Giurisdizione e interpretazione in Cassazione
1. La discrezionalità interpretativa del giudice
Il tema degli spazi e dei confini dell’interpretazione della legge da parte del giudice rappresenta uno snodo centrale nei rapporti tra giurisdizione e legislazione nella realtà dell’esperienza contemporanea, oggetto di forti controversie, ma anche specchio ed espressione della trasformazione e della crescita del ruolo istituzionale della giurisdizione a presidio dei diritti fondamentali, nell’ambito di un più generale processo di ridefinizione degli equilibri interni al quadro tradizionale delle fonti e a fronte della difficoltà dei Parlamenti, e non solo di quello italiano, a intervenire su problemi particolarmente scottanti[1].
I saggi di Luigi Ferrajoli[2] e di Nicolò Lipari[3], con cui si apre il dibattito su questo tema ospitato dalle pagine di Questione giustizia, convergono nel riconoscere che l’«espansione della giurisdizione», ovvero la «progressiva giurisdizionalizzazione, intesa come spostamento del punto focale dell’analisi dall’origine all’uso delle norme in funzione di quella che è stata definita la legalità del caso», costituisce uno dei tratti caratterizzanti dell’esperienza del nostro tempo.
Essi si differenziano nella valutazione del fenomeno.
Se Ferrajoli chiama in causa la responsabilità della politica e mette in guardia dai rischi di squilibri che gli spazi lasciati aperti alla discrezionalità interpretativa e all’argomentazione per principi sono suscettibili di generare nei rapporti tra poteri, Lipari guarda con favore al perfezionamento creativo della legge che si realizza nella concretizzazione di questa ad opera del giudice nel caso particolare.
L’uno ritiene l’«interpretazione creativa» «una contraddizione in termini»: «dove c’è interpretazione non c’è creazione e dove c’è creazione non c’è interpretazione, ma produzione illegittima di nuovo diritto»; «la giurisdizione è sempre applicazione sostanziale di un diritto pre-esistente, argomentabile come legittima e giusta solo se in base a tale diritto ne sia predicabile la “verità” processuale sia pure in senso intrinsecamente relativo». L’altro – nel sottolineare l’importanza del momento applicativo, nel quale «si saldano e si fondono, in termini non sempre facilmente distinguibili, la determinazione del fatto, la sua qualificazione secondo paradigmi di tipo giuridico, l’individuazione dell’enunciato o del principio al quale riagganciare, in termini motivatamente plausibili, la soluzione del caso» – considera la categoria del «diritto vivente» significativa di una «dimensione di creatività»: «la norma è posta non in quanto formalmente dettata, ma nella concretezza degli atti che individuano le situazioni storiche in cui, movendo da un enunciato, si definisce un modello di comportamento che appare plausibile, condivisibile, accettabile».
Si confrontano, dunque, una impostazione intesa a richiamare l’effettività del principio di legalità e la subordinazione dei giudici alla legge contro la teorizzazione e l’avallo di un ruolo apertamente creativo di nuovo diritto affidato alla giurisdizione; e una logica, viceversa, che pone al centro del sistema il giudice (e più in generale il giurista) “tessitore”, investito del compito di elaborare, come membro della comunità interpretante, la soluzione destinata a prevalere in una logica di contesto, facendola «salire dal basso di situazioni fattuali praticamente attuate e progressivamente sempre più diffuse», nella consapevolezza che «la prescrizione giuridica dipende sempre più dalla solidità delle ragioni (relative a fatti e valori) su cui poggia e sempre meno dalla forza imperativa dell’autorità»[4].
È un confronto che riflette un più ampio dibattito al quale idealmente partecipano i contributi sistematici di altri giuristi.
Ne citerò, tra quelli più significativi apparsi di recente, tre.
In una Lezione magistrale, dal titolo I cancelli delle parole,tenuta alla Facoltà di giurisprudenza dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa[5], Natalino Irti critica la «superbia dei profeti di “valori”, impazienti di sbarazzarsi dei “cancelli” linguistici e di prendere immediata posizione sui fatti di vita»: interpretare testi è infatti altro da intuire valori e solo la “positivizzazione” è in grado di restituire «dignità ed essenzialità all’interpretazione» perché è il testo linguistico che «dà misura alla discrezionalità giudiziaria, la quale deve certo volgere dall’esterna letteralità agli interni significati, dal di fuori al di dentro, ma non andare oltre, degradando il testo a pre-testo di entità immaginarie»[6].
Nella voce Interpretazione conforme a Costituzione[7], Massimo Luciani sostiene che, nelle condizioni date di forma di governo e di forma di Stato delle democrazie contemporanee, l’operatore del diritto, sebbene nella sua attività di applicazione e interpretazione «possa compiere anche una ridefinizione del preciso contenuto delle proposizioni normative alla luce delle esigenze applicative sottese all’azione interpretante», tuttavia «non potrà mai presentare le proprie conclusioni come soggettivistiche derivazioni di un dover essere dall’essere, né come creative forme di produzione normativa». In questa prospettiva, la iuris-dictio è destinata a presentarsi come «un’attività di ascrizione di significato agli enunciati in cui si risolve l’esercizio della legis-latio»: il giudice è chiamato indubbiamente a compiere «scelte discrezionali», ma non per questo «crea» il diritto, bensì «seleziona» «la più plausibile fra le interpretazioni delle quali il testo è condizione di possibilità».
Il terzo contributo è il dibattito su Giudici e legislatori svoltosi a Firenze nell’ottobre 2015 tra attuali e precedenti componenti del Comitato direttivo della rivista Diritto pubblico, pubblicato nel fascicolo n. 2 del 2016 della stessa[8]. Cesare Pinelli, nel procedere all’inventario delle questioni per quella discussione scientifica, distingue tra “creatività”, quale predicato riferibile tanto all’interpretazione quanto all’innovazione del diritto oggettivo, ed “eccesso di creatività”, per poi giungere alla conclusione che «le sentenze dei giudici non possono mai annoverarsi tra le fonti a pena di sovvertire il sistema, stante l’incompatibilità radicale tra sentenza e atto normativo».
