Magistratura democratica

Introduzione

di Andrea Natale

1. Il tema trattato in questo fascicolo è di quelli da far tremare le vene ai polsi. In questa introduzione non si anticiperanno i temi oggetto dei singoli contributi raccolti, ma si esporranno soltanto i dubbi e le questioni che – imposti dalla contemporaneità – ci hanno spinto ad intraprendere questa piccola ricerca. La nostra gratitudine verso gli Autori, per avere partecipato a questa temeraria impresa, è dunque profonda. Pubblichiamo qui anche uno scritto di Pier Luigi Zanchetta, storico compagno di strada di questa Rivista, oggi non più tra noi. Si tratta di uno scritto del 1999[1] che non mostra i segni del tempo. In esso, Zanchetta ragiona proprio su un tema che attraversa molte pagine di questo fascicolo, ossia sul ruolo della magistratura nella società contemporanea e sulla legittimazione della giurisdizione ad intervenire in campi ove la legislazione «non riesce a dire tutto». Anche a lui si rivolge il nostro grato ricordo.

 

2. Già quarant’anni orsono, Giovanni Tarello evidenziava due elementi che – tra gli altri – connotavano la nascita dello stato moderno, in concomitanza con l’età della codificazione del diritto privato e della codificazione costituzionale: l’assunzione in capo allo Stato del «monopolio delle fonti del diritto» e «l’unificazione del soggetto di diritto». Per dirla con un’altra immagine: lo stato moderno nasce con il superamento del particolarismo giuridico, vale a dire con il superamento della coesistenza di diverse autorità regolatrici nello stesso contesto e con il superamento della coesistenza di regimi giuridici differenziati in ragione dell’autorità regolatrice, delle qualità personali del destinatario della regola, dello spazio e del tempo in cui la regola deve trovare applicazione[2].

Tale processo storico – oggi associato all’affermarsi, in larga parte del mondo, di sistemi di legittimazione democratica dell’autorità regolatrice – è percepito come positivo, in quanto potenzialmente foriero di razionalità del sistema e di eguale trattamento dei consociati davanti alla legge.

 

3. Ove si voglia guardare la realtà attuale attraverso queste stesse lenti, ci si accorge immediatamente che questo schema concettuale non è più in grado di funzionare.

La funzione legislativa non è più monopolio degli Stati nazionali. Da un lato – per restare all’esperienza italiana – perché, all’interno dei confini nazionali sono presenti altre istituzioni alle quali è attribuita una funzione regolatrice (per esempio le Regioni). Dall’altro lato, perché, ovunque – sotto la pressione della storia e delle esigenze della globalizzazione – si sono affermati, oltre allo Stato, altri regolatori: si allude a veri e propri ordinamenti sovra-nazionali (come l’Unione europea) o a sistemi giuridici sovranazionali che, seppur non costituiti in veri e propri ordinamenti, comunque interagiscono e condizionano i sistemi giuridici nazionali, talora dotandosi anche di apparati giurisdizionali deputati all’interpretazione e all’applicazione di quelle regole (per restare in Europa, il sistema originato dalla stipula del trattato internazionale denominato Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, al quale aderiscono oggi 47 Stati membri o il sistema dell’Organizzazione delle nazioni unite).

Ma, ancora: la delega della funzione regolatrice a soggetti altri dallo Stato si ha anche con altri fenomeni, come per esempio l’attribuzione ad istituzioni non rappresentative del corpo elettorale di penetranti compiti di regolazione (si allude al fenomeno delle cd. autorità amministrative indipendenti); o, ancora, con l’attribuzione a soggetti privati dei compiti di elaborare gli standard di sicurezza dei prodotti o di elaborare regole tecniche applicabili in un determinato settore professionale (si pensi, per esempio, al sistema delle norme Uni-Iso e al valore loro attribuito anche da atti normativi statuali o da atti dell’Ue o, ancora, ai principi contabili emanati dalla fondazione denominata Organismo italiano di contabilità).

