La questione sollevata
Tanto tuonò che piovve. In questi anni i giudici minorili e non solo si sono confrontati sugli effetti da attribuirsi all’adozione in casi particolari ai sensi degli articoli 44 ss. della legge n. 184/1983. Ora la questione è stata portata dal Tribunale per i minorenni di Bologna all’attenzione della Corte costituzionale. L’udienza si tiene il 23 febbraio e relatrice è la giudice Navarretta. Questione importantissima, ma per la quale si prospetta il rischio dell’inammissibilità.
Il Tribunale per i minorenni dell’Emilia-Romagna con ordinanza del 26 luglio 2021, rubricata al n. 143/2021 del registro della Corte costituzionale, ha sollevato dubbi quanto alla costituzionalità dell’articolo 55 della legge 04/05/1983, n. 184, in combinato disposto con l’ivi richiamato articolo 300, c. 2°, cod. civ.[1] Il problema rientra nella discussione dottrinale e giurisprudenziale oramai da diversi anni: l’adozione di cui all’art. 44 rappresenta tuttora un’adozione ad effetti limitati e improntata al modello dell’adozione di persona maggiorenne?
La differenza più significativa rispetto all’adozione già detta legittimante è costituita dalla questione sollevata dal giudice felsineo: quella in casi particolari non muta i diritti e i doveri dell’adottato verso la famiglia di origine e non produce effetti verso i parenti dell’adottante e verso quelli dell’adottato. Da qui la sua denominazione di adozione mite o semipiena o non-legittimante.
La fattispecie in cui si colloca l’incidente di costituzionalità rappresenta un caso oramai ricorrente: l’adozione ex art. 44 quale tutela minima – ma anche unica – per i nati da gestazione per altri. Con la sentenza n. 12913/2019 le Sezioni unite hanno perentoriamente escluso ogni margine per la trascrizione di provvedimenti stranieri che attestassero la filiazione anche rispetto al genitore meramente intenzionale. Nel caso di uomo, è meramente intenzionale quella persona che determina con la propria volontà l’avvio di un percorso generativo utilizzando tecniche di fecondazione assistita, ma senza conferire i propri gameti. Nel caso di donna, la questione si pone diversamente, essendo il legame biologico tradizionalmente duplice: genetico e gestazionale. A seconda della prospettiva è meramente intenzionale la donna che determina il percorso riproduttivo, ma non vanta un legame genetico e/o gestazionale.
Le Sezioni unite sono lapidarie nell’affermare che il genitore intenzionale non può essere riconosciuto in Italia per contrarietà all’ordine pubblico. L’esito finale non concede alcuno spazio alla valutazione del caso concreto. Questo approdo nomofilattico, tuttavia, è stato minato alla radice dalle pregnanti considerazioni svolte dalla Corte costituzionale nella sua sentenza n. 33 del 2021, tanto che la Prima sezione civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente affinché Sezioni unite valutino una nuova ponderazione degli interessi in gioco (ordinanza n. 1842/2022).
Nel frattempo, nell’attuale quadro di chiusura o comunque di incertezza, è intuibile che talune famiglie, in luogo di investire tempo e risorse in cause dall’esito incerto, percorrano la più agevole strada dell’adozione in casi particolari, rimedio oramai pacifico per garantire almeno una qualche tutela al nato.
Si tratta, tuttavia, di una tutela minima. È, quindi, comprensibile che – in assenza di alternative – si assista ad una forte spinta per estenderne gli effetti. Ed è così che al Tribunale per i minorenni di Bologna è stato chiesto, come peraltro già più volte in passato, non solo di far luogo all’adozione, ma altresì di dichiarare espressamente che questa è piena o comunque che determina legami di parentela con la famiglia dell’adottante.
Nel procedimento a quo l’adozione è richiesta dal padre intenzionale di una bambina. Il ricorrente e il suo compagno, cui è unito civilmente, hanno fatto ricorso negli Stati uniti alla surrogazione di maternità. In Italia allo stato civile risulta solo un padre, si presume quello geneticamente collegato alla bambina. Al tribunale, oltre a pronunciare l’adozione, chiedono «ex art. 277 c.c. di dichiarare il legame di parentela tra l'adottato …. ed i parenti dell'adottante….». Per i giudici bolognesi la domanda di adozione è accoglibile, mentre osterebbe all’accoglimento della pronuncia dichiarativa ex art. 277 cod. civ. in primo luogo l’art. 300, comma 2 cod. civ., disposizione espressamente richiamata dall’art. 55 della legge sull’adozione.
La questione lamenta l’ingiustificata disparità di trattamento tra i figli adottivi di coppie unite in matrimonio ed i figli adottivi di coppie unite civilmente, individuando quali parametri del giudizio gli articoli 3 e 31 Cost. È, inoltre, rilevata la violazione dell’art. 8 CEDU, poiché l’attuale disciplina «impedisce al minore inserito nella famiglia costituita dall'unione civile di godere pienamente della sua “vita privata e familiare” intesa in senso ampio, comprensiva di ogni espressione della personalità e dignità della persona ed anche del diritto alla identità dell'individuo». A tal riguardo, il Tribunale evidenzia come «si [sia] sempre più chiaramente affermata una valorizzazione dei legami familiari secondo i principi di uguaglianza e di bigenitorialità».
Gli orientamenti dei giudici
La questione che è posta dal giudice minorile è senz’altro di grande rilevanza. Che l’adozione in casi particolari sia oramai inadeguata è sentimento diffuso. Non sorprende, quindi, che soprattutto con la riforma della filiazione volta all’unificazione dello stato di figlio si siano rafforzate le voci che ritengono che non sia più possibile distinguere fra status acquisito in forza dell’adozione piena, già detta legittimante, e l’adozione semipiena in casi particolari.