2. I confini dell’interpretazione: le indicazioni della giurisprudenza
Se si passa ad esaminare il tema del rapporto fra giudici e legislatore dal punto di vista delle “prese di posizione” della giurisprudenza della Corte di cassazione, mi pare che emerga un primo punto fermo: la consapevolezza che l’interpretazione non si risolve in un mero cognitivismo e non si acquieta nella piatta ed inerte esegesi del testo, ma implica la legittima scelta della fissazione del possibile significato razionalmente associabile all’enunciato interpretato secondo le potenzialità di senso che vi sono incluse, sulla base anche della coerenza con il sistema e della contestualizzazione e dell’attualizzazione del precetto legislativo; il rifiuto, al contempo, della possibilità di collocare la giurisdizione in una dimensione potestativa, suscettibile di giustificare l’abbandono, ad opera del giudice interprete, del testo linguistico e di legittimare un voluto giudiziale che si ponga al di fuori della cornice della proposizione prescrittiva espressa dall’enunciato.
Significativa di questa prospettiva, che differenzia l’interpretazione per via giurisdizionale di un testo normativo preesistente dalla formulazione legislativa di un testo normativo ex novo, è una recente sentenza delle Sezioni unite[9] in tema di limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo.
Con questa pronuncia la Corte ha escluso che sia incorsa in eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore la decisione del Consiglio di Stato che, con riguardo alla procedura per la nomina del presidente di un’autorità portuale, abbia ritenuto valutabile, insieme con altri titoli e in relazione ai profili dei candidati in comparazione, il possesso del diploma di laurea, ancorché detto titolo non sia espressamente indicato dalla legge; e ciò dopo avere riconosciuto che l’intervento giurisdizionale compiuto dal giudice amministrativo si è risolto in una attività interpretativa della disciplina applicabile (l’art. 8 della legge 28 gennaio 1994, n. 54, che si riferisce ad «esperti di massima e qualificata esperienza professionale nei settori dell’economia dei trasporti e portuale») quanto ai titoli suscettibili di valutazione, in uno con l’imprescindibile esperienza e pratica professionale, e non in una inammissibile introduzione di un requisito di accesso alla selezione non previsto dalla legge.
Preme sottolineare che con tale sentenza le Sezioni unite non si limitano a ribadire l’implausibilità del tentativo di configurare un eccesso di potere a danni del legislatore rinvenendolo in una attività di individuazione interpretativa, la non ipotizzabilità dell’eccesso di potere le volte in cui il giudice speciale od ordinario individui una regula iuris facendo uso dei suoi poteri di rinvenimento della norma applicabile attraverso la consueta attività di interpretazione anche analogica del quadro delle norme, e la non contenibilità dell’attività interpretativa in una funzione meramente euristica (posto che quell’attività si risolve piuttosto «in un’opera creativa della volontà della legge nel caso concreto»)[10]. Esse infatti tracciano altresì il confine oltre il quale l’attività interpretativa trasmoda in attività creativa, ossia in una invasione della sfera riservata al legislatore, affermando in proposito, a chiare lettere, che «l’attività interpretativa è segnata dal limite di tolleranza ed elasticità del significante testuale, nell’ambito del quale la norma di volta in volta adegua il suo contenuto, in guisa da conformare il predisposto meccanismo di protezione alle nuove connotazioni, valenze e dimensioni che l’interesse tutelato nel tempo assume nella coscienza sociale, anche nel bilanciamento con contigui valori di rango superiore, a livello costituzionale o sovranazionale».
Un’altra pronuncia attenta, anche nelle indicazioni di metodo, a non confondere l’attività interpretativa con la nomopoiesi legislativa e ad escludere che la prima sia priva di paradigmi normativi che ne delimitino il campo e ne definiscano la portata, è la sentenza delle Sezioni unite in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata[11]. Nell’affrontare la questione, eticamente sensibile ed oggetto di contrasto, se il nato disabile possa agire in caso di omessa diagnosi prenatale per il risarcimento del danno, sotto il profilo dell’interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo, i giudici di legittimità dichiaratamente escludono di poter seguire «un approccio di carattere eminentemente giuspolitico» (perché questo «appartiene al legislatore», «spettando, per contro, al giudice l’interpretazione della disciplina vigente, sia pure nel più completo approfondimento delle potenzialità evolutive in essa insite»), ed affermano che «la così detta giurisprudenza normativa, talvolta evocata quale fonte concorrente di diritto, violerebbe il principio costituzionale di separazione dei poteri ove non si contenesse all’interno dei limiti ben definiti di clausole generali previste nella stessa legge, espressive di valori dell’ordinamento (buona fede, solidarietà, ecc.)».