Ma non solo: talora gli Stati – in contingenze economiche sfavorevoli (non sempre legate a loro responsabilità) – subiscono il determinante condizionamento delle prescrizioni loro impartite da istituzioni finanziarie non investite da un mandato rappresentativo (come è avvenuto nel contesto della crisi sudamericana degli anni novanta in Argentina, come è avvenuto più di recente in Grecia e Italia in questi ultimi anni)[3].

E, ancora: il monopolio legislativo in capo allo Stato viene meno anche per effetto di fenomeni economici che, quasi naturalmente, spingono per l’affermazione di una nuova lex mercatoria, che sappia prescindere dalla regolazione statuale; per sua “natura” la lex mercatoria è infatti modellata su «un insieme di regole, principi, modelli contrattuali e moduli di giustizia privata che sono creati dagli stessi operatori economici, nel corso della loro esperienza commerciale transanzionale, o suggeriti e messi a punto da esperti di diritto commerciale internazionale, spesso inseriti nelle cosiddette law firms»[4]. La capacità di creare regole – di generare la lex mercatoria – da parte dei protagonisti del commercio globale è indubbia e sotto gli occhi di tutti.

Un ulteriore elemento di indebolimento della capacità regolatrice della legge è, poi, dato da un fattore endogeno, rappresentato da un decadimento qualitativo del prodotto normativo concepito dal legislatore (con effetti viepiù aggravati dalla ipertrofica produzione normativa).

 

4. Ma anche il «soggetto unico di diritto», inteso come fattore di razionalizzazione dell’ordinamento (e come garanzia di eguale trattamento), è un indicatore che è oggi messo fortemente in discussione: si hanno regole per i “cittadini” e per i “non cittadini” (a loro volta distinti in cittadini Ue e cittadini non Ue); si hanno regole per i cittadini di una certa regione e altre regole per i cittadini di un’altra regione; si hanno regole per i “consumatori” e regole per i “professionisti”; regole per gli “uomini” e regole per le “donne”; e così via.

Ovviamente, molte delle distinzioni appena elencate sono il frutto non del capriccio, ma di scelte politiche informate alla necessità di offrire una maggior tutela a determinate categorie di persone, ritenute – per una ragione o per l’altra – in condizioni di svantaggio sociale o economico. Ma, in altri casi, si tratta di vera e propria attribuzione di posizioni di vantaggio legate unicamente ad uno status o ad una certa provenienza geografica.

 

5. E dunque: indebolito il monopolio della funzione regolatrice in capo allo Stato, riframmentato il soggetto (non più unico) di diritto viene da dubitare che lo stato contemporaneo risponda ancora all’immagine dello stato moderno tratteggiata da Tarello. E, infatti, vi è chi non esita a definire il nostro tempo come un tempo pre-moderno o, meglio, post-moderno[5].

Ma, al di là delle etichette, è evidente che la contemporaneità pone in questione direttamente il ruolo della legge e la sua capacità di ordinare in modo efficace e razionale una certa comunità di persone.

E – se è posto in discussione il ruolo della legge – non può che essere messo in discussione, di riflesso, il ruolo del giudice.

 

6. È infatti fatale che, in un simile contesto di perdita di centralità e di capacità regolatrice della legge, si aprano spazi di incertezza; ed è altrettanto fatale che quegli spazi di incertezza vengano, in qualche misura, “riempiti” dall’azione di chi, quella legge (incerta, imprecisa, spesso delegittimata), è chiamato ad applicare.

Di qui le polemiche contro la montée en puissance des juges, contro la  giurisdizionalizzazione della politica, contro la supplenza giudiziaria; fenomeni – quelli appena evocati – che metterebbero addirittura a repentaglio la stessa tenuta dello stato di diritto[6] e che troverebbero un fertile terreno nella retorica dei diritti fondamentali (o pretesi tali).

Per dirla con parole forse brutali: «si è alterato il rapporto tra legislazione e giurisdizione (…)? L’insaziabilità dei diritti fondamentali cancella la sovranità popolare?»[7]

Si teme, cioè, che il sistema di tutela multilivello dei diritti fondamentali e i meccanismi di interazione tra fonti del diritto statuali e sovranazionali venga usato dalla giurisdizione in modo disinvolto e tale da mettere in discussione il rapporto di fedeltà che, necessariamente, deve legare il giudice alla legge.

