Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

La discriminazione diretta in ragione dell’orientamento sessuale della lavoratrice: considerazione a margine dell’ordinanza del 12 novembre 2020 del Tribunale del Lavoro di Milano

di Giulia Marzia Locati
giudice del Tribunale di Torino

Il Tribunale di Milano ha riconosciuto quanto sostenuto dalla datrice di lavoro circa l’esistenza di un vuoto normativo sulla possibilità di riconoscere cittadinanza, nel nostro ordinamento, alla genitorialità delle coppie omosessuali, ed in particolare al genitore cd. “intenzionale” o “sociale”, presente in quelle coppie di donne che abbiano fatto ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita.

Con ricorso depositato ai sensi dell’art. 28 d.lgs. 150/2011, la madre intenzionale di un figlio minore si è rivolta al Tribunale di Milano al fine di ottenere la dichiarazione della natura discriminatoria del mancato riconoscimento, da parte del suo datore di lavoro, del congedo parentale (ex art. 32 d.lgs. 151/2001) e del congedo per malattia del figlio (ex art. 47 d.lgs. 151/2001)[1]

La donna è unita civilmente con la madre biologica del minore dal 2018; la coppia nel corso del 2019 aveva avuto un figlio, facendo ricorso alle tecniche di PMA presso una clinica in Spagna. Il bambino era stato riconosciuto da entrambe davanti all’Ufficiale di Stato Civile del Comune di Milano; nel certificato di nascita, che è atto che per definizione è idoneo ad identificare la riconducibilità del bambino a un determinato nucleo familiare, è espressamente riportato tale riconoscimento, con la conseguenza che il minore ha a tutti gli effetti -  per lo Stato italiano -  due genitori.  Allorquando la madre sociale aveva fatto richiesta di usufruire del congedo parentale, il datore di lavoro aveva però opposto il suo diniego, motivato sull’incertezza normativa relativa alla genitorialità delle coppie omosessuali e sulla mancata equiparazione, a tali fini, del matrimonio e dell’unione civile. 

Prima di analizzare l’ordinanza del Tribunale di Milano, è necessario dar conto della normativa di riferimento e dei più recenti arresti giurisprudenziali. 

L’art. 32 del D.lgs. n. 151/2001 regolamenta il congedo parentale e dispone, al suo primo comma, che «Per ogni bambino, nei primi suoi dodici anni di vita, ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro secondo le modalità stabilite dal presente articolo. I relativi congedi parentali dei genitori non possono complessivamente eccedere il limite di dieci mesi, fatto salvo il disposto del comma 2 del presente articolo. Nell'ambito del predetto limite, il diritto di astenersi dal lavoro compete:

a)  alla madre lavoratrice, trascorso il periodo di congedo di maternità di cui al Capo III, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi;

b)  al padre lavoratore, dalla nascita del figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, elevabile a sette nel caso di cui al comma 2;

c)  qualora vi sia un solo genitore, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a dieci mesi». 

Nel caso sottoposto all’attenzione del Giudice, la lavoratrice aveva presentato domanda ai sensi della lettera b), non essendo la madre biologica e ritenendo dunque che le spettassero analoghi diritti del padre. Tale richiesta era peraltro già stata ritenuta corretta dall’INPS, che in casi analoghi (e dunque laddove sussista una pronuncia di adozione ex art. 44 legge 184/1983 e s.m., cd. “adozione in casi particolari”, oppure l’attestazione dello status genitoriale da parte dell’ufficiale di stato civile) nell’ipotesi di copresenza di una madre naturale e di una madre che ha effettuato riconoscimento, ex art. 254 c.c., come “altra madre” dello stesso figlio davanti all’Ufficiale di stato civile con conseguente registrazione dell’atto amministrativo, aveva statuito che alla madre biologica andasse riconosciuta la tutela della maternità ed il congedo parentale ex art. 32 co. 1 lett. a), mentre all'altra madre il diritto al congedo parentale ex art. 32 T.U. co. 1 lett. b). 

La necessità di riconoscere alla madre sociale la tutela di cui alla lettera b) sarebbe derivata, secondo l’INPS e la richiedente, da un’applicazione del principio di non discriminazione. 

L'art. 2 lett. a) della direttiva n. 2000/78 definisce infatti discriminazione diretta la situazione in cui «per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga». Il successivo art. 3 estende il divieto di discriminazione in ragione anche dell’orientamento sessuale «a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall'articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree: c) all'occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione».

La normativa sovranazionale è stata recepita dal legislatore italiano che, con D.lgs. n. 216/2003 ha ribadito, per quel che qui interessa, la nozione di discriminazione diretta e il fatto che essa opera anche con riferimento alle condizioni di lavoro e alla retribuzione. 