Una terza pronuncia che si preoccupa di distinguere la funzione di chi fa le leggi da quella di chi è chiamato ad interpretarle, è la sentenza delle Sezioni unite che ha limitato al futuro gli effetti delle sentenze overruling in campo processuale quando portino a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse[12]. La Corte espressamente esclude che il presupposto logico di questo indirizzo riposi nella forza normativa delle sentenze[13]. Infatti, la Corte si dà cura di precisare: (a) che «la norma giuridica … trova propriamente la sua fonte di produzione nella legge (e negli atti equiparati), in atti, cioè, di competenza esclusiva degli organi del potere legislativo»; (b) che «nel quadro degli equilibri costituzionali (ispirati al principio classico della divisione dei poteri) i giudici (estranei al circuito di produzione delle norme giuridiche) sono … (per disposto dell’art. 101, secondo comma, Cost.), “soggetti alla legge”» («il che realizza l’unico collegamento possibile, in uno Stato di diritto, tra il giudice, non elettivo né politicamente responsabile, e la sovranità popolare, di cui la legge, opera di parlamentari eletti dal popolo e politicamente responsabili, è l’espressione prima»); (c) che il diritto, «per la sua complessità», «esige la mediazione accertativa della giurisprudenza, che quindi lo disvela, ma non per questo lo crea»; (d) che la precedente interpretazione, ancorché poi corretta, non potrebbe costituire il parametro normativo immanente per la verifica di validità dell’atto compiuto in correlazione temporale con essa, perché con ciò «si trasformerebbe una sequenza di interventi accertativi del contenuto della norma in una operazione di creazione di un novum ius, in sequenza ad un vetus ius, con sostanziale attribuzione, ai singoli arresti, del valore di atti fonte del diritto, di provenienza dal giudice». Presupposto logico della soluzione «non immancabilmente retroattiva dei mutamenti di giurisprudenza»[14] è piuttosto la tutela dell’affidamento incolpevole che la parte, nel compiere un atto processuale, abbia riposto in un orientamento giurisprudenziale che in quel momento appariva indiscusso e consolidato: una tutela dell’affidamento attinente al diritto che le Sezioni unite ricavano dalla nozione di giusto processo, radicata nell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e recepita dall’art. 111 Cost., alla luce di un generale principio di ragionevolezza immanente alla stessa Carta costituzionale.
Su questa impostazione logica, di distinzione tra pronunciamento giurisdizionale e precetto legislativo e di impossibilità di equiparare la sentenza alla legge sul piano delle fonti del diritto[15], convergono le indicazioni provenienti dalla Corte costituzionale, la quale, con la sentenza n. 230 del 2012, ha escluso la rilevanza del mutamento giurisprudenziale (ancorché conseguente a decisioni delle Sezioni unite) ai fini del superamento del giudicato penale, affermandone l’estraneità all’area applicativa della revoca della sentenza per abolizione del reato ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen.[16]. Nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 cod. proc. pen., nella parte appunto in cui non include, tra le ipotesi di revoca della sentenza di condanna, anche il mutamento giurisprudenziale, determinato da una decisione delle Sezioni unite, in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge come reato, il giudice delle leggi nega fondamento di validità alla premessa concettuale che aveva alimentato il dubbio del rimettente – ossia «che la consecutio tra diversi orientamenti giurisprudenziali equivalga ad una operazione creativa di nuovo diritto (oggettivo), così da giustificare il richiesto intervento dilatativo del perimetro di applicazione dell’istituto delineato dall’art. 673 cod. proc. civ.» –, perché ciò «comporterebbe la consegna al giudice, organo designato all’esercizio della funzione giurisdizionale, di una funzione legislativa, in radicale contrasto con i profili fondamentali dell’ordinamento costituzionale». Ad opporsi ad una simile equiparazione, secondo la Corte costituzionale, non è soltanto la considerazione attinente al difetto di vincolatività di un semplice orientamento giurisprudenziale, ancorché avallato da una pronuncia delle Sezioni unite: è, prima ancora, «il principio di separazione dei poteri, specificamente riflesso nel precetto (art. 101, secondo comma, Cost.) che vuole il giudice soggetto (soltanto) alla legge».
3. Il giudice tra ius e lex: un settore giurisprudenziale di analisi
Una ricerca empirica nelle decisioni della Corte di cassazione dimostra come il settore del diritto delle persone e della famiglia sia uno di quelli nei quali è maggiormente evidente il ruolo determinante della giurisprudenza sia al fine di tradurre la astratta disciplina astratta «in un concreto modello dell’azione»[17], sia nel cogliere e dare valenza ordinante, proprio attraverso il momento applicativo, a fattori propulsivi dell’evoluzione del sistema, interni ed esterni alla disposizione di legge.
Mi pare che questo sia dovuto ad una pluralità di convergenti fattori.
Innanzitutto, alla difficoltà della legge di seguire e disciplinare in tempi sufficientemente rapidi i conflitti, ma anche i bisogni e le aspettative, generati dagli sviluppi velocissimi della scienza e della tecnica e dalla nuove forme dei rapporti tra le persone[18]. Chiamato a individuare la regola del caso per quella certa situazione di vita, il giudice – che non può sottrarvisi – talora addiviene ad una decisione in assenza di fattispecie, ossia di quello «strumento di precisione, che permette di “disporre” per il futuro e di convertire innumerevoli fatti in casi di applicazione normativa». E lo fa rivolgendosi alle norme costituzionali e alle Carte dei diritti, applicate «senza la mediazione di leggi ordinarie, e, dunque, senza quel riconoscersi del tipo nel fatto, della forma generale nell’evento concreto, in cui … risiede la genesi logica del “caso”»[19].
Altra ragione concorrente è data dalla presenza, nel tessuto normativo del diritto delle persone, di clausole generali[20] (l’interesse del minore, l’impossibilità di affidamento preadottivo[21]): una strutturazione normativa aperta ai principi e ai valori che dà elasticità e flessibilità all’ordinamento, con «forti poteri … di concretizzazione»[22] affidati al giudice. Nell’interpretazione di ogni norma giuridica – è stato affermato[23] – «esiste un ambito di discrezionalità, che aumenta nel caso della clausola generale soprattutto perché in essa è implicito il riferimento ai valori». Il rinvio alla clausola generale ad opera della legge implica l’affidamento al giudice di un «giudizio sintetico a priori»: chi esprime il giudizio «tiene conto sia del programma normativo sia dei dati della realtà», ed è legittimato ad individuare una regola «che non deriva interamente dalla norma»[24].
