La magistratura di fronte alle derive post-democratiche
La magistratura ha acquisito, negli ultimi decenni, una legittimazione “sociale”, che si sovrappone a quella “formale”. In un certo senso, si potrebbe dire che ha acquisito una legittimazione “democratica”, benché non sia un’istituzione elettiva. Anzi, in qualche modo, proprio la sua indipendenza dal circuito della rappresentanza è sembrata immunizzarla dalla crisi della rappresentanza medesima e consentirle di acquisire una peculiare “rappresentatività”. Alessandro Pizzorno ha parlato anni fa, dopo Tangentopoli, di “controllo di virtù”[1], suscitando molti fraintendimenti: non era l’assegnazione di una funzione “morale” alla magistratura, ma la constatazione sociologica di come essa fosse entrata in modo sempre più centrale nel circuito del “riconoscimento pubblico”. Questo della natura della legittimazione giurisdizionale, dei suoi caratteri sempre più sostanziali, è un nodo complesso, che non può essere trattato, com’è accaduto nel nostro Paese nell’ultimo ventennio, in termini strumentali: da un lato, segnala l’esigenza di pensare la giurisdizione ben oltre l’immagine del giudice “bocca della legge”; dall’altro, consiglia qualche accortezza critica rispetto a visioni aproblematiche della creatività giurisprudenziale. Quell’immagine di Montesquieu, del resto, viene spesso fraintesa. In essa non si celava tanto la pretesa che il giudice fosse l’esecutore semi-automatico del diritto, quanto piuttosto l’esigenza imprescindibile della neutralizzazione dell’arbitrio giurisdizionale.
Il riferimento alla legge, nel contesto degli Stati costituzionali novecenteschi, rinvia immediatamente alla sovranità democratica, che si radica in una dimensione essenzialmente nazionale: le sentenze sono pronunciate in nome del popolo italiano. La stessa funzione nomofilattica della Cassazione, volta a garantire stabilità e omogeneità al sistema, trova il suo ancoraggio nell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario (regio decreto n. 12, 1941), che impone di assicurare «l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge» in vista dell’«unità del diritto oggettivo nazionale». Qui si manifesta una prima aporia: se da un lato sono proprio le istanze dal basso, proprie di una società democratica, a investire la magistratura, caricandola di una funzione di “ascolto” della società nuova, dall’altro tali dinamiche, che spingono verso una legittimazione sociale diffusa della funzione giurisdizionale, legate come sono all’individualizzazione e alla pluralizzazione della società, e ai suoi tratti multi- o inter-culturali, tendono inevitabilmente – insieme agli altri effetti dei processi di globalizzazione - a rendere la stessa giurisdizione interna “porosa” rispetto ad altri ordinamenti, soprattutto sovranazionali, e ai Fori che li presidiano. Ciò può rappresentare un fattore di complicazione e incertezza e, al limite, arrivare a mettere in questione il primato del nucleo indisponibile della Costituzione, il cui ancoraggio è statale. In tal senso, opportunamente, la Corte costituzionale ha elaborato la teoria dei “controlimiti”, che rappresentano una sorta di clausola di salvaguardia del principio di sovranità popolare, e perciò dell’autonomia dello Stato democratico e della stessa identità della Costituzione (va detto che le preoccupazioni relative alla coerenza delle decisioni europee con il fondamento di legittimità democratico delle costituzioni nazionali sono state avvertite con rigorosa lucidità soprattutto dal Tribunale costituzionale federale tedesco, che non ha mai sviato certi nodi centrali e irrisolti della costruzione europea). Ci si rende conto della rilevanza del tema, opportunamente valorizzato di recente da Massimo Luciani[2], se si pensa alle differenze tra la considerazione dei diritti sociali e delle loro tutele rispetto alle libertà economiche, tra il livello europeo e quello costituzionale nazionale. Ciò dovrebbe renderci avvertiti sui rischi, a cascata di Maastricht, di una legittimazione sociale neoliberale della magistratura, tutta centrata sui diritti civili interpretati come diritti dell’individuo proprietario di se stesso[3]. Mentre solo una concezione larga dei diritti, che integri quelli civili e quelli sociali, costituisce l’effettivo fondamento del costituzionalismo novecentesco, il quale mette al centro la protezione della dignità del lavoratore, ai fini di un’inclusione sociale che è stata la via maestra della democratizzazione degli ordinamenti. Tale impianto costituzionale ha portato a decisioni giudiziarie fondamentali in termini di tutela del meno forte (ad esempio, nella controversie giuslavoristiche) e di garanzia di livelli essenziali di prestazioni sociali (ad esempio nella sanità), che rappresentano criteri vincolanti per il reperimento e l’allocazione delle risorse. Per essere chiari, legittimazione sociale dal nostro punto di vista non può voler dire suo sradicamento dal contesto definito dalla cittadinanza politico-democratica né tantomeno cedimento dell’argine costituzionale alle dinamiche privatistiche della globalizzazione neoliberista. Una magistratura che trovasse la propria legittimazione sociale in una società integralmente di diritto privato, in cui l’unica forma di inclusione fosse quella (illusoria) del mercato autoregolantisi (in una riedizione postmoderna e su scala globale dell’omogeneità escludente dei “ceti di proprietà e cultura”, come li chiamava Rudolf Gneist), non sarebbe più una magistratura “democratica”. Attenzione, anche, all’illusione di liberarsi definitivamente dal potere (politico e statuale), all’insegna dell’ideologia della “post-sovranità”: si finisce nelle grinfie di poteri più insidiosi, soprattutto perché non contendibili né controllabili su un’arena pubblica, e senza strumenti istituzionali per poterli orientare a fini sociali.