La Corte di Giustizia ha più volte affermato che «la direttiva 2000/78 concretizza dunque, nel settore da essa disciplinato, il principio generale di non discriminazione ormai sancito dall’articolo 21 della Carta» (così da ultimo la sentenza del 23 aprile 2020, NH, C-507/18, riferita proprio al fattore orientamento sessuale).

Applicando tali principi al caso in esame, la ricorrente ha censurato il  diniego del datore di lavoro, ritenendo di essere stata trattata in modo immotivatamente diverso da qualsiasi altro dipendente padre, e ciò solamente in ragione del suo essere donna lesbica. 

Non solo, a essere trattato diversamente sarebbe stato suo figlio che non avrebbe in questo modo potuto ricevere lo stesso accudimento di un bambino nato da una coppia eterosessuale. E ciò in quadro giurisprudenziale in cui l’attenzione si è giustamente spostata sempre più verso il minore, la cui tutela e il cui interesse devono guidare l’interprete nell’applicazione di ogni istituto. Egli ha infatti il diritto di «intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo quando ciò sia contrario al suo interesse» (Cass. 19599/2016) e di  essere «tutelato non solo per ciò che attiene ai bisogni più propriamente fisiologici, ma anche in riferimento alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della sua personalità (… ) creando le condizioni di una più intensa presenza della coppia, i cui componenti sono entrambi affidatari, e come tali entrambi protagonisti, nell'esercizio dei loro doveri e diritti, della buona riuscita del delicato compito loro attribuito (Cass. 341/ 1991)». In quest’ottica anche gli istituti nati a salvaguardia della maternità «non hanno più, come in passato, il fine precipuo ed esclusivo di protezione della donna, ma sono destinati alla difesa del preminente interesse del bambino» (C. Cost. 385/2005).

Tanto chiarito, il Tribunale di Milano ha riconosciuto quanto sostenuto dalla datrice di lavoro circa l’esistenza di un vuoto normativo sulla possibilità di riconoscere cittadinanza, nel nostro ordinamento, alla genitorialità delle coppie omosessuali, ed in particolare al genitore cd. “intenzionale” o “sociale”, presente in quelle coppie di donne che hanno abbiano fatto ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita. In questo contesto, la giurisprudenza si è espressa in senso negativo in relazione ai casi che in concreto si sono presentati, anche sulla base del fatto che la legge n. 76/2016 sulla regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, nel selezionare le norme relative al matrimonio che si applicano alle unioni civili, non contiene disciplina relativa ai profili della filiazione, con ciò escludendo le stesse in modo implicito. Per questa ragione, la giurisprudenza si è mostrata in generale contraria a riconoscere un pieno diritto – nei termini che si vedranno - alla genitorialità alle coppie omosessuali (in questo senso C. Cost. 237/2019; SSUU 12193/2019; Cass. 8029/2020). Infatti, non esiste una disposizione legislativa di rango primario che garantisca la genitorialità delle coppie dello stesso sesso, e ciò non costituisce una violazione della Carta Costituzionale. 

Al contempo però, se è vero che il riconoscimento della omogenitorialità, all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non è imposto dai precetti costituzionali, è altrettanto vero che tali parametri non  sono chiusi a soluzioni di segno diverso, in base alle valutazioni che il legislatore potrà dare alla fenomenologia considerata (C. Cost. 221/2019). Pertanto, è del tutto ammissibile che la documentazione anagrafica attestante il legame genitoriale tra la madre cd. intenzionale ed il minore possa essere valorizzata nel trarre le conseguenze di tutela derivanti dall’esistenza di tale rapporto, non essendo il predetto riconoscimento vietato da norme di rango superiore. Ed infatti la trascrivibilità in Italia di certificati di nascita formati all’estero, relativi a una duplice genitorialità femminile, è assolutamente ammessa nel nostro ordinamento, in quanto  non contraria a principi di ordine pubblico, secondo le disposizioni di diritto internazionale privato (cfr. SSUU 12193/2019 e C. Cost. 230/2020).

Nel caso oggetto di giudizio il legame tra il minore e la madre sociale non può essere messo in dubbio: come anticipato esso risulta dall’atto di riconoscimento posto in essere davanti all’Ufficiale di Stato Civile del Comune di Milano e tale riconoscimento è, poi, richiamato nell’atto di nascita del minore. Il Tribunale adito, in funzione di Giudice del Lavoro, non potrebbe estendere la propria cognizione a questioni relative al riconoscimento dello status di figlio, né potrebbe mettere in discussione il valore certificativo di documenti provenienti dallo Stato Civile, della cui validità peraltro nessuno controverteva. In sostanza, lo status giuridico del minore, come figlio della madre intenzionale si è costituito, è valido ed è produttivo di effetti nel nostro ordinamento; parimenti la ricorrente è titolare della responsabilità genitoriale nei confronti del minore ed ella ha il dovere assisterlo e di prendersene cura, esattamente come qualsiasi altro genitore.