Una terza – ma non ultima – spiegazione del contributo crescente del formante giurisprudenziale nell’applicazione e, prima ancora, nella “ricostruzione del diritto”[25], è rinvenibile nel fatto che il diritto delle persone rappresenta terreno di elezione per la sperimentazione del vincolo della interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme[26]. Ed è osservazione pienamente condivisibile quella secondo cui i valori di riferimento del costituzionalismo “multilivello” (la proporzionalità e la ragionevolezza come generali istanze di adeguatezza concreta della norma al fatto regolato; la dignità umana come formula riassuntiva e fondante i diritti della persona) rimettono «alle autorità giurisdizionali le chance di una loro effettiva attuazione e ne sollecitano pertanto un coinvolgimento più diretto nell’attività di elaborazione creativa del diritto»[27].
4. Gli svolgimenti applicativi nel diritto delle persone e della famiglia
4.1. Nella giurisprudenza ordinaria, la prima tappa della disciplina italiana della procreazione medicalmente assistita può rinvenirsi nella sentenza della I Sezione civile 16 marzo 1999, n. 2315[28], con cui la Corte ha stabilito che il marito che ha validamente concordato o comunque manifestato il proprio preventivo consenso alla fecondazione assistita della moglie con seme di donatore ignoto non ha azione per il disconoscimento della paternità del bambino concepito e partorito in esito a tale inseminazione.
A tale conclusione il giudice di legittimità perviene dopo avere escluso la possibilità di estendere od applicare in via analogica l’art. 235 cod. civ. alla fattispecie in questione, sul rilievo che l’attribuzione dell’azione di disconoscimento al marito, anche quando abbia a suo tempo prestato assenso alla fecondazione artificiale della moglie con seme altrui, priverebbe il bambino, nato anche per effetto di tale assenso, di una delle due figure genitoriali, e del connesso apporto affettivo ed assistenziale, trasformandolo per atto del giudice in «figlio di nessun padre», stante l’insuperabile impossibilità di ricercare ed accertare la reale paternità a fronte del programmato impiego di seme di provenienza ignota. La nascita di tale figlio senza padre – afferma la Corte – può essere subita dall’ordinamento, ove discenda da vicende di vita non controllabili e non più emendabili. Viceversa, la norma che permettesse detta condizione, per mezzo di una statuizione giudiziale resa proprio su istanza del soggetto che abbia determinato o concorso a determinare la nascita con il personale impegno di svolgere il ruolo di padre, eluderebbe «i … cardini dell’assetto costituzionale ed il principio di solidarietà cui gli stessi rispondono»: «il frutto dell’inseminazione, infatti, verrebbe a perdere il diritto di essere assistito, mantenuto e curato, da parte di chi si sia liberamente e coscientemente obbligato ad accoglierlo quale padre “di diritto”, in ossequio ad un parametro di prevalenza del favor veritatis, che è privo di valore assoluto, e non può comunque compromettere posizioni dotate di tutela prioritaria».
Qui è interessante sottolineare il modo di ragionare dei giudici: essi interpretano riduttivamente l’art. 235 cod. civ., non direttamente riferibile al caso dell’inseminazione artificiale («l’inseminazione artificiale non è adulterio della moglie, esprimendo anzi un progetto di maternità basato proprio sul rifiuto di ricorrere all’infedeltà coniugale per procreare»); e ricavano la regola del caso – di un caso “difficile”[29], precipitato delle nuove possibilità che il progresso della scienza medica e della tecnica offre alle donne e agli uomini – facendo diretta applicazione dei «precetti degli artt. 2, 30 e 31 della Costituzione» nonché dei «canoni generali dell’ordinamento sul dovere di lealtà nei rapporti intersoggettivi».
Si tratta di un approccio di metodo suggerito dalla stessa Corte costituzionale: la quale – chiamata a giudicare del dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 235 cod. civ., nella parte in cui pareva consentire la possibilità di esperire l’azione per il disconoscimento di paternità al marito che, affetto da impotenza nel periodo del concepimento, avesse dato il proprio consenso all’inseminazione artificiale eterologa della moglie – concludeva il giudizio con una pronuncia[30] di inammissibilità per «l’estraneità della fattispecie oggetto del giudizio alla disciplina censurata», ma, al contempo, certificava «una situazione di carenza dell’attuale ordinamento, con implicazioni costituzionali», e segnalava che, se «l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore», «tuttavia, nell’attuale situazione di carenza legislativa, spetta al giudice ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare la protezione degli anzidetti beni costituzionali».
Quest’ultima frase, contenuta nella sentenza della Corte costituzionale, rappresenta – come è stato rilevato[31] – «un importante pilastro nei rapporti legislatore giudici nella disciplina delle materie eticamente sensibili», in considerazione della forza espansiva dei compiti della giurisdizione, a presidio dei diritti fondamentali. Il giudice deve stare al suo posto, «assicurando e non sopravanzando le risultanze della legislazione democratica, frutto della partecipazione politica» nella sede – il Parlamento – in cui si esprime la sovranità popolare, ma ciò non significa che il giudice debba aspettare il legislatore politico, «astenendosi nel frattempo dall’applicare regole e principi costituzionali i quali, per loro stessi, non esigano strettamente un tale attendismo»[32].
Sempre in tema di procreazione medicalmente assistita – questa volta nel quadro risultante dall’intervento del legislatore con le norme della legge n. 40 del 2004 come “corrette” dalla Corte costituzionale, da ultimo con la sentenza n. 162 del 2014, che ha dichiarato incostituzionale il divieto incondizionato della fecondazione eterologa nelle coppie eterosessuali – merita di essere ricordata la recente sentenza della I Sezione civile 30 settembre 2016, n. 19599, che affronta la questione se contrasti con l’ordine pubblico l’atto straniero di nascita, validamente formato all’estero in esito ad una procedura di maternità assistita tra due donne legate da un rapporto di coppia, con donazione dell’ovocita da parte della prima e conduzione a termine della gravidanza da parte della seconda con utilizzo di un gamete maschile di un terzo ignoto.
