La legittimazione e il suo doppio
(magistrati e consonanza con la Repubblica)
1. Legittimazione istituzionale e legittimazione democratica
Il ruolo della magistratura, la posizione del singolo magistrato, è – almeno da due secoli, in ogni società sviluppata – un momento di sofferenza istituzionale. La particolarità non è certo dovuta al fatto che gli altri istituti godano stabilmente di buona salute. Parlamenti inconcludenti e litigiosi, governi incapaci a dirigere, pubblica amministrazione neghittosa ed irresponsabile: sono solo alcune delle accuse mosse – in ogni tempo ed in ogni dove – a questo o a quel potere, a questo o a quell’organismo. Ma esse sono patologie del sistema, rispetto alle quali sono prospettabili – e molto spesso realizzate – soluzioni. Quello della funzione giudiziaria è invece un malessere, per così dire, fisiologico, che non riesce a trovare – meglio, non può trovare – un rimedio soddisfacente nei meccanismi istituzionali. Il problema sta nel carattere proprio del ius dicere, il quale non può agire in base al principio cardine di ogni democrazia, quello di maggioranza: «al volere della maggioranza, spetta decidere che non si deve rubare: non accertare se, in una particolare vicenda, Tizio abbia o no rubato»[1]. «Proprio perché la legittimità del giudizio risiede nelle garanzie dell’imparziale accertamento dei fatti, — osserva L. Ferrajoli — essa non può dipendere dal consenso della maggioranza che certamente non rende vero ciò che è falso, né falso ciò che è vero»[2]. Si può – si deve – giudicare in nome del popolo, ma il popolo non può giudicare. E quando lo ha fatto raramente ha reso giustizia, come dimostra il processo popolare di Gesù; in questo caso il popolo ha giudicato direttamente, ma miglior sorte non può certo aspettarsi qualora dovesse giudicare con propri rappresentanti a tal fine da lui scelti ed eletti. Dunque a maggioranza non si stabilisce la ragione ed il torto. Lasciando il compito ad un organo imparziale si difende così il popolo eterno, quello che trova la propria ragion d’essere nei principi della Costituzione, dal popolo attuale, quelle della maggioranze occasionali e volubili[3]. Necessità di un organo terzo non espressione della maggioranza ed esigenza, propria di ogni democrazia, che l’operato di ogni potere sia in qualche modo controllato, che ogni potere sia responsabile: su questa tensione si fonda la sofferenza istituzionale - sempre latente, frequentemente esplicita - dell’operato della magistratura circa la sua legittimazione a svolgere il compito affidatole: come si legittima un organo ad essere terzo imparziale?, come si verifica la sua imparzialità?, come si sanzionano eventuali violazioni?
Il termine “legittimazione” ha, in primo luogo, una valenza tecnica. Con esso si designa l’idoneità giuridica ad essere soggetto attivo di un determinato atto o comportamento. È questa la legittimazione in senso stretto o, per meglio dire, istituzionale. Ve n’è una più ampia, che potremmo definire democratica: con essa si misura l’approvazione, il consenso sociale dell’operato di quel soggetto. Di norma per un organo, un potere pubblico i due tipi di legittimazione devono coincidere. Una loro differenziazione – si riprende quanto sopra detto - è sintomo di patologia del sistema: il rimedio è la modifica dei meccanismi e delle previsioni normative posti a fondamento della prima, in modo che si soddisfino i requisiti della seconda. La ricerca dell’adeguamento, per via istituzionale, della prima alla seconda non vale per lo ius dicere: sempre presente dev’essere la tensione a far coincidere, anche in questo settore, l’una e l’altra, ma storicamente la divaricazione non è stata colmata sul piano dei meccanismi istituzionali. Nessuna delle varie soluzioni o proposte storiche (potere nullo della Rivoluzione francese, elezione – tramite il parlamento o a suffragio universale - dei magistrati, controllo del governo sull’operato dei magistrati, etc.) è mai riuscita a risolvere il problema per via istituzionale. Si pensi, per fare un esempio tra i tanti possibili, al caso del Belgio, dove la nomina dei magistrati è determinata dai politici: ebbene, in questo Paese si teorizza un dovere di ingratitudine dei magistrati nei confronti dei loro elettori. Un principio morale o deontologico, non certo tradotto, né traducibile, sul piano istituzionale. Il risultato si raggiunge infatti al di là delle istituzioni. Così la sofferenza istituzionale si trasferisce nel convivere di due tipi di legittimazione.
