Magistratura democratica

L’autonomia privata nella cornice costituzionale:
per una giurisprudenza evolutiva e coraggiosa

di Francesco Macario
Il saggio ripercorre rapidamente l’evoluzione della giurisprudenza più recente che, in materia di obbligazioni e contratti, ha inquadrato, con sempre maggiore convinzione, la questione giuridica civilistica nella cornice dei principi costituzionali, in particolare del principio di solidarietà collegato all’applicazione delle norme sugli obblighi di correttezza e buona fede. Tale itinerario giurisprudenziale va letto anche come esito degli studi, maturati in sede dottrinale un paio di decenni prima, sul rapporto tra autonomia privata e principi costituzionali, con la proposta della «rilettura» del codice civile alla luce della Costituzione e dei nuovi valori che la stessa esprime e promuove. La familiarità acquisita dalle Corti (con l’avallo della Suprema corte e, di recente, anche della Consulta) con la clausola generale di correttezza e buona fede, in ambito contrattuale, è espressione di un nuovo rapporto tra il giudice e la legge, dando l’impressione che siano ormai maturi i tempi per l’affermarsi di una coraggiosa (e, ad avviso di chi scrive, da condividere e incoraggiare) giurisprudenza «per principi».
Che le barriere ideologiche e pregiudiziali edificate dalle estremizzazioni del formalismo e del gius-positivismo siano superabili, grazie a un «diritto vivente» consapevole della realtà attuale e delle sue potenzialità ermeneutiche, è dimostrato, da ultimo, dalla recente giurisprudenza costituzionale sul trattamento dello «squilibrio contrattuale», con riferimento alla riduzione della caparra eccessiva. La voce della più consapevole e autorevole giurisprudenza, anche quella di provenienza costituzionale, fa comprendere dunque il senso attuale del diritto vivente, il significato concreto di un’attività giurisdizionale che lasci spazio alla «creatività» del giudice (lontanissimo, invero, dai timori paventati dai più strenui sostenitori del gius-positivismo), contribuendo, in modo altrettanto concreto, al dibattito sull’idea di «certezza del diritto».

1. Il retroterra dottrinale delle questioni relative al rapporto tra autonomia privata e principi costituzionali

Auspicata dalla più autorevole e sensibile dottrina civilistica già alcuni decenni addietro[1], la stagione della «rilettura» del codice civile alla luce della Costituzione sembra finalmente esser giunta a maturazione nella giurisprudenza della Suprema corte, ricevendo riscontri sempre più significativi, anche nella materia – senza dubbio più “resistente” e tecnicamente complessa rispetto ad altre – del contratto e, più in generale, dell’autonomia privata.

Il percorso è segnato da interventi giurisprudenziali che non hanno mancato di suscitare vivaci dibattiti in sede dottrinale, in ragione di rationes decidendi avvertite come particolarmente incisive, in quanto incentrate sull’argomento costituzionale, idonee a dischiudere nuove e – almeno nel giudizio di chi scrive – senz’altro apprezzabili prospettive, per indagare il tema più ampio, di carattere (e, in un certo senso, anche di teoria) generale, del modo in cui oggi si atteggia e, dunque, deve essere inteso il rapporto tra il giudice e la legge nel diritto civile e, per quel che qui maggiormente interessa, in materia di rapporti contrattuali.

Nelle pagine seguenti verranno richiamati alcuni di questi interventi, valorizzando soprattutto i più recenti, per tentare di comprendere – in tal senso, l’attenzione deve essere focalizzata sui percorsi argomentativi, affidati alla sensibilità e alla cultura giuridica dell’interprete quale estensore della motivazione, cercando di evitare apriorismi di qualsiasi tipo, che non di rado tradiscono concezioni pregiudiziali e ideologicamente condizionate, di fatto preclusive di una corretta opera di razionalizzazione della realtà giurisdizionale in atto – i tratti di una vicenda sufficientemente emblematica del nostro tempo, che tuttavia attinge il livello alto, per così dire, della storia e quindi dell’evoluzione della cultura giuridica civilistica negli ultimi due secoli. L’oggetto della riflessione, da condurre s’è detto con la dovuta attenzione ai segnali del frangente storico attuale, sul ruolo che oggi può – se si preferisce il condizionale: potrebbe o dovrebbe – avere la giurisprudenza nell’esercizio della funzione giurisdizionale (in materia civile, va ribadito) nel processo, di tipo in primo luogo socio-culturale, inteso a garantire effettività al diritto e ai diritti.

Di qui, l’esigenza di un confronto tra i giuristi - dal duplice versante: della cattedra e del foro – sgombro, s’è detto, da preconcetti, sul significato e sui limiti attuali (dello spettro) della cd. «certezza del diritto», in ambito di autonomia privata e libertà contrattuale, rispetto alle nuove esigenze e istanze di tutela che sembrano reclamare, da parte della giurisprudenza delle Corti, una presa di posizione più decisa e significativa rispetto a quanto avveniva in passato, in un clima culturale caratterizzato dalla prevalente, ma anche serenamente accettata, tradizione gius-positivistica.

Come sempre accade nel discorso giuridico, è evidente che anche questa storia non inizia oggi, potendosene rinvenire le premesse nel recente passato, sicché per cogliere il senso dell’attuale dibattito intorno all’autonomia privata e alla libertà contrattuale, occorre un preliminare (sia pur rapido) salto all’indietro, per rammentare i momenti più salienti del percorso dottrinale, che ha gradualmente condotto al riconoscimento della rilevanza dei principi espressi dalle (e nelle) disposizioni costituzionali riguardo alla materia delle obbligazioni e del contratto (e, in generale, degli atti di autonomia privata): una materia, si sa bene, tradizionalmente ritenuta poco permeabile – rispetto ad altre, almeno, in ambito privatistico – dalle norme e dai principi ricollegabili agli enunciati costituzionali.

A parte le indagini, proposte prevalentemente della dottrina costituzionalistica, sul fondamento costituzionale dei «rapporti economici»[2], nella ricostruzione dell’itinerario percorso dalla civilistica è a tutti noto il momento decisivo del passaggio dalla sostanziale indifferenza per il tema in esame – prevalendo in un primo tempo l’idea, secondo la quale l’autonomia privata, quasi per principio, avrebbe dovuto essere considerata estranea all’articolazione dei diritti nella Carta fondamentale – alla stagione definita del cd. «disgelo» costituzionale, che avrebbe condotto all’inclusione anche della libertà contrattuale nella «rilettura» costituzionale del codice civile, di cui la più sensibile e al contempo autorevole dottrina segnalava l’ormai indifferibile esigenza.

Constatato l’ampliamento degli spazi di autonomia collettiva[3], con la variante della cd. autonomia «assistita» – è sufficiente ricordare la vicenda dei rapporti agrari e delle locazioni, oltre a quella del rapporto di lavoro subordinato –, l’evoluzione del diritto dei contratti post-costituzionale, per così dire, si svolgeva all’insegna della «crescente limitazione della libertà contrattuale ad opera del potere pubblico», in attuazione dei compiti assunti dallo Stato sociale per la realizzazione dell’eguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3, 2° comma Cost.[4], con l’esempio forse più noto, nonché simbolico per l’epoca, delle restrizioni di tipo pubblicistico della libertà di contrarre consistente del divieto di discriminazioni, affiancato dalla normativa sull’obbligo di contrarre (artt. 2597 e 1679 cc), che dà luogo alla figura in linea di principio antitetica all’autonomia del «contratto imposto»[5].

Nel tentativo, che vedeva impegnata la migliore civilistica dei decenni Sessanta e Settanta, di inquadrare anche l’esercizio dell’autonomia privata nella cornice valoriale delineata dalle norme costituzionali – in particolare, evidentemente, l’art. 41, 1° comma e, in modo molto più ampio e generale, l’art. 2 Cost. – la dottrina esprimeva peraltro dubbi e scetticismo sul fatto che attraverso l’art. 2 Cost. «si possa giungere a ricostruire la garanzia costituzionale della libertà contrattuale»[6], così come, in relazione al grande tema dell’efficacia immediata dei diritti costituzionalmente previsti – i Grundrechte, cui la tradizione giuridica tedesca ha dedicato notevoli studi in tema di efficacia diretta, ossia la cd. Drittwirkung[7] –, si segnalavano le «ragionevoli perplessità circa la detta efficacia diretta, i cui risultati potranno in pratica, assai spesso, raggiungersi coi tradizionali strumenti di giudizio sul contratto privato, l’ordine pubblico e il buon costume»[8].

È indubbio che la più significativa svolta, nell’evoluzione del pensiero civilistico, sia individuabile tra i menzionati decenni (ossia fine anni Sessanta-inizio anni Settanta)[9], allorché numerosi studi su tematiche centrali del discorso generale relativo all’autonomia privata assumono i principi costituzionali – ovvero i “valori”, per chi preferisca questa terminologia, in funzione della profonda pregnanza normativa avvertita negli enunciati di riferimento –, quali referenti giuridici innovativi e propulsivi per l’evoluzione del sistema. Principi che appaiono decisivi per riconoscere alla disposizione legislativa tradizionale (di regola, affidata alla stabilità dell’impalcatura codicistica) potenzialità sino a quel momento inespresse, all’insegna dell’auspicata “rilettura” dello stesso codice civile[10]. Un’operazione, quest’ultima, ormai non più dilazionabile, una volta sconfitte le iniziali inibizioni e ritrosie della dottrina civilistica, che avevano indotto a vedere nel dettato costituzionale (soltanto o poco più che) un “programma” di politica del diritto, privo d’immediata forza precettiva, collocato pertanto in una dimensione piuttosto distante dalla concretezza delle controversie tra privati.

All’impegno della dottrina, nell’opera di adeguamento del sistema tradizionale del diritto privato (così come riflesso nel codice civile) agli scenari della realtà socio-economica, ma soprattutto all’emersione di nuove esigenze, interessi e diritti, anche attraverso la rivalutazione della prospettiva costituzionale – quale strumento, s’è già detto, per “rileggere” il codice e dunque il diritto civile ivi contenuto –, fa riscontro l’opera del legislatore che, in modo ben più intensivo rispetto al passato, inizia a disciplinare interi settori in cui si esplica l’autonomia privata (può essere sufficiente pensare alle locazioni urbane e ai contratti agrari). In questo modo, si finiva per svincolare dalla struttura normativa codicistica (o, come si disse, «decodificare») la stessa libertà contrattuale, secondo logiche di tutela di matrice e stampo costituzionale, di modo che i principi fissati, ad esempio, negli artt. 42, 2° comma e 44 Cost., a parte il riferimento sempre presente all’art. 41 Cost., diventavano il fondamento giustificativo degli interventi legislativi con cui veniva a realizzarsi in concreto sostanzia la detta opera di «decodificazione»[11].

 Sembrano lontani i tempi in cui la civilistica più autorevole – si allude al periodo in cui la Costituzione muoveva i primi passi, per così dire, attraverso l’attività della Consulta – segnalava la problematica della qualificazione dell’autonomia privata come «fonte di diritto», ossia della «cosiddetta autonomia negoziale», con il negozio giuridico in primo piano appunto «come fonte normativa»[12] anche, a seguire, in vista della valutazione sulla «funzione pratica che ne caratterizza ciascun tipo in accordo con la socialità del suo compito di ordine»[13]. Andava sviluppandosi, sempre in quel momento, la concezione precettiva del negozio, con l’innovativa prospettazione dell’autonomia e dello stesso negozio giuridico come fatto socialmente rilevante, autoregolamento di privati interessi «impegnativo di già sul piano della coscienza sociale», che impone l’individuazione degli «oneri e limiti risultanti dalla disciplina che l’ordinamento detta del fenomeno nella considerazione degli interessi degli stipulanti, come dei terzi e della generalità»[14].

Nella stagione definita con la già ricordata espressione del “disgelo” costituzionale, i primi interventi in materia della Corte costituzionale (di cui si dirà meglio, infra, par. 3) rendevano chiara la rilevanza del nesso tra poteri privati e utilità sociale (con riferimento agli articoli 41, 42, 44 Cost.), mentre, in termini quasi speculari, una parte della dottrina civilistica invitava a valorizzare quelle disposizioni (del codice civile, s’intende) che avrebbero legittimato l’intervento del legislatore o anche del giudice, in sede di costruzione del regolamento contrattuale (emblematicamente: l’art. 1339, ma anche, per via della rilevanza attribuita alla regola di buona fede e all’equità, gli artt. 1175, 1374 e 1375 cc, come poi dimostrerà il «diritto vivente», infra, par. 2), in modo che lo stesso regolamento, così come il rapporto che ne derivava, fosse espressione delle esigenze non soltanto delle parti private, ma anche dei poteri pubblici e, comunque, dell’ordinamento nel suo complesso (attraverso l’opera del legislatore, naturalmente, ma anche e soprattutto del giudice)[15].

Per altro verso, uno degli esiti del “solidarismo” bettiano – forse congiunto a un’indole statualistica e autoritaria, secondo voci diffuse nella civilistica del tempo e in quella immediatamente successiva[16] – poteva rinvenirsi nel tentativo di conferire effettività alle norme espresse dagli artt. 1322 e 1343 cc, in termini di controllo giudiziale di meritevolezza, con riferimento al risultato pratico divisato dai contraenti[17]. L’individuazione e l’analisi di tali criteri di valutazione, ossia la meritevolezza dell’interesse che i contraenti intendono concretamente realizzare[18], si pone così al centro di studi – talvolta in termini di ideale prosecuzione delle ricerche iniziate nel decennio precedente[19] -, nei quali sembra oramai metabolizzata la nuova prospettiva di lettura (ovvero “rilettura”) dell’autonomia privata offerta dai principi costituzionali e dalle formule generali espresse nella Carta fondamentale[20]. L’indagine sulla meritevolezza finiva per saldarsi idealmente con l’idea della rilevanza della causa concreta, al contempo ponendo le premesse per l’approfondimento della tematica relativa alle qualità soggettive delle parti del contratto, nel presupposto che l’indifferenziazione dei soggetti (secondo il noto “mito” ottocentesco del soggetto astratto) avrebbe determinato una sorta di ratifica, da parte del diritto (come ordinamento, ma soprattutto come modo di intendere le norme giuridiche), alla posizione di “potere contrattuale” dell’imprenditore[21].

Sulla scia di riflessioni metodologiche particolarmente autorevoli di qualche tempo prima[22], si fa strada e si rafforza la convinzione che la rilevanza dei soggetti e quindi dell’attività di ciascun contraente debbano giocare un ruolo in sede di interpretazione del contratto, anche alla luce dell’appiglio costituzionale offerto dall’art. 3, 2° comma (in ordine alla rimozione degli ostacoli impeditivi di fatto dell’eguaglianza)[23], così che nel «comportamento complessivo delle parti» possa farsi ricadere, con le qualità soggettive, il particolare rapporto con il bene oggetto di scambio ossia dati ed elementi oggettivi e verificabili, per non scivolare nel descrittivismo sociologico o nell’intuizionismo psicologico[24]: nell’«analisi differenziata» ciascun contraente avrebbe potuto rivelare un diverso grado di potere contrattuale, di modo che i termini «contraente forte/debole» o «forza contrattuale» avrebbero potuto assumere un significato più preciso e, auspicabilmente, un contenuto normativo maggiormente effettivo[25].

Dal punto di vista più propriamente teorico, potevano dirsi definitivamente poste le premesse per valorizzare la dimensione, assunta oramai come prioritaria, del “rapporto” – in un’ideale scissione, di tipo spiccatamente metodologico, tra la disciplina dell’atto (legata al momento strutturale e formale della vicenda) e quella riconducibile al rapporto (rivolta al momento funzionale), quale chiave di lettura della disciplina (non soltanto del contratto, ma) del negozio giuridico, esprimendosi in tal modo il concorso dei diversi punti di vista dell’ordinamento, rispettivamente esterno e interno all’atto di autonomia privata[26] –, al quale si vorrebbe riconoscere un’autonoma rilevanza (rispetto agli aspetti strutturali, propri della disciplina dell’atto, s’intende) anche attraverso l’effettività, sostenuta e auspicata con forza da una giovane ma già affermata dottrina di fine anni Sessanta[27], delle clausole generali e, in particolare nella materia contrattuale, alla buona fede.

Da questa fruttuosa stagione dottrinale, che si è ritenuto doveroso rammentare sia pur per rapidi tratti, sarebbero trascorsi oltre vent’anni prima di assistere al placet, da parte della Cassazione, alle applicazioni giurisprudenziali della clausola generale di correttezza e buona fede, in termini di «concretizzazione» (per mutuare il concetto di Koncretisierung, in uso tra i giuristi tedeschi)[28]: è infatti alla metà degli anni Novanta che può riscontrarsi la compiuta assimilazione degli insegnamenti dottrinali del periodo appena ricordato. Il riferimento ricorrente, che diviene sempre più frequente e convinto, è agli artt. 1175 e/o 1375 cc da leggere in connessione con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost. che, se per un verso dà riscontro alle tendenze dottrinali di oltre vent’anni prima, per altro verso evidenzia la non ancora matura, e dunque compiuta, parabola delle clausole generali verso la loro piena e autonoma portata normativa e, dunque, la loro capacità applicativa anche senza le «stampelle costituzionali» (come si è detto, in modo plastico e incisivo, da parte di altra autorevolissima dottrina)[29].

Il rapido excursus, che consente di inquadrare e razionalizzare gli sviluppi attuali del diritto vivente e del processo di «giurisdizionalizzazione del diritto» in corso, collocabile «oltre il criterio della validità e per la legalità del caso», significativo «riflesso di una metodologia giuridica antiformalistica» e nel segno della centralità dell’argomentazione, indice della «creatività della giurisprudenza come fonte»[30], non potrebbe concludersi senza ricordare ancora una volta l’etichetta applicata alla fine degli anni Settanta, efficacemente definita come «l’età della decodificazione»[31]. Con la legislazione “speciale” (spesso di origine comunitaria, a partire dai primi anni Novanta in modo particolare), intesa a disciplinare interi settori dell’autonomia privata al di fuori della cornice (e della logica) codicistica, anche già discussa la questione del ruolo e della rilevanza delle clausole generali si propone in una luce completamente diversa rispetto al passato[32]. L’esempio della repressione, in qualche modo “tipizzata” dalla fattispecie normativa, delle condotte abusive del contraente in condizioni di maggiore forza contrattuale, può dirsi sufficientemente istruttivo e utile per far comprendere l’incolmabile distanza con le impostazioni metodologiche dei decenni precedenti.

Il dibattito nasce con riferimento alle norme sulle condotte (e dunque sulle clausole) abusive nei contratti con i consumatori[33], ma si sviluppa, con esiti senza dubbio più interessanti e incisivi, nell’ambito dei contratti fra imprese, in particolare qualora una di esse versi in condizione di «dipendenza economica»[34]. Viene recuperata, dapprima dalla dottrina e poi dalla giurisprudenza (anche in sede di legittimità, infra, par. 2), la dottrina dell’abuso del diritto in ambito contrattuale[35], in una feconda discussione teorica e metodologica a più voci sul tema della cd. «giustizia contrattuale»[36].

È in tale contesto, in questa sede delineato in modo soltanto sommario (e, di conseguenza, riduttivo) delineato, che s’innesta il diritto vivente dei nostri giorni, mostrando un’evoluzione della giurisprudenza, che non nasconde la tendenza a far sempre più ricorso ai principi, così da poter superare in modo razionale e sistematicamente coerente le strettoie dell’enunciato normativo, nel tentativo di indirizzare la funzione giurisdizionale verso le concrete esigenze della giustizia sostanziale: la ‘storia’ dell’effettività conquistata dal precetto di correttezza e buona fede nella disciplina delle obbligazioni e dei contratti è certamente una delle vicende più significative in quello che si atteggia come percorso autenticamente culturale.

2. L’evoluzione della clausola generale di correttezza e buona fede: verso una «giurisprudenza per principi»?

È evidente il ruolo decisivo svolto dall’auspicio alla “rilettura” del codice civile alla luce della Costituzione, cui s’è già fatto cenno, nell’itinerario per il superamento dell’atteggiamento di chiusura manifestato dalla giurisprudenza iniziale (e, in un certo senso, pregiudiziale) in ordine all’utilizzazione della clausola generale di buona fede[37]. Mediante il ricorso alle clausole generali, infatti, con particolare riferimento alla buona fede (combinata con i già ricordati principi costituzionali), i giudici di legittimità iniziavano, a partire dagli anni Novanta del secolo appena trascorso, a promuovere l’evoluzione del diritto vivente dei contratti, configurando in capo ai contraenti doveri di comportamento in funzione della correttezza, anche indipendentemente dal (se non, addirittura talvolta, in contrasto con il) dato testuale del regolamento contrattuale.

L’esperienza giurisprudenziale dell’ultimo ventennio evidenzia una tendenza interpretativa della norma espressiva del principio di correttezza nei rapporti contrattuali, per un verso alla ricerca del nesso con gli indici assiologici della Costituzione, per altro verso connotata da una sempre maggiore familiarità con le clausole generali, lette e applicate, s’è detto, nel raccordo con i principi costituzionali, a cominciare da quello fondamentale di solidarietà, a riprova dell’ormai acquisita consapevolezza, da parte dei giudici, del loro ruolo (anche) «creativo» (e pertanto non meramente o, se si preferisce, meccanicamente applicativo dello ius scriptum)[38]. È difficile, del resto, contestare la convinzione secondo la quale il corretto uso delle clausole generali permette di valorizzare i diritti del soggetto che operi in un determinato contesto socio-economico, indipendentemente, non soltanto dalla loro preventiva previsione e regolamentazione legislativa, ma anche dalle pattuizioni contrattuali in cui si esprime l’autonomia privata[39].

A parte le pur rilevanti (ma più risalenti) pronunce in tema di fideiussione «omnibus» e contratto autonomo di garanzia[40], un punto fermo dal quale dovrebbe muovere il tentativo di ricostruire la recente vicenda giurisprudenziale dell’operatività del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, ormai s’è detto assistito dal richiamo al dovere di solidarietà ex art. 2 Cost., si riscontra in relazione a una fattispecie contrattuale davvero anomala, ancorché per nulla frutto di casualità, essendo viceversa l’effetto di una deliberata (e ben congegnata, nella sua portata truffaldina) operazione intesa a favorire una sola parte contrattuale, ai danni dell’altra (per inciso: appartenente alla pubblica amministrazione)[41]. La clausola contrattuale (che, nello specifico, prevedeva il meccanismo per la determinazione del prezzo) è considerata contraria al principio di buona fede che, mutuando le parole della Suprema corte, «per il suo valore cogente, concorre a formare la regula iuris del caso concreto, determinando, integrativamente, il contenuto e gli effetti dei contratti e orientandone, ad un tempo, l’interpretazione e l’esecuzione»[42].

Poiché la storia della giurisprudenza la fanno i giuristi – in questo caso, magistrati della Suprema corte, con il proprio bagaglio culturale, formatosi in decenni di studi e, al contempo, applicazione concreta delle norme –, non si può non ricordare, nella prospettiva di una corretta ricostruzione storica del processo evolutivo in esame, che la soluzione della Cassazione (da considerare senza dubbio innovativa, rispetto al precedente orientamento rilevabile dalle decisioni di legittimità in tema di effettività della clausola generale di buona fede)[43], veniva accolta con favore da uno studioso che, successivamente (operando in veste di giudice estensore, attraverso articolate ed eleganti motivazioni), avrebbe contrassegnato alcune delle tappe più significative della successiva elaborazione giurisprudenziale[44].

Un primo, particolarmente significativo, richiamo merita l’ormai celebre sentenza, nella quale la Suprema corte affermava, per la prima volta e in modo invero inatteso, la riducibilità d’ufficio della penale manifestamente eccessiva[45]. Quel che maggiormente interessa, al di là dell’originale esito sul piano ermeneutico, è la convinzione con la quale la Cassazione evidenzia il mutato atteggiamento della giurisprudenza che, in considerazione dei «limiti» all’autonomia privata derivanti dalla clausola generale di buona fede e dal dovere generale (costituzionale) di solidarietà, legittimerebbe una sorta di potere di riequilibrio della sproporzione determinata dalla penale manifestamente eccessiva nel contratto, non soltanto in capo al giudice nella concretezza del conflitto tra i contraenti (ciò che accade, del resto, in forza del dettato testuale dell’art. 1384 cc), ma anche per sua stessa iniziativa, ossia senza che la parte legittimata l’abbia richiesto. Il dato emerge in modo evidente in alcuni non certo trascurabili passaggi (dal sapore di sostanziali obiter dicta, ma in realtà fondativi) della ratio decidendi, in cui si invita l’interprete a resistere «ad immanenti suggestioni della “dogmatica della volontà” come a risalenti riserve contro l’intervento del giudice nella “cittadella dell’autonomia contrattuale”», constatandosi al contempo il «tramonto del mito ottocentesco dell’onnipotenza della volontà e del dogma dell’intangibilità delle convenzioni»[46]. Le espressioni ritorneranno più volte in numerose successive motivazioni della Suprema corte, così come in quelle dei giudici di merito, stante l’autorevolezza della fonte primaria che conferiva loro la necessaria legittimazione.

Si è avuto modo di richiamare l’autorevole dottrina che, già negli anni Sessanta, ricostruiva i rapporti tra la solidarietà costituzionale e la clausola generale in questione, in modo difforme dalla civilistica più tradizionale[47], ritenendo dovesse riconoscersi al principio costituzionale «più un valore retorico-persuasivo che una funzione argomentativa fondante», in quanto la clausola generale non può non essere dotata di una sua autonoma effettività: essa «esprime già di per se stessa, come proprio fondamento etico, un dovere di solidarietà tra le parti del rapporto – nel senso specifico [secondo una locuzione spesso riproposta dalla giurisprudenza, n.d.r.] di dovere di ciascuna parte di assicurare l’utilità dell’altra nella misura in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico»[48].

L’orientamento inaugurato dalla sentenza sulla riducibilità d’ufficio della penale suscitava, e non poteva essere diversamente, opinioni contrastanti in dottrina[49], ma all’esito di un dibattito che ha visto anche il contrasto giurisprudenziale interno alla Suprema corte[50], riceveva conferma dalle Sezioni unite che, aderendo ad una visione oggettiva, per così dire, dell’equilibrio contrattuale, hanno affermato che il potere di controllo non risulta attribuito al giudice nell’interesse (non già della parte, bensì) dell’ordinamento, «per evitare che l’autonomia contrattuale travalichi i limiti entro i quali la tutela delle posizioni soggettive delle parti appare meritevole di tutela»[51].

La Suprema corte ha poi sancito – si noti che la motivazione è firmata dal medesimo estensore della sentenza sulla riducibilità d’ufficio della penale eccessiva – l’abusività (sotto il profilo processuale) della pratica del cd. «frazionamento del credito unitario», consistente in una parcellizzazione della pretesa fatta valere nei confronti del debitore (effettuata in via contestuale o sequenziale), idonea a produrre nei confronti di quest’ultimo effetti pregiudizievoli, o comunque a peggiorarne la posizione (ad esempio, per il profilo del prolungamento del vincolo coattivo cui egli dovrebbe sottostare per liberarsi della obbligazione nella sua interezza, ove il credito sia nei suoi confronti azionato inizialmente solo pro quota con riserva di azione per il residuo)[52]. Alla luce e nel solco delle decisioni appena indicate, nella motivazione si rileva «l’ormai acquisita consapevolezza della intervenuta costituzionalizzazione del canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in ragione del suo porsi in sinergia con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., che a quella clausola generale attribuisce all’un tempo forza normativa e ricchezza di contenuti, inglobanti anche obblighi di protezione della persona e delle cose della controparte».

Non può non segnalarsi l’altrettanto (e forse ancor più) celebre sentenza, cui va riconosciuto se non altro il merito – nonostante le numerose e diversificate critiche mosse in sede dottrinale – di aver propiziato il dibattito sull’«abuso del diritto» in materia contrattuale, pronunciandosi sul controllo giudiziale relativo all’esercizio del recesso ad nutum (convenzionalmente pattuito) da parte di una casa produttrice automobilistica nei confronti di un cospicuo numero di suoi concessionari, cui non restava altra chance (avendo sottoscritto la pattuizione contrattuale legittimante lo scioglimento immotivato) che far valere il carattere asseritamente abusivo dell’esercizio del diritto (di recesso)[53].

La decisione ha suscitato, come tutti sanno, opinioni comprensibilmente diverse tra gli studiosi impegnati a discutere e ridefinire le linee del nuovo diritto dei contratti[54], soprattutto alla luce dell’ampiezza argomentativa con cui la Suprema corte ha ritenuto di motivare la decisione di cassare con rinvio una sentenza che, a dire dei giudici di legittimità, non avrebbe valutato se il recesso ad nutum, pur contrattualmente previsto con valida pattuizione, fosse stato in concreto esercitato correttamente o, al contrario, abusivamente, in tal modo perseguendo il recedente fini diversi e ulteriori rispetto a quelli consentiti dall’ordinamento (riprendendo, quasi testualmente, un passaggio argomentativo dell’articolata motivazione). Al centro dell’elaborato percorso motivazionale la Corte colloca appunto il concetto, tradizionalmente materia di dibattito tra i giuristi di ogni epoca, di abuso del diritto, chiamato ad operare come criterio decisivo per la soluzione di una delle più frequenti controversie nei rapporti tra imprese attive nel settore della distribuzione commerciale.

In virtù del tenore di alcuni passaggi, la sentenza può essere idealmente considerata una sorta di approdo dell’orientamento giurisprudenziale del quale si è dato rapidamente conto. Da rimarcare, in particolare, i punti in cui la Suprema corte afferma, ad esempio, che «il controllo del giudice sul carattere abusivo degli atti di autonomia privata è stato pienamente riconosciuto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità», poiché «il fine da perseguire è quello di evitare che il diritto soggettivo, che spetta a qualunque consociato che ne sia portatore, possa sconfinare nell’arbitrio». I supremi giudici hanno voluto chiarire che «il problema non è politico, ma squisitamente giuridico ed investe i rimedi contro l’abuso dell’autonomia privata e dei rapporti di forza sul mercato, problemi questi che non sono oggetto di attenzione da parte di tutti gli ordinamenti contemporanei, a causa dell’incremento delle situazioni di disparità di forze fra gli operatori economici».

In aggiunta alle riportate affermazioni di principio, ricompare poi il riferimento al dovere di solidarietà[55]. La sentenza testimonia perciò, ancora una volta, l’ormai acquisita propensione a sostenere la ratio decidendi mediante il richiamo ai principi costituzionali che, sotto il profilo interpretativo, si sostanziano in «criteri-forza cui ancorare, in chiave di valore, la soluzione concreta dei conflitti»[56], consentendo di operare attraverso il metodo del bilanciamento degli interessi (nel caso specifico, delle parti nella fase dell’esecuzione del rapporto contrattuale).

Da ultimo, l’intervento più recente della Cassazione, che merita un’altrettanto rapida menzione ponendosi nel solco tracciato dalle richiamate decisioni, riguarda la valutazione come clausola vessatoria della pattuizione, presente nel contratto di assicurazione della responsabilità civile, che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque, entro determinati periodi di tempo, preventivamente individuati (cd. clausola claims made mista o impura)[57]. La vessatorietà viene esclusa, ma la Suprema corte ritiene che, in presenza di determinate condizioni, la clausola in questione possa essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza (ovvero, qualora sia applicabile la disciplina di cui al d.lgs n. 206 del 2005, per il fatto di determinare, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto), con decisione del giudice di merito fondata su valutazione incensurabile in sede di legittimità. 

Una prima premessa serve alla Corte per ribadire che il principio di correttezza e buona fede - cui si ritiene di affiancare l’equità, concetto giuridico evidentemente diverso, «quale parametro delle soluzioni da adottare in relazione a vicende non contemplate dalle parti (art. 1374 cc)» – in quanto «metro di comportamento per i soggetti del rapporto, e un binario guida per la sintesi valutativa del giudice, il cui contenuto non è a priori determinato», insieme alla «nozione di abuso del diritto, che ne è l’interfaccia» – sempre nelle parole della sentenza – svolgono ormai un ruolo fondamentale «in funzione integrativa dell’obbligazione assunta dal debitore, e quale limite all’esercizio delle corrispondenti pretese». Sicché è ben possibile che sia «più esattamente individuato, e per così dire arricchito, il contenuto del singolo rapporto obbligatorio, con l’estrapolazione di obblighi collaterali (di protezione, di cooperazione, di informazione) – afferma testualmente la Corte - che, in relazione al concreto evolversi della vicenda negoziale, vadano, in definitiva a individuare la regula iuris effettivamente applicabile e a salvaguardare la funzione obiettiva e lo spirito del regolamento di interessi che le parti abbiano inteso raggiungere». Un secondo assunto di fondo è quello inteso a ribadire che «la violazione di regole di comportamento ispirate a quel dovere di solidarietà (...) in nessun caso potrebbe avere forza ablativa di un vincolo convenzionalmente assunto, essendo al più destinato a trovare ristoro sul piano risarcitorio»[58].

Con tali premesse, la Corte può così esprimersi sugli «effetti della valutazione di immeritevolezza», che, «esorbitando dall’area della mera scorrettezza comportamentale presidiata (...) dalla sola tutela risarcitoria», si ritiene dotati di «carattere reale (...) sull’abbrivio degli spunti esegetici offerti dal 2° comma dell’art. 1419 cc – prosegue la motivazione - nonché del principio, ormai assurto a diritto vivente, secondo cui il precetto dettato dall’art. 2 Cost. “che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativ”’ (Corte cost. n. 77 del 2014, e n. 248 del 2013), consente al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sullo statuto negoziale, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto (cfr. Cass. 18 settembre 2009, n. 20106; sez. un. 13 settembre 2005, n. 18128)».

Il richiamo al diritto vivente, rappresentato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (con le due note ordinanze 248/2013 e 77/2014, esplicitamente richiamate in motivazione)[59], non è senza significato, evidentemente, e perciò merita un’ulteriore riflessione. In primo luogo, appare più che evidente dal rapido excursus giurisprudenziale – di cui anche i più strenui oppositori delle nuove tendenze giurisprudenziali dovrebbero prendere atto, dal momento che si tratta di impostazioni metodologiche che vanno sempre più radicandosi – il fatto che le clausole generali, un tempo considerate con sospetto, in quanto il loro uso avrebbe potuto incrinare l’ordine sistematico consegnato alla codificazione – per non parlare del rischio paventato rispetto alle più sofisticate elaborazioni concettuali della civilistica, erede della tradizione dogmatica[60] – possono ormai essere ritenute lo strumento giuridico più incisivo per garantire la «giustizia contrattuale» nel caso concreto, anche grazie al sempre più frequente aggancio al principio di solidarietà costituzionale (inizialmente valorizzato, s’è detto, dalla sola dottrina, e a ben vedere soltanto da una sua parte più avanzata e coraggiosa, rispetto ai tempi).

In secondo luogo, l’impossibilità di governare la realtà giuridica grazie all’apparato di regole legali formali prestabilite, le quali operino fissando i confini della «fattispecie», della quale da tempo ormai si denuncia con rassegnazione la crisi[61], si lega all’esigenza di ricorrere, con sempre maggiore frequenza e ampiezza applicativa, alle clausole generali, la cui elasticità consente di tutelare soggetti che si trovano in una situazione non espressamente disciplinata dalla legge – si tratta, in tal senso, di situazioni non rappresentabili nella «fattispecie» predeterminata in termini sufficientemente precisi – e che, nondimeno, vengono riconosciuti titolari di diritti preesistenti e comunque indipendenti rispetto al dato letterale dell’enunciato legislativo[62].

3. L’evoluzione della clausola generale di correttezza e buona fede: verso una «giurisprudenza per principi»?

Il percorso evolutivo della Cassazione sembrerebbe saldarsi – non è certo un caso, del resto, il richiamo esplicitato dall’ultima sentenza richiamata, ossia Cass. 9140/2016, in tema di clausola del contratto assicurativo cd. claims made – con il diritto vivente di fonte giurisprudenziale costituzionale che, con le due menzionate ordinanze n. 77 del 2014 e n. 248 del 2013, ha sancito l’inammissibilità della questione di incostituzionalità dell’art. 1385, 2° comma cc, nella parte in cui non dispone che il giudice possa equamente ridurre la somma da trattenere (posto che, a differenza di quanto è stabilito per la clausola penale dall’art. 1384 cc, la legge non prevede espressamente la riducibilità, in via giudiziale, della caparra confirmatoria), nell’ipotesi in cui il contraente che ha dato la caparra confirmatoria sia inadempiente (o quella pari al doppio da restituire, nell’ipotesi inversa in cui sia inadempiente il contraente che l’ha ricevuta), ove risulti la manifesta sproporzione o sussistano giustificati motivi[63].

Non è tanto il decisum, ancora una volta, che rileva ai fini del discorso, quanto il modo in cui la Consulta ritiene inammissibile la questione, esprimendo due distinte ragioni per cui la motivazione del giudice a quo si presenta carente: in primo luogo, il Tribunale rimettente avrebbe trascurato di «indagare compiutamente la reale portata dei patti conclusi dalle parti contrattuali, così da poter esprimere un necessario coerente giudizio di corrispondenza del nomen iuris rispetto all’effettiva funzione della caparra confirmatoria»; in secondo luogo, il giudice rimettente non ha tenuto conto «dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta […] un regolamento degli interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte. Ciò in ragione della rilevabilità, ex officio, della nullità (totale o parziale) ex art. 1418 cod. civ., della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell’articolo 2 Cost., (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà) che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa, “funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale nella misura in cui non collida con l’interesse proprio dell’obbligato”»[64].

Per suffragare la detta interpretazione, il Giudice delle leggi richiama alcune delle note decisioni di legittimità cui s’è appena fatto cenno, di modo che, attraverso il ricorso alle clausole generali, combinato con l’applicazione diretta dei principi costituzionali nei rapporti tra privati, si possa ricavare una norma ad hoc, idonea a regolare il caso di specie ed evitare la declaratoria di illegittimità costituzionale di una disposizione che prima facie, alla luce dell’analogo operare dell’istituto della caparra e quello della clausola penale, sembrerebbe in contrasto con il principio di eguaglianza.

Va da sé che l’idea della nullità della clausola in esame per contrasto con il precetto dell’articolo 2 Cost., relativo all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà, che «entra direttamente nel contratto» non poteva non far discutere gli studiosi, suscitando tanto critiche sommarie (per lo più “a caldo”, in sede di commento alle ordinanze), quanto più meditate ed eleganti analisi sulla (autorevolmente asserita) applicazione diretta dei principi costituzionali, nella prospettiva dell’integrazione del contratto attraverso la fonte “legale” che non può non comprendere anche (e in primo luogo, si direbbe) le norme costituzionali[65].

Prima di entrare nel merito delle affermazioni rese dalla Consulta nella veloce motivazione, quel che in prima battuta risulta interessante, nell’ambito della presente riflessione e nella prospettiva storico-evolutiva del pensiero e della cultura giuridica riferita al diritto applicato dalle Corti, è nuovamente la distanza, apparentemente incolmabile, che sembrerebbe separare il modo in cui la Corte costituzionale affronta oggi la questione di costituzionalità – né semplice, né consueta, in quanto sollevata con riferimento a una disposizione del codice civile, tanto più in tema di contratto in generale – rispetto all’approccio che il Giudice delle leggi aveva mostrato nei decenni precedenti. In tal senso, un rapidissimo richiamo della giurisprudenza costituzionale in ambito di autonomia contrattuale può essere sufficiente a mettere in chiaro il radicale mutamento del clima culturale e della concezione del ruolo che il giudice può (o deve) assumere

Posto che le pronunce d’incostituzionalità, nella materia in esame, sono piuttosto rare, in considerazione del carattere stesso della disciplina, destinata soltanto a lambire, di norma e per tradizione, gli interessi costituzionalmente tutelati, va detto che non sono tuttavia mancati i casi in cui la Consulta, soprattutto in relazione a norme previste da leggi speciali, è stata chiamata a pronunciarsi su questioni riguardanti l’estensione dell’autonomia riconosciuta ai contraenti. Si può dire, sempre in estrema sintesi, che in una prima fase si denunciava la violazione dell’art. 41, 1° comma Cost., con riferimento a discipline settoriali che restringevano l’autonomia contrattuale in ordine alla determinazione del prezzo di prodotti o alla determinazione dei canoni di affitto di fondi rustici[66]. Successivamente, con una sorta d’inversione di prospettiva (se non altro, rispetto agli interventi più risalenti), la legittimità delle norme sembra messa in discussione non tanto dal punto di vista della restrizione dell’iniziativa economica e dell’autonomia negoziale, quanto in relazione alla tutela del contraente più debole ovvero, nell’ottica di una sorta di «oggettivazione dello scambio», nel tentativo di incidere su situazioni di (asserito) eccessivo squilibrio contrattuale[67].

Analogamente, anche se con motivazione decisamente più scarna, la Corte si trovava a decidere sulla censura d’incostituzionalità di una norma del diritto generale delle obbligazioni, ossia l’art. 1284, 1° comma, cc, con riferimento agli artt. 3 e 47 Cost.[68]. Veniva ribadita la consolidata convinzione, secondo cui il principio di autonomia contrattuale, «se ha rilievo assolutamente preminente nel sistema del codice civile del 1942, non lo ha negli stessi termini nel sistema delineato dalla Costituzione, che non solo lo tutela in via meramente indiretta, come strumento della libertà di iniziativa economica, ma pone limiti rilevanti a tale libertà»[69], poiché quest’ultima non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e deve soggiacere ai controlli necessari perché possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. Occorre giungere alla metà degli anni Novanta, per assistere alla chiamata in causa del già ricordato dovere di solidarietà ex art. 2 Cost., quale criterio di controllo della costituzionalità di norme in ambito contrattuale[70].

Non ci si poteva certamente spingere, all’epoca, a ipotizzare che il principio espresso dalla norma costituzionale fosse idoneo ad assurgere a criterio di decisione sulla validità del contratto e/o della clausola difforme (ovvero dissonante rispetto al principio), come ha fatto da ultimo la Consulta, con passaggio argomentativo se non altro eterodosso, rispetto alla tradizione dogmatica del diritto civile, e per tale ragione stigmatizzato dalla dottrina[71]. Anche alla luce della storia della giurisprudenza costituzionale – trascurando, dunque, per un momento le considerazioni critiche, s’è detto mosse da più parti, sulla coerenza dell’argomentazione in termini dogmatici e sistematici – le recenti decisioni della Consulta in materia di riducibilità della caparra eccessiva non possono lasciare indifferenti, marginalizzando così la sintetica ma incisiva argomentazione, alla stregua quasi di un obiter dictum rispetto alla statuizione d’inammissibilità della questione.

Almeno due considerazioni, di sapore metodologico, vanno dunque fatte. In primo luogo, la vicenda tocca in modo diretto il diritto generale dei contratti, nel suo cuore più tradizionale – la questio iuris s’incentra, infatti, sull’antico istituto della caparra confirmatoria – e l’interpretazione (correttiva, nonché) adeguatrice, proposta dalla Corte a beneficio del giudice, finisce per enunciare una regola derivante dal combinato disposto dell’art. 2 Cost. e del principio di buona fede (con i suoi numerosi indici normativi nel codice civile), che andrebbe a integrare la disciplina con una nullità virtuale del patto contrattuale (la caparra, nella specie) risultato iniquo per l’importo, ritenuto nel caso specifico troppo elevato[72].

In secondo luogo (ma pur sempre in immediata connessione alla considerazione che precede), indipendentemente dalla questione concreta e dalla relativa decisione in sede giurisdizionale comune, dunque in applicazione degli istituti e dei criteri interpretativi del diritto civile – nello specifico, infatti, rimaneva aperta tanto la (ri)qualificazione del patto come (sostanziale) clausola penale[73], con la conseguente riducibilità della parte eccessiva derivante dalla norma espressa, quanto l’applicazione analogica della disposizione in materia di clausola penale che avrebbe consentito la riduzione della caparra eccessiva[74] – non può sottacersi il significato e il valore del bilanciamento dei principi costituzionali che, affidato alla sapiente e accorta opera interpretativa, purché entro l’orizzonte di senso delle letture possibili secondo la norma data, acquista un nuovo e importante rango, attraverso l’interpretazione adeguatrice così condotta, in punto di autentico diritto giurisprudenziale[75].

4. Il senso attuale del diritto vivente: la giurisprudenza cd. «creativa» e il mito della certezza del diritto

Il messaggio della Consulta, inquadrato – non soltanto temporalmente, s’intende – nel più ampio percorso evolutivo della Corte di legittimità, che in questa sede è stato possibile soltanto sommariamente delineare, intende senza dubbio “incoraggiare” la formazione di un diritto giurisprudenziale al passo con i tempi: non soltanto come diritto proveniente dalle Corti – di per sé dotato, da almeno un trentennio, di una particolare autorevolezza e rilevanza, avendo acquisito quella priorità che per secoli, nella tradizione civilistica, era stata riconosciuta alla sola “fonte” dottrinale –, ma anche e soprattutto come una manifestazione giurisdizionale, ossia di ius dicere, non limitata (o, ancor peggio, inibita) dal testo della disposizione di legge, da intendere (e di conseguenza applicare) senza concedere alcun margine a quella necessaria attività ermeneutica, talvolta definita «creativa»[76], ma, proprio per questa aggettivazione, ancor oggi autorevolmente avversata[77]: una prospettiva, quella in cui si porrebbe l’interprete difensore del formalismo, che rischia di sconfinare in una manifestazione gius-positivistica estremizzata, spesso ancora oggi immaginata (del tutto illusoriamente, come si vedrà) in termini di baluardo per la «certezza» del diritto, mentre, a ben vedere, la stessa finisce per provocare, al contrario, l’incertezza e lo smarrimento dell’interprete, di fronte alla problematicità (se non ambiguità) con cui si presenta il diritto vivente[78].

Salvo ritornare, nelle considerazioni finali, sul tema più generale, sembra questo il caso proprio della questione giuridica da ultimo considerata, decisa dal Giudice delle leggi, s’è detto, nel senso dell’inammissibilità, della caparra ritenuta eccessiva. Con una singolarissima coincidenza temporale, infatti, dopo pochi mesi dalla ricordata decisione della Consulta, la Cassazione ha affrontato il tema e, senza fare alcun riferimento – circostanza altrettanto singolare, se non addirittura inspiegabile – alla recentissima decisione della Corte costituzionale, ha ritenuto corretto confermare l’orientamento della Cassazione (affidato peraltro ad alcune decisioni, piuttosto risalenti), nel senso dell’irriducibilità della caparra, in ragione della «diversità tra le due figure [che] giustifica la scelta del legislatore di riferire alla sola riduzione della penale il potere del giudice di incidere sulle pattuizioni delle parti. Né può ritenersi che la norma dell’art. 1384 cc […] – prosegue la motivazione – sia applicabile analogicamente oltre l’ambito di detta clausola, trattandosi di norma la quale, come ha già avuto modo di statuire questa Corte, ha carattere eccezionale (…)». Ritiene la Suprema corte che «la disposizione dell’art. 1384 cc, contemplando l’attribuzione al giudice del potere di incidere in un caso del tutto peculiare sulle pattuizioni private e di modificare il relativo contenuto, è norma che fa eccezione alla regola generale, immanente al sistema e formalmente sanzionata nell’art. 1322 cc, che impone il rispetto dell’autonomia contrattuale dei privati, e, consequenzialmente, non è passibile di applicazione analogica a situazioni diverse da quella in essa specificamente previste».

Al di là della risposta alla specifica questione – prospettata s’è detto dalla Consulta nel senso dell’invalidità, con la veste della nullità, della clausola, argomentabile con il supporto argomentativo della «solidarietà sociale» ex art. 2 Cost. –, che in fondo avrebbe potuto trovare una soluzione, pur sempre senza scomodare il Giudice delle leggi, anche attraverso la più lineare applicazione analogica dell’art. 1384 cc (che prevede espressamente la riduzione, quando la penale risulti eccessiva) alla caparra confirmatoria[79] – occorre, tuttavia, che si sia disposti a rinunciare all’ulteriore apriorismo argomentativo, legato alla (più che discutibile) convinzione dell’eccezionalità della norma in tema di clausola penale[80] – è stridente la diversità d’impostazione metodologica nel ragionamento della Cassazione e della Corte costituzionale: la prima rivolta e anzi ancorata (se si preferisce, “incatenata”) al passato e ad assunti argomentativi da molto tempo superati[81]; la seconda, invece, proiettata in un futuro tutto da esplorare, da verificare e, in ultima analisi, da costruire, con la razionalità e la cautela che ogni discorso giuridico innovativo impone (in primo luogo, ragionando sulla singolare, quanto meno, assunzione dell’invalidità dell’atto o del patto per violazione di una regola di comportamento, come del resto ha fatto la più attenta dottrina[82]).

La morale che potrebbe trarsi dal confronto (e, soprattutto, dal mancato dialogo tra le Corti[83]), se per un verso smentisce in modo piuttosto eclatante la fondatezza del timore di un interventismo giudiziale, di tipo vagamente “paternalistico”, pronto a invadere aule di giustizia e di conseguenza raccolte di giurisprudenza con applicazioni dirette del dovere di solidarietà costituzionale lesive del principio di autonomia[84], al pari del rischio che al diritto “scritto” vada ad affiancarsi un diritto di tipo appunto “giurisprudenziale” (che si ritiene temibile, in quanto si assume che possa fondarsi sull’equità[85]), per altro verso induce a ritenere che la fiducia riposta dalla giurisprudenza costituzionale nella capacità di quella ordinaria di costruire soluzioni coerenti – s’intende quanto alla ratio decidendi, non certo al decisum, che deve scontare e riflettere le particolarità del caso concreto – con gli attuali scenari del sistema in evoluzione e, al tempo stesso, in linea con l’esigenza di realizzare costantemente il bilanciamento dei principi su cui lo stesso sistema si fonda e dai quali trae la sua linfa vitale, non è per nulla scontata.

Il (mancato, nel caso di specie) dialogo tra le Corti evidenzia che la posta in gioco, evidentemente, è il ruolo e forse la stessa concezione del diritto vivente, con una sua storia anche nel nostro ordinamento e, più in generale, nel pensiero dei giuristi. Isolate sia la tesi negatoria dell’esistenza e/o rilevanza giuridica della categoria[86], sia le perplessità della dottrina agli albori della giurisprudenza della Corte costituzionale[87], sappiamo che l’idea del diritto vivente veniva invece accolta da altra parte della dottrina come espressiva del «diritto vigente come interpretato e applicato dalla giurisprudenza»[88]. Il concetto di lebendes Recht si lega, com’è noto, al «risveglio della coscienza ermeneutica dei giuristi», dei primi decenni del Novecento e «l’allargamento dei loro interessi scientifici agli studi di sociologia del diritto»[89].

Nel rapporto con la disposizione di legge, è altresì ben noto che il diritto vivente, se non trova la sua espressione in testi normativi, «è pur sempre determinato dalla legge, sebbene – si aggiunge, e qui si manifesta la peculiarità rilevante – non soltanto da essa»[90]. La contrapposizione fra diritto vigente (inteso come derivante dalle sole fonti formali) e diritto vivente (secondo l’originaria prospettazione di matrice sociologica di Ehrlich) rischia di confondere la prospettiva descrittiva con quella prescrittiva (riprendendo un’obiezione originariamente prospettata da Kelsen), e, per altro verso, di svalutare la risalente tradizione del «diritto giurisprudenziale»[91]. Nondimeno, la dottrina in esame ha svolto un ruolo decisivo nel superamento dell’identificazione (indubbiamente di tipo positivistico-ottocentesco) della norma con il testo di legge e nello sviluppo del «principio ermeneutico che al testo riconosce solo un valore euristico per la ricerca della regola di decisione»[92].

In questo senso, il diritto vivente va a identificarsi con la stessa “norma applicata”, non (soltanto) in chiave descrittiva (di quanto è già accaduto), ma (anche e soprattutto, nella riflessione più genuinamente giuridica) in funzione prescrittiva (ossia di regola vincolante per la decisione di controversie future), posto che con tale qualificazione si riconosce (e si tende, di conseguenza, a conservare) alla norma «forza di modello unificante delle applicazioni a nuovi casi»[93]. In gioco è così la stessa dimensione ermeneutica – se si vuole, al livello della teoria generale del diritto – che viene in tal modo autorevolmente sintetizzata: «la formula del diritto vivente investe il rapporto tra il giudice e la legge sintetizzando il problema della partecipazione dell’interprete alla formazione del diritto e la connessa esigenza di (relativa) stabilizzazione delle sue applicazioni»[94].

Nella prospettiva più propriamente procedurale, l’idea si risolve in un onere di argomentazione, nel senso che al giudice che «intende rompere la continuità con i praeiudicia incombe l’onere di giustificare la pretesa di superamento con argomenti seri e adeguati»[95]. In questo modo, non si realizza una frattura con il diritto (vivente) precedente, ma si produce piuttosto quell’evoluzione fisiologica dell’ordinamento che si affida all’operato e all’apporto innovativo dell’interprete, in particolare del giudice, superando il rischio dell’appiattimento sull’intervento del legislatore, ma anche sulle tralatizie affermazioni generali (e spesso generiche, come si è avuto modo di notare, a proposito del dictum di Cass. 14776/2014 )[96].

Da un altro, non lontano (e anzi, si direbbe, complementare) punto di vista, le nuove forme di valorizzazione dei principi (che esigono l’attenta e non scontata opera di bilanciamento) non rappresentano in alcun modo tendenze eversive sul piano normativo, dal momento che il radicamento dei principi nell’ordinamento è garantito dal loro riferimento all’impianto e alle disposizioni normative costituzionali (se si preferisce, ci si può riferire ai “valori” riflessi nella legge fondamentale)[97]. Va maturando, in questo senso, nella giurisprudenza l’idea, pienamente da condividere, che i principi consentono di dare risposte immediate alle nuove istanze di tutela, talvolta in modo che potrebbe apparire poco ortodosso – si ricordano, ancora una volta, le critiche dottrinali piovute sul recente intervento della Corte costituzionale in materia di riducibilità della caparra -, sacrificando il presunto rigore dei procedimenti ermeneutici tradizionali (in primis, con il ricorso all’analogia, come nel caso sempre della caparra eccessiva), a vantaggio della mobilità ed evoluzione dello stesso sistema, che dai principi e dalle clausole generali trae in fin dei conti la sua linfa vitale[98].

Se non è affatto scontato, peraltro, che nei principi possa trovarsi, in via immediata, la riposta allo specifico conflitto d’interessi, è indubbio che l’affermazione di una giurisprudenza illuminata dai principi finisce per rappresentare un forte stimolo per il giurista – in primis, ma evidentemente non soltanto, il giudice – a non rimanere acriticamente vincolato a soluzioni e ricostruzioni collaudate e radicate nella tradizione, fornendo piuttosto il suo contributo nel processo di formazione della norma attraverso la via giurisdizionale, con la valorizzazione di tutti i possibili (e verosimili) dati ed elementi argomentativi, per tentare di offrire una lettura razionale e razionalizzante del sistema (che, si sa bene, è sempre in movimento e perciò in continua evoluzione).

Al centro del discorso è, innegabilmente, la stessa funzione e l’esercizio dell’attività giurisdizionale, in ambito di diritto privato ma, in particolare, nella materia del contratto e dell’autonomia negoziale in genere, peraltro destinata a occupare aree sempre più ampie nei rapporti tra privati[99]. Un’ulteriore considerazione merita, tuttavia, anche l’opera di razionalizzazione della norma nel sistema nel momento in cui sia chiamata in causa la dottrina (con quanto può conseguire nella stessa impostazione degli studi e dell’insegnamento del diritto, tanto nelle aule universitarie, quanto in sede di aggiornamento professionale). In tal senso, senza volersi addentrare in una riflessione di estrema complessità e ampiezza, l’esigenza primaria è quella di fornire al legislatore le basi concettuali per l’emanazione di (nuove) norme, talvolta affidate alla laboriosa e faticosa opera di codificazione o “ricodificazione” del diritto privato, considerando, per un verso, l’emersione di nuove esigenze, per altro verso la tradizione di pensiero formatasi sul fondamento di categorie, concetti, nozioni e “sistemazioni” di discipline radicatesi nel tempo e via via assimilate in diversi ordinamenti. Le recenti esperienze, maturate in diversi e tra loro lontani ambienti giuridici, di riordino di singoli settori o dell’intero diritto civile “codificato” sono lì a dimostrarlo.

Se è vero che appare oramai superata la stagione in cui giuristi, certamente tra i più illuminati e sensibili all’evoluzione del diritto nell’inscindibile rapporto con la società civile, auspicavano una «legislazione per principi»[100], e che, per altro verso, è innegabilmente arduo immaginare di poter rinvenire nei principi la risposta per la soluzione della controversia, senza transitare attraverso il dato normativo in concreto applicabile, appare parimenti indiscutibile che i principi – in primis, evidentemente, quelli espressi o implicati dalle norme costituzionali – abbiano definitivamente superato la tradizionale diffidenza dell’interprete, trovando sempre più frequente applicazione nella ratio decidendi delle Corti, in sede tanto di merito quanto di legittimità.

Potrebbe essere sufficiente, in tal senso, richiamare la nota vicenda, tutta giurisprudenziale, della formula riassunta nell’espressione «abuso del diritto», per rendersi conto di come l’argomento – è difficilmente definibile principio in senso stretto, ancorché si sia in presenza di un concetto riconducibile alla logica dei principi, con un’apparente vaghezza, che esige una forte e circostanziata aderenza alla specificità della vicenda giuridica in esame – abbia fatto presa sull’attività giurisdizionale delle nostre Corti[101].

Le considerazioni sin qui svolte potrebbero richiamare il grande tema (ovvero il complesso problema, se si preferisce) delle fonti, nell’affrontare il quale non si possono certo trascurare le premesse provenienti dalla prospettiva storica, posto che lo storico del diritto ci ricorda il suo ruolo di “coscienza critica” (dello studioso del diritto vigente), non esitando a denunciare la «crisi dello statalismo e dello sclerotico sistema delle vecchie fonti», nell’auspicio che si recuperi, in tal modo, il carattere ordinativo e la funzione ordinamentale del diritto, con un maggiore ascolto della «voce complessa della società, voce che viene dal basso», in termini sostanzialmente antitetici rispetto alla tradizione gius-postivistica e all’esasperazione legalistica e statalistica ottocentesca[102]. I connotati della cd. «pos-modernità» vengono individuati nell’attuale “crisi” del sistema tramandato, ma anche nella ricerca di un “ordine” futuro, in uno scenario di “disordine”: «[o]ggi – afferma l’illustre A. - non si parla tanto di fonti al plurale, quanto di una pluralità disordinata: i fatti tendono a imporsi sul piano giuridico, infischiandosi dei filtri segnati puntigliosamente in decrepiti testi inattuati e inattuabili»[103]. Difficile non convenire con le espressioni, come sempre di grande immediatezza e incisività, testualmente riprese dagli scritti di Paolo Grossi, che fotografano una cruda realtà, sulla quale l’ostinazione delle difese svolte in nome del positivismo giuridico non sembra riuscire ad apportare alcun effetto benefico[104]

Nella difficoltà di affermare come sia – e, cosa ancor più complessa, come dovrebbe essere – il giurista dei nostri giorni, secondo i modelli teorici conosciuti e collaudati[105], il dato certo, di cui oggi si può e si deve assumere consapevolezza, va colto nell’esigenza di trovare i modi e le forme di una (non certo semplice) convivenza, tra il carattere tecnico-formale, che al diritto è stato per molto tempo riconosciuto nella cultura giuridica europea, quale espressione della tradizione giuridica occidentale – assai lontano, evidentemente, dalle diverse impostazioni tradizionali, etiche e religiose, tipiche di altri sistemi e mondi giuridici – e la vocazione del diritto a perseguire obiettivi di giustizia sostanziale, riferibile (non già ad aspirazioni o a vagheggiati ideali, bensì) a un apparato ormai molto sviluppato di tutele e diritti della persona, quale risultato del costituzionalismo moderno novecentesco[106].

Si è detto, ineccepibilmente, che il carattere permanente risiede «nel limite del diritto (o, se si preferisce, nel diritto quale limite); e ne deriva il confronto con la perenne criticità e infinitezza di un orizzonte di giustizia mai istituito pienamente dalle forme imperfette del diritto stesso»[107]. Ci si è rifatti, talvolta, al pensiero di Niklas Luhmann, il quale riteneva necessaria, in un sistema giuridico, la coesistenza dell’apertura cognitiva indotta dalla complessità delle società attuali con la chiusura normativa[108], e superando la pur preziosa ricostruzione della pluralità degli ordinamenti giuridici – che si deve a un altro gigante del pensiero del Novecento giuridico, come Santi Romano –, si può convenire sulla considerazione secondo la quale il dato caratterizzante della realtà attuale è una sorta di «ritorno al diritto» quale «mutamento nella complessità che, dal lato del mutamento, subisce l’influenza di un dialogo, in fasi successive, fra giudici ordinari e legislatori nazionali, seguiti da giudici europei autorevoli; e poi, di nuovo, da giudici ordinari e da giudici costituzionali nazionali»[109].

Si è fatto anche di frequente riferimento, da parte di chi ancor oggi esprime le più rigorose posizioni e considerazioni di stampo gius-positivistico, al discorso relativo alla “certezza” del diritto, in un’età, quale è indubbiamente quella in cui viviamo, caratterizzata da una inesorabile ma anche ingovernabile “incertezza”[110]. Un discorso, quest’ultimo, non soltanto non affrontabile in questa sede, ma che può porsi, ai nostri giorni, solo collocandosi nella dimensione apicale del dibattito sui rapporti tra diritto, giustizia e democrazia. Chi ne ha approfondito l’esame, del resto, ha tenuto a sottolineare come il problema della certezza del diritto si presenti, essenzialmente, con i suoi aspetti prettamente teorici: dalla distinzione di fondo tra una certezza definibile di tipo “oggettivo” – con riferimento a un’affermazione che dovrebbe corrispondere a un determinato stato di cose, appunto oggettivamente inteso – e una “soggettiva” – riconducibile alla convinzione della verità di un’affermazione – che appare più vicina all’idea della prevedibilità delle conseguenze che il diritto connette all’agire del soggetto, sino alle possibili prospettive di studio del tema, ossia dei punti di vista, rispettivamente, della filosofia del diritto, della teoria generale e della sociologia, dai quali in linea di principio ci si potrebbe porre il problema, per constatare che è quest’ultima (quella sociologica) la percezione più corretta, dal momento che si tratta di comprendere come il diritto contribuisca a stabilizzare le aspettative nei rapporti sociali, risolvendosi l’indagine in quella sull’effettività del diritto stesso (tradizionalmente, di pertinenza della sociologia)[111].

La riflessione tornerebbe a saldarsi, anche in questo caso, con il discorso sulle fonti, che si radica nella concezione dello stato moderno e presuppone il potere centrale produttore di norme generali, cui si richiede le qualità di conoscibilità, chiarezza e coerenza, di modo che sia prevedibile il loro rispetto da parte dei destinatari del comando. Di qui, sembra invero breve il passaggio alla tecnica legislativa più idonea allo scopo, con l’aspirazione alla codificazione del diritto, quale espressione tipica del monopolio della produzione normativa, funzionale a tenere unite l’esigenza di facile conoscibilità, chiarezza e coerenza con quella dell’unicità della fonte del diritto[112].

Il dibattito sulla certezza procede, dunque, di pari passo con l’evoluzione del diritto “moderno” e con la sua “positivizzazione”, mentre l’esigenza di certezza tende a crescere allorché, nella prospettiva weberiana, ripresa dalla sociologia del diritto successiva, il sottosistema giuridico va sempre più distinguendosi, in termini funzionali e strutturali, dagli altri (quali, ad esempio, quello religioso e del costume), i rapporti tra i soggetti seguono le forme di organizzazione e di divisione del lavoro e dei ruoli delle società capitalistiche, le regole organizzative devono, di conseguenza, diventare sempre più astratte, alla stregua dei miti del «diritto eguale» e del «soggetto unico»[113].

Il discorso, in termini di ricostruzione storica, diviene ancora più interessante nel confronto con il common law, ove lo strumento per conseguire la certezza è comunemente identificato con il (corretto) ricorso al precedente giudiziario, mentre – sempre in chiave sociologica – la “struttura chiusa” del ceto dei giuristi ha per secoli garantito l’unitarietà del sistema, quanto alla sensibilità culturale in generale e gli indirizzi giurisprudenziali più in particolare. Il limite di tenuta di un tale sistema è nelle trasformazioni economiche e sociali, che provocano uno «scollamento irrimediabile fra ceto dei giuristi e contesto sociale complessivo, conseguente delegittimazione del primo e caduta drastica della certezza»[114]

Si comprende allora, per cercare di proporre una riflessione davvero conclusiva, come, muovendo dalla constatazione dell’inevitabile pluralismo sociale ed etico, caratteristico della società contemporanea – ove non si danno valori immutabili e coerenti, mentre gli stessi valori costituzionali sono continuamente sottoposti alla “rilettura” di cui si diceva in esordio, ma soprattutto al loro delicato bilanciamento, di modo che nel processo interpretativo vada affermandosi una concezione dell’ermeneutica che fa capo all’argomentazione orientata alle conseguenze[115] –, il problema della “certezza del diritto”, superate definitivamente le pretese gius-positivistiche e le estremizzazioni del formalismo giuridico, finisca per essere «il modo nel quale il diritto governa (o, almeno, tenta di governare) il mondo dell’incertezza (cioè il mondo delle scelte e dei valori) prendendone atto e quindi in una certa misura facendosene carico»[116] ovvero «il modo in cui la collettività attribuisce significato alla disciplina di riferimento adeguando alla medesima le proprie azioni (o violandola, ma nella consapevolezza di non rispettare un precetto condiviso)»[117].

Al di là anche della ricerca di un senso attuale da attribuire al concetto/mito della certezza, e sempre nel presupposto del declino dell’immagine del diritto come sistema di norme ordinate gerarchicamente, ci si è persino domandati se, all’esito dei processi attuali di frantumazione del sistema delle fonti, si potesse (o si dovesse) discorrere di «fine del diritto?».

In un dibattito fra giuristi di particolare autorevolezza vi è stato, così, chi si è posto l’interrogativo su «eclissi o rinascita del diritto?», sviluppando il ragionamento sulla “globalizzazione” nel senso che la prima – l’eclissi – si manifesterebbe nel proliferare dei nuovi produttori di norme (accanto e oltre lo Stato, quale tradizionale detentore del monopolio), mentre la seconda – ossia la rinascita – sarebbe legata al fenomeno di cd. Verrechtlichung, coincidente con l’ampliamento della sfera della giuridicità (emblematicamente visibile con l’azione svolta dai principi e dalla corti costituzionali)[118].

La novità consisterebbe in una riscoperta e valorizzazione delle “istituzioni”, così da recuperare quell’unità tra diritto, storia e scienze sociali, che il fenomeno di “isolamento” del diritto aveva pregiudicato, finendo per svalutare anche il ruolo del giurista[119]. Un ruolo, quest’ultimo, che nella logica del cd. Juristenrecht non può essere dimenticato, ma se ne dovrebbe tentare il recupero, preso atto della “metamorfosi” – non già, dunque, una “fine” – del diritto, avvenuta a partire dalla metà del XX secolo.

La grande trasformazione è stata determinata, nella tradizione giuridica occidentale e soprattutto in ambito europeo, dalle Carte costituzionali, che hanno definitivamente messo in crisi la visione “legicentrica” tipica dell’Europa continentale, con una rivalutazione dello «stato giurisdizionale» (e del conseguente cd. «governo dei giudici», Richterstaat)[120]: un recupero funzionale a evitare «la riduzione della razionalità giuridica a mera razionalità tecnica» e a contrastare, ci si auspica almeno in parte, la forza planetaria della tecnica e dell’economia[121].

Piuttosto che interrogarsi, in modo forse suggestivo ma non realmente costruttivo, sulla «fine del diritto», sarebbe dunque preferibile discorrere e ragionare di una inedita vitalità del diritto, «sia pure affidata a forme nuove rispetto alla concezione propria dei moderni»[122] e in tale rinnovata vitalità si comprenderebbe anche l’attenzione verso il complesso fenomeno della regolamentazione degli scambi commerciali che si tende a ricondurre alla formula sintetica della cd. lex mercatoria. La dimensione tradizionalmente statuale del diritto è qui superata, s’è detto, dalla regole che il ceto degli operatori economici tende a rispettare, ingenerandosi così la sensazione che si sia in presenza di un ordinamento, la cui effettività è data dal rispetto spontaneo delle stesse regole e dei meccanismi di soluzione delle controversie, alternativi alla giurisdizione statale, ma che quest’ultima riconosce e, in un certo senso, controlla per evitare i rischi del carattere di «diritto di classe», cui si faceva cenno, e dunque i pregiudizi che deriverebbero ai soggetti per definizione esclusi dai procedimenti di formazione delle regole stesse (emblematicamente, i consumatori, ma anche l’imprenditore più debole e comunque estraneo al settore specifico per disciplinare il quale le regole vengono elaborate)[123].

Se si volesse tentare di tirare le fila della riflessione da ultimo cennata (nella piena e denunciata consapevolezza che si tratta di tematiche di respiro così ampio, da non poter essere trattate in poche battute), agganciandola all’evoluzione giurisprudenziale in materia di contratto, che nel titolo di queste note si è voluta definire, forse un po’ enfaticamente, “coraggiosa” – e dunque già soltanto per questo condivisibile, nel suo sforzo di rinnovarsi e innovare, di conseguenza, il sistema –, quella sorta di araba fenice costituita dalla «certezza» sarebbe da ricercare semmai sul piano del «diritto vivente», s’intende all’esito della sua razionalizzazione nel sistema, rinunciando così a rincorrere nostalgicamente la scia sempre più sbiadita dell’altro mito, quello della «fattispecie» legalmente tipizzata (o “chiusa”, come anche veniva un tempo definita)[124] e liberandosi dai condizionamenti del positivismo, nella misura in cui questi possano pregiudicare un’applicazione del diritto in sede giurisdizionale che, sempre nel rispetto della razionalità argomentativa, sia effettivamente guidata dal criterio di giustizia[125].

[1] P. Rescigno, Per una rilettura del codice civile, in Codici. Storia e geografia di un’idea, Roma-Bari, 2013, pp. 34 ss. (già in Giur. it., 1968, IV, pp. 209 ss. e in Studi in onore di Giuseppe Grosso, vol. IV, Torino, 1971, pp. 821 ss.), nonché Id., Rilettura del codice civile, in I cinquant’anni del codice civile, Milano, 1993, p. 9.

[2] Per tutti, M. Esposito, Profili costituzionali dell’autonomia privata, Padova, 2003; M. Luciani, voce Economia nel diritto costituzionale, in Digesto, discipline pubblicistiche, V, Torino, 1990, p. 375.

[3] È della fine degli anni Venti del XX secolo anche l’approfondimento del discorso sull’autonomia collettiva e sul contratto collettivo di lavoro, che induce a interrogarsi, riprendendo le preziose intuizioni, di oltre un decennio prima, di Santi Romano in tema di ordinamento giuridico, sugli ordinamenti giuridici minori, di cui l’ordinamento superiore definisce presupposti e tratti essenziali, lasciando sempre ai primi una certa sfera di autonomia (cfr. T. Ascarelli, Sul contratto collettivo di lavoro. Appunto critico, in Studi in tema di contratti, Milano, 1952, p. 181).

[4] Cfr. ad esempio E. Roppo, Il contratto, 2a ed., in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2011, pp. 42 ss., che richiama l’ampia tematica della tutela del contraente debole, i cui sviluppi hanno condotto alla rilevanza, anche giuridica, dei consumatori, quali soggetti appartenenti a una data categoria socio-economica, cui l’ordinamento riconosce una particolare tutela giuridica, al punto da far parlare (da parte di taluno, senza suscitare un consenso diffuso) di un ritorno allo status (già richiamato da M. Esposito, Profili costituzionali dell’autonomia privata, cit.).

[5] E. Roppo, Il contratto, cit., pp. 48 ss.

[6] P. Rescigno, Premessa, in I contratti in generale, a cura di E. Gabrielli, 2 ed., Torino, 2006, XLVII ss., sicché «alla libertà contrattuale è possibile risalire solamente dalla garanzia di altri istituti, e specificamente dalle norme sull’iniziativa economica privata e la proprietà privata», dovendo necessariamente confluire la riflessione su «quella che è stata detta la ‘funzionalizzazione’ dell’impresa, e, su piani diversi, della proprietà e del contratto» (p. XLIX ss.). Analogamente, A. Pace, I diritti del consumatore: una nuova generazione di diritti?, in Dir. e soc., 2010, p. 134. In senso diverso, si veda M. Esposito, Profili costituzionali dell’autonomia privata, cit., 183 ss. Sui rapporti tra libertà e solidarietà, per un’ulteriore prospettiva, cfr. N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Bari-Roma, 2004, p. 87.

[7] Fondamentali le opere di G. Dürig, Grundrechte und Zivilrechtsprechung, in Festschrift für Nawiasky, 1956, pp. 157 ss.; R. Geiger, Die Grundrechte in der Privatrechtsordnung, Stuttgart, 1960; J. Schwabe, Die sogenannte Drittwirkung der Grundrechte: Zur Einwirkung der Grundrechte auf den Privatrechtsverkehr, München, 1971; C-W. Canaris, Grundrechte und Privatrecht, in Archiv für die civilistische Praxis (AcP) 184 (1984), pp. 201 ss.; D. Medicus, Der Grundsatz der Verhältnismäßigkeit im Privatrecht, in AcP 192 (1992), pp. 35 ss.; U. Diederichsen, Das Bundesverfassungsgericht als oberstes Zivilgericht – Ein Lehrstück der juristischen Methodenlehre, in AcP 198 (1998), pp. 171 ss. In Italia, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, già U. Breccia, Problema costituzionale e sistema privatistico, in Riv. crit. dir. priv., 1984, pp. 687 ss., nella raccolta Immagini del diritto privato, cit., p. 93, si interrogava sul ruolo da attribuire ai valori costituzionali, alla luce della loro applicabilità diretta e dei limiti all’autonomia privata già presenti nel codice civile e nella legislazione ordinaria.

[8] P. Rescigno, Premessa, cit., XLIX. Si noti come, secondo lo stesso A., l’esperienza giuridica contemporanea, legata allo stesso modo di operare dello Stato sociale, ma anche al ruolo assunto dall’elaborazione giurisprudenziale – in particolare, nel dibattito sull’intervento giudiziale all’interno del rapporto contrattuale – conferma la persistenza e la vivacità del tema e così l’interesse per le questioni relative al radicamento costituzionale dell’autonomia privata, nel momento in cui l’esigenza di stabilire equi rapporti sociali sembrerebbe far ritornare «alla rigidità degli status», da intendersi «nel senso che per ogni settore di attività i contratti siano destinati a modellarsi secondo tipi e discipline che rispecchiano la posizione sociale delle parti (fino al punto di vedere nel contratto un mezzo tra i tanti in cui si esprime la politica economica dello Stato)» (Rescigno, Premessa, cit., LIII).

[9] Sull’analisi del concetto di autonomia privata nello sviluppo del pensiero giuridico degli anni Settanta, ci si permette di rinviare a Macario, L’autonomia privata, in Gli anni Settanta del diritto privato, a cura di Nivarra, Milano, 2008, pp. 119 ss.

[10] Rescigno, Per una rilettura del codice civile, in Codici, cit., pp. 34 ss., nonché Id., Rilettura del codice civile, in I cinquant’anni del codice civile, cit., p. 9.

[11] Emblematicamente, N. Irti, Note introduttive al commento alla legge n. 392/1978, in Nuove leggi civ. comm., 1978, p. 4 (il quale elabora compiutamente il tema generale nel meritatamente celebre saggio, L’età della decodificazione, Milano, 1979, pubblicato in successive edizioni), nonché, sempre a ridosso della nuova normativa sulle locazioni, M. Bessone, Equo canone e “diritto” all’abitazione nella prospettiva delle norme costituzionali, in Foro pad., 1978, II, pp. 83 ss.

[12] S. Pugliatti, voce Autonomia privata, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 366.

[13] E. Betti, voce Autonomia privata, in Novissimo digesto italiano, I, 2, Torino, 1959, pp. 1559 ss.

[14] R. Scognamiglio, Commento all’art. 1322, in Contratti in generale, Commentario Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1970, p. 27; il tema è il fulcro della fondamentale monografia dello stesso A., Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1969, 147 (1 ed. 1950), con l’accentuazione del carattere tecnico di tale operazione di riconoscimento: «l’ordinamento riconosce, nel raffigurarsi la nozione di negozio, l’atto di autonomia privata nella sua essenza reale».

[15] S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, p. 87, secondo il quale «la fonte privata rimane (…) il motore del contratto, nel senso che o impedisce una valida conclusione del contratto (…) o preclude la possibilità di parlare di contratto in senso tecnico», e d’altra parte tale fonte «limita la possibilità delle altre [legge e giudice] di partecipare alla conclusione del contratto».

[16] Non manca chi intitola alla «solidarietà» la propria analisi dell’autonomia privata, con un intento e una metodologia del tutto diversi rispetto al messaggio degli anni Cinquanta, e quindi in linea con le nuove tendenze a recuperare i valori costituzionali, secondo la lettura che ne dava la sinistra politica: cfr. ad esempio F. Lucarelli, Solidarietà e autonomia privata, Napoli, 1970, pp. 134 ss., ove si sviluppa l’idea secondo la quale il contratto esprime una propria logica (resa oggettiva dall’accordo) e questa si riflette, regolandolo, sul rapporto.

[17] G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, 355. In una diversa prospettiva, sul tema del «tipo» ritornerà poi G. De Nova, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, con uno studio attento a ricostruire il processo di tipizzazione, i tratti distintivi e i molteplici criteri per la riconduzione al tipo, il metodo tipologico seguito nel diritto dei contratti e infine l’evoluzione storica del sistema dei tipi. Per un approfondimento, ci si permette di rinviare a F. Macario, L’autonomia privata, cit., pp. 156 ss. Sui rapporti tra causa e meritevolezza, si veda un altro esponente significativo della civilistica del tempo: P. Barcellona, Diritto privato e processo economico, cit., p. 197.

[18] Cfr. G. Palermo, Funzione illecita e autonomia privata, Milano, 1970, pp. 73 ss.

[19] Va ricordato ancora G.B. Ferri, Ordine pubblico, buon costume e la teoria del contratto, Milano, 1970, e successivamente con il saggio Meritevolezza dell’interesse e utilità sociale, in Riv. dir. comm., 1971, II, p. 81.

[20] Ad esempio, M. Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, Milano, 1975, che trae dai principi costituzionali gli indici idonei a realizzare volta per volta, e non in virtù di un ideale principio unitario, il fine fondamentale della tutela della persona.

[21] G. Cotturri, Potere contrattuale, analisi del fatto e qualificazione giuridica (un caso di acquisto di abitazione sulla carta), in Democrazia e diritto, 1974, pp. 322 ss., spec. p. 283.

[22] Fra cui, in particolare, possono ricordarsi i saggi che hanno fatto storia di L. Mengoni, Forma giuridica e materia economica, in Studi in onore di Asquini, III, Padova, 1965, p. 1086, e T. Ascarelli, Norma giuridica e realtà sociale, in Problemi giuridici, t. 1, Milano, 1969, p. 69.

[23] Dovendosi precisare che le «tutele costituzionali dell’autonomia privata» non erano intese da tutti nello stesso modo, come dimostra il contributo di A. Liserre, Tutele costituzionali della autonomia contrattuale. Profili preliminari, Milano, 1971, pp. 75 s. il quale ritiene ovvio che la disposizione di cui all’art. 3, 2° comma, Cost., impegni ad un «programma» di profonde e radicali trasformazioni sociali, ma esclude al contempo che la disposizione esprima un significato direttamente garantista della libertà contrattuale dei privati.

[24] Non mancavano le perplessità, manifestate da una parte della dottrina, sul riconoscimento della rilevanza giuridica di una nozione, come quella di «contraente debole», che si riteneva idonea a rinviare soltanto a categorie sociali vaghe e indeterminabili, mentre l’analisi concreta della posizione di supremazia nel rapporto contrattuale appariva prospettiva più promettente: così A. Liserre, Tutele costituzionali della autonomia contrattuale, cit., spec. cap. II, pp. 35 ss. 

[25] G. Cotturri, Potere contrattuale, analisi del fatto e qualificazione giuridica, cit., pp. 287 ss., che sembra ripercorrere l’iter logico della dottrina dell’uso alternativo del diritto, il cui iniziale entusiasmo si esaurì, com’è noto, molto rapidamente.

[26] Uno degli studiosi che meglio ha rappresentato ed elaborato questa concezione è senza dubbio A. Auricchio, La simulazione nel negozio giuridico. Premesse generali, Napoli, 1957; successivamente, nella linea metodologica, Id., L’individuazione dei beni immobili, Napoli, 1960.

[27] Soltanto per richiamare alcuni tra gli studiosi più autorevoli, in questa linea di pensiero: S. Rodotà, Le fonti di integrazione, cit.; A. Di Majo, L’esecuzione del contratto, Milano,1969; G. Panza, Buon costume e buona fede, Napoli, 1967; si veda anche, in un’originale prospettiva di studio dei temi legati alle sopravvenienze e al rischio contrattuale, M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1970.

[28] Utilizza l’espressione nel titolo di una recente, particolarmente stimolante ricostruzione del rapporto tra giudizio di fatto e in diritto nell’applicazione delle clausole generali, E. Scoditti, Concretizzare ideali di norma. Su clausole generali, giudizio di cassazione e stare decisis, in Giust. civ., 2015, p. 685.

[29] Ci si permette di richiamare ancora L. Mengoni, Autonomia privata e costituzione, in Banca, borsa e tit. cred., 1997, I, p. 10, secondo il quale «[i]n generale si può dire che il contenuto assiologico della clausola della correttezza e della buona fede è sempre in grado, per chi sappia (e voglia) leggerla, di tradursi in giudizi di dover essere appropriati al caso concreto, senza bisogno di stampelle costituzionali».

[30] Si veda, in tal senso, il contributo di N. Lipari, Ancora sull’abuso del diritto. Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, in questo stesso fascicolo della Rivista.

[31] N. Irti, L’età della decodificazione, cit. (4 ed., Milano, 1999, pp. 21 ss.).

[32] F. D. Busnelli, Note in tema di buona fede ed equità, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 537.

[33] Su cui si veda, da ultimo, G. D’Amico, L’abuso di autonomia negoziale nei contratti dei consumatori, in Riv. dir. civ., 2005, I, p. 625.

[34] Ci si permette di rinviare, tra i tanti studi in argomento, a F. Macario, Abuso di autonomia negoziale e disciplina dei contratti fra imprese: verso una nuova clausola generale?, in Riv. dir. civ., 2005, I, p. 663.

[35] Sviluppata magistralmente proprio alla metà degli anni Sessanta, non senza lambire anche l’ambito disciplinare del contratto: P. Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, p. 205 (ripubblicato dopo oltre trent’anni, con una preziosa postfazione che fa il punto sull’evoluzione della teoria e sulla sua rilevanza attuale, in Id., L’abuso del diritto, Bologna, 1998).

[36] Per una delle trattazioni più recenti, nonché meditate e autorevoli, della complessa tematica, si può rinviare a N. Lipari, Intorno alla “giustizia” del contratto, Napoli, Editoriale Scientifica, 2016; occorre peraltro segnalare il dato significativo della comparsa, nelle più rilevanti opere enciclopediche giuridiche, di un’apposita «voce»: in un caso affidata a una giovane studiosa, esponente della più attenta dottrina nella sua generazione (V. Calderai, Giustizia contrattuale, in Enc. dir., Annali, VII, Milano, 2014, p. 447); in un altro caso, redatta da uno dei più autorevoli studiosi dei problemi del contratto, appartenente a una generazione più risalente, che non si era mai posta il problema (R. Sacco, voce Giustizia contrattuale, in Dig. disc. priv. sez. civ., Agg., Torino, 2012, pp. 534 ss.). Possono poi, rapidamente ed esemplificativamente, ricordarsi i contributi di: G. Alpa, Libertà contrattuale e tutela costituzionale, in Riv. crit. dir. priv., 1995, pp. 39 ss.; F. Galgano, Libertà contrattuale e giustizia del contratto, in Contratto e impr./Europa, 2005, pp. 509 ss.; E. Roppo, Giustizia contrattuale e libertà economiche: verso una revisione della teoria del contratto?, in Pol. dir., 2007, pp. 451 ss. Più di recente, ha ripreso il tema, già oggetto di precedenti riflessioni, G. Vettori, Il contratto giusto nell’ordine costituzionale europeo, in Il contratto europeo fra regole e principi, Torino, 2015, pp. 149 ss. Da ultimo, si segnala il contributo di E. Navarretta, Il contratto “democratico” e la giustizia contrattuale, in Riv. dir. civ., 2016, p. 1262, ove si indaga il «rapporto tra giustizia procedurale e giustizia sostanziale», chiarendo, nella conclusione del lavoro, i limiti della tutela giuridica contrattuale, la quale «non può offrire niente più che la giustizia commutativa, incapace, senza interventi legislativi che supportino economicamente le parti socialmente deboli, di realizzare finalità distributive»; del resto, con riferimento al tema dei principi e delle clausole generali, al centro della riflessione sul rapporto tra il giudice e la legge in ambito di diritto delle obbligazioni e dei contratti, l’A. afferma con altrettanta chiarezza che tanto i primi quanto le seconde «non possono essere contenitori infiniti consegnati al monologo giudiziale, ma rappresentano la trama di valori che consente all’interprete di intessere un dialogo con altri attori istituzionali», in uno «sforzo di portare a sistema i frammenti di modelli delineati dal legislatore nazionale ed europeo» (p. 1291). In un’analoga prospettiva, si può leggere il saggio, richiamato anche nel lavoro di Emanuela Navarretta, di M. J. Hesselink, Democratic Contract Law, in European Review of Contract Law, 2014, pp. 81 ss.

[37] In questo contesto viene sovente ricordata Cass. 16 febbraio 1963, n. 357, in Foro pad., 1964, p. 1284, con nota (critica) di S. Rodotà, Appunti sul principio di buona fede, quale esemplificazione della detta chiusura verso la precettività immediata del principio in esame, ratio decidendi contro la quale giustamente reagisce Stefano Rodotà, in coerenza con i suoi studi sul tema e in sostanziale anticipazione della già ricordata monografia sulle «fonti». Per un esame approfondito della giurisprudenza di quel periodo, si veda anche U. Natoli, L’osservanza dei principi generali e principi fondamentali davanti alla Corte di cassazione, in Scritti in memoria di Barillaro, Milano, 1982, pp. 345 ss.; dello stesso Maestro della scuola pisana, si vedano gli studi fondamentali L’attuazione del rapporto obbligatorio e la valutazione del comportamento delle parti secondo le regole della correttezza, 1961, rist. 1993, in Diritti fondamentali e categorie civilistiche. Scritti di Ugo Natoli, cit., pp. 669 ss.; Id., L’attuazione del rapporto obbligatorio, vol. I (prima ed. 1961), in Tratt. dir. civ. comm. Cicu- Messineo, 1984, Milano, pp. 33 ss. Più di recente e in termini generali, M. Grondona, Solidarietà e contratto: una lettura costituzionale della clausola generale di buona fede, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2004, p. 727 (anche in AA.VV., Il dialogo tra le Corti. Principi e modelli di argomentazione, a cura di E. Navarretta e A. Pertici, Pisa, 2003, p. 399).

[38] Si possono ricordare, in proposito, le preziose pagine di R. Nicolò, voce Codice civile, in Enc. dir., Milano, VII, p. 247, il quale auspicava «che i giudici sapessero servirsi in modo più penetrante di quanto di solito facciano, di questi principi del codice aperti ad esigenze morali e suscettibili di contribuire alla educazione civile anche nei rapporti giuridici». In ideale prosecuzione metodologica, la più sensibile dottrina civilistica dei nostri giorni fa notare che le nuove tecniche interpretative della giurisprudenza pongono l’esigenza, in punto di metodo, di risolvere il «problema dell’individuazione dei valori», attraverso la ricerca di criteri che consentano il controllo del procedimento interpretativo fondato su principi generali: in tal senso, il pensiero di N. Lipari, Valori costituzionali e procedimento interpretativo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2003, pp. 865 ss., il quale individua due criteri «per una corretta individuazione dei valori»: il criterio della «totalità», secondo cui l’interprete deve considerare l’esperienza giuridica nella sua globalità, e quello della «cronologia critica», in base al quale è necessario avere presente il contesto storico di riferimento.

[39] La tutela, che prescinde e può dunque anche superare sia il dettato legislativo, sia le dichiarazioni dei contraenti, è garantita dal giudice in virtù dell’applicazione di un principio, la cui espressione scritta in una regola generale finisce per svolgere un mero compito di supporto ad una decisione che, in realtà, crea essa stessa la regola. Afferma, in modo ineccepibile, che spesso l’uso delle clausole generali «è suggerito dalla necessità di “correggere” la soluzione a cui si perverrebbe in base all’applicazione di una norma specifica o del regolamento contrattuale, considerata ingiusta alla luce delle peculiarità del caso concreto», S. Patti, L’interpretazione delle clausole generali, in Riv. dir. civ., 2013, p. 279.

[40] Cfr., ad esempio, Cass. 18 luglio 1989, n. 3362, in Foro it., 1989, I, c. 2750, secondo cui l’art. 1375 cc consente al giudice di ritenere escluse dalla copertura fideiussoria le anticipazioni accordate dalla banca al debitore principale in violazione del principio di buona fede. Per quanto concerne i contratti autonomi di garanzia, si veda, tra le prime pronunce in materia, Cass. 11 ottobre 1987, n. 7341, ivi, 1988, I, c. 104, dalla quale in breve tempo fiorì un cospicuo numero di sentenze in tema di exceptio doli, da intendersi indiscutibilmente quale manualistica espressione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto.

[41] La Cassazione ha reagito, nella specie, contro il comportamento scorretto del contraente che, titolare dei contratti per la conduzione ed esercizio delle concessioni relative a sorgenti di acqua minerale e per la locazione dei relativi stabilimenti termali, aveva dapprima ottenuto dal Comune la commisurazione del canone di concessione a suo carico al prezzo di vendita in fabbrica delle bottiglie – secondo un’anomala forma di relatio rimessa, sostanzialmente, alla determinazione unilaterale del prezzo di rivendita del prodotto – e, quindi, aveva mantenuto bloccato il suddetto prezzo di vendita, in modo da impedire al Comune l’adeguamento del canone nonostante la svalutazione monetaria. Si tratta del noto «caso Fiuggi», deciso dopo un’articolata vicenda giudiziaria, da Cass., 20 aprile 1994, n. 3775, in Giust. civ., 1994, I, p. 2159, con nota di M.R. Morelli, La buona fede come limite all’autonomia negoziale e fonte di integrazione del contratto nel quadro dei congegni di conformazione delle situazioni soggettive alle esigenze di tutela degli interessi sottostanti; nonché in Corr. giur., 1994, p. 566, con nota di V. Carbone, La buona fede come regola di governo della discrezionalità contrattuale, dove veniva rilevata la scorrettezza del concessionario (appropriatosi, in sostanza, della titolarità del diritto all’adeguamento del canone spettante al Comune) nel fatto che costui lucrava l’utile non sulla prima vendita, la quale aveva la sola funzione di mantenere fermo ed immutabile il canone, bensì sulla successiva distribuzione del prodotto realizzata, con altre società del gruppo, ai valori di mercato. Ma si veda anche Cass. 13 gennaio 1993, n. 343, in Giur. it., 1993, I, 1, p. 2129, con nota di G. Sicchiero, Appunti sul fondamento costituzionale del principio di buona fede, secondo cui la violazione dell’obbligo di correttezza nell’adempimento delle obbligazioni «che si fonda anche sul dovere di solidarietà sociale previsto dall’art. 2 Cost. e che deve essere assolto secondo il principio di buona fede, comporta responsabilità contrattuale qualora non vengano adottati comportamenti che, seppure non siano espressamente previsti da alcuna norma specifica, debbano ritenersi ugualmente doverosi in relazione alle peculiarità del caso concreto».

[42] Cass., 20 aprile 1994, n. 3775, cit.

[43] Si rivela preziosa, in tal senso, l’indagine di F. Roselli, Il controllo della Cassazione civile sull’uso delle clausole generali, Napoli, 1983, pp. 180 ss.

[44] Cfr. M.R. Morelli, La buona fede come limite all’autonomia negoziale, cit., p. 2173, il quale replica, opportunamente e in modo del tutto ragionevole e condivisibile, alle concezioni dottrinali che temono (in astratto, ancorché sbandierando il rischio come concreto e prossimo) un uso eccessivamente discrezionale della clausola di buona fede, che con l’applicazione della clausola generale «il giudice non è infatti chiamato a volteggiare, senza rete, nei cieli dell’etica. Tutt’altro. Il suo compito segue una partitura quasi “a rima obbligata”». Nella realtà delle singole fattispecie contrattuali, si dice in modo incontrovertibile, il giudice «dovrà individuare quel minimo di cooperazione e solidarietà, all’un tempo irrinunciabile ed adeguato ad evitare lo sbilanciamento di interessi in contatto».

[45] Cass. 24 settembre 1999, n. 10511, in Foro it., 2000, I, 1929, con nota di A. Palmieri, La riducibilità «ex officio» della penale e il mistero delle «liquidated damages clauses»; in Contratti, 2000, p. 118, con nota di G. Bonilini, Sulla legittimazione attiva alla riduzione della penale.

[46] Cass. 24 settembre 1999, n. 10511, cit. Ad avviso della Suprema corte la nuova lettura delle norme del codice civile ha inciso anche sulla questione della riducibilità della penale, la quale avrebbe per l’effetto «finito col perdere l’iniziale sua colorazione soggettiva per assumere connotazioni funzionali più decisamente oggettive, sì che la spiegazione della vicenda – come è stato osservato – appare ora spostata da una supposta tutela della volontà delle parti ad un interesse primario dell’ordinamento, valutandosi l’intervento riduttivo del giudice non più in chiave di eccezionalità bensì quale semplice aspetto del normale controllo che l’ordinamento si è riservato sugli atti di autonomia privata». L’affermazione secondo cui il potere riduttivo del giudice configura una manifestazione del normale controllo che l’ordinamento statuale si è riservato su tutti gli atti di autonomia privata è sufficientemente diffusa (si veda, in particolare: E. Moscati, voce Pena, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, p. 785; Id., Riduzione della penale e controllo sugli atti di autonomia privata, in Giur. it., 1982, I, 1, p. 1784, il quale tuttavia non sembra aver assunto una precisa posizione sulla natura generale o eccezionale della norma che legittima la riduzione della penale). Si noti che, in uno dei passaggi della motivazione, riprendendo uno studio condotto in argomento, si afferma l’efficacia diretta nei rapporti tra privati del dovere di solidarietà, desumibile dall’art. 2 Cost., il quale «in sinergia con il canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, all’un tempo gli attribuisce una vis normativa e lo arricchisce di contenuti positivi, inglobanti obblighi, anche strumentali, di protezione della persona e delle cose della controparte, funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale, nella misura in cui questa non collida con la tutela dell’interesse proprio dell’obbligato» (così M.R. Morelli, Materiali per una riflessione sulla applicazione diretta delle norme costituzionali da parte dei giudici, in Giust. civ., 1999, II, pp. 3 ss., spec. p. 5). Nel senso, invece, che il dovere di solidarietà esige «la mediazione della legge», si veda, per tutti, la nettissima posizione, coerentemente mantenuta nel tempo, di N. Irti, Concetto giuridico di mercato e dovere di solidarietà, in Riv. dir. civ., 1997, I, p. 189.

[47] Cfr. S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, cit., pp. 151 s.; A. di Majo, L’esecuzione del contratto, cit., pp. 373 s. Nel senso che l’art. 2 Cost. costituisce una direttiva fondamentale per l’attuazione degli istituti civilistici nell’ambito dei rapporti tra privati, già R. Nicolò, voce Diritto civile, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, p. 909 (“voce” che, insieme a quella già ricordata “Codice civile”, completa la preziosa ricostruzione dell’illustre A. dei nuovi scenari normativi che la civilistica avrebbe dovuto analizzare). In una diversa, ma complementare, prospettiva, individua nel principio di solidarietà una «direttiva costituzionale alla specificazione giudiziale dell’equità», F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, cit., pp. 391 ss. Nello stesso senso, sebbene muovendo da riflessioni molto più caratterizzate ideologicamente, anche Lucarelli, Solidarietà e autonomia privata, cit., pp. 175 ss., spec. pp. 197 ss.

[48] Le espressioni citate sono di L. Mengoni, Autonomia privata e costituzione, cit., p. 9, il quale conclude in merito al rapporto tra buona fede e dovere di solidarietà ex art. 2 Cost., con la plastica espressione, già innanzi richiamata, dell’inutilità, in tale operazione ermeneutica, dell’appoggio sulle «stampelle costituzionali»; ma si veda, più di recente, per un’apertura verso l’efficacia del richiamo costituzionale: E. Navarretta, Buona fede e ragionevolezza nel diritto contrattuale europeo, in Europa e dir. priv., 2012, p. 964.

[49] Cfr. soprattutto G. B. Ferri, Autonomia privata e poteri del giudice, in Dir. giur., 2004, spec. pp. 8 ss., il quale contesta in particolar modo la «filosofia» eccessivamente funzionalista dal quale – a parere dell’A. – muoverebbero gli «inutili obiter dicta» di Cass. n. 10511 del 1999 ove, in definitiva, si afferma l’esistenza di un potere di intervento modificativo del giudice al fine di realizzare un «interesse oggettivo dell’ordinamento» (così l’inciso contenuto in Cass. 23 maggio 2003, n. 8188, in Dir. e giur., 2004, pp. 104 ss.). Un giudizio positivo è invece offerto da F. Galgano, La categoria del contratto alle soglie del terzo millennio, in Contratto e impr., 2000, pp. 925 s., il quale rileva come la Suprema corte abbia accolto una visione moderna del contratto, basata sulle concezioni oggettivistiche volte a garantire la congruità dello scambio contrattuale. In merito agli argomenti adoperati dal giudice di legittimità, cfr. anche gli ulteriori riferimenti dottrinali offerti da M. Grondona, Buona fede e solidarietà; giustizia contrattuale e poteri del giudice sul contratto: annotazioni a margine di un obiter dictum della Corte di cassazione, in Riv. dir. comm., 2003, II, pp. 242 ss. Nel medesimo torno di tempo, una presa di posizione decisa, in senso contrario nei confronti di un generalizzato intervento del giudice, è quella di P. Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, in Giur. it., 1999, p. 231: «in linea di principio […] il giudice “non può mettere i piedi nel piatto” e modificare d’imperio le condizioni dello scambio, neppure quando lo faccia allo scopo di assicurare la “giustizia” sostanziale della transazione».

[50] Nel quinquennio successivo alla prima sentenza del 1999, la nuova interpretazione dell’art. 1384 cc veniva seguita soltanto da Cass. 23 maggio 2003, n. 8188, cit. In senso contrario, decisioni rese da diverse sezioni ritenevano di non poter prescindere da un atto di iniziativa del debitore: cfr. Cass. 30 maggio 2003, n. 8813, Foro it., Rep. 2003, voce Contratto in genere, n. 445; Cass. 4 aprile 2003, n. 5324, ibid., n. 447; Cass. 5 agosto 2002, n. 11710, in Contratti, 2003, p. 336; Cass. 19 aprile 2002, n. 5691, Foro it., Rep. 2003, voce cit., n. 458; Cass. 27 ottobre 2000, n. 14172, in Foro it., 2001, I, 2924.

[51] Cass., sez. un., 13 settembre 2005, n. 18128, in Foro it., 2005, I, 2985; in Corr. giur., 2005, p. 1534 ss., con nota di A. di Majo, La riduzione della penale ex officio.

[52] Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726, in Foro it., 2008, I, 1514, con nota di A. Palmieri e R. Pardolesi, Frazionamento del credito e buona fede inflessibile, la quale fonda la decisione anche sul principio della «ragionevole durata del processo», di cui all’art. 111 Cost., in quanto il frazionamento del credito può produrre un effetto inflattivo riconducibile alla moltiplicazione di giudizi «per l’evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della correlativa durata». Sottolinea l’importanza del richiamo all’art. 111 Cost. per il superamento del precedente di segno contrario risalente alla nota sentenza delle Sezioni unite n. 108 del 2000, M. De Cristofaro, Infrazionabilità del credito tra buona fede processuale e limiti oggettivi del giudicato, in Riv. dir. civ., 2008, II, 335 ss.; contra, ritenendo che tra i parametri invocati, l’art. 111 Cost. «sembra quello meno influente», T. Dalla Massara, La domanda frazionata e il suo contrasto con i principi di buona fede e correttezza: il «ripensamento» delle Sezioni unite, ivi, 345 ss., spec. 349. Per un inquadramento della questione particolarmente autorevole, si può rinviare alle meditate pagine di P. Rescigno, L’abuso del diritto (una significativa rimeditazione delle Sezioni unite), in Corriere giur., 2008, 745, il quale riprende il tema, poco dopo, in Un nuovo caso di abuso del diritto, in Giur. it., 2011, 795 (nota a Cass. 31 maggio 2010, n. 13208, ove si afferma che l’apprezzamento della slealtà del comportamento della parte che invochi la risoluzione del contratto per inadempimento si ripercuote sulla valutazione della gravità dell’inadempimento stesso, nel caso in cui tale soggetto abusi del suo diritto potendo comunque realizzare il suo interesse senza ricorrere al mezzo estremo dell’ablazione del vincolo; in applicazione di tale principio, la Suprema corte cassa la sentenza impugnata, che aveva dichiarato risolto per morosità un contratto di locazione, senza tener conto che il locatore avrebbe potuto compensare il suo credito con il maggior debito esistente nei confronti del conduttore).

[53] Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, in Foro it., 2010, I, 85, con nota di A. Palmieri e R. Pardolesi, Della serie «a volte ritornano»: l’abuso del diritto alla riscossa.

[54] Si può rinviare, riassuntivamente, al volume che raccoglie alcuni commenti della sentenza (dapprima pubblicati sulle principali riviste giuridiche) a cura di S. Pagliantini, Abuso del diritto e buona fede nei contratti, Torino, 2010. Nel senso che «i toni accesi» dei commentatori con riguardo alla sentenza in esame costituiscono una delle poche reazioni degli studiosi avverso la tendenza dei giudici «a farsi dottrina», assumendo uno stile «inutilmente “dottorale”», si veda tra gli altri F. D. Busnelli, Verso una giurisprudenza che si fa dottrina. Considerazioni in margine al revirement della Cassazione sul danno da c.d. «nascita malformata», in Riv. dir. civ., 2013, pp. 1527 ss.

[55] In particolare, meritano menzione i passaggi in cui la Corte dichiara che «[i]l principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il contratto nel suo svolgimento, dalla formazione all’esecuzione, e, essendo espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell’ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche» e se ne trae la conseguenza che «[i]l criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il giudice, finalizzato al controllo – anche in senso modificativo o integrativo – dello statuto negoziale; e ciò quale garanzia di contemperamento degli opposti interessi». Cfr. E. Navarretta, Diritto civile e diritto costituzionale, in Riv. dir. civ., 2012, I, pp. 651 s., secondo la quale alcuni obiter dicta della sentenza sull’«abuso del diritto» mostrerebbero i «segni del declino del metodo» del richiamo alla norma costituzionale nell’ambito dei rapporti contrattuali. Il frequente riferimento al dovere di solidarietà sembra adoperato per fondare interpretazioni innovative, volte a consentire interventi incisivi del giudice sul regolamento contrattuale. Sulla stessa linea, si veda Cass. 1° aprile 2011, n. 7557, in Giur. it., 2012, pp. 543 ss., la quale, nel valutare se un contratto atipico sia diretto a perseguire interessi meritevoli di tutela, utilizza come parametro le norme costituzionali per verificare l’equilibrio tra le prestazioni contrattuali.

[56] N. Lipari, Valori costituzionali e procedimento interpretativo, cit., p. 865; più di recente, ritornando sul tema in Intorno alla “giustizia” del contratto, cit., spec. pp. 39 s., l’illustre A. ritiene che «nell’esperienza giuridica contemporanea, va emergendo, anche se in maniera non sempre uniforme, una tendenza a considerare il contratto anche come strumento di giustizia distributiva», anche se ciò accadrebbe «in un quadro che è davvero difficile definire in termini puntuali» (p. 43).

[57] Cass. 6 maggio 2016, n. 9140, in Foro it., 2016, I, 2014.

[58] Per scrupolo, si ricorda che, nella motivazione, vengono richiamate: Cass. 10 novembre 2010, n. 22819, in Nuova giur. civ., 2011, I, p. 355; Cass. 22 gennaio 2009, n. 1618, in Obbligazioni e contratti, 2010, p. 24; Cass., sez. un., 25 novembre 2008, n. 28056, id., Rep. 2008, voce Obbligazioni in genere, n. 69.

[59] Corte cost. n. 77 del 2014, in Foro it., 2014, I, 2035, e n. 248 del 2013, ibid., p. 382.

[60] Non è certo un caso – ancor meno l’esito di un’imperdonabile dimenticanza – che nell’opera didattica che ha formato un’intera generazione di studenti e poi studiosi civilisti, ossia le «Dottrine generali del diritto civile» di Francesco Santoro-Passarelli, il tema non sia sostanzialmente trattato, essendo stato ritenuto, evidentemente, irrilevante ai fini della ricostruzione delle categorie e dei concetti rilevanti nel diritto civile.

[61] Si veda, in tempi recenti, il meditato saggio di N. Irti, La crisi della fattispecie, in Riv. dir. proc., 2014, p. 41; nonché dello stesso A., Calcolabilità weberiana e crisi della fattispecie, in Riv. dir. civ., 2014, p. 36; e ancora, Un diritto incalcolabile, in Riv. dir. civ., 2015, p. 11.

[62] Potrebbe essere considerata un’esemplificazione abbastanza emblematica, nella vicenda giurisprudenziale esaminata, la tendenza manifestatasi (e che invero potrebbe ulteriormente svilupparsi) in seno alla giurisprudenza di merito, a riconoscere, in forza della clausola generale di buona fede, l’obbligo di rinegoziare le condizioni del contratto in presenza di un mutamento rilevante della situazione di fatto o di diritto, rispetto a quella contemplata dal regolamento originario: gli ambiti delle controversie sono diversi ed eterogenei, come dimostrano Trib. Bologna, 24 aprile 2013, inedita; Trib. Bari, ord. 31 luglio 2012, in Foro. it., 2013, I, pp. 375 ss.; Trib. Bari, ord. 14 giugno 2011, in Contratti, 2012, p. 571; Trib. Ravenna 11 maggio 2011, in Dir. maritt., 2013, p. 642.

[63] La massima della già richiamata Corte cost., 248/2013 recita: «È manifestamente inammissibile, per carente motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza ed alla rilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1385, 2° comma, cc, nella parte in cui non dispone che il giudice possa equamente ridurre la somma da ritenere, nell’ipotesi in cui il contraente che ha dato la caparra confirmatoria sia inadempiente, o quella pari al doppio da restituire, nell’ipotesi inversa in cui sia inadempiente il contraente che l’ha ricevuta, ove risulti la manifesta sproporzione o sussistano giustificati motivi, in riferimento all’art. 3, 2° comma, Cost.». Per inquadrare correttamente la delicata quaestio iuris, non andrebbe trascurata la lettura dell’ordinanza di rimessione (Trib. Tivoli, ord. 10 ottobre 2012, in Foro. it., 2013, I, pp. 1023 ss.) dalla quale si ricava che, nell’ambito di un contratto preliminare di compravendita relativo ad un immobile, il promissario acquirente aveva consegnato una caparra confirmatoria di € 150.000,00, a fronte del prezzo complessivo pari a € 510.000,00. Si noterà ancora che, nel rimettere la questione di legittimità alla Corte costituzionale, il Giudice di Tivoli aveva rilevato, sul piano prettamente metodologico, il condizionamento derivante dal divieto di applicazione (analogica) dell’art. 1384 cc, alla luce del carattere eccezionale della norma.

[64] Tra gli altri, va segnalato, soprattutto per i richiami ad altre esperienze giuridiche sullo stesso tema, il commento di F.P. Patti, Il controllo giudiziale della caparra confirmatoria, in Riv. dir. civ., 2014, I, p. 685; altri pregevoli commenti sono quelli di F. Astone, Riduzione della caparra manifestamente eccessiva, tra riqualificazione in termini di «penale» e nullità per violazione del dovere generale di solidarietà e di buona fede, in Giur. costit., 2013, p. 3770 e di G. D’Amico, Applicazione diretta dei principi costituzionali e nullità della caparra confirmatoria “eccessiva”, in Contratti, 2014, p. 927. Pochi mesi dopo, nello stesso senso, appare la già ricordata l’ordinanza ‘gemella’ resa da Corte cost. 77/2014 (che in Foro it., 2014, I, p. 2036, è presentata con le note di E. Scoditti, Il diritto dei contratti fra costruzione giuridica e interpretazione adeguatrice; R. Pardolesi, Un nuovo super-potere giudiziario: la buona fede adeguatrice e demolitoria; G. Lener, Quale sorte per la caparra confirmatoria manifestamente eccessiva?

[65] Il riferimento è al denso e raffinato saggio di G. D’Amico, Applicazione diretta dei principi costituzionali e integrazione del contratto, in Giust. civ., 2015, pp. 247 ss., spec. pp. 253 ss., ove si analizzano le forme e i limiti entro cui le norme costituzionali possono contribuire alla costruzione del regolamento contrattuale (attraverso la tecnica dell’integrazione ex lege), alla luce della necessaria distinzione tra principi e regole, negando che obblighi «integrativi» possano essere «individuati/individuabili dal giudice (necessariamente dopo la conclusione del contratto) sulla base di “principi costituzionali” di ampio e indeterminato contenuto [corsivi nel testo: n.d.r.]», dal momento che in tal modo «si apre la porta alla possibilità di creazione di obblighi (e di correlativi diritti) del tutto imprevedibili, e tali comunque da mettere in discussione qualsiasi assetto negoziale (anche se concordato in maniera del tutto corretta) che sia stato convenzionalmente pattuito» (p. 268). In tal senso, con estrema coerenza, l’A. afferma la «impossibilità di considerare la (clausola generale della) ‘buona fede’ come una fonte di integrazione del contratto» (p. 269). Si noterà che lo stesso A. aveva già criticato il ragionamento della Consulta nell’appena menzionato lavoro Applicazione diretta dei principi costituzionali e nullità della caparra confirmatoria “eccessiva”, cit., evidenziando la gravità delle conseguenze che potrebbe comportare, sul sistema del diritto contrattuale, l’idea (della violazione) del principio costituzionale – nel caso di specie, la «solidarietà sociale» ex art. 2 Cost. – quale criterio di validità e dunque presupposto della nullità virtuale di un contratto tra privati. Il tema viene ripreso, con ulteriori argomenti e spunti di approfondimento, dall’A., nel recentissimo contributo, Principi costituzionali e clausole generali: problemi (e limiti) nella loro applicazione nel diritto privato (in particolare nei rapporti contrattuali), in Giust. civ., 2016, p. 443.

[66] Le ordinanze di rimessione pongono in luce l’esigenza avvertita dagli operatori del mercato di salvaguardare il dispiegarsi dell’autonomia contrattuale nei confronti dell’interventismo statale nell’economia. Invocando il secondo e il terzo comma dell’art. 41, ed effettuando un bilanciamento tra i diversi valori tutelati dalla Carta fondamentale, la Corte si astiene dall’intervenire sulla normativa in ossequio ai principi della cd. «discrezionalità legislativa». Corte cost. 26 gennaio 1957, n. 29, in Giur. costit., 1957, 404; Corte cost. 23 aprile 1965, n. 30, in Giur. costit., 1965, p. 283; Corte cost. 21 marzo 1969, n. 37, in Giur. costit., 1969, p. 461. Nella dottrina degli anni Sessanta, si veda M. Giorgianni, Le norme sull’affitto con canone in cereali. Controllo di costituzionalità e di «ragionevolezza» delle norme speciali?, in Giur. costit., 1962, pp. 82 ss., spec. p. 93; per l’affermazione, secondo cui «alla libertà contrattuale è possibile risalire solamente dalla garanzia di altri istituti, e specificamente dalle norme sulla iniziativa economica privata e la proprietà privata», v. P. Rescigno, L’autonomia dei privati, cit., p. 15; per un’applicazione del principio si veda Corte cost. 30 giugno 1994, n. 268, in Foro it., 1994, I, p. 2307, ove si afferma che l’autonomia contrattuale dei singoli è tutelata a livello di Costituzione solo indirettamente, in quanto strumento di esercizio di libertà costituzionalmente garantite e, nella specie, rileva come il lavoratore che stipuli un contratto di lavoro subordinato con un imprenditore non assume, per parte sua, una iniziativa economica, bensì accetta di essere inserito nell’organizzazione produttiva costituita dall’iniziativa della controparte. L’espansione delle limitazioni poste all’autonomia privata per il raggiungimento di finalità di ordine sociale per mezzo dell’intervento dei poteri pubblici, attraverso la determinazione del contenuto del contratto ovvero ponendo obblighi di contrattare, induceva parte della dottrina a discorrere di «crisi del contratto», evidenziandosi il definitivo superamento della concezione ottocentesca, propria del Code civil e della prima codificazione italiana, secondo cui il contratto rappresentava l’espressione della «volontà dell’individuo» e l’autonomia contrattuale costituiva «il riverbero – sul piano giuridico formale – di un sistema fondato sulla libertà economica, ovverosia del disinteresse dello Stato per le vicende patrimoniali dei soggetti, affidate esclusivamente all’iniziativa dei singoli individui» (M. Giorgianni, La crisi del contratto nella società contemporanea, in Riv. dir. agr., 1972, I, pp. 381 ss.).

[67] Anche in queste ipotesi, la Consulta non ha avuto particolari difficoltà nel dichiarare l’infondatezza delle questioni sollevate, ad esempio, avverso l’art. 1462, 1° comma, cc (con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.), valorizzando il fondamento della disposizione nel «principio dell’autonomia negoziale» e richiamandosi alla «disciplina costituzionale che garantisce la libertà dell’iniziativa economica privata, indicandone al tempo stesso i precisi limiti», non senza affermare che l’inattaccabilità della disposizione, anche ove si consideri la situazione di inferiorità del contraente meno abbiente di fronte a quello più facoltoso, è connessa all’ampiezza del potere discrezionale di cui gode il giudice nell’applicazione della norma per evitare che si producano effetti abnormi o iniqui: Corte cost. 12 novembre 1974, n. 256, in Giur. it., 1975, p. 1177.

[68] Corte cost. 22 aprile 1980, n. 60, in Giur. it., 1980, 1361, con nota di E. Quadri, Considerazioni sull’intervento della Corte Costituzionale in materia di “valori” monetari. É invece nella materia delle locazioni, in particolare di immobili adibiti ad uso non abitativo, che la Corte si è più d’una volta pronunciata, anche dichiarando l’illegittimità costituzionale di disposizioni censurate per violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost.: Corte cost. 23 dicembre 1987, n. 577, in Giur. costit., 1987, I, p. 3579; Corte cost. 18 dicembre 1987, n. 562, in Foro it., 1988, I, p. 710; Corte cost. 14 dicembre 1989, n. 542, in Giust. civ., 1990, I, p. 616; Corte cost. 3 giugno 1992, n. 242, in Foro it., 1992, I, p. 2324.

[69] Corte cost. 15 maggio 1990, n. 241, cit.

[70] Corte cost. 3 febbraio 1994, n. 19, in Giur. costit., 1994, p. 136, ove si affermava, in relazione allo specifico adempimento, che se l’interesse del creditore entra in conflitto con un interesse del debitore tutelato dall’ordinamento giuridico o dalla Costituzione come valore preminente o, comunque, superiore a quello sotteso alla pretesa creditoria, «l’inadempimento, nella misura e nei limiti in cui sia necessariamente collegato all’interesse di valore preminente, risulta giuridicamente giustificato».

[71] Per tutti, G. D’Amico, Applicazione diretta dei principi costituzionali e nullità della caparra confirmatoria “eccessiva”, cit., 2014, p. 927, il quale aveva, già in passato, ben chiarito che una regola di validità non può essere desunta «dal giudice in sede di concretizzazione della clausola generale di buona fede»: cfr. dello stesso A., Nullità virtuale – Nullità di protezione (Variazioni sulla nullità), in Le forme della nullità, a cura di S. Pagliantini, Torino, 2009, p. 8; nello stesso senso, da ultimo, ribadisce il concetto, E. Navarretta, Il contratto “democratico” e la giustizia contrattuale, cit., p. 1268, nonostante il ‘plusvalore’ apportato dal richiamo alla solidarietà costituzionale, che «può certo potenziare sul piano dei valori la clausola di buona fede, ma non può conferirle una generale funzione destruens che non appartiene alla stessa solidarietà».

[72] E. Scoditti, Il diritto dei contratti fra costruzione giuridica e interpretazione adeguatrice, cit., p. 2037.

[73] Come accade in diversi altri ordinamenti, a cominciare da quello tedesco: si veda, per il pregevole approfondimento comparatistico, F. P. Patti, Il controllo giudiziale della caparra confirmatoria, cit., pp. 696 ss.

[74] In tal senso, da ultimo, G. Lener, Quale sorte per la caparra confirmatoria manifestamente eccessiva?, cit., p. 2047, anche se, con una recentissima sentenza della Suprema corte questa possibilità è stata negata, con sommaria motivazione, che non dà neanche conto delle appena ricordate pronunce della Corte costituzionale, orientate nella direzione esattamente opposta, in considerazione della (pregiudiziale e non motivata) natura eccezionale della norma in tema di clausola penale: Cass. 30 giugno 2014, n. 14776, in Foro it., 2015, I, p. 1040, ove è riportata con la seguente massima, che dà conto anche della vicenda concreta: «posto che le differenze, sul piano strutturale e funzionale, tra la clausola penale e la caparra confirmatoria impediscono l’applicazione analogica a quest’ultima della norma, da ritenersi eccezionale, che consente la riduzione della penale manifestamente eccessiva, va cassata senza rinvio la sentenza di appello che abbia proceduto alla riduzione d’ufficio della caparra in quanto ritenuta eccessiva» (nella specie, si deve ricordare la vicenda: a fronte di una condanna, in primo grado, a pagare il doppio della caparra pattuita per un totale di 180 milioni di lire, la Corte di appello aveva ridotto a 10.000 euro la somma che la parte ricevente la caparra avrebbe potuto trattenere).

[75] Per lo sviluppo di questa elaborazione concettuale, indotta dall’insolita e, soprattutto, inattesa apertura della Consulta, si veda ancora E. Scoditti, Il diritto dei contratti fra costruzione giuridica e interpretazione adeguatrice, cit., p. 2039.

[76] Si noti, tuttavia, quanto scrive, all’esito della riflessione e del tutto correttamente, G. Zagrebelsky, Il giudice delle leggi artefice del diritto, Editoriale Scientifica, Napoli, 2007, p. 53, a proposito della giurisprudenza costituzionale: «Se essa, così spesso, ci appare creativa di diritto, è solo perché il nostro punto di vista è, malgrado tutto, un punto di vista parziale che coincide con l’identificazione del diritto con la legge. Una volta che la prospettiva cambi e si arricchisca – continua l’A. –, la creatività, sempre sospetta agli occhi del positivista legalista, cederebbe il passo alla più adeguata idea della costruzione del diritto come realtà complessa».

[77] Sul punto, fondamentali punti di partenza per la riflessione che qui si è tentato di sviluppare, in considerazione del grande spessore culturale e argomentativo della trattazione, oltre che dell’autorevolezza degli studiosi, sono i contributi di N. Lipari, Ancora sull’abuso del diritto. Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, cit., e, all’opposto per l’impostazione metodologica e le conclusioni, di L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, in questo numero della Rivista.

[78] Per una magistrale trattazione del tema, interamente ripensato, con particolare riferimento alla cultura e agli indirizzi metodologici della civilistica, si veda il saggio di N. Lipari, I civilisti e la certezza del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, pp. 1115 ss.

[79] In tal senso, s’è detto, il ragionamento di G. Lener, Quale sorte per la caparra confirmatoria manifestamente eccessiva?, cit., 2047, in sintonia con studi più risalenti (cfr. ad esempio A. Zoppini, La pena contrattuale, Milano, 1991, p. 287), ma anche recenti, F.P. Patti, Caparra confirmatoria e riduzione giudiziale, in Enciclopedia Treccani.it.

[80] Tra gli altri, autorevolmente e in tempi non sospetti, P. Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in Il diritto dei contratti fra persona e mercato, Napoli, 2003, pp. 450 ss.

[81] Si veda anche la critica svolta da E. Navarretta, Il contratto “democratico” e la giustizia contrattuale, cit., p. 1272, la quale correttamente stigmatizza tale impostazione rigidamente formalista, considerandone le potenziali conseguenze in termini di «nuove fughe, magari scomposte, verso una maggiore giustizia sostanziale».

[82] Cfr. supra, nt. 71.

[83] Ci si permette di rinviare sul tema al commento di chi scrive alla ricordata Cass. 14776/2014: F. Macario, La (ir)riducibilità della caparra (eccessiva) e il (mancato) dialogo tra le corti, in Foro it., 2015, I, p. 1040.

[84] Cui si riconosce, in dottrina, la tutela forte offerta, non soltanto dall’art. 41 Cost., ma anche dall’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, con una forma di «garanzia che si frappone ad interpretazioni capaci di minacciare l’essenza e l’esistenza stessa dell’istituto contrattuale». In questi termini, da ultimo, E. Navarretta, Il contratto “democratico” e la giustizia contrattuale, cit., p. 1270; della stessa A., Diritto civile e diritto costituzionale, in Riv. dir. civ., 2012, p. 666; nonché L’evoluzione dell’autonomia contrattuale fra ideologia e principi, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico, Milano, 2014, p. 609.

[85] G. D’Amico, Applicazione diretta dei principi costituzionali e nullità della caparra confirmatoria “eccessiva”, cit., 936, il quale paventa l’esito «eversivo» del ragionamento in termini generali, nel senso che tale diritto «giurisprudenziale» all’insegna dell’equità possa sentirsi legittimato a «derogare al primo [quello scritto, fondato sulla legge, n.d.r.] ogni qualvolta le caratteristiche del caso concreto segnalino come “ingiusto” l’esito che in base ad esso dovrebbe essere sancito»; dello stesso A., Ancora su buona fede e abuso del diritto - Una replica a Galgano, in Contratti, 2011, p. 653.

[86] F. Santoro-Passarelli, A proposito del “diritto vivente”, in Ordinamento e diritto civile. Ultimi saggi, Napoli, 1988, pp. 41 ss.

[87] Ad esempio, M. Mazziotti, Osservazioni all’ordinanza n. 128 del 1957, in Giur. cost., 1957, p. 1226; successivamente, A. Pugiotto, Sindacato di costituzionalità e «diritto vivente». Genesi, uso ed implicazioni, Milano, 1994, p. 5.

[88] L. Mengoni, Il diritto vivente come categoria ermeneutica, in Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, pp. 141 ss., e già Diritto vivente, voce del Digesto, civile, VI, Torino, 1990, pp. 445 ss.; sul versante costituzionalistico, A. Pugiotto, Sindacato di costituzionalità e «diritto vivente», cit.; G. Zagrebelsky, La dottrina costituzionale del diritto vivente, in Giur. costit., 1986, I, p. 1148; Id., Il sistema delle fonti del diritto, Torino, 1984, p. 89.

[89] L. Mengoni, ibid., sulla scia dell grande sociologo del diritto Eugen Ehrlich, il quale nel 1920 distingueva, nel trattare il tema dei rapporti, fra «Gesetz und lebendes Recht», mentre nella dottrina italiana l’espressione sembrerebbe accolta fra i primi da A. Scialoja, La sistemazione scientifica del diritto marittimo, in Riv. dir. comm., 1928, I, p. 4, benché l’idea di fondo sia piuttosto quella della cosiddetta «law in action», idealmente contrapposta a quella di «law in books», secondo la nota prospettazione di R. Pound, Law in Books and Law in Action, in 44 American Law Rev., 1910, pp. 12 ss..

[90] L. Mengoni, cit., p. 148.

[91] Si tratta del Richterrecht, spesso chiamato in causa dalla dottrina tedesca, che invece non ricorre, dopo l’insegnamento di E. Ehrlich, con frequenza alla formula del «diritto vivente», ossia lebendes Recht (L. Mengoni, cit., 151, nt. 32); in argomento, per ricostruire storicamente lo scenario culturale, non può prescindersi dalle densissime pagine di A. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche. Il concetto del diritto, 6 ed. ampliata, Milano, 2008, spec. 142 ss., trattando delle «tendenze antiformalistiche del sociologismo giuridico», che tendono a collocare la realtà giuridica nel costume e nei fatti sociali, ponendo così i fondamenti teorici per lo sviluppo della moderna sociologia del diritto. 

[92] L. Mengoni, cit., p. 149, secondo il quale interrogarsi sul diritto vivente significa porsi un problema di ermeneutica giuridica afferente proprio ai rapporti tra il giudice e la legge.

[93] L. Mengoni, cit., p. 150.

[94] L. Mengoni, cit., ibid.

[95] L. Mengoni, cit., p. 153, il quale si rifà, come del resto tutti coloro i quali hanno affrontato il tema, a T. Ascarelli, Giurisprudenza costituzionale e teoria dell’interpretazione, in Riv. dir. proc., 1957, p. 351 e 357, anche in Problemi giuridici, I, p. 144, nonché In tema di interpretazione della legge, ibid., p. 157, in relazione al vincolo della «continuità», quale limite alla libertà dell’interprete che trova, in ogni caso, nel sistema ossia nella coerenza sistematica il requisito non eludibile dell’argomentazione giuridica.

[96] La Cassazione discorre di «difformi indirizzi ermeneutici, peraltro, più che fronteggiarsi (come in taluni momenti pur è avvenuto) in termini di radicale contrasto sul piano sincronico, hanno tendenzialmente, piuttosto, espresso, in prospettiva diacronica, un’evoluzione, per aggiustamenti successivi, di una linea interpretativa, sostanzialmente unitaria nelle sue premesse di fondo, secondo la dialettica di formazione del diritto vivente» (così Cass., sez. un., 23 aprile 2001, n. 172, in Foro it., 2002, I, p. 151). Si ricorderà che la formula compare in numerose decisioni, dopo il suo esordio nel 1974 (dopo un accenno nel 1974, con Corte cost. 19 giugno 1974, n. 176, in Giust. civ., 1974, III, p. 348 e 27 dicembre 1974, n. 286, in Foro it., 1975, I, p. 262, l’affermazione del concetto avviene con la sentenza 30 luglio 1980, n. 143, in Giur. costit., 1980, I, p. 1203), tanto nella motivazione, quanto talvolta anche nelle massime, ma si rinvengono espressioni simili, come ad esempio «Costituzione vivente» (si afferma che «il valore costituzionale della terzietà ed imparzialità del giudice indubbiamente già acquisito nella ‘Costituzione vivente’ e nella stessa giurisprudenza della Corte costituzionale»: così Corte cost., ord. 167/2001), o ancora «norma vivente« (V. Crisafulli, voce Disposizione (e norma), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, p. 207), tutte riferibili all’idea, ben esplicitata anche dalla Corte, secondo la quale «l’interpretazione della disposizione legislativa è essenzialmente compito del giudice, a tutti i livelli: avendo invece la Corte la funzione di porre a confronto la norma, nel significato comunemente ad essa attribuito, con le disposizioni della Costituzione, per rilevarne eventuali contrasti e trarne le conseguenze sul piano costituzionale» (Corte cost. 28 maggio 1975, n. 129, in Foro it., 1975, I, p. 2178). Si può dire che sia una convinzione ferma quella per cui «le norme vivono nell’ordinamento nel contenuto risultante dall’applicazione fattane dal giudice» (Corte cost. 8 aprile 1976, n. 75, in Giur. cost., 1976, I, p. 457), che trova di volta in volta conferma e consolidamento in concetti ed espressioni quali: «l’ormai consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione» (Corte cost. 27 giugno 1997, n. 206, in Foro it., 1997, I, p. 3466); «un approdo interpretativo pressoché incontrastato in giurisprudenza» o una «soluzione interpretativa collaudata tra i giudici» (Corte cost. 3 aprile 1997, n. 77, in Foro it.,1997, I, p. 977); «la norma che effettivamente vive nella concreta realtà dei rapporti giuridici» (Corte cost. 23 maggio 1995, n. 188, in Foro it., 1996, I, p. 464); e ancora, il «concreto atteggiarsi delle norme secondo un ormai cristallizzatosi quadro interpretativo del sistema (…) assetto ermeneutica (…) divenuto parte integrante della disciplina positiva» (Corte cost. 15 marzo 1996, n. 71, in Foro it., 1996, I, p. 1944). Senza dimenticare, peraltro, che la Corte aveva sempre tenuto a ribadire la necessità della contestualizzazione attuale della regola da ricavare in sede interpretativa e applicare al caso concreto, nel senso che «la disposizione di cui trattasi deve essere interpretata, al fine di accertarne la legittimità costituzionale, non nel sistema in cui essa storicamente ebbe nascimento, bensì nell’attuale sistema nel quale vive» (Corte cost. 2 luglio 1956, n. 8, in Foro it., 1956, I, p. 1050).

[97] Il tema, anche in questo caso, richiederebbe un adeguato approfondimento che non può svolgersi in questa sede; converrà pertanto rinviare all’analitica trattazione svolta da G. D’Amico, Principi costituzionali e clausole generali: problemi (e limiti) nella loro applicazione nel diritto privato (in particolare nei rapporti contrattuali), cit., con ampi riferimenti bibliografici, sulla equivalenza o distinzione tra «principi» e «valori», in riferimento al tema dell’effettività delle clausole generali (e alla loro posizione tra «regole» e «principi»).

[98] Tra i più recenti e significativi contributi sul tema nella prospettiva più ampia, ma anche con riferimento alle questioni al centro della presente riflessione, ossia alle vicende giurisprudenziali relative al contratto, si veda N. Lipari, Intorno ai “principi generali del diritto”, in Riv. dir. civ., 2016, p. 27.

[99] Come significativamente mostra il campo delle relazioni familiari lato sensu intese. Sarebbe sufficiente considerare l’area delle «unioni civili» e la regolamentazione negoziale dei contratti o patti sulla convivenza (si vedano le preziose riflessioni in ambito specifico di contratti di convivenza, di L. Balestra, Convivenza more uxorio e autonomia contrattuale, in Giust. civ., 2014, p. 133 e ivi tutti i necessari riferimenti; in chiave anche comparatistica, si veda anche G. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive in Italia e in Europa, Padova, 2012). Che il grande tema dei rapporti tra tutela della persona e disciplina del contratto sia particolarmente complesso da trattare al livello dell’attività legislativa, in tal modo confermando la necessità del supporto del diritto di fonte giurisdizionale, in termini di «giurisprudenza per principi», lo dimostra del resto il recentissimo intervento sui contratti di convivenza, che non riesce ad andare oltre alcune prescrizioni su forma e contenuto dei patti tra conviventi in termini di poco più che «istruzioni per l’uso», senza affrontare i nodi più spinosi della materia, che fanno capo alla problematica dei limiti di validità delle pattuizioni con cui s’intendono regolare ex ante – come accade, evidentemente, in ogni contratto – le conseguenze della cessazione della convivenza, in ipotesi tanto di decisione (o «recesso», per rimanere al dettato legislativo) unilaterale, quanto di decesso del partner (ci si permette di rinviare alle considerazioni svolte, in modo più ampio e articolato, dallo scrivente in Nuove norme sui contratti di convivenza: una disciplina parziale e deludente, in www.giustiziacivile.com).

[100] Si veda la celebre «prolusione» (maceratese, del 1966) di S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, ripubblicata dall’Editoriale Scientifica, Napoli, 2007, con una preziosa «prefazione» intitolata Quarant’anni dopo, ove nel tracciare quello che riduttivamente definisce «un bilancio sbrigativo», l’A. sottolinea che “una piccola battaglia è stata vita. Le clausole generali – continua l’A. – sono divenute un elemento stabile del panorama giuridico”, mentre, per altro verso, «[l]a forza delle cose (…) impone una attenzione continua per il ruolo del giudice, tramite necessario per concretizzare principi e clausole generali».  

[101] N. Lipari, Ancora sull’abuso del diritto, cit., in questo fascicolo della Rivista.

[102] P. Grossi, Il diritto tra potere e ordinamento, Napoli, 2005, pp. 54 ss.

[103] P. Grossi, Introduzione al Novecento giuridico, Roma-Bari, 2012, pp. 112 s., il quale conclude tuttavia positivamente, e dunque in tono fiducioso, ricordando il compito del giurista, «oggi indubbiamente faticoso e può darsi che lo assalga lo sgomento generato dall’incertezza, dalla fluidità, dalla complessità. È più facile nuotare in uno stagno immobile – con espressione metaforica colorita e plastica – che in una corrente rapida e vorticosa. L’essenziale è irrobustirsi i muscoli» (p. 117).

[104] Per una rassegna di riflessioni, da parte di alcuni tra i più autorevoli civilisti del nostro tempo, sul ruolo attuale della cultura gius-positivistico, nell’ambito di una tavola rotonda (intitolata: La ‘grande dicotomia’: diritto positivo-diritto naturale), svoltasi in occasione dell’attribuzione della laurea honoris causa al prof. Angelo Falzea, dall’Università di Siena (il 6 marzo 2006), si veda la raccolta dei contributi, AA.VV., Oltre il “positivismo giuridico”. In onore di Angelo Falzea, a cura di P. Sirena, Napoli, 2011; raccolta introdotta dalla relazione di A. Falzea, Complessità giuridica, ove il grande Maestro messinese svolge le sue considerazioni sul rapporto tra la scienza giuridica e la teoria della complessità (nata in ambito matematico e poi applicata alle scienze della materia e della vita), poi pubblicate anche in forma di “voce” enciclopedica, negli Annali dell’Enciclopedia del diritto.  

[105] È noto che, in astratto le opzioni che al giurista si pongono sono, anche in questo caso in estrema e riduttiva sintesi, quelle: (a) della pura esegesi della disposizione, assumendola nella sua frammentarietà, isolabilità e, soprattutto, nella sua vigenza assicurata dal rispetto dei procedimenti di produzione della norma e dunque dalla sua validità formale; (b) all’opposto, quella dell’ermeneutica, ove rileva in primo luogo il contesto (normativo e non solo), ossia i modi in cui i fatti si rapportano alla disposizione normativa, secondo il sentire comune della società in cui il precetto è destinato a operare, così incorporando tutto quanto sia caratterizzato dall’effettività in un dato contesto sociale; (c) in una diversa dimensione, si colloca la tendenza a concedere spazio alla creatività dell’interprete, libero di attribuire alla disposizione normativa il senso che appaia adeguato alle circostanze e al raggiungimento di un dato risultato «di giustizia».

[106] Anche in questo caso, è davvero illuminante, ma si sarebbe tentati di dire imprescindibile, la lettura delle pagine di A. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche, cit., spec. pp. 36 ss. (secondo capitolo), ove si confrontano le concezioni del valore giuridico come «valore ideale» e, rispettivamente, come «valore reale».

[107] Al contempo, si tratta di una «vocazione contemporanea, pur essendo una continuazione del costituzionalismo moderno: sta nella coesistenza, non a caso già immanente a un tale confronto, dell’immagine del diritto quale apparato di tutele e di diritti garantiti con l’immagine del diritto quale mezzo di liberazione da condizioni fattualmente minorate; è coesistenza fra l’effettiva difesa di diritti-limite (rispetto a poteri prevaricanti, pubblici e privati) e l’affermazione dei diritti-sviluppo, per definizione conformi a istanze di emancipazione» – riportando ancora le parole di Umberto Breccia, il quale suggerisce la «rilettura» delle pagine memorabili di Max Weber, nella prospettiva sociologica, e di Hans Kelsen, in quella di «dottrina pura del diritto», per comprendere come qualsiasi ricostruzione, seppure caratterizzata da una delle due prospettive, prima facie antitetiche, dovesse trovare il suo compromesso, nella razionalità di un discorso giuridico che non può rinunciare alle forme certe, ma al contempo non può rimanere ingabbiato nel dogma del monismo statalistico (così U. Breccia, Immagini della giuridicità contemporanea tra disordine delle fonti e ritorno al diritto, in Politica dir., 2006, p. 371, di cui non possono non ricordarsi anche studi più risalenti sul tema: ad esempio, L’interprete tra codice e nuove leggi civili, sempre in Politica dir., 1982, pp. 571 ss., ora anche nella raccolta Immagini del diritto privato, I, Teoria generale, fonti, diritti, Scritti di Umberto Breccia, Torino, 2013, p. 154, ove si discorre di «messa in discussione» della legge alla luce di principi costituzionali).

[108] Non a caso, si è voluto ricordare l’importante contributo di A. Falzea, Complessità giuridica, nel volume AA.VV., Oltre il “positivismo giuridico”, cit. (affidato dall’A. anche a un’apposita “voce” negli Annali dell’Enciclopedia del diritto). 

[109] U. Breccia, Immagini della giuridicità contemporanea, cit. 2006, 380, aggiungendosi che «[d]al lato della complessità, fa capo a criteri di composizione dei conflitti che includono diversi livelli, fattuali e legali, di competenza e di gerarchia delle norme, ma – qui sta la peculiarità nuova della complessità – in ultima analisi restano affidati non tanto a un principio supremo o una metanorma di segno procedurale quanto al riconoscimento da parte dell’interprete nazionale della coesistenza necessaria con un giudice sovranazionale il cui precedente ha di fatto forza vincolante e comporta gravi problemi di conflitto con la legislazione nazionale fino a indurre a trovare un criterio di composizione che non è tuttavia codificato in maniera certa e che include gerarchie non formali e circolarità non codificate».

[110] Per riprendere il titolo di un prezioso e recente contributo di P. Grossi, Sull’odierna “incertezza” del diritto, in Giust. civ., 2014, pp. 4 ss.; ma si veda, in precedenza, anche G. Alpa, La certezza del diritto nell’età dell’incertezza, Napoli, 2006.

[111] In forma sintetica, ma in ogni caso efficace, M. Corsale, voce Certezza del diritto (I, Profili teorici), in Enc. giuridica Treccani, VI, Roma, 1988, 1.

[112] Così M. Corsale, voce Certezza del diritto, cit., p. 2, secondo cui «l’identificazione del problema della certezza con quello della codificazione, o più in generale, delle tecniche legislative, ha fornito il taglio di gran lunga predominante nell’impostazione del nostro problema fino ai nostri giorni».

[113] M. Corsale, voce Certezza del diritto, cit., p. 3, che sottolinea come, in queste condizioni «la prevedibilità delle conseguenze giuridiche del proprio agire – essenziale per la ragione calcolante, la quale a sua volta in una società capitalistica tende ad assumere un ruolo predominante – non può essere più garantita ricorrendo alla tradizione e alla giustizia materiale», mentre l’esigenza di certezza come prevedibilità «emerge prepotentemente come esigenza di razionalizzazione formale del diritto».

[114] M. Corsale, voce Certezza del diritto, cit., 4, ragione per la quale l’esperienza anglosassone non appare, di fatto, esportabile, mentre per altro verso è messa in crisi dalle inevitabili modificazioni socio-economiche, che rendono sempre più complessa e articolata l’organizzazione della società e dei rapporti sociali.

[115] Secondo l’insegnamento, allo stato insuperato in termini di chiarezza e rigore argomentativi, di L. Mengoni, L’argomentazione orientata alle conseguenze, in Ermeneutica e dogmatica giuridica. Saggi, Milano, 1996, pp. 91 ss.

[116] N. Lipari, Le fonti del diritto, Milano, 2008, p. 194.

[117] N. Lipari, Le fonti del diritto, cit., p. 195.

[118] S. Cassese, Eclissi o rinascita del diritto?, in Fine del diritto?, a cura di Pietro Rossi, Bologna, 2009, pp. 29-31.

[119] S. Cassese, Eclissi o rinascita del diritto?, cit., p. 36.

[120] M. Fioravanti, Fine o metamorfosi?, in Fine del diritto?, cit., 53, 59, che prende spunto dal lavoro di A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norme nell’era globale, Roma-Bari, 2008. 3; si veda anche G. Zagrebelsky, Il giudice delle leggi artefice del diritto, cit.

[121] M. Fioravanti, Fine o metamorfosi?, cit., p. 62.

[122] P. Rescigno, Pluralità di ordinamenti ed espansione della giuridicità, in Fine del diritto?, cit., pp. 81-83.

[123] P. Rescigno, Pluralità di ordinamenti ed espansione della giuridicità, cit., p. 90.

[124] Il rinvio più significativo è ai già richiamati contributi di N. Irti, La crisi della fattispecie, cit., ed altri successivi sul tema (v. supra).

[125] Si è detto, in tal senso, che occorre, pertanto «una volta per tutte, uscire dai pesanti condizionamenti del positivismo e recuperare il ruolo della conoscenza di senso comune come condizione di validità della regola stessa» (N. Lipari, Intorno alla giustizia del contratto, cit., p. 48); mentre, per altro verso, si fa notare come assuma «forma e consistenza un nuovo e più avanzato modo di intendere la positività del diritto come ‘positività ermeneutica’ (…), quale attività mediatrice che, interponendosi tra lo ius in civitate positum e i fatti della vita» (V. Scalisi, Il diritto naturale e l’eterno problema del diritto ‘giusto’, in Oltre il positivismo giuridico, cit., p. 123, richiamando, assai opportunamente, il fondamentale insegnamento di T. Ascarelli, Antigone e Porzia, in Problemi giuridici, t. 1, Milano, 1959, pp. 12 ss.).