La trama argomentativa, arricchita dal costante confronto con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ruota attorno alla ricostruzione della nozione di ordine pubblico e al suo impiego in relazione alla disciplina della filiazione: a tale categoria non si può ricorrere per giustificare discriminazioni nei confronti del minore a causa della scelta di coloro che lo hanno messo al mondo mediante una pratica di procreazione assistita non consentita in Italia (delle conseguenze di tale comportamento, imputabile ad altri, non può rispondere il bambino che è nato e che ha un diritto fondamentale alla conservazione dello status legittimamente acquisito all’estero); la barriera dell’ordine pubblico può e deve essere innalzata in presenza di principi e valori essenziali o irrinunciabili del nostro ordinamento, non là dove ci si trovi di fronte semplicemente a opzioni legislative in ambiti materiali nei quali non esistano rime costituzionali obbligate.
In questo contesto, i principi di diritto che la Corte ha elaborato per risolvere il caso sono i seguenti:
a) il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l’ordine pubblico dell’atto di nascita straniero, i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, deve verificare non già se l’atto straniero applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne (seppure imperative o inderogabili), ma se contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo;
b) il riconoscimento e la trascrizione nei registri dello stato civile in Italia di un atto straniero, validamente formato in Spagna, nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne – in particolare, da una donna italiana (indicata come madre B) che ha donato l’ovulo ad una donna spagnola (indicata come madre A) che l’ha partorito, nell’ambito di un progetto genitoriale realizzato dalla coppia, coniugata in quel paese – non contrastano con l’ordine pubblico per il solo fatto che il legislatore nazionale non preveda o vieti il verificarsi di una simile fattispecie sul territorio italiano, dovendosi avere riguardo al principio, di rilevanza costituzionale primaria, dell’interesse superiore del minore, che si sostanzia nel suo diritto alla continuità dello status filiationis, validamente acquisito all’estero (nella specie, in un altro paese della Ue);
c) tale atto di nascita non contrasta, di per sé, con l’ordine pubblico per il fatto che la tecnica procreativa utilizzata non sia riconosciuta nell’ordinamento italiano dalla legge n. 40 del 2004, posto che essa rappresenta una delle possibili modalità di attuazione del potere regolatorio attribuito al legislatore ordinario su una materia, pur eticamente sensibile e di rilevanza costituzionale, sulla quale le scelte legislative non sono costituzionalmente obbligate;
d) in tema di procreazione medicalmente assistita, la fattispecie nella quale una donna doni l’ovulo alla propria partner la quale partorisca, utilizzando un gamete maschile donato da un terzo ignoto, non costituisce un’ipotesi di maternità surrogata o di surrogazione di maternità, ma un’ipotesi di genitorialità realizzata all’interno della coppia, assimilabile alla fecondazione eterologa, da cui si distingue per essere il feto legato biologicamente ad entrambe le donne registrate come madri all’estero (per averlo l’una partorito e per avere l’altra trasmesso il patrimonio genetico).
4.2. In materia di diritti delle persone, la giurisprudenza assume talora, là dove vi sia una esigenza di dare sostanza a diritti fondamentali nella concretezza di una vicenda umana non rientrante nello standard prefigurato dal legislatore, un ruolo di «completamento della decisione politica»[33] negli spazi non coperti da quella scelta.
Una vicenda che può essere esaminata come esempio paradigmatico di questa tendenza è quella rappresentata nella sentenza della Corte di cassazione 20 luglio 2015, n. 15138[34], intervenuta sulla interpretazione della disciplina sulla rettificazione di attribuzione di sesso.
La legge 14 aprile 1982, n. 164, che per la prima volta ha previsto la rettificazione nel nostro Paese, ha disposto che essa si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali. A sua volta, l’art. 31, comma 4, del d.lgs 1° settembre 2011, n., 150, in cui è confluito l’originario art. 3 della legge n. 164 del 1982, prevede che, quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato.
La sentenza della I Sezione civile ha ammesso il diritto alla rettificazione anagrafica di sesso in una situazione che la legge non aveva preso originariamente in considerazione: quella di coloro che non intendono sottoporsi all’intervento chirurgico, pur non riconoscendosi nel sesso biologico di nascita.
Alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata, e conforme alla giurisprudenza della Cedu, dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982, nonché del successivo art. 3 della medesima legge, poi appunto confluito nell’art. 31, comma 4, del d.lgs n. 150 del 2011, per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile la Corte ritiene non obbligatorio l’intervento chirurgico demolitorio o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari: l’acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale sia oggetto, ove necessario, di accertamento tecnico in sede giudiziale.
In questa prospettiva, la scelta di sottoporsi alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali non può che essere il risultato di un processo di autodeterminazione verso l’obiettivo del mutamento di sesso. Il ricorso alla chirurgia costituisce uno dei possibili percorsi volti all’adeguamento dell’immagine esteriore alla propria identità personale, come percepita dal soggetto. D’altra parte, «la complessità del percorso, in quanto sostenuto da una pluralità di presidi medici e psicologici, mette ulteriormente in luce l’appartenenza del diritto in questione al nucleo costitutivo della personalità individuale e sociale, in modo da consentire un adeguato bilanciamento con l’interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche».