Ma procediamo con ordine.
2. Legittimazione istituzionale e legislazione
Nella Costituzione italiana i princìpi fondanti la legittimazione della magistratura, come noto, sono: la soggezione soltanto alla legge (art. 101) e la nomina per concorso (art. 106). Di conseguenza, come princìpi serventi, si prevedono l’autonomia e l’indipendenza da ogni altro potere, garantiti dal Consiglio superiore della magistratura (art. 104), con connessa garanzia di inamovibilità (art. 107). La nomina per concorso risponde – dovrebbe rispondere – a due requisiti. Il primo è, per così dire, sociologico: la magistratura, soprattutto se si attuano gli artt. 3, 2° c, e 34 della Costituzione, è aperta a cittadini di ogni ceto e classe, rappresentando così di fatto ogni settore della società. Il secondo è di natura tecnico-culturale: entra in magistratura chi sa di diritto, conosce le leggi e sa come applicarle. Non è questa la sede per valutare se il concorso, così com’è, garantisce tutto ciò e, soprattutto, quali meccanismi occorrono per verificare periodicamente la permanenza di tali requisiti. Rileva che in genere si pone a fondamento legittimante l’esercizio della giurisdizione la professionalità[4]: il sapere di diritto renderebbe democraticamente accettabili le decisioni ed il comportamento dei magistrati[5]. Ma le recenti critiche a settori della magistratura – pensiamo a Mani pulite – non si appuntano certo sulla mancanza di professionalità, come era accaduto nella vicenda giudiziaria nota come il caso Tortora; nessuno mette in dubbio la professionalità, semmai la critica si rivolge al fatto che tale professionalità sarebbe usata in modo distorto e posta non al servizio della giustizia, ma della lotta politica.
Si presenta così all’attenzione il secondo corno del problema, la soggezione alla legge. Ma per comprendere la soggezione, bisogna misurare cosa sia la legge oggi, quali, per meglio dire, le caratteristiche di una legislazione moderna. Unanime è l’osservazione che la natura del contemporaneo Stato costituzionale ha sconvolto lo strumento principe regolatore della sua azione, la legge. L’avvento dello Stato sociale e la partecipazione democratica (due fenomeni non a caso coevi) hanno imposto nuove prospettive, introdotto nuove figure istituzionali e trasformato l’essenza degli strumenti tradizionali, quali la legge, trasformando così ruolo e compiti del giudice.
Si legifera molto e male, e non solo in Italia. È ben nota la polemica sulle 150.000 (o quante sono di preciso) leggi italiane. Ma In tutto il mondo (Francia, Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti d’America, per citare i Paesi avanzati e di solito ritenuti indenni da questo fenomeno) l’inflazione legislativa ha assunto livelli preoccupanti: ogni legislatore nazionale è colto dal timore di «dimenticare qualcosa»[6], contribuendo così, quasi paradossalmente, ad aumentare, anziché diminuire, l’oscurità normativa; sempre più in questo contesto «la legge non è più la massima universale e luminosa rivolta alle generazioni future»[7]. Certo, per rimanere in Italia, a volte difetta una buona tecnica legislativa per assicurare chiarezza nella legge, come evidenzia M. Ainis, che elenca gli strumenti per porre rimedio all’attuale stato delle cose[8]. È altresì prevedibile e possibile una razionalizzazione legislativa anche dal punto di vista quantitativo, eliminando doppioni, testi obsoleti, raggruppando norme regolanti la stessa o analoga materia, etc.
Ma non sta qui il punto. Possiamo pure lamentare che lo Stato sia occupato dal diritto, come fa A. Garapon, secondo cui l’eccesso di diritto può snaturare la democrazia[9]. Se è un male, è un male inevitabile. Ormai è irrimediabilmente – e fortunatamente – passato il buon tempo antico in cui la legge si limitava a codificare regole già riconosciute nella società. Una tale legge era funzionale ad una società bisognosa di strumenti giuridici per i soli (e peraltro non complessi) rapporti economici, nonché per la definizione di modesti e limitati diritti civili e politici. Una legislazione che non si riprometta solo di registrare l’esistente, ma programmi un intervento organizzativo capace di modificare lo stato di ingiustizia esistente o naturale – così come impone la nostra Costituzione – non può che invadere ed occuparsi (se non proprio regolamentare direttamente) ogni settore della società. Viene in primo luogo alla mente il compito di rendere effettivi i diritti sociali, ma una legislazione aderente alla Costituzione non può non incidere profondamente anche sui, più o meno tradizionali, diritti civili e politici: basti pensare alle potenzialità offerte da un uso meno parsimonioso delle azioni positive o all’allargamento del godimento (anche a geometria variabile, come direbbe S. Rodotà) di tali diritti a categorie di persone finora escluse, come gli stranieri. Sempre più deve cambiare il carattere della legge: essa non può rincorrere la preoccupazione di «dimenticare qualcosa». Occorre che nel regolamentare la vita della società il Parlamento con lo strumento legislativo fissi, per ogni settore, i paletti e fornisca per lo più i criteri di decisione, lasciando ad altri – governo, autorità indipendenti[10], giudici – la concretizzazione del diritto.
Se ora la legge non «riesce a stare dietro a tutto», il diritto – cioè la normazione generale e/o specifica realizzata con il concorso di tutte le istituzioni or ora menzionate – può svolgere questo compito. Insomma – per usare le parole di G. Silvestri – «la positivizzazione della giustizia non può essere compito esclusivo del legislatore, ma deve investire tutti i poteri dello Stato e tutte le strutture pubbliche di governo non statali, per l’impossibilità delle norme generali ed astratte della tradizione giuridica dello Stato liberale ottocentesco di racchiudere le risposte alle molteplici richieste di protezione giuridica provenienti da interessi fortemente differenziati, spesso non chiaramente definibili in anticipo e bisognosi quindi di forme di tutela meglio assicurate da norme concepite per essere suscettibili di successive implementazioni in sede applicativa»[11]. D’altra parte nessuno contrapporrebbe le caratteristiche attuali della legge (meglio: la necessità di produrre leggi con tali caratteristiche) con una presunta precisione e completezza delle leggi del buon tempo andato. In un accurato lavoro C. Luzzati evidenzia la vastità del fenomeno della vaghezza delle norme, cioè del problema dei confini del loro significato. Egli distingue due tipi di vaghezza. Si ha vaghezza comune nei casi ordinari, quando il richiamo alle regole e ai valori etico-sociali (o extragiuridici) non è necessario per l’applicabilità di un concetto all’esperienza; si ha vaghezza socialmente tipica (o da rinvio) di un termine, quando questo esprime un concetto valutativo, i cui criteri applicativi sono determinabili solo attraverso il riferimento ai variabili parametri di giudizio e alle mutevoli tipologie della morale sociale e del costume. E l’autore elenca in quattro pagine fitte fitte le norme di quest’ultimo tipo, contenute anche e soprattutto nel codice penale, di quel codice, cioè, da cui ci si aspetterebbe il massimo della precisione[12].
3. Quale magistratura per quali decisioni
In questo scenario deve muoversi la magistratura. Il proprium del giudice si appunta nella sua posizione di terzietà, nel risolvere un caso particolare e nell’essere di norma la sua azione rivolta al passato. Tutto ciò lo differenza del politico, che è di parte, portatore cioè di determinati interessi, e la cui azione, di norma, ha carattere generale ed è rivolta al futuro. Ma questo proprium non gli consente di scavarsi una comoda nicchia istituzionale, assumendo come riparo le previsioni normative. In questo contesto il giudice in tutte le società sviluppate – osservano C. Guarnieri e C. Pederzoli – è «costretto talvolta a confrontarsi con problemi del tutto nuovi ed (è) guidato nelle sue responsabilità decisionali da norme programmatiche o da testi alquanto scarni.... Il ricorso al giudice può… costituire, tende in effetti a diventare uno strumento di partecipazione al processo politico»[13]. Così gettati nella mischia, i giudici, nel loro specifico operare, non possono ignorare i fini che si pone una determinata legge o l’ordinamento in generale; e a ciò devono orientare il loro potere discrezionale. Da tempo falsa risulta essere la contrapposizione tra «interpretazione» e «creazione» del diritto: il giudice, nei suoi precisi limiti processuali e sostanziali, deve riempire le lacune, precisare le nuances, chiarire le ambiguità[14]. Ma al giudice pare chiedersi molto di più. Si pensi alle sentenze «additive di principio» della Corte costituzionale, quelle sentenze con cui la Corte stabilisce un principio, senza introdurre norme precise nell’ordinamento. Esse sono volte a guidare sia il legislatore nella necessaria attività normativa diretta a rimediare alla situazione di incostituzionalità, sia – è ciò che qui rileva - i giudici “affinché, in attesa dell’intervento legislativo, trovino in sede di integrazione del diritto una soluzione per le controversie loro sottoposte”[15].
Non diventa così più valida – come rileva G. Silvestri nell’opera citata - per gli ordinamenti contemporanei la costruzione kelseniana della produzione dall’alto verso il basso del sistema normativo: al legislatore spetta di concretizzare la Costituzione, al giudice (ed alla pubblica amministrazione) di concretizzare la legge. Pare preferibile nelle società contemporanee il continuum proposto da N. Luhmann. Con l’aumento della complessità sociale, è stata avvertita l’esigenza della differenziazione del diritto, realizzatasi con misure organizzative, quali la tradizionale separazione tra produzione ed applicazione del diritto: «riprendendo recenti concezioni della scienza dell’organizzazione possiamo definire questa differenziazione come separazione tra decisioni programmanti e decisioni programmate»[16]. In questo continuum si realizza la programmazione del diritto, la compenetrazione tra produzione ed attuazione.
Si è così in presenza del diritto vivente, definito già da Tullio Ascarelli l’«interpretazione giurisprudenziale dominante». In una ponderosa e documentata monografia sull’argomento A. Pugiotto ricorda in primo luogo come l’Ascarelli rilevasse, in particolare negli anni ’40 e ’50, l’insufficienza del sistema delle definizioni giuridiche poste dal legislatore e l’inevitabilità di ricorrere ad elementi della realtà extragiudiziaria: la norma esiste ed ha una sua efficacia solo con l’applicazione concreta, dal momento che «nessuna norma opera ed esiste indipendentemente dalla sua interpretazione ed applicazione»[17]. Il concetto di «diritto vivente» può dirsi presente alla Corte costituzionale fin dai suoi esordi, ma solo a partire dagli anni ’80 si è affermato definitivamente nella sua giurisprudenza. Così essa giudica sulla costituzionalità o meno di una norma, non secondo una astratta lettura costituzionale di un dato testo normativo, ma secondo la concreta applicazione di detta norma: «spetta al giudice ordinario l’interpretazione della norma, mentre questa Corte ha la funzione di porre a confronto la norma nel significato ad esso comunemente attribuito o assegnatole dall’interprete» (sent. 280/1992). Nel dubbio la norma va intesa in senso conforme alla Costituzione, ma laddove c’è diritto vivente tale incertezza non esiste affatto; il giudice può così attivare il giudizio incidentale solo se è impossibile una lettura conforme alla Costituzione oppure se esiste già un diritto vivente di dubbia costituzionalità. Da notare, per quanto attiene alla diffusione del potere giudiziario, che l’interpretazione della Cassazione, in particolare delle sezioni unite, è fonte di cognizione privilegiata in ordine all’esistenza di un diritto vivente, ma la principale matrice del diritto vivente è la interpretazione-applicazione invalsa tra i giudici – considerati nel loro complesso ed indipendentemente dal loro grado e funzione –, anche se priva del suggello della Cassazione. Il precetto legislativo è, dunque, di per sé spesso impotente a regolare tutti i casi della vita. E in alcune situazioni non soltanto è un dato di fatto, ma forse è bene che sia così: quando si affrontano temi delicati e valori confliggenti (come nel campo della bioetica), vi è una miglior resa della sentenza rispetto alla legge: «la decisione giudiziaria si presenta come uno strumento che, soprattutto in una società pluralista o comunque caratterizzata da un politeismo di valori, evita in definitiva la delegittimazione di una delle posizioni in campo ed i conflitti che da ciò discenderebbero». In tali situazioni occorre «una legislazione aperta, elastica, leggera» e dei giudici chiamati ad operare una concretizzazione dei diritti, con la possibilità di non esasperare la conflittualità tra diversi modelli culturali[18].
In definitiva, per quanto attiene alla creatività giurisprudenziale, non si può che rilevare – citando G. Tarello – come «la norma non ha un significato perché è un significato, dal momento che è il prodotto di un processo di interpretazione in cui il giudice svolge ovviamente una parte importante»[19].
Si è cercato di individuare il tipo di giudice che opera – o forse meglio, quello più adatto ad operare – in questo scenario. Vi è chi[20] ha prospettato tre modelli di giudice: bocca della legge, negoziatore qualificato di sentenze, interprete della situazione da giudicare. Altri[21] individuano quattro modelli, distinguendo il comportamento del giudice in rapporto al potere politico: il giudice esecutore (con bassa autonomia politica e bassa creatività giurisprudenziale); il delegato (con bassa autonomia politica, ma alta creatività giurisprudenziale: una creatività interstiziale); il guardiano (con alta autonomia politica, ma bassa creatività giurisprudenziale); il politico (con alta autonomia politica ed alta creatività giurisprudenziale). Accanto ai modelli ricordati vi è chi rileva che «il giudice non è più visto come il mero custode delle leggi, ossia come il dichiaratore di un diritto integralmente preesistente, bensì è visto come un cauto adeguatore del diritto» (corsivo mio)[22]. Le classificazioni sono utili per comprendere la realtà; spesso però la definizione non si limita a descrivere la realtà, ma connota un giudizio di valore (come nella qualificazione di giudice politico). Proviamo allora - in estrema sintesi e prescindendo da giudizi di valore - a miscelare le definizioni offerte per individuare quale tipo di giudice debba – non solo e non tanto possa – essere presente nel panorama costituzionale italiano. Indubbiamente deve essere un giudice ad alta indipendenza politica. La sua creatività giurisprudenziale dev’essere adeguata al carattere della legislazione moderna poco sopra rammentato. E qui occorre distinguere, perché la tavola del diritto non è un dato omogeneo: così in campo penale la sua creatività deve essere la meno alta possibile, immediatamente sensibile a nuovi orientamenti legislativi ed ai cambiamenti di costume nella società (per considerare in particolare la vaghezza di rinvio di alcune norme): qui dev’essere non un cauto, ma un pronto adeguatore del diritto. In quello civile è necessario a sua volta distinguere tra i settori di diritto sedimentato e le nuove (o ritornate nuove) frontiere. Laddove non vi è, non vi può essere, precisione legislativa, essendo il giudice tenuto a decidere, alta non può che essere la creatività giurisprudenziale. Il modello ottimale pare pertanto avvicinarsi a quello del giudice come interprete della situazione da giudicare.
4. Cosa legittima
Se a questo modello deve improntarsi il comportamento del giudice (e, più in generale, del magistrato), è evidente che il suo potere è sideralmente distante da quel potere nullo ipotizzato da Montesquieu; non solo: è probabilmente distante dal modello teorico (ma quanto sono sempre state divaricate teoria e pratica sul punto!), su cui ragionavano i nostri costituenti. Torniamo così al problema posto all’inizio: su quale legittimazione si fonda il suo operato?
«La legittimazione dei giudici – afferma G. Berti – è professionale, non politica»[23]: se la seconda è costituzionalmente impraticabile, la prima - fondata sui due capisaldi della Costituzione (soggezione solo alla legge, ingresso in magistratura per concorso, cioè per vaglio professionale) – rischia oggi di apparire insufficiente (ammesso che potesse essere sufficiente in passato). Si rivela pertanto necessaria un’integrazione a quella sopra definita legittimazione istituzionale, quella cioè fondata sui meccanismi istituzionali. Certo è anche necessario affinare i meccanismi istituzionali per rispondere all’eterno quesito: chi (e come) custodisce i custodi? Così, a seconda degli orientamenti politici e dei gusti istituzionali, si avanzano varie e disparate proposte per salvaguardare a un tempo il bene irrinunciabile dell’indipendenza della magistratura e l’esigenza di un controllo sul suo operato: verifica periodica sulla professionalità, tipizzazione degli illeciti disciplinari, potenziamento e/o modifica del Consiglio superiore della magistratura, separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, etc.[24]. Ma su questa via – nella vana ricerca della quadratura del cerchio – i risultati non possono che essere insoddisfacenti.
Vi è in primo luogo la necessità di un richiamo per tutti gli operatori istituzionali ad un fair play costituzionale per quanto attiene critiche (reciproche), rispetto delle rispettive competenze, attenzione ai rispettivi ruoli, etc. Al riguardo è bene rammentare come si parli normalmente di «giusto processo», mal traducendo il britannico fair trial. È mal tradotto, perché il fair è un termine molto più ricco che «giusto»: esprime un giusto nel senso di equo, corretto.., esprime cioè un andamento del processo che è giusto, cioè socialmente accettabile, al di là del formale rispetto delle regole processuali. Lo stesso vale – dovrebbe valere – nei rapporti tra i rappresentanti dei diversi poteri pubblici. Il fair play costituzionale dovrebbe essere tenuto in pari conto della consuetudine costituzionale: rispettato come legge non scritta. Ma quanto affermato vale, al più, come declamazione. Il fair play è, allo stato, come il coraggio per don Abbondio: se uno non lo ha, non se lo può dare.
Così bisogna puntare l’attenzione su un tipo di legittimazione che superi le previsioni normative dei meccanismi istituzionali. È quella che abbiamo chiamato legittimazione democratica. Al riguardo alcuni si muovono su un piano, per così dire, sociologico, constatando, ad esempio, su quali basi si sono legittimate, cioè socialmente approvate, determinate decisioni di determinati magistrati: riferendosi ai procedimenti tipo Mani pulite, A. Pizzorno afferma che «la magistratura italiana ha agito tenendo conto di quanto avveniva nella sfera pubblica; e ha potuto svolgere il suo compito soprattutto grazie all’appoggio che vi ha trovato»[25]; insomma, coscientemente o meno, ha agito «fiutando l’aria», mettendosi in sintonia con l’opinione pubblica. La vox populi, vox Dei contrapposta alla Costituzione, dunque? Ma una considerazione del genere – oltre ad essere inaccettabile nel merito – è inadeguata a stabilire una regola – un principio non occasionale e non fondato sull’osservazione di un, seppur importante, fenomeno giudiziario – per stabilirne natura e confini. Una tale regola può essere rinvenuta in una massima di S. Mannuzzu: «quella che conta di più è la “consonanza” – “l’accordo fondamentale” – del giudice con la Repubblica. Qualcosa che è ben di più della lealtà e della fedeltà al giuramento prestato: … un’adesione ad un insieme di principi non vaghi, incarnati nella storia – una scelta di merito»[26]. La decisione giudiziaria è un fatto solitario; il magistrato, nell’agire e nel decidere, non si muove in base ad un input di una, più o meno qualificata, opinione pubblica, non chiede assensi. È solo, ma non isolato. Vive una consonanza di fondo con la Repubblica, cioè ad un tempo con le altre istituzioni e con i cittadini.
Come si realizza e mantiene una tale consonanza? A quali attori – oltre ai diretti interessati – è affidata la sua vitalità? Un tale impegno è inserito nel più ampio rapporto dialettico – non istituzionalizzato, né istituzionalizzabile – che deve esistere tra organi e poteri pubblici da un lato e cittadini organizzati, le formazioni sociali della società civile dall’altro. Il diritto - osserva J. Habermas – è specializzato nell’arginare conflitti aperti in modo tale che non si disgreghi il fondamento dell’agire orientato all’intendersi e quindi all’integrazione sociale[27]. In un tale contesto di agire comunicativo «l’organizzazione dello Stato di diritto deve servire, in ultima istanza all’autorganizzazione politicamente autonoma di una collettività che, con il sistema dei diritti, si è costituita in associazione di liberi ed eguali consociati giuridici». Gli strumenti della politica e del diritto mettono in correlazione tra loro sfera pubblica e questo aggregato pluralista di cittadini. Sarà una correlazione – direttamente – dialettica tra l’autorganizzazione dei cittadini e la sfera pubblica politica, dovendo sussistere una «interazione delle consultazioni istituzionalizzate con le opinioni pubbliche informali»[28]: le due parti dialogano, esprimono e ricevono proposte ed osservazioni. Sarà una correlazione – apparentemente – unidirezionale quella con la sfera pubblica giurisdizionale: il magistrato dev’essere, di norma, silente per quanto attiene quel suo determinato operare. È silente, ma – così come non è isolato nella solitudine - non è (non riesce, al di là della sua volontà ad essere) sordo. Cittadini organizzati non sono la plebe del Crugifige, manovrata dai farisei di turno; elaborano idee, avanzano proposte, formulano critiche ragionate e non emotive. Una tale presenza non può che dar vita a quel rapporto di consonanza con la Repubblica: la consonanza non considera il contingente – questa o quella decisione; i desiderata occasionali di un popolo attuale, spesso in contrasto con il popolo eterno della Costituzione –, ma impone ed offre ai magistrati quel senso comune, sul quale in una società si fonda l’accettazione dell’operato della magistratura considerata nel suo complesso.
Fragili ed instabili le basi di questa legittimazione democratica? Indubbiamente, soprattutto se non si dà piena attuazione a quell’insieme di diritti sanciti dalla prima parte della Costituzione, fatto che permette di rendere effettivamente democratici gli istituti della seconda parte (ivi compresi quelli del Titolo IV, dedicato a «la magistratura»). È una legittimazione mai conquistata una volta per tutte, non essendo per sua natura solo affidata ai meccanismi istituzionali: matura e si consolida con il maturare e consolidarsi degli spazi di effettiva libertà dei cittadini. Ma non ci è fornito di meglio. È un’illusione, adatta ad una temporanea e pelosa battaglia politica che, al di là di marginali interventi, la sola previsione normativa-istituzionale – come l’esperienza insegna – possa fornire un equilibrio, costante ed accettabile, tra indipendenza e controllo. La realtà sociale ed istituzionale, considerata nel suo insieme, è troppo complessa: i cittadini – e tra loro ci sono i politici e i magistrati – devono misurarsi (soprattutto) con essa e non con la (sola) ingegneria istituzionale.
[1] Così S. Mannuzzu, Il fantasma della giustizia, Il Mulino, Bologna ,1998, 8.
[2] L. Ferrajoli, Giurisdizione e democrazia,in Democrazia e diritto, n. 1/1997, 292.
[3] Sulla distinzione tra popolo eterno e popolo attuale vedasi M. Gauchet, La révolution des pouvoirs. La souveraineté, le peuple et la représentation 1789-1799, Gallimard, Parigi, 1995, p. 46.
[4] Così da ultimo P. Borgna - M. Cassano, Il giudice ed il principe - magistratura e potere politico in Italia e in Europa, Donzelli, Roma, 1997.
[5] Ad essere precisi, oltre alla capacità tecnica nella formazione dei magistrati dovrebbero entrare un’educazione deontologica e quella della coscienza del ruolo. Vedasi al riguardo M. Dogliani, La formazione dei magistrati, in B. Caravita (a cura di), Magistratura, Consiglio superiore della magistratura e princìpi costituzionali, Laterza, Roma-Bari, 1994.
