1. Il colloquio con il proprio avvocato è segreto. Non può essere ascoltato, spiato, videoregistrato. È un incontro costituzionalmente presidiato, nel quale, in un'intesa fiduciaria protetta, l'assistito affida la propria storia umana e processuale a chi è tenuto a difenderlo, a curare i suoi interessi, in una comunicazione sottratta al controllo ed alla vigilanza del potere pubblico. Ciò vale all’interno di uno studio legale, al telefono e, forse con maggior forza, in carcere, tanto più nei regimi privativi del 41 bis dove il soggetto recluso versa in una condizione di oggettiva vulnerabilità determinata dalla reclusione di rigore. La protezione della segretezza del rapporto difensivo è parte del volto costituzionale della pena e l'avvocato, nella sua funzione di garante, ne è espressione.
Tali principi sono rimarcati con vigore dalla recente sentenza della Corte Costituzionale, n. 18 del 2022 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), della legge 26 luglio 1975, n. 354 nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori. La pronuncia si è resa necessaria in ragione di un’incongruenza di sistema scaturita dalla mancata enunciazione nell'art. 41 bis O.P. del difensore tra i soggetti esclusi dal controllo della corrispondenza diversamente dal dato testuale dell'art. 103, comma 6 c.p.p. che espressamente lo menziona.
La mancata indicazione dall'avvocato tra i soggetti le cui comunicazioni non sono assoggettabili a controllo nella disciplina speciale di cui all’art. 41 bis o.p. è figlia di una suggestione antica quanto inaccettabile che non manca di contaminare perfino gli scranni parlamentari, che gli avvocati siano longa manus dei loro assistiti, asserviti alle loro dinamiche criminali quando non complici; una visione simbiotica tra l’avvocato e il suo assistito che induce l'ignoranza populista al linciaggio di chi assuma la difesa di persone attinte da gravissime accuse relative ai reati di particolare allarme sociale o alle condotte più riprovevoli.
Una macchina del fango mai paga, veleni mai sopiti e la criminalizzazione delle battaglie di diritto scomode. Un facile approdo per chi non vuole farsene carico, battaglie di civiltà che richiedono un altissimo senso di rispetto per le Istituzioni, abnegazione, rigore morale, coraggio.
2. Nella sentenza della Corte Costituzionale si legge: «In effetti, come osserva anche l’amicus curiae, la disposizione censurata si fonda su una generale e insostenibile presunzione – già stigmatizzata dalla sentenza n. 143 del 2013 – di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso. Ruolo che, per risultare effettivo, richiede che il detenuto o internato possa di regola comunicare al proprio avvocato, in maniera libera e riservata, ogni informazione potenzialmente rilevante per la propria difesa, anche rispetto alle modalità del suo trattamento in carcere e a violazioni di legge o di regolamento che si siano, in ipotesi, ivi consumate. Infine, il vulnus al diritto di difesa risulta particolarmente evidente nei confronti dei detenuti meno abbienti. Qualora infatti il detenuto sia stato trasferito in una struttura penitenziaria distante dalla città in cui ha sede il proprio difensore di fiducia, la corrispondenza epistolare potrebbe divenire il principale mezzo a disposizione per comunicare con lo stesso difensore; mentre i detenuti provvisti – anche in ragione della propria posizione apicale nell’organizzazione criminale – di maggiori disponibilità economiche potrebbero assai più agevolmente sostenere i costi e gli onorari connessi ai viaggi del proprio avvocato finalizzati allo svolgimento dei colloqui[1]».
E, in effetti, così è perché anche la telefonata con il difensore per chi è ristretto in 41 bis è tutt’altro che agile. Il detenuto formula la «domandina» e il carcere in cui si trova contatta quello più vicino al luogo dove ha sede lo studio legale perché concordi con il difensore una data disponibile per la telefonata da ricevere sempre in carcere previa ulteriore conferma dal penitenziario in cui si trova il ristretto. Inutile chiarire che per l’avvocato sia tutt’altro che semplice destinare una mattina all’attesa, in un istituto di pena, della telefonata del proprio assistito che gli richiede di spogliarsi del telefono per aspettare pazientemente il raccordo tra le due strutture.
La corrispondenza, dunque, nelle sezioni di detenzione derogatoria, assume una importanza straordinaria.
Una riflessione, però, appare necessaria nonché immediatamente e logicamente consequenziale al valore assoluto della segretezza del rapporto difensivo. Se il difensore parla al suo assistito in privato in una bolla di protezione costituzionale, non c'è ragione di leggere la sua corrispondenza, di spiare gli atti processuali o gli appunti che porta con sé a colloquio per verificare eventuali indebite o criminogene "interpolazioni nel testo", per usare un'espressione assai cara ai censori, di fargli utilizzare solo penne trasparenti dove non possa occultare pizzini, perché quello che avrà da dire lo dirà e nessuno (viva Dio!) potrà ascoltarlo.
«Sotto questo profilo – chiarisce, infatti, la Corte - non può escludersi in assoluto che tali ordini o istruzioni possano essere trasmessi anche attraverso l’intermediazione di un difensore; sicché l’estensione alle comunicazioni con i difensori del visto di censura potrebbe, in astratto, ritenersi misura funzionale a ridurre il rischio di un tale evento. Riguardata, però, nel contesto delle altre misure previste dal comma 2-quater dell’art. 41-bis o.p., la disposizione in esame si appalesa del tutto inidonea a tale scopo, dal momento che il temuto scambio di informazioni tra difensori e detenuti o internati potrebbe comunque avvenire nel contesto dei colloqui visivi o telefonici, oggi consentiti con il difensore in numero illimitato, e rispetto al cui contenuto non può essere operato alcun controllo[2]».
3. In concreto la pronuncia della Consulta non ha determinato grandi cambiamenti, soprattutto riguardo alla corrispondenza in entrata.
La prassi stabilmente praticata negli istituti di pena prevede che la persona detenuta che intenda proteggere dalla censura la missiva indirizzata al difensore, scriva sulla busta: «corrispondenza riservata per motivi di giustizia» e indichi il numero di procedimento sul quale insiste la nomina del legale. Ove sia l'avvocato a valutare l'opportunità che la corrispondenza rimanga segreta, oltre ad esplicitare tale intenzione, dovrà certificare la propria identità facendo apporre un visto dal Consiglio dell'Ordine di appartenenza.
È una procedura, quella della corrispondenza in entrata, certamente farraginosa e che può tradursi in ritardi nel prestare una difesa efficace e, tuttavia, mantiene una sua ragionevolezza.
L’art. 103, comma 6, del codice di procedura penale vieta espressamente il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra gli imputati – ancorché detenuti o internati – e i propri difensori, salvo che nell’ipotesi in cui l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato, e sempre che siano state osservate le formalità prescritte dall’art. 35 delle Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, finalizzate ad assicurare la riconoscibilità di tale corrispondenza per l’amministrazione penitenziaria.
«L'ordinamento vigente assicura ampia tutela alle esigenze comunicative tra il soggetto ristretto in carcere ed il proprio difensore, senza alcuna interferenza o controllo di sorta. Ciò avviene, tuttavia, nell'ambito di una cornice normativa che tende a responsabilizzare il difensore ed a creare assoluta certezza circa la provenienza della missiva dal soggetto abilitato. In tale direzione si pone la previsione di legge di cui all'art. 35 disp. att. c.p.p., specie lì dove - al comma 2 - prevede l'autentica della sottoscrizione del difensore/mittente da parte del presidente del consiglio dell'ordine di appartenenza o di un suo delegato. Tale aspetto trasferisce su un soggetto 'esterno' una importante funzione di garanzia (attestazione di identità e qualità del mittente) da cui deriva, come conseguenza, la totale assenza di controllo sui contenuti del plico, ai sensi dell'art. 103, co. 6, cod. proc. pen.» (Cass. Sez. I, sent. 21737/2019)
La Consulta, sent. 18/2022, espressamente richiama la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017 intitolata «Organizzazione del circuito detentivo speciale previsto dall’art. 41-bis O.P.». L’art. 18.1 di tale circolare dispone infatti espressamente che «[v]’è tassativo divieto di sottoporre a limitazioni e/o controlli la corrispondenza cd. “per giustizia”, ovvero la corrispondenza indirizzata ai soggetti indicati nel comma 5 dell’art. 103 del codice procedura penale», nonché a tutte le autorità indicate nell’art. 35 delle relative norme di attuazione.
Il richiamo esplicito alle modalità descritte nella circolare determina, all'evidenza, la necessità che si perduri nell'accertamento dell'identità del mittente. Sarebbe ben semplice che chiunque inviasse al carcere contenuti anche indebiti scrivendo sulla busta quale mittente il nominativo e l'indirizzo di un avvocato o predisponesse una rudimentale carta intestata. Ciò non può e non deve accadere anche a tutela degli avvocati il cui nome potrebbe essere utilizzato quale strumento per loro del tutto inconsapevole di trasmissione di messaggi dal contenuto illecito.
D'altronde la Corte Costituzionale richiama espressamente le decisioni della Cassazione che, nel ribadire il vincolo di segretezza delle comunicazioni del detenuto col proprio difensore, hanno rimarcato l'esigenza di protezione sociale coerente agli scopi del regime di cui all'art. 41 bis, di verificare l'identità del mittente attraverso le procedure di garanzia di cui agli artt. 103 c.p.p. e 35 disp. att. c.p.p.:
«Nello stesso senso paiono implicitamente orientate anche alcune recenti decisioni della Corte di cassazione, che affermano la legittimità di singole misure di controllo sul contenuto della corrispondenza del detenuto in regime differenziato ex art. 41-bis o.p. con il proprio difensore in casi in cui non erano state osservate le formalità dettate per l’invio della corrispondenza “per ragioni di giustizia” dagli artt. 103 cod. proc. pen. e 35 norme att. cod. proc. pen., nonché dall’art. 16.4 della menzionata circolare del DAP (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 22 giugno 2020, n. 23820; sezione prima penale, sentenza 20 febbraio 2019, n. 21737). Da tali decisioni si può infatti desumere a contrario che le misure in questione non sarebbero state legittime ove le predette formalità fossero state rispettate (si veda altresì Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 28 febbraio 2019, n. 27571, che rigetta il ricorso avverso un provvedimento di trattenimento della corrispondenza di un detenuto in regime differenziato ex art. 41-bis o.p. poiché non risultava l’afferenza di tale corrispondenza a procedimenti nei quali risultasse depositata la nomina di quel difensore, con la significativa precisazione che – ove siano rispettate le formalità prescritte dalla legge per la corrispondenza con i difensori – resta ferma «l’impossibilità di accedere ai contenuti della comunicazione»)» (C. Cost. n. 18/2022).
Specifiche limitazioni anche di diritti fondamentali, d'altronde, scrive la Consulta sono «costituzionalmente legittime soltanto in quanto appaiano, da un lato, funzionali rispetto alla peculiare finalità del regime speciale in parola, che mira non già ad assicurare un surplus di punizione per gli autori di reati di speciale gravità, bensì esclusivamente a contenere la persistente pericolosità di singoli detenuti, «in particolare impedendo i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà».
4. La sentenza n. 18 del 2022, dunque, deve essere letta, così come si evince dal testo della motivazione, in coerenza con la disciplina vigente laddove tutela la assoluta segretezza delle comunicazioni tra il difensore e il detenuto ma nella ferma necessità di garantire che la corrispondenza in entrata provenga effettivamente dal difensore sul quale ricade l'onere e la responsabilità di dare contezza della propria identità.
La corrispondenza in uscita rivolta al difensore presso il suo studio legale, ove il difensore risulti nominato dal ristretto, dovrà essere esente dal visto di censura. Per la corrispondenza in entrata il mancato controllo sarà subordinato alla certezza che la corrispondenza provenga effettivamente dal difensore nominato con gli ordinari strumenti di tutela già apprestati dall'ordinamento. In ogni caso, risulterà superflua la specificazione dei motivi della relazione epistolare che è e deve essere libera, protetta, segreta.