Il risultato interpretativo cui la Corte perviene si fonda «sull’esatta collocazione del diritto all’identità di genere all’interno dei diritti inviolabili che compongono il profilo personale e relazionale della dignità personale e che contribuiscono allo sviluppo equilibrato della personalità degli individui, mediante un adeguato bilanciamento con l’interesse di natura pubblicistica alla chiarezza nella identificazione dei generi sessuali e delle relazioni giuridiche ma senza ricorrere a trattamenti ingiustificati e discriminatori, pur rimanendo ineludibile un rigoroso accertamento della definitività della scelta sulla base dei criteri desumibili dagli approdi attuali e condivisi della scienza medica e psicologica».
In tal modo – come è stato osservato in dottrina[35] – la giurisprudenza di legittimità fa spazio ad una «condizione … minoritaria anche nella specificità delle circostanze che spingono alla transizione sessuale: minoritaria nella minoranza, quindi, non contemplata sin dall’inizio, ma che comunque esiste ed esistendo chiede giustizia anche per sé».
Si tratta di un risultato interpretativo che la Corte costituzionale[36] ha poi condiviso e ha indicato, con una pronuncia interpretativa di rigetto, al giudice rimettente che muoveva da una diversa, e restrittiva, lettura della norma oggetto del dubbio di legittimità costituzionale. E ciò sul rilievo che «interpretata alla luce dei diritti della persona – ai quali il legislatore italiano … ha voluto fornire riconoscimento e garanzia – la mancanza di un riferimento testuale alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti ad una situazione congenita), attraverso le quali si realizzi la modificazione, porta ad escludere la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali». «L’esclusione del carattere necessario dell’intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica appare il corollario di un’impostazione che – in coerenza con supremi valori costituzionali – rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l’assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere. L’ampiezza del dato letterale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 164 del 1982 e la mancanza di rigide griglie normative sulla tipologia dei trattamenti rispondono all’irriducibile varietà delle singole situazioni soggettive».
4.3. In tema di delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario, a partire dal 2011 è ricomparso in Cassazione un contrasto giurisprudenziale tra un orientamento volto a negare la delibazione qualora la nullità sia pronunciata a seguito di protratta convivenza tra i coniugi e un indirizzo prevalente incline ad affermare la delibabilità anche in tale ipotesi: contrasto, questo, riproduttivo di quello sorto intorno alla metà degli anni ’80 del secolo scorso e risolto dalle Sezioni unite con la sentenza n. 4700 del 20 luglio 1988 nel senso della delibabilità della sentenza pronunciata dopo il decorso di un anno dalla celebrazione del matrimonio concordatario o dopo che i coniugi abbiano convissuto successivamente alla celebrazione stessa[37].
Con la sentenza 17 luglio 2014, n.16379[38], le Sezioni Unite, abbandonando l’orientamento dalle stesse in precedenza propugnato, hanno risolto il contrasto aderendo al primo indirizzo ed affermato così il principio per cui la convivenza tra i coniugi successiva alla celebrazione del matrimonio, intesa come consuetudine di vita coniugale, stabile e continua nel tempo, esteriormente riconoscibile attraverso corrispondenti fatti specifici e comportamenti dei coniugi e che si sia protratta per almeno tre anni, è ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, qualunque ne sia il vizio.
A giustificare la svolta – sulla linea di una «piena modernizzazione del diritto matrimoniale italiano»[39] che mette fine ad «un’era giuridica iniziata nel 1929» (quella dell’efficacia civile «senza se e senza ma»[40] delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale) – è un’argomentazione per principi che si alimenta del dialogo con le Corti dei diritti, nella ricerca di coerenze sistematiche e valoriali. La sentenza sottolinea infatti le «significative convergenze» della giurisprudenza costituzionale, della Corte dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia nel riconoscere la convivenza dei coniugi o come coniugi come “un aspetto essenziale e costitutivo del “matrimonio rapporto”», che si caratterizza come manifestazione di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche genitoriali in presenza di figli, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle relazioni familiari. La convivenza «connota nell’essenziale … lo stesso istituto matrimoniale delineato dalla Costituzione e dalle leggi che lo disciplinano ed è quindi costitutiva di una situazione giuridica che, in quanto regolata da disposizioni costituzionali, convenzionali ed ordinarie, è perciò tutelata da norme di “ordine pubblico italiano”, secondo il disposto di cui all’art. 797, primo comma, n. 7, cod. proc. civ.».
Ancora una volta è nella Costituzione e nelle Carte internazionali che il giudice di legittimità rinviene la bussola per orientarsi nella propria attività interpretativa: il che consente alla Corte di procedere ad una più rigorosa determinazione dell’ordine pubblico interno al fine di salvaguardare la costituzione di un rapporto familiare, sano dal punto di vista affettivo, e così di evitare che, attraverso la delibazione, si realizzi una rinuncia dello Stato a far valere i propri principi fondamentali a tutela della persona umana, autentica protagonista del diritto.
Conclusioni
Esaurita questa rassegna di alcune pronunce della giurisprudenza della Corte di cassazione, mi pare – come considerazione conclusiva – che ne emerga lo sforzo del giudice di legittimità di adeguare l’interpretazione delle disposizioni di legge al continuo mutare delle esigenze e dei costumi, entro i confini consentiti dal testo normativo ed alla luce dei principi posti dalla giurisprudenza costituzionale e dalle pronunce delle Corti sovranazionali[41].
La nomofilachia non è infatti soltanto statica conferma e stabilizzazione di orientamenti giurisprudenziali cristallizzati nel tempo. Accanto all’approdo di certezza, essa rappresenta anche uno strumento di razionalità e di evoluzione del sistema di giustizia, garantendo – grazie agli apporti e agli stimoli dei giudici di merito e al contributo sistematico della più attenta dottrina – che le spinte innovative nella prospettiva della massima tutela possibile dei diritti fondamentali si realizzino e si incanalino in un contesto di coerenza e di solidità argomentativa, e quindi assumano valore di svolta con capacità precedenziale.
