibertà direttamente dalla libertà sono state soltanto 94. Un numero irrisorio se paragonato a quello degli affidamenti in prova (17.961) e delle detenzioni domiciliari (8088) nello stesso anno. Non vi è dubbio, pertanto, che in questo campo la prassi sia chiamata a costruirsi quasi ex novo.

A connotare in termini risocializzanti la pena sostitutiva in questione è il principio di territorialità che deve sostenerla. È specificamente previsto, infatti, che i condannati alla semilibertà sostitutiva siano assegnati in appositi istituti (o sezioni autonome di istituti ordinari) situati nel comune di residenza, di domicilio, di lavoro o di studio del condannato o, comunque, in un comune vicino. La prossimità spaziale dell’istituto penitenziario ai luoghi ove si svolge la vita all’esterno del condannato – al centre of main interests, verrebbe da dire mutuando il concetto dalla disciplina della crisi e dell’insolvenza – attutisce di gran lunga l’aspetto di isolamento e separazione che connota la componente detentiva di tale pena. 

Chi conosce le vicende esecutive della semilibertà, inoltre, sa quanto sia importante che il condannato riesca quotidianamente a spostarsi sul territorio con una certa facilità. È particolarmente felice, pertanto, la scelta di escludere l’applicazione dell’art. 120 del codice della strada a questa categoria di semiliberi (così come alle altre pene sostitutive), i quali non si vedono privati della possibilità di conseguire e mantenere la patente di guida. Non è un privilegio: avere la patente (e una vettura a disposizione) significa avere la possibilità di coprire più spazio in meno tempo e di non precludersi opportunità lavorative soltanto perché collocate oltre una certa distanza o perché necessitanti la patente di guida come precondizione. Un passo avanti nella prospettiva dell’integrazione da esportare anche in altri terreni dell’esecuzione, coraggioso in quanto non incline a compiacere i peggiori sentimenti pubblici di pervicace stigmatizzazione dei condannati.

Ai fini del ragguaglio, ovviamente, un giorno di semilibertà equivarrà a un giorno di pena detentiva. 

 

3.2. La detenzione domiciliare sostitutiva (art. 56)

Anche in questo caso l’aggettivo «sostitutiva» non è irrilevante. Esistono differenze consistenti tra le ipotesi previste dall’ordinamento penitenziario a titolo di misura alternativa e questa detenzione domiciliare. Valutata attentamente, la pena sostitutiva presenta un elevato grado di attitudine risocializzante, merito di un impegno legislativo diretto a specificare meglio il contenuto della misura (lasciando meno spazio ad alcuni inutili rigorismi creati al banco del giudice) e, almeno a livello astratto, a sancirne la fruibilità anche da parte di condannati privi di risorse. Insomma, poveri e marginali – la maggior parte di coloro che compiono reati puniti con pena detentiva breve e, soprattutto, la maggior parte di coloro che vengono condannati – potrebbero aspirare alla misura, se si saprà dare seguito alla promessa normativa in base alla quale «se il condannato non ha la disponibilità di un domicilio idoneo, l’ufficio di esecuzione penale esterna predispone il programma di trattamento, individuando soluzioni abitative anche comunitarie adeguate alla detenzione domiciliare». Si tratta, come rimarcato dalla relazione illustrativa, di una soluzione tratta dalle norme in materia di esecuzione penale minorile (art. 2, comma 11, d.lgs n. 121/2018), fortemente ispirata dal principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 cpv della Carta e che, debitamente implementata nella prassi – in questo senso sarebbe auspicabile sviluppare le esperienze ormai più che embrionali attivate dalla Direzione generale esecuzione penale esterna e da Cassa ammende nel periodo pandemico –, potrà sottrarre all’inutile esecuzione carceraria di pene brevi una significativa parte dalla cd. “detenzione sociale”. 

Chissà, inoltre, che la sperimentazione non semini idee per una nuova visione (filosofica, politica, architettonica) del modello penitenziario: dalla casa circondariale e di reclusione alla comunità abitativa. 

Il contenuto detentivo della pena in oggetto, come anticipato, è in parte delimitato dal legislatore. La pena comporta l’obbligo di rimanere nella propria abitazione (o nei luoghi assimilabili descritti dalla norma e ripresi dalle disposizioni di ordinamento penitenziario) per non meno di dodici ore al giorno, determinato dal giudice tenuto conto di comprovate esigenze familiari, di studio, di formazione professionale, di lavoro e di salute del condannato e sulla base del programma di trattamento formulato dall’Uepe. A garanzia del condannato è previsto anche il limite minimo di permanenza fuori dal domicilio: si prevede che il detenuto possa lasciare il domicilio per almeno quattro ore al giorno, anche non continuative, per provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita e di salute. Possiamo dire, dunque, di trovarci di fronte a un equilibrato missaggio tra tipizzazione legislativa, in chiave garantista (il limite minimo di permanenza all’esterno), e flessibilità del contenuto da plasmare in aula in funzione delle mutevoli esigenze del condannato. Così costruita la misura è senz’altro attraente per chi voglia evitare l’alea del giudizio di sorveglianza: la pena sostitutiva che si può ottenere con ragionevole probabilità (certezza in caso di patteggiamento) immediatamente dopo la condanna è assai più simile a quell’affidamento in prova di quanto non riveli il nomen iuris della pena. 

Rimandando alla lettura della norma per la disciplina di dettaglio (con aspetti importanti riguardanti la tutela della persona offesa, la possibilità anche in questo caso di mantenere la patente di guida, il divieto di applicazione della pena in domicili occupati abusivamente), preme mettere l’accento sulla previsione che, analogamente a quanto stabilito in materia di arresti domiciliari cautelari e misura alternativa, consente al giudice, quando lo ritenga necessario per prevenire il pericolo di recidiva o tutelare la persona offesa, di adottare procedure di controllo a distanza, come il cd. braccialetto elettronico. Si registra, peraltro, un’importante inversione di tendenza rispetto alle ultime e insoddisfacenti scelte del legislatore in questo delicato ambito. Come noto, il decreto ristori subordinava l’applicazione della detenzione domiciliare prevista per il periodo pandemico (art. 30 decreto n. 137/2020) alla effettiva disponibilità del braccialetto. Le cose cambiano per la pena sostitutiva, dal momento che si è saggiamente sancito che l’eventuale indisponibilità del mezzo di controllo elettronico non può ritardare l’inizio dell’esecuzione della pena.

Il parametro di ragguaglio è pacificamente quello che equipara un giorno di detenzione a un giorno di pena detentiva.

 

3.3. Il lavoro di pubblica utilità sostitutivo (art. 56-bis)

Per la prima volta nel nostro ordinamento, il lavoro di pubblica utilità (LPU) viene previsto quale pena sostitutiva generale in caso di condanna a pene detentive non superiori a tre anni. Come noto, il LPU ha già dato buona prova di sé sul terreno delle contravvenzioni legate alla guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, nonché nell’ambito della messa alla prova (di cui è elemento contenutistico obbligatorio). 

A differenza della semilibertà e della detenzione domiciliare, il LPU non presenta alcun aspetto detentivo e la disciplina dettata dal decreto legislativo, come detto, è derivata dall’omologa pena principale irrogata dal giudice di pace (art. 54 d.lgs n. 274/2000), a partire dalla definizione: il LPU altro non è che attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, i Comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale e volontariato. Chiaro, pertanto, che la sua applicazione necessiti di consenso o mancata opposizione del condannato per evitare il conflitto con il divieto convenzionale di lavori forzati (art. 4 Cedu).

Sono molteplici i tratti differenziali che diversificano la pena sostitutiva da quella principale applicata dal giudice di pace, e sono in gran parte ascrivibili alla maggior durata della pena sostitutiva, chiamata a surrogare pene detentive fino a tre anni (il meccanismo sanzionatorio previsto dall’art. 54 d.lgs n. 274/2000 ha durata massima di sei mesi). È stato così previsto che il lavoro sostitutivo comporti la prestazione di non meno di sei ore e di non più di quindici ore settimanali, da svolgere con modalità e tempi che non compromettano, oltre che le esigenze di studio, famiglia e salute, anche i tempi del lavoro libero e retribuito del condannato. Disposizione rivelatrice, quest’ultima: se il lavoro di pubblica utilità rimane qualcosa che si aggiunge alle ordinarie attività di risocializzazione, potendo addirittura pregiudicarle, è evidente che esso si muova in una logica che replica, umanizzandola, quella del castigo. 

A richiesta specifica del condannato, quest’ultimo può essere ammesso a prestare lavoro per più di quindici ore, ma la durata giornaliera della prestazione non può eccedere le otto ore giornaliere. Viene comunque confermato, ai fini di ragguaglio alla pena detentiva sostituita, che un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione di due ore lavorative (come da esempio contenuto nella relazione illustrativa, pertanto, 30 giorni di reclusione o arresto corrisponderanno a 60 ore lavorative).