Le crescenti aspettative rispetto alla giurisdizione non riguardano solo la sfera della vita privata e del bios, e quindi il diritto civile (dove ci sono interessi e posizioni soggettive da far valere), ma investono anche, e pesantemente, l’ambito penale. C’è una dimensione simbolico-rassicurativa che, nella percezione di anomia e ingovernabilità che monta nelle nostre società (largamente per effetto delle dinamiche opache del finanzcapitalismo, e del caos geopolitico che ne deriva), investe direttamente la giurisdizione: è una situazione non fisiologica, che può condurre a squilibri gravi, mettendo a rischio diritti e libertà (è già accaduto ampiamente nelle società “occidentali”, dopo il crollo delle illusioni seguite alla caduta del Muro di Berlino: dallo sdoganamento della tortura[4] ai vari “stati di eccezione” miniaturizzati). Ciò pone certamente l’esigenza di un rilancio di una cultura garantistica credibile, cioè non a corrente alternata. Ma dal punto di vista sistemico è evidente che tale pressione simbolica sulla sicurezza non sarà arginabile finché verrà derubricata a questione di ordine pubblico, e non socio-economica. Solo creando le premesse per un rafforzamento dell’autonomia degli Stati democratici e delle politiche pubbliche di inclusione sociale, che evitino di trasformare repressione e carcere in strumenti compensativi su larga scala di politiche sociali e del territorio inesistenti (ad esempio sull’emigrazione e le periferie), sarà possibile scongiurare il populismo penale.
La legittimazione sociale della magistratura è divenuta in senso lato “democratica” nelle società post-tradizionali anche dal punto di vista delle aspettative di autorealizzazione e “presa di parola” che sono insite nella modernità politica matura. Queste aspettative non si proiettano solo nella dimensione strettamente politica e amministrativa, come rifiuto della delega e azione di controllo[5], ma esprimono anche un’esigenza di autonomia attiva nella società, nella sfera personale come in quella di relazione, che inevitabilmente trova nel potere terzo per eccellenza, la giurisdizione, un punto di riferimento essenziale. Oggi “dire il diritto” significa, largamente, riconoscere e bilanciare i diritti. La magistratura è un’istituzione che si trova sempre di più a dover rispondere ai bisogni di riconoscimento delle soggettività incarnate, del loro “diritto” a essere se stesse, che emergono nelle società contemporanee. Questo riconoscimento si radica in quella promessa originaria della modernità di essere “autori”, o perlomeno partecipi, dell’ordinamento.