È questa la lezione che viene dalle parole con cui Giuseppe Borrè concludeva, venti anni fa, la sua relazione al Convegno su La Corte di cassazione nell’ordinamento democratico[42]. La Corte «è luogo in cui le novità si pongono non con i tempi rapidi della casualità e del soggettivismo, ma con l’aspirazione ad esprimere, pur attraverso un’elaborazione più lunga e talvolta travagliata, un avanzamento non caduco»: in ciò sta la sua «capacità … di collocarsi … nell’ordinamento democratico, cioè di filtrare e produrre dinamiche giurisprudenziali sempre più aderenti ai valori di fondo della Costituzione».
[1] V., per tutti, R. Badinter e S. Breyer, Judges in contemporary democracy: an international conversation, New York-London, 2004, spec. pp. 79 ss.; R. Hirschl, Towards Juristocracy. The Origins and Consequences of the New Constitutionalism, Cambridge (Massachusetts)-London, 2004; L. Violante, Magistrature e forme di governo, nel numero monografico su Sistema politico e magistrature di Democrazia e diritto, n. 3-4/2011, p. 22; G. Verde, Questione giustizia, Torino, 2013, 119 ss. Per A. Barak (La discrezionalità del giudice, Milano, 1995, p. 230 e p. 233) – che parla di «attività legislativa interstiziale del giudice» – «le moderne società riconoscono al giudice una certa discrezionalità non solo riguardo alla chiarificazione dei fatti, ma anche rispetto all’applicazione del diritto ai fatti»: «un sistema normativo costituito solo da regole che non lascino alcuno spazio alla discrezionalità del giudice è un sistema inflessibile ed indesiderabile, perché non ha la capacità di adattarsi alle speciali difficoltà poste dal caso individuale»; «il bisogno di flessibilità che è imposto dalla concretezza individuale della decisione giudiziaria, richiede che sia attribuita al giudice una certa discrezionalità».
[2] Contro la giurisprudenza creativa.
[3] Ancora sull’abuso del diritto. Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza.
[4] Il virgolettato è ripreso da N. Lipari, Il futuro del diritto, le relazioni personali e i diritti delle coppie omosessuali, in Foro it., 2016, V, p. 20.
[5] Napoli, 2015.
[6] Le citazioni sono tratte da pp. 62, 56, 57 e 60.
[7] In Enc. dir., Annali IX, Milano, 2016, spec. pp. 429 ss.
[8] V. pp. 483 ss.
[9] Si tratta di Cass., Sez. Un., 23 dicembre 2014, n. 27341.
[10] Sul punto v., da ultimo, Cass., Sez. Un., 17 novembre 2016, n. 23400.
[11] Cass., Sez. Un., 22 dicembre 2015, n. 25767, in Resp. civ., 2016, 162 ss., con nota di Gorgoni, Una sobria decisione di “sistema” sul danno da nascita indesiderata.
[12] Cass., Sez. Un., 11 luglio 2011, n. 15144. La si può leggere in Foro it., 2011, I, pp. 3343 ss., con nota di R. Caponi, Retroattività del mutamento di giurisprudenza: limiti, e in Corr. giur., 2011, 1392 ss., con nota di F. Cavalla, C. Consolo e M. De Cristofaro, Le S.U. aprono (ma non troppo) all’errore scusabile: funzione dichiarativa della giurisprudenza, tutela dell’affidamento, tipi di overruling.
[13] Come esattamente sottolinea M. Luciani, voce Interpretazione conforme a Costituzione, cit., p. 411.
[14] Così R. Rordorf, Nomofilachia e motivazione, in Libro dell’anno del diritto 2012, Roma, 2012, p. 661.
[15] R. Rordorf (Funzione, tempi e risorse della giurisdizione di legittimità, relazione all’Assemblea generale della Corte di cassazione tenutasi il 25 giugno 2015, p. 6 del dattiloscritto) afferma che il nostro ordinamento «riconosce il valore del precedente ma non lo assume tra le fonti del diritto». Cfr. altresì G. Amoroso, La Corte di cassazione ed il precedente, in La Cassazione civile. Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana a cura di M. Acierno, P. Curzio e A. Giusti, Bari, 2015, pp. 47 ss.
[16] Sul tema v. G. Canzio, Nomofilachia, valore del precedente e struttura della motivazione, in Foro it., 2012, V, pp. 305 ss., spec. p. 311.
[17] L’espressione è tratta da N. Lipari, Le categorie del diritto civile, Milano, 2013, p. 105.
[18] S. Rodotà, Il nuovo habeas corpus: la persona costituzionalizzata e la sua autodeterminazione, in Trattato di biodiritto diretto da S. Rodotà e P. Zatti. Ambito e fonti del biodiritto a cura di Rodotà e M. Tallacchini, Milano, 2010, pp. 169 ss., pp. 192 ss.; R. Conti, I giudici e il biodiritto, Roma, 2004, pp. 37 ss., pp. 53 ss.
[19] Così N. Irti, La crisi della fattispecie, in Riv. dir. proc., 2014, I, pp. 36 ss.
[20] «“Norme ponte” con i principi costituzionali» le definisce M. Poletti, voce Soggetti deboli, in Enc. dir., Annali VII, Milano, 2014, p. 982.
[21] Su cui v., da ultimo, nella vicenda dell’adozione coparentale, Cass., Sez. I, 22 giugno 2016, n. 12962, in Foro it., 2016, I, pp. 2342 ss.
[22] P. Borrè, La Corte di cassazione oggi, in Diritto giurisprudenziale a cura di M. Bessone, Torino, 1996, p. 162.