Del resto, è tuttora percepita come incongrua – rispetto ad un ordinamento di civil law come il nostro – l’idea che il giudice possa non dare applicazione ad una legge per contrasto con una norma euro-unitaria; e, ancor più innaturale, è percepita l’idea che si possa dubitare della legittimità costituzionale di una legge dello Stato perché questa determinerebbe un esito non conforme ad una sentenza della Corte Edu[8].

È comprensibile: alle leggi – diceva Montesquieu – ci si deve avvicinare solo con mano tremante.

 

7. I fattori di incertezza sono a questo punto tutti sul tappeto: scarsa qualità della legislazione; sovrapposizione e interferenza tra più autorità regolatrici; diverse identità – e diverse investiture – delle autorità regolatrici.

E, però, per tornare ai timori di Violante sulla tenuta dello stato di diritto: è vero che alle leggi ci si deve avvicinare con mano tremante e che una società in cui non è garantita la separazione dei poteri non ha una Costituzione[9]; ma è altrettanto vero che anche una società in cui non è «assicurata la garanzia dei diritti» non ha una Costituzione[10].

 

8. È in questo scenario – di estrema incertezza e, per altro verso, di necessità di garantire tutela ai diritti fondamentali – che si trova a muoversi e ad agire la giurisdizione. L’espansione dei suoi ambiti di intervento è un dato di fatto innegabile. Ed è altrettanto innegabile che molte voci della cultura giuridica non esitano oramai ad attribuire alla giurisdizione – o, meglio, alla giurisprudenza – una funzione (anche) di creazione di nuovo diritto.

Nel ragionare sull’espansione dell’ambito di intervento del potere giudiziario, Ferrajoli – con il contributo che inaugura questo fascicolo – muove le proprie critiche in modo particolare contro due orientamenti che – e seguendo (e semplificando) la schematizzazione proposta da Ferrajoli[11] – vengono definiti anti-positivisti. Essi – secondo Ferrajoli – offrirebbero una sponda ed una legittimazione alla giurisdizione come «fonte creativa di nuovo diritto».

 

9. L’uno, definito «neo-pandettista» è quello propugnato da Grossi, per il quale «il vero diritto positivo non è quello posto da una autorità legittima, bensì quello che l’interpretazione/applicazione immerge nella positività della società e rende sostanzialmente e non solo formalmente positivo. Si valorizza l’interprete come intermediatore, ma in quanto voce della comunità; è pertanto la comunità a essere valorizzata, non più gregge passivo di destinatari di comandi repressivi; è valorizzata l’effettività del consenso presente dei consociati che l’interprete esprime»[12]. In un altro contributo, lo stesso Autore enfatizza ulteriormente la frattura dalla tradizione legalistica: «il meta-legale, cacciato a forza fuori del recinto della giuridicità, ora che l’artificiosissimo edificio legale costruito dalla modernità va sempre più cedendo, ora che il diritto può spontaneamente recuperare la sua naturale complessità, ritorna ad essere parte cospicua – forse, la prevalente – del paesaggio giuridico»[13].

Ma tale orientamento – cui non mancano profili di fascino sul piano della ricostruzione storica – sembra però avere più una portata descrittiva di un fenomeno, non anche la funzione di offrire una cornice teorica a quelle che, nella prospettiva di Ferrajoli, costituiscono rotture della legalità. Per inciso: questo stesso orientamento, nella misura in cui si pone in polemica con la legge statuale, esaltando la capacità regolativa delle comunità si espone ad una critica: in assenza di una autorità statuale, capace – se del caso – di imporre il precetto, all’interno delle comunità più o meno autoregolate, comporta il rischio concreto che si affermi la legge dei più forti, a scapito dei più deboli (ossia, di chi, dentro le comunità sociali, non ha né forza, né voce)[14].

