Per una cultura della discrezionalità del pubblico ministero
Il ruolo del pubblico ministero e il tasso di discrezionalità della sua azione istituzionale sono in crescita sia nei Paesi nei quali la discrezionalità è un tratto tipico del sistema di giustizia penale sia negli ordinamenti caratterizzati dal principio di legalità e dalla regola dell’obbligatorietà dell’azione penale. Parallelamente si assiste a un progressivo avvicinamento tra una “discrezionalità” esercitata secondo linee-guida uniformi e una “obbligatorietà” temperata e realistica. Invece di barricarsi dietro il fragile schermo di una astratta concezione dell’obbligatorietà è meglio confrontarsi con la realtà. Nella quale la legittimazione dell’azione del pubblico ministero risiede in un esercizio delle funzioni inquirenti e requirenti indipendente da ogni indebita influenza esterna e armonico con i principi e le regole dello Stato democratico di diritto. Vanno perciò esaminati e discussi gli elementi portanti dell’architettura istituzionale nella quale il pubblico ministero deve correttamente esercitare la sua discrezionalità: il primato delle autorità democratiche nella determinazione di criteri di priorità dell’azione penale; un più netto confine del giudiziario rispetto alla politica e all’amministrazione; l’accettazione di una piena responsabilità sociale e culturale per le scelte compiute; il raccordo dell’ufficio del pubblico ministero con le comunità e le istituzioni locali.
1. Il pubblico ministero nello Stato democratico di diritto / 2. Il ruolo del pubblico ministero cresce ovunque. E ovunque cresce la sua discrezionalità / 3. La discrezionalità del pubblico ministero in Inghilterra e in Galles… / 4. … in Francia / 5. ... e in Germania / 6. Il modello italiano. L’obbligatorietà dell’azione penale e i tre profili della discrezionalità del pubblico ministero / 6.1. La discrezionalità “fisiologica” del pubblico ministero nel procedimento e nel processo / 6.2. La discrezionalità organizzativa / 6.3. La discrezionalità investigativa / 7. Il progressivo avvicinamento tra ordinamenti connotati dal principio di legalità e ordinamenti caratterizzati dal principio di opportunità nell’esercizio dell’azione penale / 8. Il raccordo del pubblico ministero con le istituzioni democratiche. Il nodo della dipendenza dall’esecutivo / 9. La ricerca di nuovi equilibri tra istituzioni democratiche e uffici del pubblico ministero nel caso italiano / 9.1. A chi spetta il compito di tracciare le linee generali della politica criminale / 9.2. Il caso italiano. I criteri di priorità dell’intervento penale / 9.3. Ancora sul caso italiano. Il confine del giudiziario rispetto alla politica e all’amministrazione / 9.4. Modelli organizzativi post-burocratici e la prassi del rendere conto delle attività degli uffici / 9.5. La responsabilità sociale dei capi degli uffici e dei singoli magistrati del pubblico ministero / 9.6. L’interpretazione del proprio ruolo da parte di ogni singolo magistrato del pubblico ministero
1. Il pubblico ministero nello Stato democratico di diritto
In tutti gli ordinamenti democratici il pubblico ministero è una figura istituzionale problematica.
Studiare questo “organo” significa analizzare la sua collocazione istituzionale, il grado di autonomia operativa e di indipendenza dei soggetti che lo compongono e che lo dirigono, le regole che disciplinano il suo potere di iniziativa e di indagine, il suo rapporto con i giudici.
E però, sempre più spesso gli studi sul pubblico ministero non si appagano della descrizione puntuale dei poteri, delle prerogative, dei limiti di azione e delle relazioni con gli altri attori del giudiziario, ma avvertono l’esigenza di spingersi oltre, valutando la posizione di questo ufficio nel contesto dello Stato democratico di diritto.
Agli interrogativi tradizionali si affiancano così, anche nell’analisi più strettamente giuridica, quelli sull’ampiezza dei poteri discrezionali del pubblico ministero e sulle relazioni di tale discrezionalità con l’assetto democratico.
In particolare, ci si chiede a quali condizioni normative e istituzionali, e grazie a quali condotte professionali dei suoi componenti, l’ufficio del pubblico ministero possa meglio operare nel contesto di una moderna democrazia.
E, ancor più specificamente, quali siano il grado di visibilità e trasparenza e la capacità di rendiconto necessari perché il pubblico ministero sia riconosciuto come una figura istituzionale che non contraddice ma completa un assetto della giurisdizione armonico alla architettura dello Stato democratico di diritto.
Si tratta di interrogativi che non meritano di ricevere risposte retoriche e di maniera, fondate su mere petizioni di principio.
Le risposte richiedono, invece, un’attenta osservazione delle norme e della realtà effettuale, del “diritto dei testi” e del “diritto in azione”, delle prassi virtuose e positive e delle disfunzioni, distorsioni e possibili abusi delle molteplici funzioni del pubblico ministero.
Le considerazioni che seguono si snoderanno attraverso passaggi che, per ragioni di chiarezza, è bene esplicitare subito.
In esordio verrà richiamato – ovviamente solo per cenni – il dato della espansione del ruolo e della discrezionalità del pubblico ministero nei principali ordinamenti democratici, Paesi anglosassoni e dell’Europa continentale.
Verrà poi posta una questione che è ancora ben lontana dal ricevere risposte condivise: se il generale processo di espansione della discrezionalità del pubblico ministero non stia determinando il progressivo avvicinamento tra ordinamenti connotati dal principio di legalità e ordinamenti caratterizzati dal principio di opportunità nell’esercizio dell’azione penale.
Il terzo punto di analisi riguarderà il raccordo dell’ufficio del pubblico ministero con le istituzioni democratiche, per discutere se la dipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo o l’investitura elettorale dei capi degli uffici (peraltro limitata ad alcuni Stati della federazione nordamericana) siano strumenti effettivamente capaci di garantire la responsabilità democratica dell’operato del pubblico ministero o non espongano invece a intrusioni e interferenze politiche, esplicite o sotterranee, nelle scelte relative ai singoli procedimenti.
Infine si porrà il tema delle soluzioni normative, delle regole deontologiche e delle prassi istituzionali idonee a garantire la maggiore armonia possibile della figura del pubblico ministero e delle sue molteplici attività con lo Stato democratico di diritto[1].
2. Il ruolo del pubblico ministero cresce ovunque. E ovunque cresce la sua discrezionalità
Il punto di partenza della riflessione è rappresentato da una constatazione, sostenuta e avvalorata da una pluralità di studi giuridici e di analisi sul campo.
Nelle moderne democrazie occidentali il ruolo del pubblico ministero cresce ovunque. Così come ovunque cresce la sua discrezionalità.
Ciò avviene tanto nei Paesi nei quali la discrezionalità del pubblico ministero è istituzionalmente riconosciuta e costituisce un tratto tipico del sistema della giurisdizione penale quanto negli ordinamenti caratterizzati dal principio di legalità e dalla regola dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Di una crescente discrezionalità del pubblico ministero si può inoltre parlare sia negli ordinamenti che prevedono forme di dipendenza e/o di stretto collegamento del pubblico ministero con l’autorità politica, sia negli Stati che prevedono l’elezione diretta dei vertici degli uffici della pubblica accusa, sia infine nei Paesi che contemplano forme di indipendenza piena o relativa dell’ufficio del pubblico ministero.
Infine il tasso di discrezionalità operativa e decisionale degli organi dell’accusa non dipende solo dalle opzioni di fondo ora richiamate (principio di opportunità versus principio di legalità, grado di dipendenza o indipendenza dal potere politico) ma è determinato anche da una serie di ulteriori variabili.
Il rapporto con la polizia e il diverso peso esercitato dai pubblici ministeri nella fase delle investigazioni; i differenti modelli di organizzazione degli uffici, improntati a un maggiore o minore grado di gerarchia interna; lo status più strettamente burocratico o professionale dei singoli componenti degli uffici; le relazioni con i diversi attori della giurisdizione penale (giudici, imputati e difensori, vittime dei reati, opinione pubblica): tutti questi fattori concorrono a definire la fisionomia del pubblico ministero negli ordinamenti democratici, a modellarne i poteri, a misurarne l’influenza e la libertà di azione.
Di qui l’importanza fondamentale della comparazione, sia pure limitata in questa sede ad alcuni dei principali modelli europei, per comprendere adeguatamente il fenomeno osservato e per esplorare e promuovere processi di convergenza verso un possibile modello comune in ambito europeo.
3. La discrezionalità del pubblico ministero in Inghilterra e in Galles…
La comparazione ci dice che il ruolo e la discrezionalità del pubblico ministero restano un prisma con molte facce.
Il pubblico ministero ha di recente conquistato uno spazio autonomo in ordinamenti che prima – in assenza di una politica unitaria e centralizzata dell’azione penale – riservavano un ruolo preminente alla polizia che esercitava il ruolo di accusa in giudizio o direttamente attraverso suoi funzionari o a mezzo di prosecuting solicitors localmente incaricati.
È quanto avvenuto in Inghilterra e Galles con l’istituzione, nel 1985, di un National Public Prosecution Office guidato dal Director of Public Prosecution (DPP).
Alla polizia resta la decisione iniziale di promuovere l’accusa, ma i casi passano poi al vaglio di un organismo indipendente, il Crown Prosecution Service, chiamato a valutare la consistenza degli elementi di prova raccolti, la qualificazione giuridica da adottare e la prosecuzione o meno del procedimento.
A livello locale la funzione dei prosecutors è stata rafforzata mentre, a livello nazionale, il Director of Public Prosecution ha acquisito un ruolo di policy-making, ad esempio fissando linee-guida, a volte precedute da consultazioni pubbliche, per particolari categorie di reati come le violenze in ambito domestico e le fattispecie di suicidio assistito.
Si è realizzata così una separazione tra la fase delle indagini e la fase del procedimento che non esclude e, anzi, incentiva lo scambio di informazioni tra prosecutors e polizia per uniformare i rispettivi comportamenti.
Ed è significativo che, mentre in Italia, in un recente passato, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il suo Ministro della giustizia lanciavano una campagna e presentavano un progetto di legge per trasformare il pubblico ministero italiano in «avvocato della polizia»[2], i Paesi nei quali questo modello è nato si sono orientati a modificarlo, considerandolo produttivo di inaccettabili diseguaglianze e disomogeneità nell’esercizio dell’iniziativa penale.
In un recente saggio sul nuovo sistema adottato in Inghilterra si sottolinea che il “civic role” dei procuratori ha il suo nucleo centrale «nel decidere se chiamare i sospetti autori di reati a renderne pubblicamente conto»[3] in un processo, esercitando l’azione penale.
Mentre per i reati minori – ove vi sia ammissione di colpevolezza in una fase antecedente il processo – i procuratori hanno il potere di disporre autonomamente una sanzione pecuniaria (prosecutor fine) o di adottare un provvedimento di diffida (conditional caution), negli altri casi il loro compito è quello di decidere sul rinvio a giudizio del sospettato sulla base di due verifiche: l’evidential test e il public interest test.
Da un lato, l’evidential test è superato quando i procuratori sono certi di disporre di elementi di prova sufficienti a formulare una realistica prognosi di condanna in giudizio del sospettato[4].
Dall’altro lato, una volta compiuta tale valutazione probatoria, i prosecutors devono verificare se sussista o meno un effettivo interesse pubblico a promuovere il giudizio.
A dispetto dell’apparente chiarezza del dettato normativo, entrambi i test rivelano, a un esame più ravvicinato, l’esistenza di non pochi problemi.
Con riguardo all’evidential test, le evidenze relative alla avvenuta commissione di un fatto qualificabile come reato possono non bastare per ottenere una pronuncia di condanna (ad esempio, laddove l’accusato possa fondatamente invocare l’esistenza di una causa di giustificazione).
A rigore, ciò dovrebbe indurre il pubblico ministero a non procedere anche in casi di rilevante interesse pubblico e che coinvolgono pubblici ufficiali (come, ad esempio, quello di un agente di polizia che abbia sparato a una persona ma possa invocare una scriminante per la sua condotta).
E però in dottrina vi è chi sostiene che, in una siffatta ipotesi, vi sia comunque una ragione per portare il caso dinanzi a una corte, «non per evitare rabbia e ansia sociale», ma per rendere chiaro che azioni di tale natura sono, in linea di principio, comportamenti per i quali si deve essere chiamati a rispondere in un giudizio penale[5].
Inoltre, l’evidential test non dovrebbe esaurirsi solo nel valutare se la condotta che si ritiene di poter provare corrisponda in astratto a una fattispecie di reato, ma deve considerare se tale condotta rientri tra quelle che la legge incriminatrice, alla luce della sua ratio, intende effettivamente punire.
In una operazione di verifica apparentemente di natura solo tecnica come l’evidential test si inseriscono considerazioni di diversa e talora contrastante natura, tra cui: l’opportunità del processo in chiave di legittimazione del sistema giudiziario; il richiamo alle finalità della norma incriminatrice; il cattivo impiego di risorse pubbliche derivante da un processo promosso senza elevate probabilità di ottenere una condanna; il peso umano ed economico che grava sull’imputato per effetto di un processo non necessario.
Se il superamento dell’evidential test crea una presunzione in favore dell’esercizio dell’azione penale, questa presunzione è solo relativa in quanto essa può essere vinta da considerazioni che attengono alla sussistenza o meno di un interesse pubblico a perseguire il fatto-reato.
Il Code for Crown Prosecutors (par. 4.12) elenca alcuni criteri – desumibili dalla normativa penale o esterni ad essa – per determinare se sussista o meno l’interesse pubblico a perseguire un fatto-reato.
Tra questi criteri rientrano: la gravità del crimine e il grado di responsabilità soggettiva del suo autore; l’impatto del reato sulla comunità; la possibilità che lo svolgimento del processo nuoccia alla salute della vittima; il giudizio di proporzionatezza, in termini di costi/benefici, tra esercizio dell’azione penale e il fatto per cui si procede. Sino a considerazioni sulla circostanza che il processo, con la sua necessaria pubblicità, possa compromettere fonti di informazione, relazioni internazionali o la sicurezza nazionale.
Con il public interest test fanno dunque irruzione nella sfera della discrezionalità riconosciuta al prosecutor fattori che, talora superando gli stretti confini della legge penale, pongono in primo piano i temi della trasparenza dei criteri adottati, dell’assunzione di responsabilità per le scelte compiute e di accountability democratica per l’esercizio della discrezionalità[6].
Esercizio, questo, destinato a svolgersi secondo linee-guida il più possibile omogenee e uniformi, stabilite proprio per evitare una discrezionalità capricciosa, arbitraria, discriminatoria.
4. … in Francia
Il ruolo del pubblico ministero ha conosciuto un’espansione anche in ordinamenti dell’Europa continentale caratterizzati da uno stretto raccordo tra autorità politica e uffici del pubblico ministero.
In Francia il potere politico continua a rivendicare – sia pure con maggiore o minore forza a seconda dei ministri in carica – la dipendenza del Parquet dal Ministro della giustizia e dalle sue direttive, sostenendo che l’indipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo darebbe vita a un potere incontrollato e al paventato governo dei giudici.
In forza del cordone ombelicale che lega il Parquet al Ministro, i procureurs sono responsabili nei suoi confronti dell’attuazione degli indirizzi governativi di politica criminale e agiscono nel perimetro delle linee-guida fissate dalle direttive dei loro superiori e dalle circolari ministeriali[7].
In questo contesto, invocando esigenze di speditezza e di efficienza, sono stati fortemente potenziati strumenti di intervento diretto del pubblico ministero (ammonimenti, mediazione, forme di giustizia riparativa e di riabilitazione).
Più frequente è poi divenuto il ricorso alla procedura alternativa della garde à vue, che vede il procureur protagonista insieme alla polizia ed è stata ampliata a discapito della procedura, maggiormente garantita, affidata al giudice istruttore (che gode, a differenza del procureur, di una posizione di indipendenza e della garanzia dell’inamovibilità).
Al punto che – si afferma in dottrina – il progressivo incremento della garde à vue e delle indagini condotte sotto la supervisione del procureur «ha (…) oscurato completamente l’istruttoria»[8].
Per altro verso, in osservanza del principio, fortemente radicato nella tradizione francese, che assegna al magistrato il ruolo di primo garante dei diritti dell’imputato, il pubblico ministero ha accresciuto il suo potere di supervisione dell’operato della polizia in vista del rispetto delle garanzie procedurali.
Con l’effetto di una duplice crescita del “peso” del pubblico ministero tanto nei confronti del giudice istruttore quanto nei confronti della polizia.
Parallelamente, pur nel quadro di persistente dipendenza dal potere politico cui si è prima accennato, si è rafforzata la posizione del pubblico ministero come “local policy maker” che opera a diretto contatto con la polizia e gli organi di governo locale nel fissare concrete modalità di intervento nei confronti della criminalità.
Di fatto, dunque, la necessità di valutare le specifiche esigenze dei diversi territori e l’affermarsi della specializzazione e della sindacalizzazione dei magistrati del pubblico ministero stanno realizzando una maggiore indipendenza dall’esecutivo e una crescente discrezionalità dei magistrati addetti a tali uffici.
5. … in Germania
Anche in Germania il principio di obbligatorietà dell’azione penale – considerato come pietra angolare del sistema – ha subito, a partire dagli anni settanta, una sostanziale erosione, accompagnata dalla parallela crescita della discrezionalità dei pubblici ministeri.
Crescita segnalata dall’attribuzione ai procuratori di poteri di archiviazione nei casi in cui non è ravvisabile un interesse pubblico a perseguire illeciti minori, nonché del potere di risolvere i casi con decreti penali di condanna o di ottenere ammissioni di colpevolezza a seguito di procedure abbreviate[9].
I cittadini che lamentano una decisione di non procedere adottata dal magistrato del pubblico ministero incaricato della trattazione del caso hanno facoltà di presentare ricorso in via gerarchica attivando un meccanismo di controllo articolato in tre gradi successivi sino al livello ultimo del procuratore generale.
Nella fase di controllo gerarchico interno agli uffici di procura possono essere impartite disposizioni per lo svolgimento di ulteriori indagini o può essere confermata l’originaria scelta, motivata per iscritto, di non procedere.
Avverso quest’ultima determinazione il ricorrente può rivolgersi al giudice, che però non dispone di un potere di “imputazione coatta” laddove il pubblico ministero insista nel ritenere di non disporre di prove sufficienti per sostenere l’accusa in giudizio[10].
Tratto caratteristico della discrezionalità del pubblico ministero tedesco è comunque il suo costante esercizio in forma collegiale, attraverso il confronto con i colleghi e i dirigenti degli uffici.
In conseguenza della più ampia discrezionalità del pubblico ministero, sono aumentati i rischi di indebite influenze e i tentativi di condizionamento delle iniziative giudiziarie da parte dei Ministri della giustizia dei Länder, soprattutto nei procedimenti per reati economici o per fatti di corruzione politico-amministrativa. E sebbene un magistrato del pubblico ministero che riceve indicazioni che ritiene non aderenti alla legge possa chiedere che esse vengano messe per iscritto, la più gran parte delle pressioni è attuata in maniera informale, attraverso telefonate o colloqui, e fa leva sulle prospettive di collocazione e di carriera.
Istituzionalmente concepito come “guardiano della legge”, come attore imparziale che nelle indagini è tenuto a raccogliere anche gli elementi di prova favorevoli all’indagato, come soggetto istituzionale chiamato a ricercare la verità che non ragiona in termini di vittoria o di sconfitta nel processo penale, il pubblico ministero mostra dunque, a un esame più ravvicinato, una fisionomia più complessa e sfaccettata.
La combinazione di accresciuta discrezionalità e di dipendenza dall’esecutivo apre infatti il campo a lusinghe, pressioni e condizionamenti esterni, determinando rischi di torsione del suo modus operandi.
6. Il modello italiano. L’obbligatorietà dell’azione penale e i tre profili della discrezionalità del pubblico ministero
L’incremento dei poteri discrezionali del pubblico ministero si verifica anche nel nostro Paese, incidendo sul modello italiano.
Tale modello – come è noto – è fondato sul principio di obbligatorietà dell’azione penale; su di un pubblico ministero indipendente dal potere politico ma costantemente controllato dal giudice sia quando agisce sia quando resta inerte; sul potere dell’ufficio del pubblico ministero di coordinare le indagini della polizia; sullo statuto di “parte imparziale” dell’organo.
La tradizione giuridica è nettamente orientata a negare l’esistenza di ogni discrezionalità in senso forte del pubblico ministero, sottolineando che il principio di obbligatorietà dell’azione è presidio dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge penale[11].
In una pronuncia che resta fondamentale, anche se ormai risalente nel tempo, la Corte costituzionale ha affermato che l’art. 112 della Costituzione «comporta (…) non solo il rigetto dell’opposto principio di opportunità che opera, in varia misura, nei sistemi ad azione penale facoltativa, consentendo all’organo dell’accusa di non agire anche in base a valutazioni estranee all’oggettiva infondatezza della notitia criminis, ma comporta, altresì, che in casi dubbi l’azione vada esercitata e non omessa»[12].
Sul versante istituzionale, poi, l’obbligatorietà dell’azione penale fonda e giustifica il regime di indipendenza di cui gode il pubblico ministero italiano.
Come è stato incisivamente scritto, «l’azione penale è obbligatoria perché l’ordinamento vuole che essa sia esercitata in modo indipendente ed imparziale, mentre il pubblico ministero deve essere indipendente ed imparziale, in quanto l’azione penale è obbligatoria»[13].
Se il potere del pubblico ministero è costituzionalmente vincolato – in quanto egli ha l’obbligo di esercitare l’azione penale (sempre e solo) per fatti previsti come reato dalla legge penale –, ogni forma di direzione esterna della sua azione rischia di contraddire i principi di legalità e di eguaglianza propri della giurisdizione penale[14], immettendo nel sistema valutazioni diverse da quelle strettamente giuridiche.
Anche la magistratura ha costantemente ribadito che l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, l’obbligatorietà dell’azione penale e l’indipendenza del pubblico ministero sono da considerare tre anelli, indissolubilmente connessi, della catena concettuale e istituzionale introdotta dal Costituente per scongiurare ogni utilizzazione arbitraria e discriminatoria del sistema della giurisdizione penale.
Ora, se si guarda alle dinamiche processuali, l’obbligatorietà dell’azione penale resta il cardine su cui è imperniata l’attività del pubblico ministero e l’esclusivo punto di riferimento delle sue opzioni.
E però “a monte” di tali dinamiche si colloca una peculiare forma di discrezionalità – che si esprime nelle scelte compiute dai procuratori della Repubblica nell’organizzazione dei loro uffici – mentre nella fase che precede e prepara le decisioni sull’esercizio dell’azione si profila una discrezionalità investigativa che il pubblico ministero condivide con la polizia.
Solo analizzando ambito, limiti e controlli di queste diverse forme di discrezionalità – processuale, organizzativa e investigativa – si può pensare di disegnare un quadro realistico della funzione del pubblico ministero nell’ordinamento italiano.
6.1. La discrezionalità “fisiologica” del pubblico ministero nel procedimento e nel processo
Il potere proprio del pubblico ministero è quello di «promuovere l’attività del giudice e di proporgli istanze suscettibili di condurre alla decisione» a seguito delle sue attività di indagine dirette ad acquisire gli «elementi utili per porsi in grado di esercitare l’azione penale»[15].
La discrezionalità esercitata nell’ambito processuale è dunque quella “fisiologica”[16], che riguarda la valutazione dei risultati raggiunti nel corso delle indagini preliminari ai fini della decisione di promuovere l’azione penale o di chiedere l’archiviazione.
Una forma di discrezionalità, questa, che si è via via ampliata per effetto di numerosi interventi legislativi[17] che hanno richiesto al pubblico ministero di valutare la gravità e l’offensività di condotte astrattamente riconducibili a fattispecie incriminatrici senza peraltro contraddire né limitare la regola della obbligatorietà dell’azione penale, che vive grazie al controllo di legalità del giudice su tutti i fatti corrispondenti a fattispecie incriminatrici.
In altri termini, il principio di obbligatorietà non è scalfito dalle norme che richiedono al pubblico ministero valutazioni sul fatto-reato oppure più stringenti verifiche sulla idoneità probatoria degli elementi di prova raccolti nella fase delle indagini.
Si tornerà in seguito, più analiticamente, sulle modalità di esercizio della discrezionalità endoprocessuale del pubblico ministero e su quella che è stata definita una “concezione realistica” o temperata dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Qui basta ribadire che, nel procedimento e nel processo, le più complesse e sofisticate valutazioni cui è oggi chiamato in una serie di casi il pubblico ministero si inseriscono armonicamente all’interno delle coordinate fondamentali tracciate dal legislatore costituente e non compromettono né in termini di principio né sul terreno della realtà effettuale il principio cardine dell’obbligatorietà.
6.2. La discrezionalità organizzativa
A monte di ogni concreta iniziativa del pubblico ministero si colloca una forma di discrezionalità diversa da quella “fisiologica” sin qui richiamata: la discrezionalità organizzativa dei procuratori della Repubblica, che si esercita nelle decisioni riguardanti l’impiego, la distribuzione e le modalità di lavoro dei magistrati e del personale amministrativo dell’ufficio e l’utilizzazione delle risorse materiali, economiche e tecnologiche.
Com’è noto, la riforma Castelli ha optato per una soluzione fortemente accentratrice dei poteri di direzione e di organizzazione degli uffici di procura, da un lato abrogando l’art. 7-ter dell’ordinamento giudiziario[18], che prevedeva la competenza del Csm nella fissazione dei criteri generali per l’organizzazione degli uffici requirenti e per la eventuale ripartizione dei magistrati in gruppi di lavoro, e, dall’altro, attribuendo al solo procuratore il compito di elaborare il “progetto organizzativo”, immediatamente esecutivo, della Procura da trasmettere al Consiglio superiore della magistratura[19].
Titolare unico dell’azione penale e superiore gerarchico dei magistrati addetti al suo ufficio, il procuratore è dunque il responsabile «della gestione investigativa, economica e funzionale dell’azione penale»[20] e in quanto tale «centro di imputazione di ogni decisione di carattere organizzativo»[21].
Questa ampia discrezionalità si è tradotta, in alcuni uffici, nella esplicita individuazione di “criteri di priorità”[22] nella trattazione degli affari, ma ha comunque modellato l’esercizio dell’azione penale anche laddove tali criteri non siano stati formalmente adottati.
L’attenta analisi dell’organizzazione di una procura è infatti sufficiente a mostrare quali sono i settori di intervento privilegiati e quali le scelte compiute dal titolare della potestà organizzativa.
Naturalmente, anche la discrezionalità organizzativa del procuratore è destinata a operare nel quadro di limiti e verifiche.
Sottolineando l’obbligo giuridico dei procuratori di trasmettere il programma organizzativo, il Csm ha sostenuto che la trasmissione non è un mero adempimento formale, ma ha lo scopo di aprire un canale attraverso cui l’organo di governo autonomo può rilevare eventuali profili problematici del programma, valutarne gli effetti alla luce dei canoni di buon andamento degli uffici e di ragionevole durata dei processi e verificarne la rispondenza alle norme di ordinamento giudiziario.
E ciò con possibili conseguenze sulla valutazione di professionalità dei capi degli uffici requirenti, sulle procedure di conferma dell’incarico alla scadenza del primo quadriennio e su eventuali procedure per incompatibilità funzionale[23].
Un altro vaglio indiretto del programma organizzativo è compiuto dal Consiglio giudiziario che, una volta ricevuto il programma, è chiamato a esaminare contestualmente i criteri di organizzazione e le tabelle degli uffici giudicanti al fine di «garantire una funzionalità complessiva del sistema penale»[24].
La discrezionalità organizzativa del procuratore della Repubblica, pur restando assai ampia, è dunque inquadrata nel sistema di regole generali dell’ordinamento giudiziario e del processo e in un quadro di relazioni con il Csm, con il Consiglio giudiziario, con il procuratore generale presso la corte di appello; in modo da escludere che gli uffici requirenti possano essere strutturati come monadi incomunicanti con l’esterno e sulla base di orientamenti meramente soggettivi dei loro dirigenti.
Va comunque rilevato che questa peculiare dimensione della discrezionalità è al centro di interventi innovativi già attuati tramite atti di normativa secondaria o proposti dal Ministro della giustizia.
Nel dicembre del 2020, il Consiglio superiore della magistratura ha infatti approvato la proposta di modifica della circolare sull’organizzazione degli uffici di procura proposta dalla VII Commissione con il dichiarato intento di garantire maggiore trasparenza e responsabilità nella direzione dell’Ufficio di procura, di assicurare più ampia autonomia, anche interna, dei magistrati dell’Ufficio e di affermare il ruolo di controllo e verifica da parte del circuito del governo autonomo sull’esercizio dei poteri di organizzazione del procuratore.
Inoltre il disegno di legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario presentato dal Ministro della giustizia il 28 settembre 2020 (A.C. n. 2681) prevede l’attribuzione al Csm del potere di stabilire i principi generali per la formazione del progetto organizzativo del procuratore e individua dettagliatamente i contenuti necessari di tale progetto[25].
6.3. La discrezionalità investigativa
Ultimo aspetto da scandagliare è quello, per più versi cruciale, della “discrezionalità investigativa” che il pubblico ministero condivide con la polizia incaricata delle indagini.
Essa mostra all’osservatore un duplice profilo.
Per un verso, tale discrezionalità è destinata a essere esercitata entro un fitto reticolo di regole, limiti, controlli e, per altro verso, essa conserva una elasticità e una possibile varietà di forme che in parte la sottraggono a regole predeterminate e ne rimettono il calibrato esercizio alla correttezza e alla capacità professionale degli inquirenti.
Il perimetro legale della “discrezionalità investigativa” riguarda i tempi, lo spazio, i mezzi delle investigazioni, le modalità delle richieste indirizzate al giudice, l’adeguatezza stessa delle indagini svolte e l’eventuale inerzia del pubblico ministero.
Alcune di queste coordinate sono state previste nell’impianto originario del codice, altre sono state introdotte sulla base dell’esperienza, altre ancora si profilano all’orizzonte come tentativi di segnare nuovi confini alla discrezionalità del pubblico ministero e della polizia nella conduzione delle indagini.
In primo luogo, le indagini devono svolgersi in tempi prefissati dal legislatore, decorrenti dal momento della iscrizione di una notizia di reato; momento che spesso si è rivelato di problematica individuazione, che perciò è stato oggetto di iniziative di analisi e chiarimento dei procuratori (pur rimanendo sempre al centro di contestazioni e polemiche, e che oggi il Ministro propone di sottoporre, a richiesta di parte, alla verifica giudiziale)[26].
Inoltre, la competenza territoriale del pubblico ministero, collegata a quella del giudice, è divenuta dalla fine del 1999 oggetto di verifica interna al circuito degli uffici di procura già nella fase delle indagini grazie all’introduzione della procedura regolata dall’art. 54-quater del codice di rito.
I più penetranti mezzi di ricerca della prova – come i sequestri probatori – possono essere sottoposti a controllo giurisdizionale al pari delle misure cautelari richieste e adottate nella fase delle indagini preliminari.
Il ricorso alle intercettazioni deve essere preventivamente autorizzato dal giudice delle indagini preliminari.
Il giudice destinatario di una richiesta di archiviazione può disporre, con la procedura prevista dall’art. 409 cpp, le ulteriori indagini che ritenga necessarie od ordinare al pubblico ministero di formulare l’imputazione.
Il procuratore generale presso la corte di appello, in base agli artt. 412 e 413 cpp, può avocare – d’ufficio o su richiesta dell’indagato o della persona offesa dal reato – le indagini preliminari in caso di mancato esercizio dell’azione penale o di mancata presentazione di una richiesta di archiviazione nei termini massimi delle indagini previsti dall’art. 407, comma 3-bis del codice di procedura.
Pur in questo contesto, non certo privo di confini e di interne rigidità, la discrezionalità investigativa ha modo di manifestarsi in molti modi: nelle risorse umane, economiche e tecnologiche dispiegate, nel grado di celerità impresso alle operazioni investigative, nella scelta di mezzi di ricerca della prova più o meno invasivi in corrispondenza alla gravità dei reati e così via…
Su questo terreno – che il pubblico ministero condivide, come si è accennato, con la polizia – il ruolo del magistrato titolare delle indagini può risultare, soprattutto nei casi difficili, molto complesso e soprattutto non inquadrabile entro schemi predefiniti anche laddove nell’ufficio di procura siano stati previsti specifici protocolli di indagine.
Professionalità e deontologia del pubblico ministero concorrono a definire tale ruolo come di “garanzia” e di “misura”.
Ruolo di “garanzia”, innanzitutto, perché nella fase delle indagini il magistrato del pubblico ministero è il primo tutore dei diritti dell’indagato nonché garante dello svolgimento di investigazioni conformi alle norme di procedura e aperte alla ricerca anche degli elementi di prova favorevoli alla persona sospettata.
Del resto, solo esercitando attivamente il suo compito di coordinamento delle indagini in vista e in funzione del processo e contrastando disinvolture, azzardi, scorciatoie, violazioni o aggiramenti delle norme di procedura il pubblico ministero può raggiungere la ragionevole certezza che gli elementi raccolti si tradurranno in prove nel processo.
Ruolo di “misura”, inoltre, nel senso che il pubblico ministero è il responsabile non solo della completezza delle indagini ma anche della loro complessiva adeguatezza ai fatti per cui si procede e della proporzione tra tali fatti e i mezzi impiegati per accertarli.
Se si vuole relegare definitivamente al passato l’inquisizione “sterminata e segreta”, il magistrato che coordina le indagini deve assumere la responsabilità – professionale e deontologica – di commisurare costantemente i tempi delle investigazioni e le risorse scarse e costose impiegate alla gravità e pericolosità dei fatti di reato da accertare, senza concessioni a considerazioni di diversa natura.
7. Il progressivo avvicinamento tra ordinamenti connotati dal principio di legalità e ordinamenti caratterizzati dal principio di opportunità nell’esercizio dell’azione penale
Proprio a partire dal caso italiano – che si pone all’estremo di un’ideale fascia di comparazione – si può meglio osservare il progressivo avvicinamento tra ordinamenti connotati dal principio di legalità e ordinamenti caratterizzati dal principio di opportunità nell’esercizio dell’azione penale.
Da lungo tempo e sempre più spesso, nel nostro Paese si fa ormai riferimento a una «concezione realistica» dell’obbligatorietà dell’azione penale[27].
Con questa espressione si designa un approccio all’esercizio dell’azione penale caratterizzato da una pluralità di fattori, tra cui:
a) una ben calibrata valutazione, nell’ambito di ciascun ufficio di procura, dei mezzi disponibili per operare efficacemente nell’area di competenza, accompagnata in alcuni uffici da una esplicita determinazione di “criteri di priorità” nella trattazione degli affari giustificata in nome dell’efficacia operativa, di un impiego oculato delle risorse disponibili e di una sorta di “stato di necessità” derivante dal rapporto tra il numero di procedimenti e il personale e i mezzi di cui dispone l’ufficio;
b) una valutazione di sostenibilità dell’accusa particolarmente rigorosa nel discernere i procedimenti di cui chiedere l’archiviazione e quelli per i quali sollecitare il giudizio, sulla scorta di indicazioni del capo dell’ufficio e/o di orientamenti maturati a seguito di confronti collegiali tra magistrati (in particolare dei gruppi specializzati) e di confronti con altri uffici. Criterio di selezione che il Ministro della giustizia propone oggi di rendere più stringente, prevedendo che sia richiesta (e disposta) l’archiviazione o che non sia disposto il giudizio (ma emessa sentenza di non luogo a procedere) quando gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non consentano una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria in giudizio. Proponendo così che non sia più richiesta la sola sostenibilità dell’accusa in giudizio quale parametro per l’esercizio dell’azione penale o per il rinvio a giudizio, ma una ragionevole previsione del pubblico ministero e del giudice dell’udienza preliminare che il giudizio dibattimentale si concluda con una sentenza di condanna del responsabile dei fatti addebitati[28];
c) una attenta valutazione sull’effettiva offensività di determinate condotte – astrattamente riconducibili a fattispecie di reato – oggi istituzionalmente reclamata dalla introduzione dell’istituto dell’archiviazione per tenuità del fatto per reati che si collocano entro limiti di pena legislativamente prefissati;
d) la ricerca di una linea di condotta comune e coerente in ordine a soluzioni patteggiate dei procedimenti.
Un osservatore proveniente da Paesi in cui vige il principio di opportunità non potrebbe fare a meno di notare le rilevanti analogie di un tale approccio con alcuni dei criteri che regolano la discrezionalità dell’iniziativa penale, segnatamente l’evidential test, il public interest test e le guidelines dettate per orientare e uniformare le scelte di opportunità affidate al pubblico ministero.
Analogie destinate ad accentuarsi se verranno approvate le proposte contenute nel ddl di riforma del processo penale presentato dal ministro Bonafede, che mirano, oltre che a fissare un più stringente criterio di giudizio per i casi da mandare a processo, anche a istituzionalizzare il potere dei procuratori della Repubblica di dettare criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale[29]. Opzione, questa, di cui si parlerà criticamente in seguito.
In altri termini, si può dire che il divario tra una concezione realistica dell’obbligatorietà dell’azione penale e una discrezionalità regolata ed esercitata entro i binari di linee-guida predeterminate e trasparenti si riduce notevolmente.
Da un lato, infatti, in nessuno Stato di diritto è ammessa una discrezionalità arbitraria, capricciosa, disancorata da parametri prefissati e destinati a essere applicati in regime di uguaglianza tra le persone (per lo meno in assenza di indebite interferenze).
Dall’altro lato, l’opposto principio di obbligatorietà dell’azione penale, realisticamente inteso, esprime una linea di tendenza e una costante tensione verso l’eguale applicazione della legge penale, con i corollari dell’indipendenza operativa del pubblico ministero e di un suo status giuridico circondato di forti garanzie.
In quest’ottica appaiono destinati a essere superati, si spera definitivamente, due luoghi comuni argomentativi che – soprattutto nel nostro Paese – hanno a lungo dominato il campo delle discussioni e delle polemiche sul pubblico ministero.
Ci si riferisce all’affermazione secondo cui la discrezionalità del pubblico ministero è comunque fonte o sinonimo di arbitrio, di diseguaglianza, di discriminazione e alla contrapposta argomentazione che, non essendo realizzabile nella sua forma integrale e assoluta, l’obbligatorietà dell’azione penale dovrebbe essere cancellata[30].
Se la realtà effettuale smentisce entrambe tali prospettazioni estreme, rivelando linee di convergenza tra diversi modelli, resta aperto il nodo centrale del soggetto o dei soggetti istituzionali chiamati a gestire, in un ordinamento democratico, i regimi di discrezionalità regolata o di obbligatorietà temperata dell’iniziativa penale e le modalità della loro azione.
8. Il raccordo del pubblico ministero con le istituzioni democratiche. Il nodo della dipendenza dall’esecutivo
Di qui l’esigenza di verificare e giustificare la compatibilità dei rilevanti poteri del pubblico ministero con le istituzioni e le regole di responsabilità che connotano gli Stati democratici di diritto.
Come è noto, la risposta offerta dal maggior numero di ordinamenti è stata ed è tuttora quella del legame di maggiore o minore intensità e dipendenza tra autorità politica e uffici del pubblico ministero, destinato a legittimare l’azione di quest’ultimo, garantendo il suo raccordo con una istituzione dotata di un’investitura democratica e politicamente responsabile.
Sostanzialmente marginale, in questo contesto, è il metodo dell’elezione diretta dei capi degli uffici giudiziari, adottato negli Usa solo in alcuni Stati; metodo cui si è fatto ricorso – è bene ricordarlo – proprio al fine di attenuare le pressioni politiche sul prosecutor provenienti dall’esecutivo.
Negli altri ordinamenti il raccordo è realizzato attribuendo ai responsabili politici della giustizia più o meno penetranti poteri di indirizzo, di controllo, di supervisione sull’azione (oltre che sulle nomine e sulla carriera) dei componenti degli uffici del pubblico ministero.
Poteri che, nei diversi Paesi, vanno dalle direttive di carattere generale alle istruzioni su casi specifici di particolare rilievo per gli interessi in gioco o per l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica.
Nella maggior parte degli studi dedicati a questo tema – soprattutto nella letteratura che esamina la situazione nei Paesi dell’Europa continentale – sono ricorrenti due osservazioni.
La prima è che l’emanazione di direttive di taglio generale ha un impatto relativamente modesto sulla discrezionalità dei magistrati del pubblico ministero, dato che in capo a essi residua comunque un ampio spazio di “poteri interstiziali” dovuto alla necessità di adeguare le direttive generali alle realtà locali e alla infinita varietà di casi offerti dall’esperienza giurisprudenziale.
La seconda osservazione – scaturente da colloqui e interviste con i capi o i membri degli uffici del pubblico ministero o dalla cronaca di vicende giunte all’attenzione dei media – è che i meccanismi di dipendenza politica si traducono spesso in interferenze di diversa natura e intensità dettate da interessi particolari e dall’intenzione di favorire imputati eccellenti: dalle aperte pressioni ai tentativi di influenza più obliqui e sotterranei, sino alle lusinghe e alle offerte di sviluppi di carriera.
Se negli Usa il Presidente Donald Trump ha operato per sdoganare il metodo dell’aperta interferenza politica su prosecutors e giudici, la prassi di altri Paesi registra di regola operazioni più sottili, ma egualmente lesive dei principi di eguaglianza delle persone dinanzi alla legge penale, dirette a orientare l’azione del pubblico ministero in singoli casi, in contrasto con criteri di discrezionalità trasparente, controllata e giustificabile.
Ciò naturalmente non avviene senza contrasti e senza conflitti, nel loro complesso nocivi per la credibilità delle istituzioni giudiziarie.
Persino un critico severo e implacabile dello status e dell’operato dei pubblici ministeri italiani, che ritiene “troppo indipendenti”, riconosce che, quando si fa opera di comparazione dei diversi statuti giuridici dei pubblici ministeri, ci si trova inevitabilmente dinanzi a due valori confliggenti.
Da un lato sta la consapevolezza che l’azione dei pubblici ministeri contribuisce in maniera sostanziale alla definizione e attuazione della politica criminale e richiede, perciò, di essere diretta e controllata nel contesto del processo democratico.
Dall’altro lato vi è il bisogno di garantire che l’esercizio dell’azione penale sia esercitato con rigore, coerenza e correttezza, evitando che un legame troppo stretto con la politica sia indebitamente usato per finalità partigiane, per influenzare azioni o promuovere omissioni del pubblico ministero, in violazione del principio di eguaglianza dei cittadini[31].
La qualità e l’asprezza che la lotta politica ha assunto nel nostro Paese sembrano confermare che l’opzione “partigiana” verrebbe scelta senza remore né esitazioni.
Ma più in generale si può sostenere – fuori dalle astratte petizioni di principio e sulla base dell’esperienza – che né il sistema della elezione diretta dei capi degli uffici né il regime di dipendenza dall’esecutivo rappresentano la soluzione “necessaria” e “sufficiente” per assicurare la compatibilità democratica e l’assunzione di responsabilità del pubblico ministero.
Naturalmente – alla luce delle considerazioni sin qui svolte – non si può neppure affermare che l’indipendenza del pubblico ministero possa costituire, di per sé sola, la soluzione del problema.
Anche l’indipendenza assoluta – come tutti i poteri non controllati e non bilanciati – può dar luogo a disfunzioni e distorsioni, soprattutto quando il pubblico ministero scelga di enfatizzare il suo ruolo e di amplificare il suo peso attraverso un uso spregiudicato dei media, presentandosi come il protagonista della lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione.
Per raccordare il pubblico ministero alla democrazia e alle sue regole di responsabilità e rendiconto occorre battere altre vie, alla ricerca di una chimica istituzionale più fine.
9. La ricerca di nuovi equilibri tra istituzioni democratiche e uffici del pubblico ministero nel caso italiano
9.1. A chi spetta il compito di tracciare le linee generali della politica criminale
In questa direzione occorre innanzitutto riconoscere che – in attuazione del fondamentale principio di separazione dei poteri – l’individuazione e la conformazione delle linee generali della politica criminale non può che spettare ai poteri dotati di una investitura democratica diretta o indiretta, come i parlamenti e i governi.
Mentre è indispensabile assicurare ai magistrati del pubblico ministero forti garanzie di status che li mettano in condizione di resistere a indebite interferenze e preservare la fase delle indagini da favoritismi e inquinamenti, è difficile concepire che, nel contesto di un ordinamento democratico, siano i singoli uffici di procura o gli organismi che hanno compiti di amministrazione della giurisdizione a svolgere un ruolo di policy maker ufficiali della politica criminale, dettando le priorità dell’intervento penale.
Altro è invece riconoscere a questi organi un ruolo – successivo e relativamente subordinato – di “adeguamento” delle linee di politica criminale alle situazioni locali e alle dotazioni di mezzi e di personale degli uffici giudiziari, a seguito di procedure di ascolto e di confronto che coinvolgano i rappresentanti delle comunità e degli enti operanti sui territori e tutti coloro che lavorano nelle istituzioni del giudiziario.
Una siffatta impostazione è naturalmente destinata a tradursi in meccanismi istituzionali differenti nei diversi Paesi, per inserirsi armonicamente nelle singole architetture istituzionali, ma va salvaguardata se si vuole evitare che i penetranti poteri del pubblico ministero fuoriescano dal circuito del processo democratico.
9.2. Il caso italiano. I criteri di priorità dell’intervento penale
Con specifico riguardo al caso italiano, è perciò da criticare la proposta – contenuta nel recente ddl delega di riforma del processo penale presentato il 13 marzo 2020 alla Camera dei deputati dal Ministro della giustizia, A.C. n. 2345 – di affidare ai singoli uffici di procura la determinazione dei criteri di priorità dell’intervento penale, escludendo che sia il Parlamento, primo interprete della sovranità popolare, a dettare gli indirizzi generali della politica criminale.
Come si legge nella Relazione introduttiva, nell’art. 3, lett. h del ddl si prevede «quale dovere istituzionale del procuratore della Repubblica, la redazione di criteri di priorità per ciascun ufficio, previa interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale. I criteri, confluendo nei progetti organizzativi, dovranno tenere conto dei princìpi elaborati in materia dal Consiglio superiore della magistratura nonché delle specificità proprie delle realtà territoriali e delle risorse, personali e reali, disponibili [lettera h)]. Si rende in tal modo obbligatoria, la formulazione di criteri per la trattazione dei procedimenti nell’ambito delle procure della Repubblica, così disciplinando un adempimento che attualmente, secondo le circolari elaborate in materia dal Consiglio superiore della magistratura, rappresenta un potere del procuratore»[32].
Soluzione preferibile sembra quella di optare per la fissazione ad opera del Parlamento, con atti di indirizzo a cadenza periodica, di linee di priorità calibrate sulla situazione nazionale, lasciando agli uffici di procura due specifici spazi di intervento per così dire “a valle” della scelta parlamentare.
Il primo consistente nell’“adeguamento” delle linee-guida nazionali alle situazioni locali e alle potenzialità operative dell’Ufficio.
Il secondo relativo alla possibilità – meramente residuale – della individuazione, ad opera degli uffici di procura, di “priorità locali”, specifiche e ristrette, motivate con puntuali riferimenti a dati e situazioni del territorio (ad esempio, territori transfrontalieri, aree con elevati tassi di inquinamento, piazze finanziarie, etc.).
In questo modo l’adeguamento alle linee-guida nazionali e l’eventuale opera di individuazione di priorità locali nel progetto organizzativo dell’Ufficio di procura resterebbero nella sfera della discrezionalità organizzativa e tecnica del procuratore.
Discrezionalità esercitata nell’ambito di un confronto con il procuratore generale presso la corte di appello e con il presidente del tribunale, e oggetto di esame e verifica in seno al Csm in sede di esame e approvazione del progetto organizzativo.
9.3. Ancora sul caso italiano. Il confine del giudiziario rispetto alla politica e all’amministrazione
Un capitolo tutt’altro che secondario della riflessione sul ruolo e sulla discrezionalità del pubblico ministero è quello della partecipazione dei magistrati alle competizioni elettorali politiche o amministrative.
Come è noto, la ricerca di un più netto confine tra politica e pubblici ministeri (e giudici) è ormai in corso da anni. E in essa si sono intrecciate prese di posizione dell’Associazione nazionale magistrati e dei gruppi che la compongono, pareri e deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura, interventi legislativi.
Atti profondamente diversi tra di loro, ma tutti protesi in una affannosa ricerca: la riduzione del rischio (presente per tutti i magistrati ma particolarmente elevato per quelli del pubblico ministero) della spendita, sul terreno della competizione per il potere politico, del capitale – vero o presunto – di visibilità, di credibilità, di consenso acquisito nell’esercizio delle funzioni giudiziarie.
Spendita indebita che quasi sempre trascina con sé accuse, per così dire retroattive, di strumentalità e di parzialità destinate a investire l’operato del magistrato e l’intera giurisdizione con riguardo alle fasi precedenti alla candidatura.
Gli esempi, a tutti noti, di pubblici ministeri scesi, con maggiore o minor clamore, negli ultimi decenni nell’agone politico testimoniano che tali operazioni – a prescindere da ogni valutazione del loro esito politico – si sono risolte in una netta perdita di credibilità dell’istituzione giudiziaria.
È forse venuto il momento di riconoscere che i diversi meccanismi istituzionali introdotti per contemperare il diritto di elettorato passivo del cittadino-magistrato con la necessaria immagine di indipendenza della magistratura requirente (e giudicante) si sono rivelati fallimentari e incapaci di impedire – in un contesto politico “spregiudicato” come quello italiano – forme di eclatante strumentalizzazione dell’attività giudiziaria e polemiche feroci e distruttive per la giurisdizione.
Né maggior credito si può dare alla complicata impalcatura che il Ministro della giustizia propone nella materia delle candidature e dei rientri in ruolo dei magistrati eletti o non eletti nel disegno di legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario (A.C. n. 2681)[33].
Il tentativo del Ministro di stemperare gli effetti negativi del passaggio in politica di magistrati in servizio è articolato in due distinte soluzioni.
Da un lato – per i magistrati candidati e non eletti – si vuole introdurre il divieto di continuare a lavorare nei luoghi ove si è stati candidati o dove si esercitavano le funzioni all’atto della presentazione della candidatura, accompagnato dal divieto, per un triennio, di svolgere determinate funzioni (direttive o semidirettive, di pm, di gip, di gup)[34].
Dall’altro lato – per i magistrati cessati da cariche elettive o di governo – si prevede un inquadramento al di fuori dei ruoli della magistratura[35].
Il “raffreddamento” che così si vuole realizzare riguarda però solo la fase successiva alla candidatura o all’esperienza politica del magistrato, mentre lascia irrisolto il problema centrale: la “conversione” del patrimonio di visibilità e di credibilità (lo si ripete: vera o presunta che sia) accumulato attraverso l’esercizio delle funzioni giudiziarie in un indebito vantaggio da utilizzare nella competizione elettorale e il danno che ne può derivare alla giurisdizione.
La crescita della discrezionalità del pubblico ministero; l’ineliminabile discrezionalità interpretativa dei magistrati giudicanti; il peso assunto dalle vicende giudiziarie nella vita politica del Paese; l’irresistibile tentazione di “tutte” le forze politiche di brandire come una clava indagini e processi nei confronti di avversari politici: tutti questi fattori inducono a ritenere che, accanto all’obiettivo minimo che appare ormai inderogabile – la preclusione del rientro in magistratura dei magistrati al termine del mandato elettorale o di un incarico di governo –, debba essere contemplata anche la possibilità di una più radicale opzione legislativa: considerare le preventive dimissioni dalla magistratura come presupposto necessario della candidatura del magistrato.
Il diritto di elettorato passivo resterebbe liberamente esercitabile anche se a prezzo di una scelta drastica, impegnativa e dolorosa, non molto dissimile, peraltro, da quella che compiono, nello scegliere di partecipare alla lotta politica, altre categorie di cittadini e perciò non lesiva del principio di eguaglianza.
9.4. Modelli organizzativi post-burocratici e la prassi del rendere conto dell’attività degli uffici
Di notevole importanza, ai fini della legittimazione dell’azione degli uffici del pubblico ministero, appaiono inoltre le caratteristiche organizzative degli uffici di procura e le prassi di rendicontazione pubblica del loro operato (la cd. “accountability”).
Sul piano dell’organizzazione, i modelli che possono essere definiti “post-burocratici” – non imperniati né su rigide gerarchie interne né su di un assetto che privilegia esclusivamente l’autonomia professionale dei singoli componenti – appaiono quelli meglio idonei a garantire, grazie a continui confronti collegiali interni ed esterni, la visibilità e la trasparenza dei meccanismi che regolano l’assetto degli uffici, la distribuzione delle risorse, nonché l’uniformità e la prevedibilità delle scelte discrezionali del pubblico ministero.
Inoltre, un’opzione organizzativa di tipo post-burocratico è quella che meglio si combina con prassi orientate a informare periodicamente gli attori sociali e istituzionali e la più vasta opinione pubblica sui dati più rilevanti riguardanti l’assetto e l’operato degli uffici di procura: risorse impiegate, priorità adottate, risultati raggiunti.
È significativo rilevare come nel nostro Paese le direttive del Csm e i programmi organizzativi di molti dirigenti degli uffici abbiano avuto l’effetto di temperare la struttura fortemente gerarchica disegnata dalle norme emanate all’epoca del Governo di centro-destra presieduto da Silvio Berlusconi e abbiano aperto la strada a prassi virtuose di collegialità interna e di rendicontazione all’esterno, principalmente attraverso i cd. bilanci sociali delle procure, accompagnate dall’ascolto delle istanze rivolte dalle collettività alla giustizia penale.
9.5. La responsabilità sociale dei capi degli uffici e dei singoli magistrati del pubblico ministero
Un terzo fronte nella ricerca di una legittimazione democratica del pubblico ministero è rappresentato dalla crescente, anche se non ancora piena, assunzione di responsabilità culturale, sociale e istituzionale dei capi degli uffici e dei singoli magistrati del pubblico ministero per le posizioni assunte e le opzioni interpretative prescelte nelle attività di ufficio.
Questa più ampia forma di responsabilità – che si affianca e completa il quadro delle responsabilità dei magistrati del pubblico ministero sul piano professionale, disciplinare, civile e penale – è quella che più si avvicina alla responsabilità propria degli organi democraticamente eletti[36] e può trovare peculiari forme di applicazione e di sanzione anche sul terreno istituzionale (come avviene in Italia grazie allo strumento gestito dal Csm del trasferimento d’ufficio di dirigenti e sostituti procuratori per incompatibilità ambientale o professionale).
Se mai c’è da prendere atto che, nel nostro come in altri ordinamenti, le garanzie di status del magistrato hanno spesso sbarrato la strada alle procedure di valutazione della professionalità o ne hanno falsato i risultati, precludendo di fatto l’operatività della (eccezionale ma non eludibile) selezione negativa, consistente nell’allontanamento dalle funzioni di quanti, per diverse circostanze, si rivelino inidonei allo svolgimento dei compiti di istituto.
9.6. L’interpretazione del proprio ruolo da parte di ogni singolo magistrato del pubblico ministero
Da ultimo, ma non certo in ordine di importanza, sta la lettura e l’interpretazione che del proprio ruolo dà ogni singolo magistrato del pubblico ministero.
È per più versi decisivo che egli non appiattisca la sua funzione né sui desiderata dell’esecutivo e del potere di maggioranza né sulle pulsioni e sulle pressioni delle forze di polizia, magari inseguendo l’illusione del pubblico ministero superpoliziotto e del crusading prosecutor.
Parlo di un pubblico ministero che continui a sentirsi e a lavorare, secondo la migliore tradizione dell’Europa continentale, come parte imparziale, soprattutto nella fase delle indagini, e come primo garante dei diritti della persona imputata.
Su nessun terreno come su quello di una deontologia comune dei pubblici ministeri europei si sono fatti in questi anni tanti e decisivi passi in avanti, grazie all’azione degli organismi operanti in seno all’Unione europea.
In quest’ambito l’appartenenza, in alcuni ordinamenti, del pubblico ministero alla stessa carriera dei magistrati giudicanti e la comunanza delle loro culture professionali ha svolto una funzione positiva documentata da studi sul campo, che rivelano quanto sia discutibile l’idea che da una più drastica separazione delle carriere possa derivare una soluzione ai problemi concernenti l’armonica collocazione del pubblico ministero nel quadro dello Stato democratico[37].
In conclusione, la convinzione dei magistrati italiani – da confrontare certo con i colleghi stranieri e con gli attori della giurisdizione – è che il pubblico ministero non debba divenire il soggetto egemone del processo, o peggio il padrone del processo e il soverchiante protagonista della scena mediatica della giustizia.
Egli deve essere invece organo di impulso dell’iniziativa penale in un quadro di costanti controlli sociali e professionali.
In una parola, il demiurgo del processo, ossia – come scriveva Platone nel Timeo – «colui senza il quale nessuna cosa può avere inizio».
Ma un “demiurgo” orientato nelle sue scelte di fondo dal potere democratico, sorvegliato dal giudice quando agisce e quando rimane inerte e interessato a rendere conto delle sue scelte alla collettività nella quale è inserito.
Così che il significato mitologico e filosofico della parola “demiurgo” possa più pianamente allinearsi al significato letterale del termine: “lavoratore pubblico” che opera, con laboriosità e imparzialità, nel campo della giustizia.
* Il presente saggio è frutto della rielaborazione della relazione svolta dall’Autore il 18 settembre 2020 nel Convegno fiorentino intitolato «Pubblico ministero e Stato di diritto in Europa», organizzato da MEDEL, Questione giustizia e dall’Università di Firenze.
1. Prosegue qui una ricerca cui questa Rivista dedica una costante attenzione. Sia perciò consentito rinviare in esordio agli scritti raccolti nel n. 1/2018 della Trimestrale sotto il titolo Il pubblico ministero nella giurisdizione.
2. Sul punto, mi sia consentito rinviare al mio scritto Avvocato della polizia. Storia recente e minacce sul futuro del pubblico ministero, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 1/2010, pp. 36 ss.
3. A. Duff, Discretion and Accountability in a Democratic Criminal Law, in M. Langer e D.A. Sklansky (a cura di), Prosecutors and Democracy: A Cross-National Study, Cambridge University Press, Cambridge, 2017, pp. 9-39, par. 2 (https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3055151).
4. Secondo il Code for Crown Prosecutors (par. 4.4), infatti, «prosecutors must be satisfied that there is sufficient evidence to provide a realistic prospect of conviction against each suspect on each charge. They must consider what the defence case may be, and how it is likely to affect the prospects of conviction. A case which does not pass the evidential stage must not proceed, no matter how serious or sensitive it may be”».
5. A. Duff, Discretion and Accountability, op. cit., par. 3.
6. Sulla pluralità di valutazioni che confluiscono nel public interest test, cfr. V. Colvin, The Riddle of Prosecutorial Discretion, in Id. e P. Stenning (a cura di), The Evolving Role of the Public Prosecutor. Challenges and Innovations, Routledge, New York-Oxon, 2019, pp. 139 ss. (cap. 9): «that begins by discussing the public interest test in the exercise of the discretion to prosecute. It then examines how discretion has been dealt with in the scholarly literature. It considers aspects of the decision that make it inherently susceptible to disputes: the diverse purposes that underlie the criminal law; conflicts regarding the appropriate role of individual interests in public prosecutorial decision-making; and the nature of prosecution as an enforcement decision. It will be argued that the decision to prosecute must be seen as situated at a nexus of competing considerations, no one of which is determinative».
7. Vds. J.S. Hodgson, The Democratic Accountability of Prosecutors in England and Wales and France: Independence, Discretion and Managerialism, in M. Langer e D.A. Sklansky (a cura di), Prosecutors and Democracy, op. cit., pp. 40-75.
8. J.S. Hodgson, ivi. L’Autrice afferma che solo il 2 per cento dei casi è trattato attraverso l’istruttoria.
9. In questi termini, S. Boyne, German Prosecutor and the Rechtstaat, in M. Langer e D.A. Sklansky (a cura di), Prosecutors and Democracy, pp. 147-148: «Although the principle of mandatory prosecution has long been heralded as the cornerstone of German criminal justice, beginning in the 1970s, the principle began to lose some of its prescriptive force. In particular, during the past four decades, in an effort to help prosecutors to handle rising caseloads in an era of flat budgets, German legislators began carve out exceptions to the principle in non-felony cases. The more significant changes give prosecutors the power to dismiss minor cases not in the public interest, resolve cases with a penal order, and even to enter into a confession agreement after an abbreviated proceeding. As a result of these changes, the prominent German legal scholar Thomas Weigend wrote “[t]oday prosecution is in effect mandatory only with respect to most felonies”. Because these changes have widened prosecutors’ discretion with respect to less serious crimes, wide variations in case handling practices have developed throughout Germany. As a result, case dismissal rates in minor crime cases vary widely throughout Germany with states in the Northern part of Germany posting the highest dismissal rate and those in the southern part posting the lowest. Even though prosecutors now may use a wide range of disposition options, because the sentencing philosophy of the German system focuses on rehabilitation and eschews long sentences, German prosecutors lack the degree of leverage that American prosecutors enjoy to force a plea».
10. S. Boyne, op. ult. cit., pp. 153-154.
11. Sul fatto che la discrezionalità dell’azione penale possa tradursi in un pericolo per l’eguaglianza dei cittadini vds. le considerazioni svolte da P. Barile, L’obbligatorietà dell’azione penale, in Aa. Vv., Scritti in onore di A. Bozzi, Cedam, Padova, 1992, pp. 29 ss.
12. Corte cost., 15 febbraio 1991, n. 88, (www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:1991:88).
13. G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Giappichelli, Torino, 1997, p. 128.
14. V.L. Daga, Pubblico ministero (Diritto costituzionale), in Enc. giur., vol. XXV, Treccani, Roma, 1991, p. 3, e la Relazione annuale sullo stato della giustizia, Roma, 1992, p. 39 (a cura di A. Pizzorusso).
15. Corte cost., n. 148/1963.
16. Di discrezionalità «fisiologica» del pubblico ministero parla P. Barile, L’obbligatorietà, op. cit., pp. 29 ss.
17. Ci si riferisce alla possibilità per il pubblico ministero di richiedere al giudice una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto nel processo penale minorile e nel processo dinanzi al giudice di pace e all’istituto dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. L’art. 131-bis cp, inserito nel codice dall’art. 1, comma 2, d.lgs 16 marzo 2015, n. 28 consente al pubblico ministero di chiedere l’archiviazione per particolare tenuità del fatto (art. 411 cpp).
18. L’art. 7-ter dell’ordinamento giudiziario (rd 30 gennaio 1941) era stato introdotto dall’art. 6 d.lgs 19 febbraio 1998, n. 51.
19. Sul significato e sul valore da attribuire all’obbligo di trasmissione del progetto organizzativo al Csm, cfr. la delibera 12 luglio 2007 e la risoluzione 21 luglio 2009 del Csm.
20. T. Coletta, Il pubblico ministero nella riforma, in M. Abbruzzese - T. Coletta - E. Di Dedda - G. Mattencini - M. Olivetti, Guida alla riforma dell’ordinamento giudiziario, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 235-295.
21. V. Pacileo, Pubblico ministero. Ruolo e funzioni nel processo penale e civile, Utet Giuridica, Milano, 2011, p. 35.
22. Sul punto, cfr. L. Forteleoni, Criteri di priorità degli uffici di procura, in Magistratura indipendente, 8 aprile 2019 (www.magistraturaindipendente.it/criteri-di-priorita-degli-uffici-di-procura.htm).
23. Cfr., sul punto, Csm, delibera 12 luglio 2007 e risoluzione 21 luglio 2009.
24. Così la risoluzione 21 luglio 2009 del Csm, che evidenzia l’opportunità dell’invio del programma organizzativo al Consiglio giudiziario nonché – nell’ambito di un circuito di informazione interno al sistema degli uffici requirenti – al procuratore generale presso la corte di appello, titolare del potere di verifica sul puntuale esercizio dei poteri di direzione, controllo e organizzazione da parte del procuratore della Repubblica.
25. L’art. 2, comma 2 del ddl prevede: «Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1 della presente legge, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche alla disciplina dell’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero e alle procedure di approvazione delle tabelle di organizzazione degli uffici previste dall’articolo 7-bis dell’ordinamento giudiziario, di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: a) prevedere che il Consiglio superiore della magistratura stabilisca i princìpi generali per la formazione del progetto organizzativo con cui il procuratore della Repubblica determina i criteri di cui all’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106; b) prevedere che il progetto organizzativo contenga in ogni caso: 1) la costituzione dei gruppi di lavoro, ove possibile, nel rispetto della disciplina della permanenza temporanea nelle funzioni e i criteri di designazione dei procuratori aggiunti ai gruppi di lavoro e di assegnazione dei sostituti procuratori ai gruppi medesimi, secondo procedure trasparenti che valorizzino le specifiche attitudini dei magistrati; 2) i criteri di assegnazione e di coassegnazione dei procedimenti e le tipologie di reati per i quali i meccanismi di Atti Parlamentari — 100 — Camera dei Deputati XVIII LEGISLATURA A.C. 2681 assegnazione del procedimento siano di natura automatica; 3) i criteri di priorità nella trattazione degli affari; 4) i compiti di coordinamento e direzione dei procuratori aggiunti; 5) i compiti e le attività delegate dei vice procuratori onorari; 6) il procedimento di esercizio delle funzioni di assenso sulle misure cautelari; 7) le ipotesi e il procedimento di revoca dell’assegnazione; 8) per le sole procure distrettuali, l’indicazione dei criteri per il funzionamento e l’assegnazione dei procedimenti della direzione distrettuale antimafia e delle sezioni antiterrorismo; 9) l’individuazione del procuratore aggiunto o comunque del magistrato designato come vicario, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, con la specificazione dei criteri che ne hanno determinato la scelta; 10) i criteri ai quali i procuratori aggiunti e i magistrati dell’ufficio devono attenersi nell’esercizio delle funzioni vicarie o di coordinamento o comunque loro delegate dal capo dell’ufficio».
26. Nel disegno di legge delega presentato il 13 marzo alla Camera dei deputati dal Ministro della giustizia, AC n. 2435, è previsto un meccanismo di verifica giudiziale, su richiesta di parte, della tempestività nell’iscrizione delle notizie di reato, al fine di rendere ineludibile il termine di durata massima delle indagini preliminari. «L’innesto normativo» – si legge nella relazione introduttiva al ddl – «si propone di risolvere i problemi, da tempo avvertiti, che originano dall’assenza di effettivi rimedi processuali per i ritardi nell’iscrizione nel registro delle notizie di reato. Al fine di evitare un utilizzo improprio dello strumento di controllo giurisdizionale, si pone a carico dell’interessato, che chiede l’accertamento della data di effettiva acquisizione della notizia di reato, l’onere di indicare specificamente, a pena di inammissibilità, le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono la richiesta».
27. Sul tema vds., da ultimo, P. Borgna, Esercizio obbligatorio dell’azione penale nell’era della “pan-penalizzazione”, in questa Rivista online, 31 ottobre 2019, www.questionegiustizia.it/articolo/esercizio-obbligatorio-dell-azione-penale-nell-era-della-ldquopan-penalizzazionerdquo_31-10-2019.php. Vds. anche R. Kostoris, Per un’obbligatorietà temperata dell’azione penale, in Rivista di diritto processuale, n. 4/2007. Mi sia consentito rinviare anche a un mio lontano scritto sul tema: Per una concezione realistica dell’obbligatorietà dell’azione penale, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 2/1997, pp. 309-318.
28. Nella relazione al disegno di legge delega presentato il 13 marzo alla Camera dei deputati dal Ministro della giustizia, AC n. 2435, si legge: «al comma 1, lettere a) e i), si demanda al legislatore delegato la definizione di regole di giudizio più rigorose per l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero e per la pronunzia del decreto che dispone il giudizio da parte del giudice dell’udienza preliminare. In entrambi i casi – rispettivamente disciplinati dall’articolo 125 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, e dall’articolo 425, comma 3, del codice di procedura penale – si intende evitare la celebrazione di processi penali sulla base di elementi che non siano sufficienti per giustificare una condanna. Si prevede, in tal senso, che sia richiesta (e disposta) l’archiviazione o che non sia disposto il giudizio (ma emessa sentenza di non luogo a procedere) quando gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non consentano una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria in giudizio. Non sarà più richiesta la sola sostenibilità dell’accusa in giudizio quale parametro per l’esercizio dell’azione penale o per il rinvio a giudizio, ma occorrerà che il pubblico ministero e il giudice dell’udienza preliminare siano in grado di prevedere che il giudizio dibattimentale si concluda con una sentenza di condanna del responsabile. Attraverso la formulazione di tali stringenti regole di giudizio si intende evitare inutili esperienze processuali destinate sin dall’origine ad avere esiti assolutori scontati. Tale obiettivo va perseguito, come si è visto, sia attraverso la riformulazione dell’articolo 125 delle norme di attuazione del codice, in materia di archiviazione, sia attraverso la ridefinizione di un ruolo di effettivo filtro dell’udienza preliminare».
I testi base delle audizioni parlamentari sul ddl, AC n. 2435, di Edmondo Bruti Liberati, Federico Cafiero De Raho, Giandomenico Caiazza, Giovanni Canzio, Luca Poniz, Mauro Ronco, Nicola Russo, Giovanni Salvi sono stati pubblicati, con nota della Direzione, in questa Rivista online: Per l’efficienza del processo penale, 19 novembre 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/osservazioni-sul-ddl-di-riforma-del-processo-penale-a-c-2435.
29. Nella relazione al già citato ddl AC n. 2435 si afferma, tra l’altro, che al fine di assicurare nella trattazione degli affari penali da parte degli uffici del pubblico ministero la salvaguardia dei princìpi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione pubblica (incompatibili con una sostanziale discrezionalità del singolo magistrato nelle scelte sulle priorità) si intende introdurre, quale dovere istituzionale del procuratore della Repubblica, la redazione di criteri di priorità per ciascun ufficio, previa interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale. Tali criteri – prosegue la relazione – «confluendo nei progetti organizzativi, dovranno tenere conto dei princìpi elaborati in materia dal Consiglio superiore della magistratura nonché delle specificità proprie delle realtà territoriali e delle risorse, personali e reali, disponibili. Si rende in tal modo obbligatoria la formulazione di criteri per la trattazione dei procedimenti nell’ambito delle procure della Repubblica, così disciplinando un adempimento che attualmente, secondo le circolari elaborate in materia dal Consiglio superiore della magistratura, rappresenta un potere del procuratore». Nella delega è previsto un meccanismo di verifica giudiziale, su richiesta di parte, della tempestività nell’iscrizione delle notizie di reato, al fine di rendere ineludibile il termine di durata massima delle indagini preliminari. L’innesto normativo si propone di risolvere i problemi, da tempo avvertiti, che originano dall’assenza di effettivi rimedi processuali per i ritardi nell’iscrizione nel registro delle notizie di reato. Al fine di evitare un utilizzo improprio dello strumento di controllo giurisdizionale, si pone a carico dell’interessato, che chiede l’accertamento della data di effettiva acquisizione della notizia di reato, l’onere di indicare specificamente, a pena di inammissibilità, le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono la richiesta.
30. Singolare ragionamento, quest’ultimo, che ignora il peculiare valore dei “principi”, che non vanno abbandonati per il solo fatto che la loro pratica attuazione è solo parziale, tendenziale, imperfetta, giacché essi valgono a indicare ai soggetti pubblici e privati la direzione di marcia da seguire e i criteri da adottare.
31. G. Di Federico, Prosecutorial Independence and The Democratic Requirement of Accountability in Italy, in British Journal of Criminology, vol. 38, n. 3/1998, p. 373.
32. Nell’art. 3, lett. h del ddl si affida al Governo il compito di: «prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre; prevedere che nell’elaborazione dei criteri di priorità il procuratore della Repubblica curi in ogni caso l’interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale e tenga conto della specifica realtà criminale e territoriale, delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili e delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti».
33. Nel capo III del ddl citato, riguardante «Disposizioni in materia di eleggibilità e ricollocamento dei magistrati in occasione di elezioni politiche e amministrative nonché di assunzione di incarichi di governo nazionale, regionale o locale» è contenuta, negli artt. 12-18, una dettagliata disciplina dell’elettorato passivo dei magistrati e del conferimento di incarichi di governo (eleggibilità, aspettativa, ricollocamento in ruolo dei magistrati candidati e non eletti, ricollocamento in ruolo e inquadramento dei magistrati al termine di mandati elettivi o di incarichi di governo).
34. Così l’art. 15 del ddl citato: «Ricollocamento in ruolo dei magistrati candidati e non eletti – 1. I magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari in aspettativa, esclusi quelli in servizio presso le giurisdizioni superiori o presso gli uffici giudiziari con competenza territoriale a carattere nazionale, candidatisi ma non eletti alla carica di parlamentare nazionale o europeo, di consigliere regionale o provinciale nelle province autonome di Trento e di Bolzano, di sindaco in comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti, successivamente alla proclamazione degli eletti alle medesime cariche, non possono essere ricollocati in ruolo con assegnazione a un ufficio avente competenza in tutto o in parte sul territorio di una regione compresa in tutto o in parte nella circoscrizione elettorale in cui hanno presentato la candidatura, né possono essere ricollocati in ruolo con assegnazione a un ufficio del distretto nel quale esercitavano le funzioni al momento della candidatura. 2. Il ricollocamento in ruolo ai sensi del comma 1 è disposto con divieto di esercizio delle funzioni di giudice per le indagini preliminari e dell’udienza preliminare o di pubblico ministero e con divieto di ricoprire incarichi direttivi e semidirettivi o di conseguire qualifiche direttive. 3. I limiti e i divieti di cui ai commi 1 e 2 del presente articolo hanno una durata di tre anni, fermo restando, per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, quanto previsto dall’articolo 8, secondo comma, del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361».
35. Così gli artt. 16 e 17 del ddl. Art. 16: «Ricollocamento dei magistrati a seguito della cessazione di mandati elettivi e incarichi di governo – 1. Per il ricollocamento dei magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari che per un periodo superiore a un anno hanno ricoperto la carica di parlamentare nazionale o europeo, di componente del Governo, di consigliere regionale o provinciale nelle province autonome di Trento e di Bolzano, di presidente o di assessore nelle giunte delle regioni o delle province autonome di Trento e di Bolzano, di sindaco in comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti, si applicano le disposizioni previste dal presente articolo e dal regolamento di cui all’articolo 17.2. Al termine del mandato, qualora non abbiano già maturato l’età per il pensionamento obbligatorio, i magistrati di cui al comma 1 del presente articolo sono inquadrati in un ruolo autonomo del Ministero della giustizia, di un altro Ministero o della Presidenza del Consiglio dei ministri, secondo quanto previsto dal regolamento di cui all’articolo 17 e non si considerano appartenenti ai ruoli della magistratura. L’inquadramento di cui al primo periodo determina la riduzione temporanea della dotazione organica della magistratura, fino alla cessazione dall’impiego, mediante il congelamento di un numero di posti equivalente dal punto di vista finanziario. 3. Le disposizioni del presente articolo si applicano alle cariche di cui al comma 1 assunte dopo la data di entrata in vigore della presente legge». Art. 17: «Inquadramento dei magistrati ricollocati – 1. Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, con regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, il Governo provvede a disciplinare l’inquadramento dei magistrati ricollocati nei ruoli di cui all’articolo 16, comma 2, della presente legge. Il regolamento disciplina le modalità del predetto inquadramento, prevedendo la collocazione funzionale dei magistrati all’interno dell’amministrazione in cui sono ricollocati e il relativo trattamento economico. 2. L’inquadramento giuridico ed economico dei magistrati ricollocati prevede l’assegnazione nei ruoli amministrativi dirigenziali non generali delle amministrazioni di destinazione e, se superiore a quello previsto dal nuovo inquadramento, la conservazione, senza soluzione di continuità, del trattamento economico annuo lordo in godimento all’atto del collocamento in aspettativa. Il predetto trattamento economico è determinato limitatamente alle voci fisse e continuative, con esclusione delle voci correlate allo svolgimento della funzione magistratuale, mediante il riconoscimento di un assegno ad personam, riassorbibile con gli eventuali miglioramenti economici a qualsiasi titolo conseguiti».
36. Su questa peculiare forma di responsabilità, per più versi fondamentale, si rinvia agli scritti di Marco Ramat, e segnatamente a La responsabilità politica della magistratura, in Foro amministrativo, n. 3/1969, pp. 15-25.
37. Il tema è divenuto così annoso e le contrapposte argomentazioni si sono così cristallizzate che è quasi impossibile dire in materia qualcosa di nuovo. A testimonianza di questo stato di cose, mi permetto di rinviare alle considerazioni svolte in un mio lontano scritto: Pubblico ministero e giudice: separazione delle carriere?, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 3-4/1996, pp. 187-195, che potrei “impunemente” ripetere ancor oggi a dispetto del tempo passato.