Un profilo interessante della disciplina è da correlarsi al fatto che, in caso di decreto penale di condanna e patteggiamento, il positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, se accompagnato dal risarcimento del danno o dall’eliminazione delle conseguenze dannose del reato, ove possibili, «comporta la revoca della confisca eventualmente disposta, salvi i casi di confisca obbligatoria, anche per equivalente, del prezzo, del profitto o del prodotto del reato ovvero delle cose la cui fabbricazione, uso e porto, detenzione o alienazione costituiscano reato». La norma è chiaramente ispirata alla disciplina del LPU in materia di contravvenzioni stradali, nella quale la revoca della confisca ha contribuito al successo applicativo della pena sostitutiva. Nel caso della pena sostitutiva generale, tuttavia, la revoca della confisca è associata esclusivamente alla scelta dei riti alternativi – decreto penale o patteggiamento – il cui utilizzo, nel suo complesso, la riforma mira a incentivare per ridurre i tempi del processo penale. All’atto pratico, tuttavia, è lecito dubitare di un numero elevato di confische facoltative irrogate a richiesta delle parti. 

Nell’ipotesi di LPU, l’obiettivo di deflazione processuale è perseguito anche attraverso l’inappellabilità della sentenza che commina tale pena, aspetto che, come si vedrà, pare imporre al consenso dell’imputato requisiti di forma. 

Per la disciplina minuta, comprensiva della possibilità di mantenere la patente di guida (decisiva anche per lo svolgimento di alcuni lavori), si rinvia al nuovo art. 56-bis.

 

3.4. La pena pecuniaria sostitutiva (art. 56-quater)

Unica sopravvissuta delle originarie sanzioni sostitutive previste dalla legge n. 689/1981, la pena pecuniaria sostitutiva cambia pelle. Due gli elementi di novità in grado di rivitalizzarla, renderla effettiva e, allo stesso tempo, risocializzante: il raddoppio del limite massimo di pena sostituibile – da sei mesi a un anno – e, più di ogni altra cosa, la modifica del valore giornaliero applicabile al condannato. Sotto quest’ultimo profilo, la norma conferma che «per determinare l’ammontare della pena pecuniaria sostitutiva il giudice individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva»: sin qui una previsione in linea con il sistema a quote giornaliere tipico dei principali Paesi europei e già introdotto nel nostro ordinamento in riferimento alle sanzioni sostitutive con la l. n. 134/2003. La percezione dell’effettivo cambiamento, tuttavia, si ottiene continuando nella lettura della norma, nella quale viene fornita una definizione del concetto di «valore giornaliero» più calibrata sulle esigenze di vita del condannato e precisato un limite minimo e massimo del valore stesso. Si stabilisce, infatti, che il valore continui a corrispondere come in passato alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, ma debba essere ora determinato tenendo conto delle complessive condizioni non solo economiche, ma anche patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare. Inoltre, si fissa un valore minimo pari a euro 5 – il massimo rimane 2.500 euro per giorno di pena detentiva – in maniera del tutto indipendente dall’art. 135 cp. 

Per cogliere la portata innovativa di quest’ultima prescrizione – che recepisce le indicazioni della Corte costituzionale (sentt. nn. 15/2020 e 28/2022) sulla inevitabile compressione del ricorso al meccanismo sostitutivo da parte dei non abbienti con un valore minimo pari a euro 250 – è sufficiente rifarsi all’esempio tratto dalla stampa di marzo 2015 e contenuto nella relazione illustrativa dello schema di decreto: un pensionato, responsabile di furto dai banchi di un supermercato di una salsiccia di valore inferiore a due euro, era stato condannato a 45 giorni di reclusione, poi sostituiti con la multa di euro 11.250. La nuova disposizione risponde a esigenze realmente avvertite: rendere la sostituzione della pena pecuniaria un meccanismo percorribile da chi, condannato per reati di modesto allarme sociale – un solo anno di pena detentiva è il limite in cui opera la sostituzione –, prima d’ora non poteva neppure sognarsi di pagare una pena ragguagliata agli esosi parametri di cui all’art. 135 cp, oppure era costretto a mettere già in conto di non pagarla. La pena pecuniaria sostitutiva prima della riforma, a guardarla da vicino, non aveva attitudine rieducativa – costringendo al carcere chi non poteva permettersela – né efficacia deterrente, scalfendo di poco la capacità patrimoniale del ricco. Se il pensionato tornasse a commettere quel reato ora, sottolinea ancora la relazione, supponendolo indigente, potrebbe vedersi sostituiti i 45 giorni di pena detentiva con una proporzionata multa di euro 225. 

Occorre mettere in risalto un ulteriore aspetto, più strettamente collegato all’intento di deflazione penale: la pena detentiva fino a un anno può ora essere sostituita anche in sede di decreto penale di condanna e, in questo caso, il limite massimo del valore giornaliero è pari a euro 250. Senza dubbio, un incentivo teso a scongiurare impugnazioni del decreto. 

Quale ulteriore meccanismo di individualizzazione del trattamento sanzionatorio pecuniario, viene conservata la facoltà di concedere il pagamento rateale ai sensi dell’art. 133-ter cp. Anche qui corre l’obbligo di segnalare novità importanti, posto che anche l’art. 133-ter subisce modifiche: aumenta il numero di rate – dai sei a sessanta in luogo dell’attuale forchetta da tre a trenta, da valutarsi anche alla luce delle condizioni patrimoniali e non solo di quelle economiche – e non sono dovuti interessi sugli importi rateizzati.

Preme immediatamente rilevare, anticipando qui alcuni cenni relativi all’esecuzione della sola pena pecuniaria sostitutiva, che le modifiche normative che hanno interessato quest’ultima si accompagnano a un’incisiva e rigorosa riforma del generale sistema di esecuzione e conversione delle pene pecuniarie (art. 660 cpp). La fatidica domanda relativa a cosa possa accadere in caso di mancato pagamento di multa e ammenda, anche sostitutive, trova ora una risposta meno farraginosa e fiacca di quella che si poteva offrire sino al 30 dicembre 2022[5]

Il nuovo testo dell’art. 660 cpp (da leggere unitamente alla riformata formulazione dell’art. 136 cp e degli artt. 71, 102 e 103 l. n. 689/1981) scandisce sequenze chiare: quando deve essere eseguita una pena pecuniaria, anche sostitutiva, il pubblico ministero emette ordine di esecuzione – contenente una serie di informazioni che spaziano dall’imputazione e ammontare della pena al dispositivo della decisione, dalla facoltà di chiedere la restituzione nel termine per impugnare in caso di processo in assenza alla facoltà di accedere a programmi di giustizia riparativa e alla possibilità di chiedere il pagamento rateale non disposto in sede sentenza o decreto irrevocabile – con il quale ingiunge al condannato il pagamento nel termine di 90 giorni (30 giorni per il pagamento della prima rata in caso di rateizzazione); accanto all’intimazione di pagamento deve comparire l’avviso che, in caso di mancato pagamento, la pena pecuniaria principale sarà convertita in semilibertà sostitutiva ovvero, in caso di insolvibilità, in quella del lavoro di pubblica utilità sostitutivo o della detenzione domiciliare sostitutiva, mentre la pena pecuniaria sostitutiva sarà convertita in quella della semilibertà sostitutiva o della detenzione domiciliare sostitutiva, salvo i casi di insolvibilità, per i quali è prevista la conversione in lavoro di pubblica utilità o detenzione domiciliare sostitutiva; in caso di pagamento, il pubblico ministero accerta e dichiara l’esecuzione della pena pecuniaria, mentre in caso di mancato pagamento nei termini trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza per la conversione da disporre attraverso la snella procedura di cui all’art. 667, comma 4, cpp. Contro l’ordinanza di conversione è ammesso ricorso che sospende l’esecuzione e, a conversione effettuata, oltre ad essere sempre ammesso il pagamento con revoca immediata della pena sostitutiva, è anche prevista la possibilità di chiedere nuovo pagamento rateale, con sospensione dell’esecuzione della pena conseguente alla conversione dopo la verifica del pagamento della prima rata.

Un procedimento lineare, dunque, caratterizzato – come è stato osservato – da una spiccata propensione verso la «politica dei ponti d’oro»[6] all’adempimento spontaneo (in quest’ottica va letta, oltre alla disciplina sostanziale, la consistente estensione delle opportunità di pagamento rateale), unita a un rigore in sede di conversione che, comunque, tende a evitare lo spettro del carcere. Non è sancita, infatti, la conversione immediata nella pena detentiva corrispondente o sostituita (possibilità non esclusa dalla legge delega e invece obliterata dal decreto legislativo), sanzione che è prevista soltanto in caso di mancata esecuzione della pena conseguente alla conversione ovvero di violazione grave delle prescrizioni (con ulteriore prodromica possibilità, tuttavia, di ulteriore conversione nella pena sostitutiva più grave). 