 

10. Il secondo orientamento anti-positivista – definito da Ferrajoli “neo-costituzionalismo principialista” – viene fatto risalire (tra gli altri) alle analisi di Dworkin[15] e di Gustavo Zagrebelsky[16]; secondo quest’ultimo, «le regole operano esclusivamente in una direzione, attraverso procedimenti logici di natura deduttiva»; invece, i «principi svolgono una doppia funzione: (a) la deduzione conforme del giudizio di valore circa il caso da decidere, che è elemento della “categorizzazione” del fatto; (b) la determinazione della norma, attraverso (…) la “concretizzazione” che, sulla premessa di tale giudizio, si applica al caso. I principi mettono così in moto quell’“andare e venire” dal fatto al diritto e viceversa, nel quale consiste il processo interpretativo»[17]; il «principio è il medium nel quale troviamo un’apertura “teoretica” al valore ed un’apertura “pratica” alla regola»[18]. In altri termini: «il principio è qualcosa di diverso da una regola molto generale… e, proprio per questo, è norma giuridica, anzi, norma giuridica al massimo grado e del massimo valore per la vita del diritto, perché, oltre ad operare come norma tra le altre norme, svolge una funzione essenziale nell’interpretazione giuridica, nel senso di attività intermediaria tra caso –inteso come fatto compreso nel suo significato e nel suo valore – e diritto»[19].

Non ci sembra, francamente, un’impostazione eversiva[20]; né ci sembra un’impostazione che autorizzi la giurisdizione ad assumere un ruolo di rottura della legalità che non le compete.

 

11. Per contro, Ferrajoli – che si muove dichiaratamente in una prospettiva positivista – propone di distinguere tra: (a) principi direttivi (ossia i veri e propri principi, in relazione ai quali non è ravvisabile nessun comportamento predeterminato che sia configurabile come applicazione o violazione di quel principio, come per esempio nel caso dell’art. 4 e dell’art. 3, comma 2, Cost.); e (b) principi regolativi (che sono principi deontici, che si comportano come le regole e per i quali – avendo ad oggetto diritti fondamentali – è possibile verificare se essi siano attuati o violati). In caso di conflitti tra principi regolativi (deontici) si dovrebbe procedere ad una argomentazione equitativa (semplice o ponderata)che – muovendo dall’esaltazione dei connotati del fatto dedotto in giudizio – consenta di comprendere quale principio regolativo sia quello effettivamente suscettibile di applicazione in quello specifico giudizio[21].

 

12. La distinzione con l’impostazione del neo-costituzionalismo principialista – probabilmente chiara sul piano teorico – rischia di risultare molto meno nitida sul piano pratico; soprattutto se si considera la stratificazione e sovrapposizione di fonti, la scadente qualità del prodotto legislativo, i molti silenzi del legislatore su temi di frontiera e, non ultimo, la insopprimibile varietà dei casi della vita (con fenomeni via via più urgenti e complessi generati dal progresso tecnologico).

Certo è che alcune delle critiche che Ferrajoli muove al cd. neo-costituzionalismo principialista sono da tenere in gran considerazione: si allude, in particolare, all’obiezione per cui la teorica dell’interpretazione per principi si accompagna alla teoria per cui ogni principio – per poter coesistere con gli altri – deve entrare in un giudizio di bilanciamento. E in questo giudizio di bilanciamento è concreto il rischio che venga indebolita la portata garantista della Carta costituzionale, con un vero e proprio effetto decostituente[22], come insegna il noto caso Ilva, in cui la Corte costituzionale ha posto in bilanciamento tra loro il diritto alla salute (l’unico diritto qualificato come fondamentale dalla Carta repubblicana) con il principio dettato dall’art. 4 della Costituzione (di portata precettiva, almeno in apparenza, indubbiamente molto meno forte)[23].

 

13. Sennonché, per dirla con Bobbio, che ragionava su un piano di filosofia politica, «il problema di fondo relativo ai diritti dell’uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. È un problema non filosofico, ma politico»[24]; «non si tratta tanto di sapere quali e quanti sono questi diritti, quale sia la loro natura e il loro fondamento, se siano diritti naturali o storici, assoluti o relativi, ma quale sia il modo più sicuro per garantirli, per impedire che nonostante le dichiarazioni solenni vengano continuamente violati»[25].