[6] Cfr sul punto A. Garapon e D. Salas, La repubblica penale, LiberilLibri, Macerata, 1997.
[7] Così C. Matray, Le chagrin des juges, Ed. complèxe, Bruxelles, 1997, 34. L’autrice riporta un curioso esempio di cattiva legislazione: l’art. 2 del decreto reale belga del 20 luglio 1995, concernente gli alimenti per animali destinati ad un’alimentazione particolare, enuncia che «i soli alimenti destinati ad un’alimentazione particolare autorizzati al commercio sono quelli che per la loro natura e composizione sono appropriati all’alimentazione particolare cui sono destinati».
[8] Vedasi al riguardo M. Ainis, La chiarezza delle leggi, in L. Violante (a cura di), Legge, diritto, giustizia, Storia d’Italia, Annali vol. XIV, Einaudi, Torino, 1998.
[9] Cfr A. Garapon, I custodi dei diritti. Giustizia e democrazia, Feltrinelli, Milano, 1997.
[10] Per non appesantire l’esposizione, sul parallelismo tra Autorità indipendenti e giudici mi permetto di rinviare al mio Potere e poteri, in questa Rivista, 1998, pp. 663 ss., Franco Angeli editore.
[11] G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Giappichelli, Torino, 1997, p. 5.
[12] C. Luzzati, La vaghezza delle norme. Un’analisi del linguaggio giuridico, Giuffrè, Milano, 1990. Sulla necessità di ricorrere a criteri extra-giuridici, in definitiva a criteri lato sensu politici, conviene sempre rifarsi a S. Senese, Relazione in Atti del seminario su “La magistratura italiana nel sistema politico e nell’ordinamento costituzionale (cenni storici e problemi), Giuffrè, Milano, 1978; per un esame di diritto comparato della questione cfr A. Barak, La discrezionalità del giudice, Giuffrè, Milano, 1995.
[13] C. Guarnieri - P. Pederzoli, La democrazia giudiziaria, Il Mulino, Bologna, 1997, citazioni tratte da pp. 15 e 17.
[14] Cfr sul punto M. Cappelletti, Giudici legislatori?, Giuffrè, Milano, 1984.
[15] Cfr. sul punto G. Parodi, Le sentenze additive di principio, in Foro It., 1998, V, p. 160; citazione tratta da c. 161.
[16] N. Luhmann,La differenziazione del diritto, Il Mulino, Bologna, p. 126.
[17] Citazione tratta da A. Pugiotto, Sindacato di costituzionalità e “diritto vivente”. Genesi, usi, implicazioni, Giuffrè, Milano, 1994, p. 53. Dalla stessa opera sono tratte la citazione e le considerazioni successive.
[18] Cfr. sul punto S. Rodotà, Tecnologie e diritti, Il Mulino, Bologna, 1995; citazioni tratte da pp. 129 e 139.
[19] Tratto da C. Guarnieri – P. Pederzoli, op. cit., 124.
[20] Così G. M. Chiodi, Giurisdizione ed equità regolativa, in E. Bruti Liberati, A. Ceretti, A. Giasanti (a cura di), Governo dei giudici. La magistratura tra diritto e politica, Feltrinelli, Milano, 1966, a cui si rinvia per una più puntuale definizione dei vari modelli.
[21] Così C. Guarnieri - P. Pederzoli, op. cit., in particolare pp. 57 ss.
[22] 22. Così C. Luzzatti, op. cit., 133.
[23] G. Berti, Manuale di interpretazione costituzionale, Cedam, Padova, 1994, p. 665.
[24] Su questo problema e su proposte di riforma istituzionali – alcune peraltro discutibili – cfr C. Guanieri - P. Pederzoli, op. cit..
[25] A. Pizzorno, Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo delle virtù, Laterza, Roma-Bari, 1998, 98.
[26] S. Mannuzzu, op. cit., 48.
[27] Cfr J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 777 ss.
[28] Per una completa disamina dell’argomento cfr. da ultimo J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerrini e associati, Milano, 1996; citazioni tratte da pp. 209 e 353.