È significativo notare, per sottolineare l’insistita ricerca dell’effettività del pagamento, che la conversione come sopra descritta è prevista non soltanto in caso di mancato pagamento incolpevole (insolvibilità), ma anche nell’ipotesi di mancato pagamento colpevole (insolvenza), vale a dire nei confronti di chi non si trovi nelle condizioni economiche tali da rendere impossibile il pagamento. La differenziazione, a livello di tipologia di pena in cui operare la conversione, è segnata dall’esclusione dell’applicazione della semilibertà sostitutiva in caso di mancato pagamento incolpevole. Non si può far a meno di osservare, tuttavia, che un particolare rigorismo è rinvenibile nel nuovo art. 103-bis l. n. 689/1981, il quale preclude l’applicabilità di tutte le misure alternative alla detenzione al condannato alla semilibertà sostitutiva o alla detenzione domiciliare sostitutiva derivanti dalla conversione della pena pecuniaria impagata. Se una tale soluzione può al limite essere giustificata nei confronti di chi non ha voluto pagare, un qualche dubbio di costituzionalità lo pone in relazione a chi si vede convertita in detenzione domiciliare una pena pecuniaria per non aver potuto pagare.

Analizzato per sommi capi il vasto quadro della nuova pena pecuniaria sostitutiva e prima di approfondire il procedimento applicativo, si deve tracciare una veloce sintesi di alcune prescrizioni comuni alle pene-programma.

 

3.5. Le prescrizioni comuni alle pene-programma 

La semilibertà, la detenzione domiciliare e il lavoro di pubblica utilità costituiscono delle vere e proprie pene-programma, imperniate come sono non soltanto su obblighi di astensione e divieti, ma su prescrizioni positive che sarà il giudice, all’esito del contraddittorio e basandosi sul progetto di trattamento dell’Uepe, a dover immaginare e calibrare. È uno dei profili di maggior pregio dell’intera disciplina. 

Il nuovo art. 56-ter l. n. 689/1981, comunque, offre un’intelaiatura comune a tutte le pene sopra descritte e lo fa stabilendo prescrizioni indefettibili, che devono essere applicate «in ogni caso»: divieto di detenere e portare a qualsiasi titolo armi, munizioni ed esplosivi; divieto di frequentare abitualmente, senza giustificato motivo, pregiudicati o persone sottoposte a misure di sicurezza o di prevenzione o che comunque espongano al pericolo di recidiva, salvo si tratti di familiari o conviventi; obbligo di permanere nell’ambito territoriale stabilito dal giudice in sede di applicazione o esecuzione della pena; ritiro del passaporto e sospensione della validità ai fini dell’espatrio di documenti equipollenti; obbligo di conservare e portare con sé il provvedimento applicativo, nonché di esibirlo a richiesta degli organi di polizia.

Saranno questi ultimi, nel dare esecuzione al provvedimento applicativo, a fornire concreta attuazione ad alcune di queste misure – ritiro del passaporto, ad esempio – e a vigilare sul puntuale adempimento delle altre (insieme all’Uepe).

Può essere anticipata in questa sede la trattazione di un altro profilo che, benché caratterizzi la fase esecutiva, è comune alle tre misure. 

Ai condannati alle pene sostitutive della semilibertà e della detenzione domiciliare possono essere concesse licenze, entro il limite massimo di 45 giorni all’anno, per giustificati motivi attinenti alla salute, al lavoro, alla formazione, alla famiglia o alle relazioni affettive. In caso di trasgressioni, la licenza può essere revocata indipendentemente dalla revoca della misura, ai sensi dell’art. 52, comma 3, o.p. Per gli stessi motivi di cui sopra, anche il lavoro di pubblica utilità può essere sospeso in misura non eccedente a 45 giorni l’anno. 

L’estensione delle licenze – tradizionale istituto che l’ordinamento penitenziario riserva ai semiliberi – alla detenzione domiciliare sostitutiva offre la misura di quanto quest’ultima sia istituto diverso dalle corrispondenti misure alternative.

 

4. Il momento applicativo ed esecutivo

 

4.1. I presupposti soggettivi

L’ambito applicativo delle pene sostitutive viene ampliato non solo sul piano oggettivo dell’entità della pena sostituibile, ma anche sul versante delle condizioni soggettive per la sostituzione della pena detentiva (art. 59 l. n. 689/1981). È un passaggio decisivo per implementare il raggio di applicazione della riforma del sistema sanzionatorio, della cui importanza il legislatore delegato, a fronte di un criterio di delega generico[7], si è dimostrato ben consapevole. Scompaiono, così, le preclusioni collegate a precedenti condanne – altra sostanziale differenza rispetto alla previgente disciplina delle sanzioni sostitutive – e le nuove ipotesi di esclusioni soggettive sono essenzialmente collegate, oltre che ai tradizionali automatismi previsti dall’art. 4-bis o.p. (art. 59, lett. d), a una cattiva sperimentazione del condannato in una precedente pena sostitutiva. In questo senso, la pena detentiva non potrà essere sostituita nei confronti di chi ha commesso il reato per cui si procede entro tre anni dalla revoca di precedente pena sostitutiva (semilibertà, detenzione domiciliare o lavoro di pubblica utilità), ovvero di coloro che hanno commesso delitto non colposo durante l’esecuzione delle medesime pene sostitutive (art. 59, lett. a). Va osservato che la preclusione non è assoluta, posto che il giudice di cognizione potrà sempre optare per l’applicazione di una pena sostitutiva più afflittiva di quella revocata. 

Nello stesso ordine di ragionamenti, con riferimento alla pena pecuniaria sostitutiva, è previsto che la medesima non possa essere applicata a chi nei cinque anni precedenti è stato condannato alla pena della multa o dell’ammenda, anche sostitutive, e non le ha pagate, ad eccezioni dei casi di conversione per insolvibilità (art. 59, lett. b).

Un’ulteriore esclusione soggettiva è poi connessa alla pericolosità sociale dell’imputato nei cui confronti deve essere applicata una misura di sicurezza personale, salvo i casi di parziale incapacità di intendere e di volere (art. 59, lett. c). 

Come si vedrà, la nuova disciplina delle preclusioni soggettive è del tutto coerente con i criteri che devono sorreggere il potere discrezionale del giudice nella sostituzione (art. 58).

Un approfondimento deve essere dedicato alla classica tematica dell’art. 4-bis o.p., anche alla luce della normativa che ha posticipato al 30 dicembre 2022 l’entrata in vigore del decreto legislativo nella parte oggetto del presente commento. 

È chiaro che il divieto di sostituzione nei confronti di condannati per reato di cui all’art. 4-bis o.p. sia volto a evitare titaniche contraddizioni di sistema: impensabile che si possa ottenere la sostituzione al banco del giudice di cognizione per poi, sia pure con i temperamenti introdotti dal d.lgs n. 150/2022, entrare nel recinto delle ostatività davanti al tribunale di sorveglianza. Tuttavia, va specificato che la nuova preclusione (art. 59, lett. d) prevede che non si possa pervenire a sostituzione «nei confronti dell’imputato di uno dei reati di cui all’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, salvo che sia stata riconosciuta la circostanza attenuante di cui all’art. 323-bis, secondo comma, del codice penale». Così concepito, il meccanismo ostativo tendeva a ricalcare la formulazione dell’art. 4-bis o.p. successivo alla l. n. 3/2019 (cd. “spazzacorrotti”). Si tratta ora di capire se la norma debba essere oggetto di un’interpretazione che la coordini con la nuova disciplina dell’art. 4-bis o.p. offerta dalla l. 30 dicembre 2022, n. 199, di conversione del dl 31 ottobre 2022, n. 162, la quale ha escluso dall’elenco dei reati ostativi alla concessione dei benefici penitenziari i delitti contro la pubblica amministrazione, eliminando al contempo ogni riferimento alla collaborazione ai sensi dell’art. 323-bis cp.

Non paiono esistere ragioni sostanziali e sistematiche che impediscano, tenendo conto della suaccennata ratio della norma di cui all’art. 59, di considerare il rinvio all’art. 4-bis o.p. quale rinvio alla fonte e a tutte le successive modifiche della stessa: anche ai delitti contro la pubblica amministrazione, pertanto, pare possa applicarsi il meccanismo della sostituzione, purché ovviamente il giudice ritenga di dover determinare la pena entro i quattro anni[8].

 

4.2. Il potere discrezionale del giudice e i criteri guida

A guidare la discrezionalità nell’applicazione e nella scelta delle pene sostitutive è la disciplina del nuovo art. 58 l. n. 689/1981, in base al quale il giudice, tenuto conto dei criteri indicati nell’art. 133 cp, può disporre pene sostitutive «quando risultano più idonee alla rieducazione del condannato e quando, anche attraverso opportune prescrizioni, assicurano la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati». Non può pervenirsi a sostituzione «quando sussistono fondati motivi per ritenere che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato»: il divieto, come anticipato, si lega alla materia delle preclusioni soggettive.