Perché se è vero che al giudice non è consentito farsi legislatore è certo altrettanto vero che – a fronte di un’istanza di tutela di un diritto fondamentale di cui si lamenta la compromissione – al giudice non è consentito opporre un non liquet[26]. Come ricorda Lamorgese nel suo contributo in questo fascicolo, perfino il Code Civil promulgato da Napoleone escludeva che il giudice potesse rifiutare di giudicare un caso con il pretesto del silenzio, dell’insufficienza o dell’oscurità della legge[27].

In questo fascicolo sono allora raccolti molti contributi – relativi a diverse branche dell’ordinamento – nei quali si riflette sulle tecniche di tutela di diritti fondamentali (apparentemente) privi di garanzie esplicite nell’ordinamento. Si tratta di contributi acuti, capaci di cogliere le autentiche esigenze dei casi dedotti in giudizio e la profonda ratio decidendi di decisioni che, almeno in apparenza, rappresentano uno sconfinamento della giurisdizione su sentieri ad essa preclusi.

Gli stessi contributi permettono altresì di registrare la profonda distanza culturale che si registra tra cultori delle materie civilistiche e cultori del diritto penale[28].

I primi[29] si dimostrano maggiormente aperti a svolgere ragionamenti per principi e a ricavare da essi regole e, dunque, le soluzioni dei casi concreti.

I secondi, invece, manifestano maggiore prudenza rispetto agli allontanamenti dai sentieri della stretta legalità, quand’anche stimoli in tal senso derivino da ordinamenti o sistemi sovranazionali comunque cogenti per il nostro Paese. E se ne capisce il motivo, posto che, in materia penale, il principio di stretta legalità (articolato nei principi di riserva di legge, di tassatività e determinatezza, di irretroattività) costituisce una indubbia (e insopprimibile) garanzia per il consociato che si trova al cospetto della giustizia penale[30]. Certo è forse meno comprensibile la resistenza culturale che – valorizzando lo stesso principio di legalità – si incontra quando alcuni allontanamenti dalla legge intesa in senso strettamente formale vengano evocati in favor rei e in chiave di tutela di diritti fondamentali (posto che un simile fenomeno di allentamento del principio di legalità in favor rei non è ignoto al nostro ordinamento; basti pensare ai casi – da taluno ammessi, benché problematici – dell’analogia in favor rei o alla consuetudine scriminante)[31].

 

14. «È finito il tempo delle norme scolpite nel marmo»[32], scriveva Cordero nell’introduzione al suo manuale di procedura penale. Ed è, questo, un dato storico della contemporaneità al quale la giurisdizione non può sottrarsi, pena l’incapacità di assicurare la garanzia dei diritti, che è pur sempre una delle ragioni costitutive dello stato di diritto costituzionale.

Come è allora chiaro, non si tratta di negare il fenomeno della trasformazione della legalità, ma di viverlo, con piena consapevolezza di tutti i rischi e le implicazioni che ogni allontanamento dalla legalità – seppur necessario per offrire risposte che l’ordinamento non ha saputo dare in modo esplicito – può comportare dei costi sul piano degli assetti democratici. Ma «il processo in corso (…) non può essere descritto come la sopraffazione di un potere sull’altro, con la politica che soccombe davanti ai giudici. È piuttosto l’esito di una difficoltà della politica, e delle categorie giuridiche che l’hanno accompagnata, di trovare la misura adatta per entrare nell’era descritta (…)»[33].

Ciò creerà – e concretamente crea – delle trasformazioni e dei riallineamenti nell’equilibrio tra i poteri dello Stato. È innegabile e sarebbe disonesto nasconderlo. Ma, del resto, quella che viviamo non è la prima trasformazione che vive il principio – per taluno il dogma – della separazione dei poteri. Basti pensare – seguendo i tempi lunghi della storia – a cosa resti della originaria tripartizione dei poteri dello Stato (potere legislativo, esecutivo e giudiziario) nelle moderne democrazie maggioritarie e bipolari: si può ancora parlare di tripartizione dei poteri dello Stato?

 

15. Su questi temi, non abbiamo risposte, ma solo molte domande. Tra esse, inevitabilmente, viene in discorso il problema della legittimazione dei giudici a (co-)partecipare alla creazione del diritto.