[23] S. Patti, Clausole generali e discrezionalità del giudice, in Il rischio del running the business giurisprudenziale, Atti del Convegno Trento, 22-23 maggio 2009, a cura di F. Macario e T. Pasquino, Milano, 2015, p. 42.
[24] L. Rovelli, La nomofilachia è la funzione istituzionale della Cassazione, in Rassegna forense, 2014, 669.
[25] L’espressione è di V. Manes, Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni tra diritto nazionale e fonti sovranazionali, Roma, 2012, p. 22.
[26] Sul tema v., in generale, D. Bifulco, Il giudice è soggetto soltanto al «diritto». Contributo allo studio dell’articolo 101, comma 2, della Costituzione italiana, Napoli, 2008, pp. 99 ss.; M. Manetti, La delega al giudice nell’applicazione della Costituzione come sistema di governance, in Democrazia e diritto. Sistema politico e magistrature, cit., n. 3-4/2011, pp. 132 ss.; E. Lamarque, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, 2012, pp. 101 ss.; M. Ruotolo, Interpretare. Nel segno della Costituzione, Napoli, 2004, pp. 57 ss.; A. Ruggeri, Il futuro dei diritti fondamentali e dell’Europa, in Consulta OnLine, 3/2016, 3 novembre 2016, pp. 382 ss.; V. Zagrebelsky, R. Chenal, L. Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, Bologna, 2016, pp. 61 ss.
[27] Così G. Scaccia, Valori e diritto giurisprudenziale, in Diritto e società, 2011, p. 140. Per l’affermazione che la protezione dei diritti umani richiede la considerazione di tutti i dettagli della vicenda, cosicché la tutela, invece di essere generale e astratta, possa essere “concreta ed effettiva”, v., altresì, V. Zagrebelsky, I giudici dei diritti fondamentali in Europa, in Democrazia e diritto. Sistema politico e magistrature, cit., p. 232.
[28] Vedila in Giust. civ., 1999, pp. 1317 ss., con commenti di M. R. Morelli, Il diritto alla identità personale del nato da fecondazione eterologa al duplice vaglio della Corte costituzionale e della Cassazione, e di C. M. Bianca, Disconoscimento del figlio nato da procreazione assistita: la parola della Cassazione; in Foro it., 1999, I, pp. 1834 ss., con nota di E. Scoditti, “Consensus facit filios”. I giudici, la Costituzione e l’inseminazione eterologa; nonché in Nuova giur. civ. comm., 2000, I, pp. 347 ss., con note di G. Ferrando, Regole e principi nel disconoscimento del figlio nato da inseminazione eterologa, di Sesta, Venire contra factum proprium, finzione di paternità e consenso nella fecondazione assistita eterologa, e di S. Patti, Lacune “sopravvenute”, presunzioni e finzioni: la difficile ricerca di una norma per l’inseminazione artificiale eterologa.
[29] Le Norme in materia di procreazione medicalmente assistita, poi introdotte con la legge 19 febbraio 2004, n. 40, erano ancora di là da venire.
[30] Si tratta della sentenza n. 347 del 1998.
[31] Da C. Tripodina, Nascere e morire tra diritto politico e diritto giurisprudenziale, in La tutela dei diritti fondamentali tra diritto politico e diritto giurisprudenziale: “casi difficili” alla prova, a cura di Cavino e Tripodina, con introduzione di M. Dogliani, Milano, 2012, p. 44.
[32] V. Angiolini, in Diritto pubblico, n. 2/2016, 526 e 531.
[33] L’espressione, impiegata in altro contesto, è di G. Montedoro, Il giudice e lo sguardo. Il pluralismo giurisdizionale nell’età della globalizzazione, in Democrazia e diritto. Sistema politico, cit., p. 434.
[34] Vedila in Corr. Giur., 2015, pp. 1349 ss., con nota di F. Bartolini, Rettificazione del sesso e intervento chirurgico: la soluzione di un’interpretazione “costituzionalmente orientata”; in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, pp. 1068 ss., con nota di D. Amram, Cade l’obbligo di intervento chirurgico per la rettificazione anagrafica del sesso; in Foro it., 2015, I, pp. 3138 ss., con commento di G. Casaburi, La Cassazione sulla rettifica di sesso senza intervento chirurgico “radicale”. Rivive il mito dell’ermafrodistimo?; nonché in Dir. fam. pers., 2015, I, pp. 1279 ss., con nota di P. Cavana, Mutamento di sesso o di genere? Gli equivoci di una sentenza.
[35] Da A. Pioggia, in Diritto pubblico, n. 2/2016, p. 545.
[36] Con la sentenza n. 221 del 2015.
[37] Per una puntuale ricognizione in questo senso dei termini del problema, v. A. Renda, Nullità del matrimonio e prolungata convivenza, in Il Libro dell’anno 2015, Roma, 2015.
[38] La sentenza ha ricevuto numerosi commenti: v., tra gli altri, quelli di: G. Casaburi, Nullità del matrimonio-atto e convivenza postmatrimoniale: le matrioske di Piazza Cavour, in Foro it., 2015, I, pp. 627 ss.; E. Giacobbe, Le sezioni unite tra nomofilachia e “nomofantasia”, in Dir. fam. pers., 2014, pp. 1368 ss.; N. Colaianni, Convivenza “come coniugi” e ordine pubblico: incontro ravvicinato ma non troppo, in Giur. it., 2014, pp. 2119 ss.
[39] Così G. Casaburi, Nullità del matrimonio-atto, cit., p. 631.
[40] N. Colaianni, Convivenza “come coniugi, cit., p. 2119.
[41] Si veda, al riguardo, G. Canzio, Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2015, Roma, 28 gennaio 2016, pp. 6 e 9 (del dattiloscritto).
[42] I cui atti sono raccolti e pubblicati nell’omonimo volume, Milano, 1996. Per la citazione vedi p. 252.