È importante mettere in luce che l’applicazione delle pene sostitutive – lo si approfondirà trattando del rapporto con le misure cautelari – non è incompatibile con il pericolo di recidiva, ma solo con quel tasso di recidiva che il giudice non reputa di poter azzerare o ridurre attraverso l’adozione di particolari prescrizioni e, naturalmente, tenendo conto del fatto che il condannato a cui non si applica il meccanismo sostitutivo si avvia a divenire (salvo misure custodiali) libero sospeso. Al giudice di cognizione, pertanto, viene affidato un compito prognostico che deve essere tarato anche sul potere di ritagliare misure idonee a prevenire pericoli di reiterazioni. Dalla prospettiva binaria – sospensione condizionale o meno – si passa a un ventaglio di possibilità che impongono al giudice, per citare un caposaldo della penalità alternativa, di «cambiare lenti»[9]

Tra le diverse pene, il giudice sceglie «quella più idonea alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato con il minor sacrificio della libertà personale, indicando i motivi che giustificano l’applicazione della pena sostitutiva e la scelta del tipo». 

L’obbligo motivazionale è rafforzato quando il giudice applica le pene maggiormente restrittive, ovvero la semilibertà e la detenzione domiciliare, venendo necessariamente meno a quel criterio di minor sacrificio della libertà personale che, come nel procedimento applicativo delle misure cautelari, impone (dovrebbe imporre) una rigorosa residualità delle opzioni più severe. In questo caso, verificabile nella sola ipotesi in cui si tratti di sostituire pene fino a tre anni, occorre indicare le specifiche ragioni per cui la pena pecuniaria e quella del lavoro di pubblica utilità si ritengano inidonee nel caso concreto. Nella scelta tra detenzione domiciliare, semilibertà e lavoro di pubblica utilità, poi, il giudice tiene conto di condizioni soggettive legate all’età, alla salute fisica o psichica, alla maternità o paternità, nonché di eventuali disturbi da uso di sostanze stupefacenti, alcoliche o da gioco d’azzardo certificati – significativa la rilevanza ordinamentale finalmente attribuita al cd. “GAP” (gioco d’azzardo patologico) – e di condizioni di immunodeficienza altrettanto certificate. 

I parametri chiamati a indirizzare la discrezionalità rivelano molto del nuovo lavoro a cui è chiamato il giudice di cognizione e, di conseguenza, il difensore. 

Il finalismo rieducativo diviene la chiave di volta non soltanto di una corretta dosimetria e della scelta in favore della sostituzione e del tipo di pena, ma anche del progetto di un trattamento sanzionatorio letteralmente costruito dal giudice e dalle parti. Corredare le pene di «opportune prescrizioni», infatti, altro non significa che modellare, plasmare un programma di trattamento individualizzato che sia il più possibile idoneo a contemperare esigenze di risocializzazione e di difesa sociale. Decisivo, in questo senso, sarà il ruolo svolto dagli uffici penali di esecuzione esterna, ma anche la capacità della difesa di sfruttare sino in fondo le potenzialità dell’art. 187 cpp e di costruire da subito temi di prova che abbiano ad oggetto i fatti che attengono alla determinazione della pena. 

 

4.3. La discrezionalità in movimento: il procedimento di applicazione

Come detto, la riforma del sistema sanzionatorio penale si coagula in un’articolata opera di incisione della l. n. 689/1981, del codice penale e, per i profili processuali, del codice di rito.

È proprio il nuovo art. 545-bis del codice di procedura penale ad adottare, con riferimento al momento applicativo, «soluzioni altamente innovative anche in sede processuale di cognizione»[10], le quali, sono dettate dall’esigenza di dare forma e cadenze al suaccennato potere discrezionale del giudice, chiamato a scegliere e sagomare pene sostitutive tipizzate solo a livello essenziale. Questo nuovo lavoro del giudice di cognizione, per il quale sono necessari saperi ulteriori rispetto a quelli impiegati nell’accertamento della responsabilità, è stato incanalato all’interno di uno schema processuale bifasico: prima la decisione sulla responsabilità, con la pubblicazione del dispositivo mediante lettura ai sensi dell’art. 545 cpp, poi l’eventuale sostituzione della pena detentiva, mediante integrazione del dispositivo rimandata (sempre che non sia possibile effettuarla nell’immediatezza) a un momento processuale successivo all’acquisizione delle informazioni dagli uffici di esecuzione penale esterna e dalle difese degli imputati. 

Le scansioni processuali dello schema, praticabile soltanto ove il giudice non sospenda la pena, prevedono che, subito dopo la lettura del dispositivo, il giudice, se ritiene sussistenti i presupposti per la sostituzione, «né dà avviso alle parti»; a questo punto, l’imputato – personalmente o a mezzo di procuratore speciale – deve prestare il consenso alla sostituzione con una pena sostitutiva diversa dalla pecuniaria. Il giudice, ottenuto il consenso dell’imputato o preso atto della possibilità di sostituire la pena detentiva con la pena pecuniaria, sentito il pubblico ministero, si trova di fronte a due opzioni: decidere immediatamente, avendo già a disposizione un sufficiente bagaglio informativo, oppure fissare «una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all’Ufficio di esecuzione penale esterna; in tal caso il processo è sospeso».

È in questa fase che scatta, da parte dell’Uepe e del giudice, un lavoro di acquisizione di informazioni, esterne alla stretta sfera di cognizione, che riguardano anche «le condizioni di vita, personali, familiari, sociali, economiche e patrimoniali dell’imputato». 

Sono informazioni fondamentali per costruire il programma di trattamento della semilibertà, della detenzione domiciliare e del lavoro di pubblica utilità – programma che il giudice può chiedere direttamente all’Uepe e che, come visto, è comprensivo di ipotesi terapeutiche – e il giudicante non è chiamato a cercarle in splendida solitudine: decisivo, come detto, è il ruolo dell’Uepe, ma anche quello delle difese, che possono depositare documentazione agli stessi Uepe e, fino a cinque giorni prima dell’udienza, presentare memorie in cancelleria. Il progetto della pena sostitutiva sarà tanto più sottratto al monopolio del giudicante quanto più aumenteranno i contributi informativi dell’Uepe e, soprattutto, delle parti. È questa, forse, la vera gemma dell’intera riforma, ritagliata sull’esigenza di costruire fin da subito, a poca distanza temporale dal fatto, un trattamento il più possibile individualizzato e conforme alle esigenze del singolo condannato. 

L’art. 545-bis lascia intendere che il ricorso all’Uepe potrebbe non essere necessario nella fase applicativa della pena sostitutiva. Il meccanismo sospensivo, infatti, è facoltativo e al giudice è accordata la possibilità di decidere immediatamente dopo il consenso delle parti. Inoltre, la stessa norma evidenzia che il giudice, anche in caso di sospensione, può richiedere all’Uepe il programma di trattamento delle pene-programma, così automaticamente stabilendo che tale potere rientra in una discrezionalità valutabile dal giudice. Pare sostenibile, pertanto, che la sostituzione con la pena della detenzione domiciliare – quella che di norma esige meno approfondimento delle condizioni personali – possa nella generalità dei casi essere disposta anche in assenza di programma dell’Uepe, la cui formulazione (necessaria ai fini della presa in carico) può essere rimandata a un momento successivo a quello dell’applicazione[11]. Non sembra che questa soluzione sia impedita dalla previsione dell’art. 56, comma 2, l. n. 689/1981, la quale stabilisce che «il giudice dispone la detenzione domiciliare sostitutiva tenendo conto anche del programma di trattamento elaborato dall’ufficio di esecuzione penale esterna, che prende in carico il condannato e che riferisce periodicamente sulla sua condotta e sul percorso di reinserimento sociale». La disposizione, interpretata nel senso dell’obbligatorietà del programma per disporre la sostituzione con la detenzione domiciliare, entrerebbe in rotta di collisione con quella di cui all’art. 545-bis cpp, che soltanto facoltizza il giudice al ricorso all’Uepe nella fase applicativa. La scelta di omettere il passaggio all’Uepe – in caso di sussistenza di tutti i presupposti per poter decidere la sostituzione – risponde anche a esigenze di celerità processuale e di minor aggravio del lavoro degli Uepe, con aumento delle possibilità di successo dell’intervento riformatore a regime. 

La scelta di effettuare il sentencing sostitutivo dopo la lettura del dispositivo è un bene, non solo per avere piena contezza delle possibilità di sostituzione (entità della pena, assenza di preclusioni), ma anche per salvaguardare la bontà epistemologica del giudizio sul fatto: anticipare il momento di acquisizione delle informazioni sulle condizioni di vita dell’imputato e il coinvolgimento dell’Uepe a un momento antecedente la decisione avrebbe fatto correre il rischio, magari anche a livello di residuo alogico, di giudizi basati sulla personalità dell’autore oltre che sul fatto, con aggiramento del presidio offerto dall’art. 220 cpp.

Prima di andare avanti nell’esposizione del modello, è importante soffermarsi su due aspetti: l’avviso del giudice che attiva il sentencing sostitutivo; le modalità del consenso dell’imputato. 