E diciamo subito che il tema non rileva solo per quanto riguarda la legittimazione dei giudici comuni, ma anche – e forse soprattutto – per quanto attiene la legittimazione dei giudici delle corti sovra-nazionali, le cui decisioni, spesso, hanno implicazioni di sistema di estremo rilievo e di cui non sempre sono chiare  le regole di investitura (chi li nomina?), le garanzie di autonomia e di indipendenza (quanto sono condizionati dai Paesi che li hanno nominati?).

Quanto alla legittimazione dei giudici comuni ad operare interventi di supplenza non si può che ribadire che, non alla giurisdizione, ma alle autorità democraticamente investite da mandato popolare compete la responsabilità di definire, promuovere e perseguire l’interesse generale.

Ma – a fronte di inadeguatezze o persistenti inerzie del legislatore – la tutela dei diritti deve essere comunque assicurata e la supplenza nel caso concreto, talora, si fa pressoché inevitabile[34]. Quale legittimazione, dunque, per la giurisdizione? Il primo fattore di legittimazione è dato evidentemente dal mandato costituzionale che demanda ai giudici il compito di assicurare la protezione dei diritti; e, si badi, la stessa Carta vincola non solo la giurisdizione, ma anche il legislatore, sì che gli «Stati costituzionali» non sono più «ordinati verticalmente»; al contrario «legislazione e giurisdizione sono entrambe egualmente legate alla Costituzione, “norma primaria e suprema direttamente per i giudici, come per il legislatore”»[35].

E per evitare che – nell’esercizio di tale mandato – il potere giudiziario possa sconfinare, occorre considerare che il nostro ordinamento appresta alcune significative garanzie. La prima garanzia è indubbiamente rappresentata dal sistema di reclutamento dei magistrati, indifferente ad orientamento politico, opzioni culturali, censo. La seconda garanzia è rappresentata dalle prerogative di autonomia e indipendenza che la nostra Carta costituzionale assegna all’ordine giudiziario e, dunque, a ciascun giudice nell’atto di esercitare il potere giurisdizionale. La terza garanzia è rappresentata dal dovere del giudice di dare conto con le proprie motivazioni delle ragioni di ciascuna decisione che egli assume in nome del popolo italiano. La quarta garanzia è costituita dall’essere il potere giudiziario un potere diffuso, in cui è impossibile anche solo intravedere una volontà unitaria (e, come tale, incapace di porsi in volontario conflitto con le autorità investite da mandato rappresentativo). La diffusione del potere giudiziario, del resto, rende la giurisprudenza – anche nelle sue manifestazioni apparentemente creative – una sorta di intelligenza collettiva, soggetta a progressivi aggiustamenti, a progressive ridefinizioni del proprio ruolo, a progressive correzioni di rotta; certo, perché si possa avere fiducia in questa intelligenza collettiva, occorrerebbe avere fiducia nella capacità di orientamento razionale della giurisprudenza da parte di chi è investito della funzione di nomofilachia.

 

16. Ma la miglior garanzia contro i possibili abusi da parte della giurisdizione è rappresentata dal fatto che essa è, soprattutto, sempre esposta ad un continuo confronto con la volontà del legislatore che, in ogni momento, con un tratto di penna, può cancellare interi repertori di giurisprudenza.

Ove il legislatore non intervenga, ove intervenga in modo non conforme alla necessaria tutela dei diritti fondamentali, ai giudici – con prudenza istituzionale, ma senza timidezza – non resterà che dimostrarsi giudici di questa contemporaneità e di questa storia; non resterà loro altra scelta se non quella di provare ad intervenire, con tutti gli strumenti che l’ordinamento assegna loro (e si tratta sempre di strumenti interpretativi costruiti su base legale).

Perché il diritto deve restare, anzitutto, un bene al servizio dell’uomo[36].