È vero che gli effetti sociali di quei bisogni di riconoscimento soggettivi possono minare i vincoli solidaristici che sorreggono il legame sociale, nella misura in cui producano individualizzazione e pluralismo estremi. In questo senso, proprio il “diritto dell’individualità”, uno dei fattori propulsivi dei processi di democratizzazione, può mettere in discussione il quadro democratico, che necessita di un collante collettivo. Di fronte a tale paradosso, la magistratura si trova a subire una duplice pressione: quella dei soggetti che rivendicano i loro diritti, quella dell’ordinamento che ha bisogno di sicurezza sociale. In realtà, soprattutto i diritti politici e quelli sociali sono diritti “intersoggettivi”[6], di soggetti in relazione; diritti che necessitano per essere goduti appieno e diffusamente di una visione del collettivo, e la cui ratio è, anche, quella di rafforzare vincoli sociali consapevoli, voluti, e con ciò l’ethos democratico. La giurisdizione, nel quadro del costituzionalismo sociale del secondo Novecento, non può essere il terminale neoliberale di singoli irrelati, ma la sentinella del sistema democratico negli avamposti della complessità sociale. La persona è sempre calata in una rete di rapporti[7]: il giudice non potrà astrarre da essi, dovrà considerarli e valutarli. E, poiché essi sono spesso asimmetrici, sarà inevitabile che la giurisdizione, trattandoli alla luce del costituzionalismo come tutela del “diritto del più debole”, possa trovarsi a dover correggere gli squilibri più vistosi. Contemperare interessi significa ridefinirne di volta in volta le gerarchie: senza annichilire nessuna delle parti, ma anche evitando di limitarsi a registrare i rapporti di forza come se fossero naturali. Per questo è fondamentale che la Costituzione resti la stella polare: sia perché offre criteri dinamici per leggere i mutamenti sociali, sia perché è un ancoraggio di certezza e un “freno” tanto rispetto alle spinte post-democratiche dei “poteri selvaggi”[8], quanto agli eccessi di creatività del diritto vivente. Come sempre la cultura dei giudici svolge un ruolo determinante nella declinazione concreta del modello di giurisdizione: poiché i rischi di torsione economicistica, ad esempio rispetto al tema del reperimento e dell’allocazione delle risorse per garantire i diritti, sono oggi ben evidenti con la crisi, così come la possibilità di cedimenti in tema di diritti del lavoro e funzione sociale della proprietà, è bene che una rinnovata elaborazione culturale dei magistrati sui nodi di fondo del costituzionalismo contemporaneo riparta, rispetto ad esempio ai rapporti sempre più problematici tra democrazia costituzionale, capitalismo finanziario e ordoliberismo europeo[9].
Ma, proprio perché la dimensione integrativa, fortemente legata al contesto socio-culturale, della giurisdizione non è scansabile, né aggirabile attraverso il riparo in una sorta di neutralità assoluta come “indifferenza”[10] al fatto sociale, sarebbe pericoloso intenderla come una sorta di funzione sostitutiva di indirizzo politico. Il “potere dei conflitti” è prioritariamente, e tale deve restare a mio avviso, quello politico. La soluzione innovativa del caso singolo che chiede giustizia, la “supplenza” rispetto al legislatore (spesso obbligata), sono comunque risorse interne al sistema, certo non rotture eversive (mentre negli ultimi decenni drammatizzazioni del genere sono state ampiamente perseguite, dalla politica e dai media, in un circuito malato). Ma sarebbe sbagliato anche coltivarne una visione eccessivamente rassicurante, come nuova fisiologia dell’assetto dei poteri, che non pone problemi. Le varie forme di supplenza della magistratura non compensano realmente l’assenza di dibattito e deliberazione pubblica, e l’impermeabilità alle istanze sociali dei livelli più alti della rappresentanza. Il recupero di rappresentatività passa dunque, certamente, anche per la fine delle deleghe – sia nell’ambito della vita civile che in materia penale – alla magistratura[11]. Ma questa fine potrà essere solo il risultato della riconquista del riconoscimento dei cittadini da parte della classe politica: cioè attraverso la ricostruzione di culture e identità politiche autonome rispetto ai poteri economici e radicate nella società, senza coltivare l’alibi autoassolutorio (che produce la ricerca di scorciatoie nefaste, all’insegna di un’ambigua governabilità), secondo il quale la responsabilità della crisi della normazione sia della Costituzione e degli assetti istituzionali da essa previsti. Solo un’osmosi tra basso e alto, pretese delle soggettività (rispetto alle quali la giurisdizione costituirà sempre un primo avamposto) e definizione dell’interesse generale (che è sempre operazione più complessa della risoluzione giudiziaria di un caso), consentirà di ridefinire un equilibrio dei poteri. Prendendo atto della funzione nuova, e largamente progressiva, che la magistratura si trova a svolgere nelle società post-tradizionali, ma anche tenendo fermo che lo Stato costituzionale democratico non può diventare uno Stato giurisdizionale, o peggio sciogliersi in un ambiguo spazio post-democratico presidiato da tecnocrazie e giudici[12]. Uno spazio giuridico deterritorializzato è inevitabilmente uno spazio spoliticizzato. Cioè inospitale per il costituzionalismo democratico. La magistratura, se vuole rimanere fedele al progetto sociale emancipativo della Costituzione, non può non vedere i rischi insiti in concezioni tecnico-sapienziali della giurisdizione e nelle varie forme di post-politica neoliberale, tra cui si annoverano anche quelle giudiziarie. Sarebbe un’amara ironia della storia, se la magistratura tornasse ad essere funzionale agli assetti sociali dominanti (oggi quelli del finanzcapitalismo), come accadeva tradizionalmente nel vecchio mondo liberale e fu poi, autoritariamente, anche con il fascismo, credendo di arginare il potere (nella sua maschera politica). Solo recuperando spazi di autonomia per lo Stato democratico e una politica rigenerata perché non subalterna a poteri distanti e opachi, correggendo gli eccessi del globalismo, sarà possibile creare le condizioni strutturali di un nuovo circuito virtuoso legittimazione-responsabilità, a fronte del quale il potere giudiziario possa svolgere, senza alterarlo, anche quella funzione di sensore sociale che ormai gli è propria.