L’art. 545-bis cpp, come visto, prevede che subito dopo la lettura del dispositivo, il giudice, se ricorrono le condizioni per sostituire la pena detentiva, ne dia avviso alle parti. La disposizione, caratterizzata da insolita asciuttezza rispetto alla diffusa minuzia dell’intervento riformatore, lascia aperto lo spazio per un dubbio: nel giudizio sulla sussistenza delle condizioni per sostituire la pena detentiva deve essere ricompreso soltanto il vaglio sulla presenza dei presupposti oggettivi (limite edittale) e sull’assenza di quelli soggettivi assoluti (condanna per reato di cui all’art. 4-bis) ovvero anche la valutazione sui fondati motivi per ritenere che il condannato non rispetterà le prescrizioni? Detto in altri termini: il giudice, a fronte della compresenza di tutti i presupposti obiettivi della sostituzione, può omettere di dare avviso alle parti per aver ritenuto un pericolo di recidiva incompatibile con l’attivazione del meccanismo sostitutivo? La domanda non pare un’inutile complicazione, posto che è strettamente correlata alla verifica se, nel caso appena detto, il mancato avviso possa costituire un autonomo (e vittorioso) profilo di impugnazione in rito per omesso contraddittorio. 

Un’interpretazione conforme alla complessiva ratio della riforma – basata sul consenso dell’imputato per attivare la sostituzione con le pene-programma (quella officiosa è prevista per la sola pecuniaria) – dovrebbe indurre a preferire una soluzione che imponga al giudice di dare avviso alle parti sulla base dei soli presupposti obiettivi e in fase anteriore alla decisione sull’idoneità della misura a prevenire il pericolo di recidiva. Una volta dato l’avviso, il giudice potrà decidere immediatamente anche in senso negativo nei seguenti casi: l’imputato non presta il consenso (o non è in grado di prestarlo perché il difensore non è munito di procura speciale); l’imputato presta il consenso, ma il giudice, dopo l’interlocuzione delle parti, reputa del tutto inidonee le pene sostitutive. Ovvio che, in quest’ultimo caso, l’impugnazione sarà solo sui profili di merito che hanno indotto il giudicante alla decisione negativa. Una tale interpretazione pare tenere assieme l’esigenza di non investire l’Uepe in casi superflui (suscitando del pari aspettative nell’imputato) e di garantire il più ampio contraddittorio.

Con riferimento al consenso, viceversa, occorre porre attenzione alle caratteristiche formali del medesimo. La norma esige che sia espresso personalmente o a mezzo procuratore speciale: siamo nel campo, come evincibile anche dalla relazione illustrativa, degli atti personalissimi. Inevitabile che sia così, per le diverse conseguenze personali che la scelta comporta. Il consenso al lavoro di pubblica utilità, oltre a essere imposto dal già ricordato divieto convenzionale di lavoro forzato (art. 4 Cedu), è strettamente collegato all’inappellabilità della sentenza di condanna a tale pena. La pena sostitutiva del lavoro non comporta alcun profilo detentivo; il legislatore ha così potuto accelerare sul terreno della deflazione processuale. L’opzione, tuttavia, non può prescindere dal consenso dell’imputato, che pare dover assumere le stesse forme della rinuncia all’impugnazione (art. 589 cpp nella nuova formulazione)[12]

Il consenso personale (o a mezzo procuratore speciale) ed esplicito alla sostituzione con semilibertà e detenzione domiciliare si regge su ragioni altrettanto valide: le sentenze di condanna a quelle pene sostitutive, una volta irrevocabili, diverranno immediatamente esecutive e non saranno sospese ai sensi dell’art. 656, comma 5, cpp. L’immediata esecutività si correla alla necessità di dare subito corso al progetto di risocializzazione contenuto nelle pene sostitutive, senza gli intervalli temporali che i liberi sospesi devono attendere per vedere esaminata da un tribunale di sorveglianza la propria domanda di misura alternativa. Con il consenso, inoltre, l’imputato accetta che, in caso di semilibertà e detenzione domiciliare, l’affidamento in prova possa essere chiesto soltanto dopo l’espiazione di metà della pena (art. 47, comma 1-ter, o.p.).

Ciò detto, vediamo cosa succede nell’udienza calendarizzata al fine di decidere sulla sostituzione. Acquisiti gli atti, i documenti e le informazioni di cui si è detto, sentite le parti presenti, il giudice, se sostituisce la pena detentiva, integra il dispositivo indicando la tipologia di pena con le relative prescrizioni; in caso contrario, conferma il dispositivo. Del dispositivo integrato o confermato è data lettura in udienza ai sensi e per gli effetti dell’art. 545 cpp. Nessun dubbio, dunque, che sia questo il momento da cui calcolare i termini per il deposito della motivazione – estesa ai criteri che hanno guidato la scelta sostitutiva – e per eventuali impugnazioni. In caso di motivazione contestuale, ovviamente, quest’ultima è differita al momento della lettura del secondo dispositivo e può essere sostituta da un’esposizione riassuntiva. 

Va precisato che analoghi meccanismi di sospensione sono previsti nel patteggiamento (art. 448, comma 1-bis, cpp) e nel procedimento per decreto quando, in quest’ultimo caso, si debba pervenire, entro gli stessi limiti di sostituzione con la pena pecuniaria (un anno), alla sostituzione con lavoro di pubblica utilità (art. 459, comma 1-ter, cpp). Come in parte anticipato, la possibilità della sostituzione in sede di decreto penale di condanna e di patteggiamento potenzia tali riti alternativi. Si assiste a un ampliamento dell’area di operatività del procedimento per decreto in ragione del raddoppio del limite di pena detentiva sostituibile e della possibilità di applicare il lavoro di pubblica utilità in tale sede; allo stesso tempo, aumenta la forza attrattiva del patteggiamento, che ora consente l’applicazione di una pena sostitutiva sino a quattro anni con certezza di evitare il carcere.

Una disciplina ad hoc (art. 554-ter cpp), inoltre, è stata introdotta per conciliare, nei giudizi a citazione diretta, la disciplina della sostituzione con quella della nuova udienza predibattimentale.

 

4.4. La fase esecutiva

Richiamato il principio di immediata esecutività delle pene sostitutive, occorre ora vedere quali forme assuma l’esecuzione. La disciplina è contenuta nel novellato art. 661 cpp, che per l’esecuzione della semilibertà e della detenzione domiciliare richiama il riformato art. 62 l. n. 689/1981, per il lavoro di pubblica utilità fa riferimento all’art. 63 della medesima legge e, infine, per la pena pecuniaria, al già descritto meccanismo di cui all’art. 660 cpp.

L’esecuzione della semilibertà e della detenzione domiciliare sostitutive, assimilabili alle omologhe misure alternative, spetta al magistrato di sorveglianza competente sulla base del luogo di domicilio del condannato. Sarà il pubblico ministero a trasmettere la sentenza al magistrato di sorveglianza, il quale, previa verifica dell’attualità delle prescrizioni dettate dal giudice penale, entro 45 giorni dalla ricezione e all’esito di procedimento camerale non partecipato, dovrà emettere ordinanza con la quale confermare o, se necessario, modificare le modalità di esecuzione e le prescrizioni della pena sostitutiva al fine di adeguarle alle mutate esigenze di fatto. 

Non è previsto, ed è da considerarsi escluso, che il magistrato di sorveglianza possa modificare la pena sostitutiva, eventualmente applicandone una ritenuta più confacente alle mutate esigenze rieducative del condannato: la pena sostitutiva comminata dal giudice non è misura alternativa. 

È evidente che il successo o l’impasse della riforma si misurerà anche sul tempo che intercorre tra lettura del dispositivo applicativo della misura e trasmissione della sentenza definitiva al magistrato di sorveglianza: più l’intervallo si dilaterà – in ragione, ad esempio, dei tempi per decidere sulle impugnazioni –, più si correrà il rischio di mutamenti delle condizioni di fatto sottese alla scelta del giudice, con la necessità di un più lungo e approfondito lavoro istruttorio del magistrato di sorveglianza e un conseguente ampliamento della forbice temporale tra la decisione sulla pena e la concreta esecuzione della medesima. 

Non interessa soffermarsi, in questa sede, sulla fase successiva all’emissione dell’ordinanza da parte del magistrato di sorveglianza: si tratta di scansioni all’incirca simili a quelle previste per le misure alternative e che prevedono la trasmissione della decisione all’ufficio di pubblica sicurezza del comune in cui è residente il condannato – in assenza, al comando dei carabinieri territorialmente competente – per gli adempimenti prescritti dall’art. 62 sopra citato.

A differenza di quanto prescritto in riferimento alle pene sostitutive afflittive della libertà personale, l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità è rimessa allo stesso giudice che lo ha applicato: sarà la cancelleria di quest’ultimo a trasmettere all’ufficio di pubblica sicurezza la sentenza o il decreto penale esecutivo.

Di notevole interesse è capire cosa accade, in attesa dell’esecuzione, al condannato a pena sostitutiva che si trovi in misura cautelare, in particolar modo custodia in carcere e arresti domiciliari. 

Misure cautelari detentive e meccanismo sostitutivo sono infatti compatibili, in ragione dell’estensione del limite di pena sostituibile. Come sottolineato nella relazione, «la condanna a pena sostitutiva è compatibile con una quota residua di pericolo di reiterazione di condotte delittuose, ai sensi dell’art. 274, co. 1. lett. c) c.p.p., posto che la stessa legge delega prevede che il giudice detti “opportune prescrizioni” che assicurino la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati». 

Il destino delle misure cautelari è scritto nella norma di nuova introduzione di cui all’art. 300, comma 4-bis, cpp e può essere così riassunto:

- incompatibilità della prosecuzione delle misure custodiali in caso di sostituzione con la pena pecuniaria o con il lavoro di pubblica utilità: «Quando, in qualsiasi grado del processo, è pronunciata sentenza di condanna o sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444, ancorché sottoposta a impugnazione, alla pena pecuniaria sostitutiva o al lavoro di pubblica utilità sostitutivo (…) non può essere mantenuta la custodia cautelare»;

- incompatibilità della prosecuzione della sola custodia cautelare in carcere con la condanna alla pena sostitutiva della detenzione domiciliare, potendo dunque il condannato rimanere in regime di arresti domiciliari: «Negli stessi casi, quando è pronunciata sentenza di condanna o sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. alla pena della detenzione domiciliare sostitutiva, non può essere mantenuta la custodia cautelare in carcere»; 

- compatibilità della prosecuzione della custodia cautelare in carcere con l’applicazione della pena sostitutiva della semilibertà.

È fatto esplicitamente salvo (né poteva essere diversamente) il potere del giudice di sostituire, ai sensi dell’art. 299 cpp, la misura in essere con altra misura meno grave di cui ricorrano i presupposti.

Due ultimi brevi cenni sulle misure cautelari. Il primo riguarda il fatto che l’adozione del modello bifasico – sospensione del processo e rinvio a ulteriore udienza per acquisire informazioni dall’Uepe – ha comportato la necessità di introdurre una nuova causa di sospensione dei termini di durata massima della custodia, sancita dall’art. 304 cpp e non eccedente il termine di 60 giorni. Si potranno ben dare casi – e si daranno, stante il superlavoro cui saranno costretti gli Uepe – che il giudice non riesca a decidere sulla sostituzione nei 60 giorni stabiliti dall’art. 545-bis cpp, ma la causa di sospensione, a garanzia del condannato, rimarrà rigorosamente ancorata al termine massimo di 60 giorni. La seconda notazione concerne la circostanza che, ovviamente, il tempo trascorso in misura custodiale deve considerarsi a tutti gli effetti pena espiata. Con riferimento alla fungibilità, inoltre, l’art. 657 cpp rimette in capo al condannato la scelta in ordine alla possibilità di chiedere al pubblico ministero – al giudice, in caso di lavoro di pubblica utilità – che i periodi di custodia cautelare o di pena detentiva espiata, previo ragguaglio, vengano scomputati dalle pene sostitutive. 

 

4.5. La revoca e la conversione delle pene sostitutive

La fase patologica dell’esecuzione è regolata dal nuovo testo dell’art. 66 l. n. 689/81. La disciplina è in parte ispirata a quella prevista dall’art. 51-ter o.p., come riscritto dal d.lgs 2 ottobre 2018, n. 123, e detta criteri per limitare il più possibile il ricorso alla revoca della misura: soltanto la mancata esecuzione della pena sostitutiva e la violazione grave o reiterata degli obblighi e delle prescrizioni determinano la revoca e la conversione della parte residua da espiare nell’originaria pena detentiva sostituita o, ancora, in altra pena sostitutiva più grave. Ogni violazione degli adempimenti deve essere comunicata senza indugio da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria, del direttore dell’istituto (in caso di semilibertà) o dal direttore dell’Uepe al giudice competente sull’esecuzione della pena (magistrato di sorveglianza per semilibertà o detenzione domiciliare, giudice di cognizione per lavoro di pubblica utilità). Il giudice competente, compiuti eventuali accertamenti, deciderà sulla revoca e sulla conversione sempre all’esito di udienza camerale partecipata ex art. 666 cpp. 

Non pare possa essere messo in dubbio che la norma costruisca il carcere come ultimo rimedio, offrendo criteri abbastanza sicuri per governare i poteri del giudice che riceva notizia di violazione delle prescrizioni: lo spettro dei provvedimenti adottabili va dalla semplice ammonizione (se necessario, preceduta dalla convocazione) alla rimodulazione delle prescrizioni nei casi di inadempimenti puntuali e occasionali, per abbracciare, nelle ipotesi di violazioni reiterate o gravi e di sottrazione all’esecuzione, la conversione in pena più grave (dalla detenzione domiciliare alla semilibertà, ad esempio) o il ritorno alla pena detentiva. In quest’ultima evenienza, nessuna possibilità di richiedere misure alternative se non dopo l’espiazione di metà pena, salvo il caso di condannati minorenni (art. 67 l. n. 689/1981).

L’art. 72 l. n. 689/1981 disciplina le ipotesi di responsabilità penale di chi si trova in esecuzione di pena sostitutiva. 

La punibilità per il reato di cui all’art. 385 cp scatta, nei confronti del semilibero e del detenuto domiciliare, soltanto in caso di assenza dall’istituto o di allontanamento dal domicilio protratti per oltre dodici ore, con applicazione della diminuente di cui all’ultimo comma del medesimo articolo 385. La soluzione è quella già adottata in sede di misure di comunità per la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-quinquies o.p., sostanzialmente approvata dalla Corte costituzionale con riferimento alla detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter o.p. (Corte cost., n. 177/2009). Rimane chiaramente aperta la strada della revoca della misura o della conversione in caso di allontanamenti inferiori alle dodici ore. Il condannato a lavoro di pubblica utilità che, senza giustificato motivo, non si reca sul luogo di lavoro o lo abbandona rimane punibile per violazione di tali obblighi soltanto ai sensi dell’art. 56 d.lgs n. 274/2000. La condanna per evasione o per violazione degli obblighi determina la revoca della pena, ma rimane aperta la finestra della salvezza se il fatto è di lieve entità.

Anche la condanna a pena detentiva per delitto non colposo, commesso durante l’esecuzione della pena sostitutiva, non comporta automaticamente la revoca e la conversione in pena detentiva: la cancelleria del giudice che ha pronunciato tale condanna informa senza indugio il magistrato di sorveglianza o il giudice di cognizione competenti sull’esecuzione della pena sostitutiva e questi ultimi procederanno alla revoca quando la condotta tenuta appare incompatibile con la prosecuzione della pena. L’eventuale revoca, pertanto, dovrà essere motivata su questo specifico punto. 

Il complessivo trattamento normativo della fase patologica dell’esecuzione è pervaso da una logica di rigore temperato, mirata a circondare la conversione in pena detentiva originaria di particolari e stringenti obblighi motivazionali. Per questo motivo, merita un posto d’onore tra i parametri ermeneutici della riforma. 

 

4.6. Cumulo, rapporto con altre pene, sospensioni

In caso di pronuncia di più sentenze (o decreti penali di condanna) a pena sostitutiva nei confronti della medesima persona si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli da 71 a 80 del codice penale e quella di cui all’art. 663 cpp. L’art. 70 l. n. 689/1981, tuttavia, specifica che se il cumulo delle pene detentive sostituite non eccede complessivamente la durata di quattro anni, si applicano le singole pene distintamente, con possibilità di sforare i limiti per la pena pecuniaria e il lavoro di pubblica utilità. Quest’ultimo, ad esempio, potrà superare il limite di tre anni (non di quattro) se risulta il portato di diverse sentenze, ciascuna delle quali lo applica nel limite di tre anni. Se il cumulo supera i quattro anni, si applica per intero la pena sostituita, salvo il caso che il residuo da espiare non superi i quattro anni.

Nel rispetto del principio di prevalenza, in fase esecutiva, delle pene principali, è stato stabilito che l’esecuzione della pena sostitutiva rimanga sospesa in caso di notifica di un ordine di carcerazione o consegna, nonché in caso di fermo, arresto o applicazione di misura di sicurezza detentiva al condannato a pena detentiva. Spetta al giudice che ha in carico l’esecuzione della pena sostitutiva determinare l’entità residua, che riprenderà il suo corso – salvo non venga disposta la revoca – dal giorno successivo a quello della cessazione della pena detentiva. 

Al contrario, l’ordine di esecuzione di pene sostitutive non sospende l’esecuzione della pena detentiva, il corso della custodia cautelare e quello delle misure di sicurezza detentive. 

Di particolare pregio, inoltre, appare la possibilità di applicare gli istituti di cui agli artt. 146 e 147 cp alle pene sostitutive, lavoro di pubblica utilità compreso. Sono pene che comportano prospettive di impegno per l’essere umano, incompatibili, ad esempio, con una situazione di infermità. Importante, dunque, anche la previsione esplicita di applicazione dell’art. 684 cpp. La decisione in tema, comunque, è rimessa al magistrato di sorveglianza, il quale dovrà anche fissare il termine per rivalutare le condizioni del condannato.

 

5. La disciplina transitoria e i rapporti con altri settori ordinamentali

Non si può fare a meno di accennare alla disciplina transitoria. È pacifico che le norme in tema di sistema sanzionatorio abbiano natura sostanziale e siano soggette al principio di retroattività in quanto favorevoli all’imputato o al condannato, salvo il limite del giudicato. Ma cosa accade se il condannato a pena detentiva inferiore a quattro anni si trova in pendenza di giudizio di legittimità? La riforma non lascia spazio a ipotesi creative: si faccia istanza al giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 666 cpp entro 30 giorni dall’irrevocabilità della sentenza. 

Semidetenzione e libertà controllata in esecuzione al momento dell’entrata in vigore della riforma continuano a essere regolate dalla disciplina previgente, salva la possibilità del semidetenuto di chiedere al magistrato di sorveglianza la conversione nell’attuale e più favorevole semilibertà. 

La disciplina delle pene sostitutive, compresa quella del lavoro di pubblica utilità, si applica anche ai condannati minorenni, con norme di coordinamento alle ipotesi procedurali specifiche e norme di favore in merito, ad esempio, alla possibilità di chiedere comunque la misura alternativa. 

In quanto compatibili, si applicano alle pene sostitutive alcune norme dell’ordinamento penitenziario, tra cui la liberazione anticipata, decisiva anche per abbreviare il momento in cui chiedere la misura dell’affidamento in prova ai sensi del già citato art. 47, comma 1-ter, o.p.

 

6. Lo spettro del carcere: aspetti critici della riforma

Serve un’inversione dell’ordine logico per capire i reali punti di forza dell’impianto riformatore, molti dei quali dovuti alla perizia con cui il legislatore delegato è riuscito non solo a limitare le gravi carenze della delega, ma addirittura ad arricchirne gli aspetti davvero innovativi. Per delineare le effettive potenzialità di trasformazione del sistema sanzionatorio penale, sinora trincerato dietro la centralità del carcere, occorre dunque partire dal lato oscuro della luna, dagli aspetti critici della riforma.

Inutile nasconderlo. Il pregio dell’intervento – l’introduzione della categoria delle pene sostitutive – costituisce anche il suo limite: siamo al cospetto di meccanismi di sostituzione della pena detentiva nei quali il carcere rimane in agguato come unica minaccia in grado di offrire credibilità all’intero sistema sanzionatorio e garanzia ai sentimenti collettivi di sicurezza. A ben guardare, la pena carceraria, nella quale ogni pena sostitutiva può infine convertirsi in caso di violazione delle prescrizioni, costituisce ancora il punto di fuga prospettico che orienta la struttura del sistema. Per tale ragione, all’inizio di queste riflessioni, si è parlato di una presenza nell’ombra. 

Un’autentica rivoluzione culturale imporrebbe di escogitare, per le pene brevi, sanzioni non derivate dal carcere e che facciano a meno di quell’ombra rassicurante. 

Qualcosa di simile il sistema penale italiano l’ha sfiorata. La relazione della Commissione presieduta da Francesco Palazzo, istituita a giugno 2013 presso il Ministero della giustizia al fine di elaborare proposte di riforma del sistema sanzionatorio penale, rappresenta un testo prezioso da porre a base dell’impegno in direzione di un diritto penale ancora più mite e, al contempo, più efficace. In quel progetto, solo in parte recepito da una delega poi neppure esercitata, si trovano scolpite pene principali che hanno rescisso i loro legami genetici e finalistici con il carcere: le alternative domiciliari si ergono a pene principali; accanto ad esse compaiono pene prescrittive, “libertà limitate”, pene interdittive. La misura dell’allontanamento dall’imbuto della pena carceraria è testimoniata, in particolare, da un’idea cardine: «In effetti la norma di chiusura e di salvaguardia dell’effettività di queste sanzioni fa unicamente leva sulla minaccia recata dalla (futura) fattispecie incriminatrice, rinunciando a immaginare sistemi di conversione della pena non carceraria violata in altra più grave, direttamente carceraria o secondo un ipotetico sistema scalare. La soluzione adottata è parsa preferibile, non solo per motivi di semplicità del sistema, ma anche perché del tutto coerente con l’idea fondamentale che le nuove pene non carcerarie hanno carattere autonomo ed originario e non già “sostitutivo” della pena carceraria. Con la conseguenza di escludere qualunque meccanismo di conversione, e dunque di sostanziale fungibilità, secondo criteri di ragguaglio»[13]

Ora, pur non dovendo cedere al rimpianto per l’occasione mancata (meglio: affossata dalla politica) e, tanto meno, sottovalutare l’approdo insperato della riforma Cartabia, quella “sostanziale fungibilità” continua a porre l’esigenza del suo superamento, almeno a chi reputi indispensabile conformare la penalità alla irriducibile complessità della contemporaneità e a un finalismo rieducativo davvero all’altezza. 

Accanto a questo limite ontologico, intrinseco, si è posta l’opzione – regressiva rispetto alla proposta della Commissione Lattanzi – di non inserire l’affidamento in prova tra le pene sostitutive ottenibili davanti al giudice di cognizione. Inevitabile, dunque, che si venga a creare una disparità, poco ragionevole, tra chi si vede sostituita la pena e subisce l’immediata esecutività di misure impegnative per l’essere umano (anche carcerarie, come la semilibertà, o comunque detentive) e chi, condannato alla medesima entità di pena edittale e ritenuto non meritevole di sostituzione, ottiene la sospensione dell’ordine di esecuzione, con la facoltà di chiedere al tribunale di sorveglianza tutte le misure di comunità, a partire dall’affidamento in prova. Una disparità lampante, iniqua: i meritevoli inizieranno subito a espiare, sia pure nella certezza di pene poco (semilibertà) o per nulla (detenzione domiciliare e lavoro di pubblica utilità) carcerarie, i “cattivi” beneficeranno della sospensione e della possibilità di chiedere da liberi la più ampia delle misure alternative. L’effetto paradosso è creato dall’equiparazione della soglia edittale della pena detentiva sostituibile a quella della pena suscettibile di sospensione ex art. 656, comma 5, cpp, unita alla menzionata obliterazione dell’affidamento dal ventaglio delle pene sostitutive. I profili di irragionevolezza sono aggravati da una norma che, per provare a centrare lo scopo di alleggerimento del lavoro dei tribunali di sorveglianza (i magistrati di sorveglianza saranno comunque gravati dalle esecuzioni delle semilibertà e delle detenzioni domiciliari sostitutive), impone a coloro che sono in esecuzione di semilibertà e di detenzione domiciliare sostitutive di attendere l’espiazione di metà della pena per chiedere l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47, comma 1-ter, o.p.). 

Il meccanismo che renderebbe tollerabili e non costituzionalmente censurabili tali profili di irragionevolezza, come anticipato nella trattazione del momento applicativo, è costituito dal consenso del condannato. Le pene sostitutive sono, a tutti gli effetti, pene negoziate. 

Al di là del dubbio sulla conformità all’art. 27, comma 3, della Costituzione di un consenso spinto fino a disporre della propria rieducazione per il futuro (e a ridurre la finestra temporale legale dell’affidamento), occorre porsi la fatidica domanda: cosa dovrebbe spingere l’imputato, tanti imputati se si mira al successo della riforma, a prestare il consenso? 

È proprio qui, analizzando a fondo il decreto legislativo, che si collocano i meriti del legislatore delegato.

 

7. I punti di forza 

Con notevole abilità tecnica e capacità di rimanere fedele ai binari della delega, il legislatore delegato ha saputo forgiare un sistema sanzionatorio sostitutivo che limita il più possibile gli inconvenienti legali alla disparità di trattamento tra condannati alla pena sostitutiva e liberi sospesi. Gli strumenti messi a punto paiono appetibili dai condannati, soprattutto da alcune categorie di essi. Se la prassi saprà dar corso a una nuova concezione del lavoro del giudice e del difensore – una nuova tavola di valori per vagliare le scelte processuali –, gli obiettivi di deflazione processuale potranno essere centrati. 

Un esempio può chiarire. Chi presta il consenso alla detenzione domiciliare sostitutiva, come detto, si troverà a espiare immediatamente la pena, senza poter sperare da libero nell’affidamento in prova. Vero. Deve considerarsi, tuttavia, che quella detenzione domiciliare è assai più simile a un affidamento di quanto suggerisca il nome. Fermo il dovere del giudice di munirla di tutte le prescrizioni idonee a prevenire il pericolo di recidiva, è previsto un limite minimo di permanenza di dodici ore nel domicilio – prevedibilmente coincidente con l’orario serale e notturno –, con possibilità di utilizzare il resto della giornata per svolgere attività risocializzanti fuori dal domicilio. Ne esce lo schema di una pena-programma ad alto contenuto risocializzante e molto prossima all’affidamento in prova disposto dai tribunali di sorveglianza, che generalmente accompagno la misura di comunità con l’obbligo di permanere nel domicilio in orario notturno (con forbici orarie che, in casi limite, vanno anche dalle otto di sera alle otto di mattina). Rispetto a quella misura di comunità, inoltre, la detenzione domiciliare offre un ulteriore vantaggio: la sicurezza di non dover ripetere in carcere il periodo espiato presso il domicilio in caso di revoca, come può invece accadere in caso di valutazione negativa sull’andamento dell’affidamento. A tutti gli effetti, in caso di revoca, la pena in detenzione domiciliare sostitutiva dovrà essere considerata pena espiata e la conversione in pena sostituita varrà soltanto per il residuo.

Anche in punto di revoca e conversione, il legislatore delegato ha lavorato in punta di penna, allontanando il più possibile il ritorno in carcere attraverso il riconoscimento di un’ampia discrezionalità del giudice. Molteplici sono le previsioni tese a garantire la possibilità di convertire la pena sostitutiva oggetto di violazione in altra pena sostitutiva più grave prima di addivenire alla conversione in pena detentiva originaria. Il detenuto domiciliare incapace di autocontrollo nelle ore notturne, ma scrupoloso sul lavoro, potrà vedersi sostituita la pena in semilibertà, prima ancora di trasferirsi notte e giorno in galera. 

Tutti gli accennati vantaggi si aggiungono a un dato determinante: le precedenti condanne (salvo, ovviamente, quelle che rappresentano il fallimento di precedenti pene sostitutive) non sono ostative al conseguimento della pena sostitutiva. 

Vi è poi da riflettere sul fatto che i liberi sospesi, vale a dire i condannati in attesa di ricevere risposta da un tribunale di sorveglianza sulla domanda di misure alternative, rappresentano oggi un numero di persone quasi equivalente alle presenze carcerarie[14]. Di qui il dilatarsi dei tempi di attesa della decisione dei tribunali di sorveglianza, che a volte giunge a molti anni di distanza dalla irrevocabilità della sentenza e ancor di più dal fatto oggetto della condanna. In un lasso temporale così esteso, le condizioni di fatto mutano: in meglio, costringendo a un’esecuzione sia pure extramuraria chi ha dato prova della più ampia risocializzazione; in peggio, mettendo di fronte le porte del carcere a chi è incorso in recidive o in comportamenti precludenti una prognosi positiva sull’espletamento delle misure. Saranno le difese a dover valutare l’alea del giudizio di sorveglianza in base alle caratteristiche dell’imputato, potendo contare, in caso di scelta delle pene sostitutive, sulla seria possibilità di eseguire la pena fuori dal carcere (o limitatamente in carcere); una possibilità che diventa certezza in caso di patteggiamento. Saranno le medesime difese, inoltre, a contribuire alla configurazione in concreto del modello astratto di pena sostitutiva, rendendosi attive nella individualizzazione del trattamento sanzionatorio e nel fornire al giudice i materiali per sagomare una pena celere e realmente rispondente alle esigenze del condannato. 

La risposta pratica, dunque, potenziata dalla eventuale adozione di convenzioni mirate a garantire leggibilità, prevedibilità e maggior snellezza al momento applicativo[15], potrà far vincere la scommessa di cui si diceva all’inizio: fare delle pene sostitutive non l’ennesima occasione per aumentare il controllo sociale penale, ma uno strumento per diminuire le presenze in carcere e costruire percorsi di risocializzazione più efficaci. 

Sarà un passo avanti enorme e una spinta verso l’ulteriore trasformazione del volto della pena. 

 

 

1. R. De Vito, Fuori dal carcere? La “riforma Cartabia”, le sanzioni sostitutive e il ripensamento del sistema sanzionatorio, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2021, p. 28 (www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/fuori-dal-carcere-la-riforma-cartabia-le-sanzioni-sostitutive-e-il-ripensamento-del-sistema-sanzionatorio).

2. Per una tempestiva e approfondita valutazione sull’idoneità della riforma a rivitalizzare le pene sostitutive, cfr. E. Dolcini, Dalla riforma Cartabia nuova linfa per le pene sostitutive. Note a margine dello schema di d.lgs. approvato dal Consiglio dei Ministri il 4 agosto 2022, in Sistema penale, 30 agosto 2022. Prima ancora che la delega si condensasse in uno schema di decreto, ne sottolineava occasioni e rischi D. Bianchi, Il bilancio delle pene sostitutive nella legge-delega “Cartabia”: una grande occasione non priva di rischi, in Sistema penale, 21 febbraio 2022. Rimane fondamentale G.L. Gatta, Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della “legge Cartabia”, ivi, 15 ottobre 2021.

3. Relazione illustrativa dello «Schema di decreto legislativo recante attuazione della legge 27 settembre 2021 n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari», pp. 190 ss. (www.sistemapenale.it/pdf_contenuti/1660058175_testo-relazione-illustrativa-riforma-processo-penale-cartabia.pdf).

4. Per un recente e approfondito esame dei riflessi della paura sul diritto penale, cfr. R. Cornelli, La paura nel campo penale, in Questione giustizia online, 7 settembre 2016 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-paura-nel-campo-penale_07-09-2016.php). 

5. È sufficiente pensare, come specificato nella Relazione finale della Commissione Lattanzi, che la percentuale delle pene eseguite tramite riscossione nel periodo compreso tra il 2015 e il 2018 è pari a circa l’1-2% delle pene pecuniarie complessivamente irrogate, al netto della sospensione condizionale. 

6. In questo senso, F. Fiorentin, Sull’effettività delle “pecuniarie” pesa la valutazione patrimoniale. L’esecuzione penale, in Guida al diritto, n. 44/2022, p. 48.

7. L’art. 1, comma 17, lett. d della legge delega si limitava a impartire il criterio di «ridisciplinare opportunamente le condizioni soggettive per la sostituzione della pena detentiva». 

8. In questa direzione sembra orientarsi la Relazione n. 2/2023 dell’Ufficio del massimario della Corte suprema di cassazione sulla riforma Cartabia, del 5 gennaio 2023, per la quale «la questione relativa all’applicazione delle pene sostitutive in relazione ai reati di cui all’art. 4-bis e della necessità di un coordinamento con la relativa disciplina, sembra essere superata dalla intervenuta modifica del cit. art. 4-bis, ad opera della legge 30 dicembre 2022» (p. 201 – www.sistemapenale.it/pdf_contenuti/1673352536_relazione-massimario-2-2023.pdf).

9. È l’espressione utilizzata da Howard Zher per dare un nome al cambiamento di prospettiva offerto dalla giustizia riparativa: Id., Changing Lenses. A New Focus for Crime and Justice, Herald Press, Harrisonburg (Virginia), 1990.

10. Sono le espressioni della Relazione illustrativa, cit., p. 252. 

11. È quanto accaduto in Gip Milano, 18 gennaio 2023 (est. Maccora), il cui testo è rinvenibile in G.L. Gatta, Il giudice di cognizione torna ad essere giudice della pena: una prima condanna alla detenzione domiciliare sostitutiva, in Sistema penale, 24 gennaio 2023 e in Spazio aperto, sanzioni sostitutive, prassi operative, a cura di Esecutivo di Magistratura democratica, 20 gennaio 2023 (www.magistraturademocratica.it/articolo/spazio-aperto-sanzioni-sostitutive-prassi-operative).

12. Sembra optare per la sufficienza della mancata opposizione, in caso di sostituzione con il lavoro di pubblica utilità, F. Fiorentin, Al giudice penale e alla sorveglianza un nuovo “ventaglio” di competenze. L’applicazione delle pene sostitutive, in Guida al diritto, n. 44/2022, p. 34.

13. La citazione è tratta dalla Relazione della Commissione per elaborare proposte di interventi in tema di sistema sanzionatorio penale, istituita con decreto del Ministro della giustizia del 10 giugno 2013, presieduta da Francesco Palazzo, dicembre 2013, p. 8 (https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/1392021132Comm_Palazzo.pdf).

14. Per i dati sui numeri, cfr. L. Ferrarella, Come il killer di Sarzana: chi sono i 40 mila condannati ma liberi, Corriere della sera (Milano), 11 giugno 2022, o, con cifre di maggior allarme, V. Manchisi, Chi sono i “liberi sospesi”, 80 mila in attesa di misure alternative per più tempo della pena…, Il Riformista, 25 febbraio 2022.

15. Per le prime indicazioni sul tema, vds. la circolare del Ministero della giustizia, Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, 26 ottobre 2022, n. 3, commentata da A. Calcaterra, UEPE: prime indicazioni del Ministero della Giustizia, in Sistema penale, 21 novembre 2022.