[1] P.L. Zanchetta, La legittimazione e il suo doppio (magistrati e consonanza con la Repubblica), in questa Rivista (ed. Franco Angeli) n. 1/1999, pp. 117 ss., riproposto in questo numero

[2] Cfr. G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto, Il Mulino, Bologna, 1976. Sull’unificazione e la razionalizzazione del sistema giuridico, con accentramento delle prerogative legislative in capo allo Stato, ivi, pp. 47 ss. Sulla razionalizzazione legata al «soggetto unico di diritto», ivi, p. 37 ss.. Sul particolarismo giuridico, ivi, pp. 28 ss. Sul superamento del particolarismo giuridico e sulle sue cause di natura economica, v. anche F. Galgano, Lex mercatoria, Il Mulino, Bologna, 1976 (nuova ed. 1993), pp. 11 ss.

[3] Tra i molti possibili riferimenti, v. J. E. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi, Torino, 2013, pp. 222 ss.

[4] M. R. Ferrarese, Prima lezione di diritto globale, Laterza, Roma-Bari, 2012, pp.131-132 (ma v., in particolare e per i ricchi riferimenti bibliografici, pp. 113-135).

[5] Cfr. P. Grossi, Introduzione al novecento giuridico, Laterza, Roma-Bari, 2012, pp. 3 ss., 69 ss., 112 ss.; dello stesso Autore, Ritorno al diritto, Laterza, Roma-Bari, 2015, pp. 4 ss., 24 ss.

[6] Tra i molti riferimenti, v., per esempio, L. Violante, Il dovere di avere doveri, Einaudi, Torino, 2014, pp. 20-22; v. anche, sulla carenza di legittimazione democratica dei giudici, ivi, pp. 41-44. Per uno sguardo storico sulla persistente frizione tra potere giudiziario e potere politico, v. A. Guardiano, Spunti per una ricostruzione storica, in questo fascicolo della Rivista.

[7] Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 47; per interrogativi analoghi, v. pp. 54 ss.

[8] Questa è la percezione del fenomeno. In realtà, allorché si dubita della legittimità costituzionale di una legge dello Stato per contrasto con la Convenzione Edu, si ragiona non del contrasto con le sentenze della Corte Edu, ma della ipotizzata violazione dell’art. 117 Cost., che – obbligando il nostro Paese al rispetto degli obblighi internazionali –  risulterebbe leso ove una legge dello Stato fosse in contrasto con una disposizione della Conv. Edu che, pertanto, funge da norma interposta. Su tali aspetti, sui meccanismi di interazione tra sistema convenzionale e ordinamento interno, sul ruolo della Corte Edu e della Corte costituzionale, sul delicato problema dei controlimiti, v., in questo numero della Rivista il contributo di R. Conti, Il sistema di tutela multilivello e l’interazione tra ordinamento interno e fonti sovranazionali (e ivi ulteriori riferimenti bibliografici).

[9] Art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 1789.

[10] Così sempre l’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 1789.

[11] Cfr. in questo fascicolo della Rivista, L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, in particolare, il paragrafo 2.

[12] P. Grossi, Prima lezione di diritto, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 109-110 (i corsivi sono nel testo originale).

[13] P. Grossi, Ritorno al diritto, cit., p. 44.

[14] Lo stesso rischio è messo in luce da G. Preterossi, La magistratura di fronte alle derive post-democratiche, pubblicato in questo fascicolo della Rivista.

[15] R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna, 2010 (nuova edizione); in particolare, si vedano i capitoli 4 (pp.129 ss.) e 7 (pp. 269 ss.).

[16] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1992; G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Il Mulino, Bologna, 2008 (in particolare, capitoli 5 - 7).

[17] G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, cit., pp. 223-224.

[18] G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, cit., p. 225.

[19] G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, cit., p. 213.

[20] Anche N. Lipari, Ancora sull’abuso del diritto. Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, in questo fascicolo della Rivista, si muove in una prospettiva analoga (il passaggio citato è al paragrafo 3): «Personalmente riterrei del tutto improprio, giunti a questa fase evolutiva dell’esperienza giuridica, negare la radicata conclusione secondo la quale anche la giurisprudenza debba essere annoverata tra le fonti del diritto. Né mi sembra che la configurazione creazionistica dell’argomentazione giuridica contraddica al paradigma dello stato di diritto (…).se si riconosce che la norma, come precetto all’azione, nasce all’esito dell’interpretazione e che questa trova la sua plausibilità nel fatto di fondarsi sulla condivisione di una collettività, allora ben può dirsi con Gadamer, che “il compito dell’interpretazione è la concretizzazione della legge nel caso particolare, cioè l’applicazione”, all’un tempo riconoscendo che “si verifica così un perfezionamento creativo della legge”».

