A distanza di meno di un anno dalla nota pronuncia n. 4184 del marzo 2012, tornano all’attenzione della Suprema Corte vicende relative al mondo omosessuali, ed ancora una volta la Corte assume posizioni, con estrema e sintetica chiarezza, a marcata censura del pregiudizio omofobo e dei tentativi che questo, in malcelate vesti giuridiche, possa avere ingresso e spessore nel ragionamento in diritto.
Come per la pronuncia del 2012 (relativa al matrimonio omosessuale), anche in questo caso la Corte affronta questioni processuali (in materia di onere della prova), partendo tuttavia da considerazioni di natura sociale, che nel caso di specie assumono un valore quasi pedagogico.
Ed infatti, con estrema chiarezza, i giudici affermano che l’assunto per cui il corretto ed armonioso sviluppo psichico del minore possa essere garantito soltanto dal suo inserimento in una dinamica di coppia eterosessuale, resta espressione di un pregiudizio (come tale inaccettabile socialmente e ancor di più privo di spessore giuridico) laddove esso non sia suffragato da adeguati riscontri scientifici o da dati di esperienza, ragion per cui allo stato – in assenza di tali riscontri – non vi è motivo per ritenere dannosa per un minore la sua permanenza all’interno di una nucleo omosessuale, eventualmente composto, come nel caso di specie, dalla madre e dalla sua compagna.
Il percorso ormai intrapreso dalla giurisprudenza di legittimità è al tempo stesso graduale, ma dirompente.
Graduale perché, a distanza di tempo, si sta lentamente costruendo un’azione efficace e propositiva ( e dunque con valenza pedagogica a livello sociale e di stimolo per il legislatore sordo ed inerte) rispetto all’evolversi di tutti i concetti che, per logica conseguenza della esistenza di una vita di coppia omosessuale, vengono in essa coinvolti, e dunque il matrimonio, la definizione sessuale, il rispetto della affettività, la stabilità di coppia, il suo riconoscimento pubblico , e non ultima la genitorialità. Dirompente perché il senso di sospensione , se non di negazione, dei diritti delle persone omosessuali che pervade il vasto mondo dei movimenti di opinione e di tutela degli stessi, vede in queste pronunce (tutt’altro che timide, considerata la fermezza nella affermazione dei principi) un fascio di luce che illumina a giorno il percorso di conquista, di riconoscibilità e dunque civiltà da tempo intrapreso.
C’è forse un filo conduttore che lega al contempo con la bellezza di una preziosa seta e con la forza di un metallo, tanto i punti fermi fissati dalla giurisprudenza quanto l’evoluzione del pensiero sociale su tali tematiche: l’approccio rispettoso al mondo omosessuale, e la deliberata sostituzione del termine “omosessualità” a quello di “omoaffettività”, un’operazione che consente di abbattere ogni pregiudizio anche inconscio che leghi esclusivamente le questioni omosessuali alla limitata sfera della comunicazione del corpo, e che lo sostituisca con una visuale più ampia legata al sacrosanto mondo della affettività, e del libero esercizio del diritto all’amore.
Davanti ad un legislatore da tempo messo in mora su questi temi, per la sua colpevole inattività, il ruolo della giurisprudenza assume un rilievo unico nella tutela dei diritti, e nella lotta di civiltà contro il pregiudizio. Un ruolo di “supplenza” che non indica la deliberata volontà di sostituzione rispetto alle prerogative di un altro potere dello stato, ma le necessità di garantire (come potere dello stato a ciò deputato) , dinanzi a singoli episodi, l’indiscutibile diritto all’uguaglianza, mediante un approccio socio-giuridico che, scevro da qualsiasi denunciata “creatività”, ha solo il pregio di porsi in continuità con le pronunce sovranazionali, ed in armonia con il dettato costituzionale.