Se così è, non c’è alcuna possibile ulteriore discrezionalità del datore di lavoro: nel momento in cui qualcuno è riconosciuto dallo Stato come genitore di un minore, per ciò solo ha diritto di usufruire dei permessi per congedo parentale, e ciò a prescindere dalla relazione che lo lega con l’altro genitore. 

Il fulcro del riconoscimento della natura discriminatoria del comportamento del datore di lavoro sta allora tutta in questo passaggio dell’ordinanza: «Data l’evidenza documentale di un legame genitoriale tra la ricorrente e XXX (il minore), nella sua veste di datore di lavoro YYY avrebbe dovuto limitarsi a prendere atto dell’attestazione fornita e a riconoscere il congedo parentale richiesto, senza entrare nel merito del diritto alla genitorialità della ricorrente. D’altronde, a fronte di analoga documentazione fornita da parte di un genitore eterosessuale, non lo avrebbe certo fatto: ergo la natura discriminatoria del suo comportamento». In altri termini, i presupposti per ottenere il congedo sono semplicemente lo status di genitore del dipendente richiedente e  la richiesta di un congedo. Nell’ipotesi in cui il/la dipendente fosse stato genitore in una coppia eterosessuale, i congedi sarebbero stati riconosciuti; nell’ipotesi della ricorrente, che è madre in una famiglia omogenitoriale, i congedi sono stati negati. Il datore di lavoro ha così trattato in modo differente due situazioni che sono invece identiche, e ciò solo a causa dell’orientamento sessuale della lavoratrice. 

Se alla datrice di lavoro fosse stato sottoposto un certificato di nascita spagnolo con indicati due genitori di sesso opposto, non avrebbe certo indagato sulla legittimità di tale certificato; né avrebbe disquisito sulla correttezza della procedura di adozione a fronte di un bambino adottato e riconosciuto tale dallo Stato Italiano. E questo perché non è compito della datrice di lavoro valutare la correttezza dei certificati dello Stato Civile. Nel momento in cui nel nostro ordinamento non è illegittimo riconoscere la genitorialità in caso di coppie dello stesso sesso e il datore di lavoro si trova innanzi a un caso in cui ciò si è verificato, non compete certo a lui valutare la legittimità di tale riconoscimento, con la conseguenza che egli non può decidere di non concedere al dipendente gay ciò che avrebbe concesso al dipendente eterosessuale, pena la messa in atto di una discriminazione diretta, basata sull’orientamento sessuale. 

E a tal fine è del tutto irrilevante che la datrice di lavoro non avesse l’intenzione di discriminare: come è noto, tutto il diritto antidiscriminatorio prescinde dalla reale intenzione dell’autore per censurare le condotte che sono di per sé lesive del principio di parità di trattamento. E questo per l’ovvia ragione che le discriminazioni trovano il loro humus nel nostro substrato culturale e sociale, nella nostra mentalità. Chi discrimina molto spesso non si rende nemmeno conto di farlo, ma crede che le differenze che sta contribuendo a perpetrare siano qualcosa di naturale, di immanente. Per tale ragione, la discriminazione deve essere censurata e rimossa a prescindere dalla percezione e della volontà del suo autore. 

Parimenti irrilevante è il fatto che il datore di lavoro avesse permesso alla lavoratrice di godere di un periodo di aspettativa non retribuita al fine di occuparsi del minore, atteso che ciò che rileva ai fini della discriminazione è che il genitore si sia visto negato lo stesso tipo di congedo riconosciuto alle coppie eterosessuali.  

Sulla base di queste considerazioni il Tribunale di Milano ha riconosciuto la natura discriminatoria della decisione del datore di lavoro, con ordine di concedere alla ricorrente il congedo parentale e il risarcimento del danno patrimoniale subito per la mancata retribuzione nel periodo in cui ha concesso, invece del congedo parentale, l’aspettativa non retribuita alla lavoratrice. 

 
[1]Il presente commento si occuperà solo del congedo parentale in quanto per quello di malattia il Tribunale ha ritenuto che difettasse l’interesse ad agire, non essendo il minore mai stato malato. Naturalmente, nel caso in cui in futuro ciò si dovesse verificare, non potrebbero che trovare applicazione i principi esposti nell’ordinanza circa il congedo parentale, con riconoscimento in capo al genitore intenzionale di tale diritto, pena la messa in atto di una nuova discriminazione diretta.   

07/01/2021
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