[21] L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, in questo fascicolo della Rivista, in particolare al paragrafo 6.

[22] Sul punto, si veda – oltre al contributo pubblicato in questo fascicolo – L. Ferrajoli, La democrazia attraverso i diritti, Laterza, Roma-Bari, 2013, pp. 112 ss. ove si distingue tra i diritti fondamentali, come regole oggetto di applicazione e come principi oggetto di argomentazione.

[23] Sul caso Ilva e sul bilanciamento evocato nel testo, v. S. Palmisano, Del «diritto tiranno». Epitome parziale di un’indagine su cittadini già al di sopra di ogni sospetto, in Questione giustizia n. 2/2014 (edizioni Franco Angeli).

[24] N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, p. 16; corsivi nel testo originale.

[25] N. Bobbio, L’età dei diritti, cit., pp. 17-18.

[26] Il caso Englaro (definito con la pronuncia delle Sezioni unite civili, Sentenza n. 27145 del 13/11/2008, Rv. 605231), in tal senso, è paradigmatico, come – nel senso opposto –il caso Welby (malato terminale che chiedeva di vedere interrotto il trattamento meccanico che lo teneva artificialmente in vita); in quest’ultimo drammatico caso, il Tribunale di Roma, con decisione del 16 dicembre 2006, dopo avere affermato che sussiste il principio di autodeterminazione del paziente, decretò l’inammissibilità dell’istanza rilevando che il principio di autodeterminazione non era attuato con regole precise; sicché tale diritto – pur affermato – non poteva essere concretamente attuato; di qui, l’inammissibilità dell’istanza.

[27] In questo numero della Rivista riflettono sull’interpretazione a fronte dei silenzi della legge, A. Lamorgese, L’interpretazione creativa del giudice non è un ossimoro e E. Scoditti, Dire il diritto che non viene dal sovrano.

[28] Un discorso a parte meriterebbe il contributo di A. Terzi, I giudici, il diritto del lavoro e l’interpretazione che cambia verso,in questo numero della Rivista, ove si ragiona sulla ridotta (rispetto al passato) capacità di intervento – con gli strumenti dell’interpretazione per principi e dell’attribuzione di portata immediatamente precettiva al dettato costituzionale – che oggi ha la giurisprudenza del lavoro; ciò sia per effetto di tendenze culturali, sia per effetto di precisi interventi legislativi.

[29] Cfr., in questo numero della Rivista, A. Giusti, Giurisdizione e interpretazione in Cassazione, ma, si vedano anche i già citati contributi di A. Lamorgese, L’interpretazione creativa, cit., R. Conti, Il sistema di tutela multilivello, cit..

[30] Si rimanda al contributo di G. Leo, Le trasformazioni della legalità penale nel sistema multilivello delle fonti, pubblicato in questo numero della Rivista.

[31] Per una rassegna delle questioni, cfr., per esempio, F. Mantovani, Diritto Penale, parte generale, Cedam, Padova, 1992: sulla consuetudine scriminante (pp. 82-83) e sulla analogia in favor rei (pp. 110 ss.).

[32] F. Cordero, Procedura penale, Giuffré, Milano, 2006. La frase citata è nella premessa alla seconda edizione, del 1992 ed era riferita al diluvio di riforme normative e di sentenze manipolative che aveva investito il neonato codice di procedura penale.

[33] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., p. 59.

[34] Su tale questione, sulla supplenza intesa come soluzione innovativa che attinge a risorse interne al sistema, sui rischi connessi ad una concezione (e a una legittimazione) tecnico-sapienziale della giurisdizione, v. G. Preterossi, La magistratura di fronte alle derive post-democratiche, cit.. Sul tema della legittimazione, v. anche P.L. Zanchetta, La legittimazione e il suo doppio, cit., pp.  117 ss.

[35] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., p. 65.

[36] Mc 2, 27: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato».