Premessa
La sentenza con la quale il Tribunale per i minorenni di Roma ha sancito l’adozione di una bambina da parte della compagna lesbica della madre naturale ha destato svariate polemiche.
Colpiscono le riflessioni di Adriano Pessina (ordinario di filosofia morale all’Università Cattolica di Milano) sul Corriere della Sera di domenica 31 agosto. I giudici avrebbero trasceso l’ordinamento costituzionale ed i rischi sarebbero quello di introdurre “diritti e mutare assetti relazionali” ed allentare “il senso di corresponsabilità” e di sancire “il diritto ad avere figli…pensati come coronamento della vita dei genitori”. Mentre leggevo queste parole, sentivo il chiacchiericcio da spiaggia: “eccome! mio cugino e sua moglie aspettano da anni di adottare un figlio ed invece il Tribunale manda i bambini dagli omosessuali”.
Con le dovute differenze di stile espositivo, sono le facce della stessa medaglia: totale ignoranza sia del caso concreto che ha originato la decisione, sia delle norme vigenti in materia di adozione e del significato profondo dell’istituto.
Basta la lettura, assai scorrevole, delle motivazioni della sentenza per fare giustizia dei pregiudizi che l’hanno accompagnata.
Il caso
Una coppia lesbica, convivente da tempo, sposata in Spagna, iscritta nel registro degli unioni civili della città di residenza, ricorre alla fecondazione artificiale, evidentemente eterologa, sempre in Spagna. Così una delle due donne partorisce una figlia.
La bambina viene, sin dalla nascita, allevata dalle due donne, con le quali ha sempre vissuto, dalle quali ha ricevuto affetto, accudimento morale e materiale, chiamandole entrambe mamme. Tale assetto familiare viene anche proiettato all’esterno, a scuola, nel gruppo dei pari, dove la bambina viene conosciuta come figlia di due mamme: una mamma “biologica” ed una mamma “sociale”, entrambe però portatrici di cura verso la minore.
La mamma “sociale” ricorre al Tribunale per i minorenni per adottare la bambina.
La serenità della minore e la qualità del rapporto fra ella e le mamme vengono riconosciute dall’assistente sociale, dalla psicologa e dall’insegnante tutte ascoltate, nel corso dell’istruttoria svolta dal Tribunale.
Il Tribunale decide per l’adozione.
La disciplina dell’adozione
Accanto alle ipotesi di adozione legittimante, che presuppone lo stato di abbandono del minore e che è riservata alle sole coppie sposate, l’ordinamento giuridico conosce l’adozione “in casi speciali”, disciplinata dall’art. 47 legge n. 184/83. Si tratta di ipotesi particolari, che consentono l’adozione: a) di un orfano di entrambi i genitori da parte di un congiunto o di chi si sia sempre occupato di lui; b) da parte del coniuge del genitore naturale; c)di un minore portato di handicap; d) quando sia impossibile l’affidamento preadottivo. Sono tutti casi, che prescindono dalla prova dello stato di abbandono del minore e realizzano l’interesse del minore ad essere adottato, pure sussistendo genitori o parenti che se ne possano prendere cura. La ratio profonda dell’istituto è dare veste giuridica a rapporti “di fatto”, fondati sull’accudimento del minore, prolungato nel tempo. Le ipotesi sub a), c) e d) sono consentite anche a “chi non è coniugato” e dunque anche al single.
Proprio questa è stata la strada promossa dalla ricorrente ed accolta dal Tribunale.
In particolare, il Tribunale ha applicato l’ipotesi sub d), rifacendosi alla consolidata giurisprudenza secondo la quale l’impossibilità di un affidamento preadottivo consiste non solo nelle impossibilità “di fatto” ma anche in quelle “di diritto”. Ossia nei casi in cui l’esistenza di rapporti del minore con i genitori o con uno di essi renda impossibile la dichiarazione di abbandono e dunque l’affidamento preadottivo. E’ la soluzione diffusamente praticata dai Tribunali quando il minore non è del tutto abbandonato ma i genitori apprestano (o cercano di apprestare) un minimo di cura, tuttavia inadeguata alle esigenze del figlio.
Nel caso di specie, l’esistenza della madre “biologica” (ovviamente attiva nell’accudimento della figlia) rende impossibile la dichiarazione di abbandono e l’affidamento preadottivo e dunque pienamente applicabile l’ipotesi di cui alla lettera d), fra l’altro azionabile anche da una single, come la ricorrente-madre “sociale” secondo l’anagrafe italiana.
Il passaggio, scandaloso ma ermeneuticamente ineludibile, del tribunale capitolino è quello in cui non ritiene che l’orientamento sessuale della ricorrente possa ostare all’adozione.
Passaggio scontato perché, secondo le regole generali in materia di interpretazione, le eccezioni alla regola generale devono essere espressamente menzionate ed, ove non lo sono, non possono essere create in via pretoria. Se chiunque, anche chi non è coniugato, può adottare “nei casi speciali”, il solo orientamento sessuale non può precludere l’accoglimento del ricorso. Sempre ovviamente, come è stato dimostrato nel caso concreto, l’adottante abbia una capacità genitoriale adeguata e sia idonea a soddisfare le esigenze dell’adottando.
A ragionare diversamente, si darebbe luogo ad un’ingiustificata discriminazione come riconosciuto dalla Corte di Cassazione proprio in materia di affidamento di un minore ad un genitore omosessuale: l’assunto per cui il corretto ed armonioso sviluppo psichico del minore possa essere garantito soltanto dal suo inserimento in una dinamica di coppia eterosessuale, resta espressione di un pregiudizio (come tale inaccettabile socialmente e ancor di più privo di spessore giuridico) laddove esso non sia suffragato da adeguati riscontri scientifici o da dati di esperienza, ragion per cui allo stato – in assenza di tali riscontri – non vi è motivo per ritenere dannosa per un minore la sua permanenza all’interno di una nucleo omosessuale, eventualmente composto, come nel caso esaminato dalla Corte , dalla madre e dalla sua compagna.
Del resto, numerose sono le decisioni dei giudici di merito che addirittura hanno proceduto all’affidamento di minori a coppie omosessuali, spesso in un dialogo fruttuoso con le pronunce delle corti sovranazionali.
Ma la decisione romana non è solo conforme alla giurisprudenza, sospettabile, secondo il prof. Pessina, di sovversione dell’ordine costituzionale.
Come puntualmente precisano i giudici romani, le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale sono vietate tanto dalla Costituzione repubblica (art. 3 Cost.), quanto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione Europea (che vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali).
Dunque, nessuno sovvertimento della Costituzione vigente ma un suo corretto utilizzo quale faro interpretativo.
L’interesse del minore
Sbaglia, il prof. Pessina, anche quando teme che decisioni come quella romana possano mutare “assetti relazionali” ed allentare “il senso di corresponsabilità”.
Invece, come è agevole comprendere leggendone le motivazioni, la decisione è stata assunta proprio per dare “veste giuridica” ad una felice e consolidata relazione fra la minore e la madre sociale. Nessuna creazione di rapporti artificiali ma la piena tutela giuridica di rapporti personali, maturati negli anni, fondati sulla cura materna e sul riconoscimento della donna come figura adulta di riferimento. Nessun venire meno dei vincoli di corresponsabilità, ma anzi l’assunzione formale e definitiva di oneri e responsabilità genitoriali, finora adempiuti solo “di fatto”.
Non per nulla, in ogni passaggio motivazionale, il Tribunale ribadisce che l’adozione è la scelta più adeguata a soddisfare l’interesse della minore, che da sempre riconosce quali suoi genitori la mamma biologica e la mamma sociale.
Ed è the best interest of the child imposto dall’art.3, comma 1 della Convenzione sui diritti del fanciullo a dovere sempre orientare il giudice, chiamato a decidere su questioni che riguardano i minori.
Le relazioni familiari mettono alla prova la giurisdizione, chiamata a dare risposte alla molteplici domande che l’evoluzione della società e della tecnologia ha posto, trasformando l’istituto codificato nel codice civile in una più complessa e variegata rete di relazione affettive ed umane.
I fenomeni migratori portano famiglie diverse da quelle fondate sulla tradizione cristiana e legami familiari, sconosciuti agli ordinamenti occidentali. L’istituto islamico della kafāla, che surroga ai legami familiari in caso di mancanza dei genitori, è oramai conosciuto dai giudici nazionali, chiamati a deciderne la rilevanza nei casi di ricongiungimento familiare o dei procedimenti per la dichiarazione di adattabilità.
Alcune comunità straniere praticano una gestione comunitaria della prole, non riservando la cura dei figli ai soli genitori biologici ma delegandola ad un componente della famiglia allargata o della comunità che, non lavorando, si dedica all’accudimento dei figli altrui. Nei quartieri delle nostre città si riproducono così modelli di organizzazione familiare e cura dei piccoli, già sperimentate dai nostri avi nei casolari di campagna. Valutare questo fenomeno con la sola lente della famiglia nucleare coniugale, alla quale siamo tutti abituati, significherebbe sanzionare i genitori che delegano totalmente le loro funzioni a terzi.
L’evoluzione medico scientifica consente la formazione di famiglie non più fondate sul (finora) naturale divario anagrafico fra genitori e figli, famiglie che prescindono dall’identità fra genitori biologici e genitori sociali e che addirittura prescindano dalla diversità di sesso fra i genitori.
Il modificarsi dei costumi moltiplica le famiglie nelle quali sempre meno le funzioni genitoriali sono svolte esclusivamente dal maschio e dalla femmina che hanno concepito il figlio. Capita che si prenda cura di un minore il nuovo compagno della madre e che i bambini si sentano ugualmente accuditi in entrambe le nuove famiglie create dai genitori, dopo la loro separazione.
Capita che si accudiscano bambini non concepiti o non portati in grembo, come nei casi di maternità surrogata. Capita che coppie di persone dello stesso sesso adottino figli qualora la legislazione nazionale lo consenta o che crescano insieme figli di uno solo dei due patner.
Nell’inerzia legislativa, le Corti devono dare risposte alle domande di giustizia ed ogni volta fioccano le accuse di relativismo etico e le critiche verso le decisioni che sovvertono il presunto ordine naturale della famiglia.
L’operatore del diritto può essere tentato dal privilegiare un modello di relazione familiare in danno degli altri oppure ad avallarli tutti, anche se fondati sulla sopraffazione di genere o sulla negazione dei diritti fondamentali. In entrambi i casi sbaglierebbe.
Invece, l’accoglimento dell’interesse superiore del minore come principio fondamentale della legislazione minorile e come criterio guida nella decisione giudiziaria consente di tutelare il pluralismo di valori, culture, prassi contemporaneamente presenti in un’organizzazione sociale, tutelare le diversità e la libertà degli individui e delle famiglie, senza però cedere sul piano del diritto del minore ad avere figure genitoriali di riferimento che gli offrano sostegno morale e materiale, lo accudiscano, lo educhino.
Figure che devono essere idonee a realizzare l’interesse del minore, senza che necessariamente coincidano con i genitori genetici, senza che necessariamente siano di sesso diverso quando entrambi siano in grado di svolgere le complesse funzioni genitoriali.
Si deve, dunque, spostare l’attenzione dall’istituzione familiare all’interesse dei minori, impegnando, volta per volta, il giudice a valutare il benessere del minore, a prescindere dal modello organizzativo o dalla rete familiare che lo ospiti.
Nel caso di relazioni familiari in cui sono presenti minori, allora, sarebbe auspicabile che il vetusto concetto di “ordine pubblico” venga sostituito con quello del “migliore interesse dei minori”.
Solo così si realizzerebbe la funzione del diritto come strumento di coesistenza tra valori e non come imposizione di un valore sull’altro, come mezzo elastico di regolazione dell’esistente e non come fattore di rigidità.
La ratio dell’adozione
Ragionando in termini di best interest of the child, è agevole comprendere perché sbaglia il prof. Pessina quando teme si affermi il “diritto ad avere un figlio” e sbagliano i miei vicini di ombrellone quando si lamentano che l’adozione “omosessuale” pregiudichi il “diritto all’adozione” dei loro congiunti.
La decisione romana, come ogni decisione in tema di adozione, non risponde alla “domanda di adozione” degli adottanti ma soddisfa il diritto di un minore ad avere una famiglia.
Così come la sentenza di adozione legittimante realizza il diritto del minore abbandonato ad avere i migliori genitori possibili e dunque la selezione degli adottanti avviene nell’ottica di scegliere chi meglio possa occuparsi di lui, la sentenza romana garantisce solennità giuridica ad un rapporto consolidato, prendendo atto che già esiste un’adulta che insieme alla madre è in grado di occuparsi della minore.
In entrambi i casi il desiderio degli adulti, è in secondo piano, cercando di soddisfare preminentemente l’interesse del piccolo.
I problemi aperti
Il caso apre ulteriori questioni, delle quali il legislatore non può continuare a disinteressarsi.
Cosa accade se si scioglie il vincolo affettivo e di coabitazione fra madre “naturale” e madre “sociale”?
In caso di coppie omosessuali, sposate all’estero, con figli biologici di uno dei patner, è possibile “osare” l’adozione di cui all’art. 47 lett. b)? Ossia, ricorrendo in qualità di coniuge del genitore dell’adottando? Se dovesse consolidarsi la tendenza di trascrivere nei registri di Stato civile italiani il matrimonio “same sex” celebrato all’estero, tale strada sarebbe ancora più facilmente percorribile?