Il problema, nel rapporto tra potere giudiziario e potere politico, non è insomma il ruolo attivo dei magistrati, ad esempio nel fare emergere incostituzionalità e lacune. Né, del resto, sarebbe auspicabile il ritorno a un’improbabile “neutralità” (la più insidiosa forma di politicizzazione, perché cela nel formalismo acritico la difesa dello status quo e l’ossequio ai poteri dominanti, anche a scapito dei principi costituzionali). Il problema è lo svuotamento della politica, da cui può derivare la tentazione fallace di una sua compensazione giudiziaria. Invece occorre ricostruire le condizioni di una pedagogia reciproca tra istanze sociali, funzione giurisdizionale e rappresentanza parlamentare: ciò che si agita nella società, che la magistratura si trova spesso a raccogliere (pensiamo ai temi bioetici, alle relazioni personali e familiari, ma anche alle conseguenze dell’austerità e dei tagli al Welfare), deve incontrare a un certo punto una sorta di camera di compensazione di natura politica. Come è accaduto negli anni Settanta, con riforme quali lo Statuto dei lavoratori, il nuovo diritto di famiglia, l’abolizione dei manicomi, il divorzio ecc. Questioni alla cui elaborazione i giudici (da quelli ordinari a quelli costituzionali) hanno dato il loro contributo, ma che hanno trovato una definizione di sistema nel dibattito politico e nella legislazione. Dal punto di vista teorico, le posizioni neocostituzionaliste, che ritengono non problematico il ruolo creativo della giurisprudenza e individuano nei “principi etici” una sorta di livello metapositivo nel quale risiederebbe l’autentico ius e del quale sarebbe possibile una conoscenza “oggettiva” (come in Dworkin), non sono a mio avviso funzionali a una corretta visione garantistica del ruolo della giurisdizione nell’opera di realizzazione della costituzione, perché non solo alimentano arbitrio, incertezza e spoliticizzazione, ma sono viziati ideologicamente da meccanismi insidiosi di risostanzializzazione e rinaturalizzazione dell’artificio giuridico.
Alzando lo sguardo al livello della “dottrina della costituzione”, potremmo dire che quando si può presupporre molto, in termini di risorse etico-culturali, non c’è bisogno dell’unità politica, quando si può presupporre poco occorre ricorrervi. Il diritto “mite”, che nella lettura di Gustavo Zagrebelsky caratterizza lo Stato costituzionale di diritto subentrato allo Stato di diritto legislativo[13], presuppone molto: un sostrato di senso plurale, risultato di prassi etiche e principi condivisi, e di una memoria costituzionale comune[14]. Poiché nello Stato costituzionale di diritto il baricentro si sposterebbe dal lato politico-progettuale della costituzione (che pure persiste, perché le Costituzioni moderne hanno strutturalmente un “doppio lato[15]) a quello ermeneutico-garantistico, con conseguente centralità della giurisdizione (costituzionale, ma non solo), è il fabbisogno di senso etico-giuridico di quest’ultimo, inevitabilmente, a crescere. Ma quali sono le condizioni che consentono la generazione di tali risorse? Non sono affatto banali: forti vincoli solidaristici, la possibilità di presupporre un’integrazione simbolico-materiale adeguata, il filo comune di un’identità storica e civile non divisiva, la capacità di gestire nella normalità il destino di una comunità plurale ma sostanzialmente pacificata e l’adattamento dell’ordinamento alla sua evoluzione. Tutte condizioni che si sono fatte terribilmente problematiche negli ultimi decenni, per ragioni sia endogene (le zavorre italiche e la transizione infinita del sistema politico-istituzionale), sia esogene (la crisi dell’eurozona, gli effetti disordinanti di una globalizzazione accelerata e senza governo). Pretendere, in questo contesto, che sia la magistratura a produrre quelle risorse sulle quali in realtà deve poter contare, per funzionare fisiologicamente, sarebbe un’aporia e un azzardo.
[1] Cfr. A. Pizzorno, Il potere dei giudici, Laterza, Roma-Bari, 1998.
[2] Cfr. M. Luciani, Il brusco risveglio. I controlimiti e la fine mancata della storia costituzionale, Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2/2016.
[3] Di fatto, con le politiche di austerità imposte ai Paesi indebitati, la Carta di Nizza, soprattutto nella sua sezione dedicata alla “Solidarietà”, è stata messa nel cassetto. L’insindacabilità dei vincoli finanziari europei, nonostante incidano pesantemente sui diritti fondamentali, si traduce in meccanismi (semi-)automatici sottratti a qualsiasi vaglio di legittimità costituzionale sostanziale, almeno sul piano europeo. Non così sul piano delle Corti costituzionali nazionali (anche se non sempre la reazione garantistica è stata tempestiva e all’altezza della sfida, dei segnali importanti ci sono stati nel senso della garanzia dei diritti sociali: si pensi, per fare un esempio, alle decisioni prese dalla Corte costituzionale portoghese sull’illegittimità delle norme chiamate a “implementare” i diktat europei, o alle recenti sentenze della Corte costituzionale italiana sul blocco degli stipendi pubblici e sulle pensioni). Il dato di fondo, in ogni caso, è che oggi, nell’Ue, il richiamo alle tradizioni costituzionali europee, quando è in gioco il costituzionalismo sociale come limite all’assolutismo del mercato e della finanza, passa nel dimenticatoio di fronte all’ossessiva regolamentazione ordoliberista: ogni freno e spazio di mediazione è interdetto.
[4] Cfr. A.M. Dershowitz, Terrorismo, trad. it. a cura di C. Corradi, Carocci, Roma, 2003.
[5] P. Rosanvallon, Controdemocrazia, trad. it. a cura di A.Bresolin, Castelvecchi, Roma , 2012, pp. 135 ss.
[6] Sul tema, cfr. da ultimo A. Honneth, L’idea di socialismo, trad. it a cura di M. Solinas, Feltrinelli, Milano, 2016.
[7] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2012, pp. 140 ss.
[8] L. Ferrajoli, Poteri selvaggi, Laterza, Roma-Bari, 2011.
[9] Cfr. W. Streeck, Tempo guadagnato, trad. it. a cura di B. Anceschi, Feltrinelli, Milano, 2013.
[10] L’indipendenza stessa può essere interpretata, in un’ottica conservatrice, in tal senso: una linea per nulla neutrale ideologicamente, ma funzionale a giustificare un’attitudine adesiva rispetto allo status quo, di mera registrazione e tutela dei rapporti di forza sociali esistenti (cfr. O. Abbamonte, Indipendenza della magistratura e separazione dei poteri. La tormentata vicenda di una endiadi, Introduzione a Il potere dei conflitti, a cura di O. Abbamonte, Giappichelli, Torino, 2015, pp. 3 ss.).
[11] Anche se, naturalmente, soprattutto nel penale, non si può sottovalutare la specificità della storia italiana, con l’assenza di anticorpi e meccanismi di autocontrollo, le opacità degli apparati dello Stato, la fragilità dell’amministrazione pubblica ecc.: elementi patologici che hanno reso necessario il ricorso allo strumento penale anche quale estremo argine democratico, a fronte delle inadempienze di altre istituzioni, del sistema politico e di quello economico.
[12] Sulle dinamiche della globalizzazione giurisdizionale, cfr.: J. Ballard e A. Garapon, La mondializzazione dei giudici, trad. it. A cura di C. Maggiori, Liberilibri, Macerata, 2006; M. Luciani, L’antisovrano e la crisi delle costituzioni, Rivista di diritto costituzionale, 1996, pp. 124 ss.; S. Cassese, Chi governa il mondo?, Il Mulino, Bologna, 2013.
[13] Cfr. G. Zakrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1992.
[14] Cfr. G. Zagrebelsky, Storia e costituzione, in G. Zagrebelsky, P. P. Portinaro e J. Luther (a cura di), Il futuro della costituzione, Einaudi, Torino, 1996.
[15] Cfr. M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni moderne, Giappichelli, Torino, 2014.