Il primo giudice di merito ad aderire a tale prospettiva – per quanto consti – è stata la Corte di appello di Milano, sez. famiglia, con l’ordinanza del 9 giugno 2017[2], secondo cui
«il novellato articolo 74 del codice civile – a norma del quale “la parentela è il vincolo che unisce persone che discendono dallo stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all'interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo”, con l'eccezione della adozione dei maggiorenni – suggerisce la fine della gerarchia delle diverse forme che assume l'adozione e la necessità di ricondurre tutte le filiazioni biologiche e tutte le filiazioni adottive di minori ad un unico status di figlio».
Si tratta dell’ordinanza che poi è stata oggetto di ricorso in cassazione con procedimento da ultimo definito con la sentenza delle Sezioni unite n. 9006 del 2021. Ad esse si giunse a seguito dell’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile del 11 novembre 2019, n. 29071.
Nel rimettere gli atti al Primo Presidente, la sezione semplice pose la questione dirimente se il provvedimento di adozione piena statunitense da parte di una coppia coniugata di uomini dovesse essere riconosciuto con pari effetti oppure se non dovesse essere depotenziato ad adozione in casi particolari. La questione di massima importanza atteneva al fatto «se il disfavore del legislatore italiano per l'adozione legittimante a favore delle coppie dello stesso sesso, oltre a rappresentare legittimo esercizio della potestà discrezionale del nostro Stato di regolare i rapporti giuridici in una determinata materia, costituis[se], altresì, l'espressione di principi e valori fondamentali ed irrinunciabili fondanti il nostro ordinamento». I ricorrenti chiedevano, infatti, non un riconoscimento in Italia ai sensi dell’art. 44, bensì quale adozione con i medesimi effetti del diritto statunitense ovvero legittimante. Tale ordinanza interlocutoria, ribadendo la distinzione di effetti fra le due forme nazionali di adozione dei minori, è in linea con i precedenti, anche recenti, del Giudice di legittimità.
Non si può sottacere, tuttavia, il contrasto di questo orientamento di legittimità con un punto negletto della già citata sentenza delle Sezioni unite civili n. 12193 dell’8 maggio 2019. Il provvedimento è stato deliberato prima, ma depositato dopo il parere della Corte EDU del 10 aprile 2019. Il Giudice di Strasburgo chiarì che non vi era un obbligo di riconoscimento dello status acquisito all’estero, purché lo Stato approntasse altro rimedio celere e efficace per tutelare il nato, rimedio che doveva garantire gli stessi (o simili – la versione inglese e francese differiscono sul punto) effetti rispetto al riconoscimento dello status.
Forse per porre preventivamente al riparo l’arresto da critiche ancorate alla disciplina euroconvenzionale, l’ultimo paragrafo del punto 13.3 recita:
«Anche nella giurisprudenza della Corte EDU, la sussistenza di un legame genetico o biologico con il minore rappresenta dunque il limite oltre il quale è rimessa alla discrezionalità del legislatore statale l'individuazione degli strumenti più adeguati per conferire rilievo giuridico al rapporto genitoriale, compatibilmente con gli altri interessi coinvolti nella vicenda, e fermo restando l'obbligo di assicurare una tutela comparabile a quella ordinariamente ricollegabile allo status filiationis: esigenza, questa, che nell'ordinamento interno può ritenersi soddisfatta anche dal già menzionato istituto dell'adozione in casi particolari, per effetto delle disposizioni della L. n. 184 del 1983, che parificano la posizione del figlio adottivo allo stato di figlio nato dal matrimonio».
L’adozione in casi particolari, quindi, sarebbe istituto dagli effetti comparabili al riconoscimento dello status, quindi di filiazione piena. E in riferimento a questo preciso istituto le Sezioni unite affermano che «la posizione del figlio adottivo» è parificato «allo stato di figlio nato dal matrimonio». L’adozione ex art. 44 si sottrae all’art. 55, nella parte in cui rinvia all’art. 300, cod. civ., ed è attratta ora dall’art. 27, 1° comma, secondo cui «[p]er effetto dell'adozione l'adottato acquista lo stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome».
Difficile proporre altra interpretazione del passaggio delle Sezioni unite, la cui problematicità sta nella sua laconicità. Una svolta di notevole rilevanza viene enunciata quasi fosse un approdo pacifico. Ad ogni buon conto la tesi è stata ignorata dalle sezioni civili.[3]
Nel frattempo, diversi giudici minorili hanno abbracciato questa tesi e non solo prendendo posizione in obiter dicta. Alcuni di essi sono pervenuti a recepirla in un capo del dispositivo della pronuncia di adozione, accogliendo la domanda del ricorrente di statuire espressamente sul punto. Esempi di ciò sono sentenze come quelle del Tribunale per i minorenni di Bologna, quali la n. 70 del 3 luglio 2020,[4] seguita sì da arresti analoghi, ma con orientamento da cui quel medesimo ufficio ora si discosta con la questione di legittimità costituzionale in discussione.
In termini simili si era espresso ancor prima il Tribunale per i minorenni di Venezia con decreto di data 18 maggio 2018[5] con riguardo al riconoscimento di un’adozione piena straniera, osservando che
«Poiché il figlio adottato con adozione cd. legittimante da persone coniugato (con adozione nazionale o internazionale) ha lo status di figlio nato all'interno del matrimonio (cfr. art. 27 L. n. 184/1983), il richiamo al figlio adottivo contenuto nell’art. 74 c. c. ha un senso solo se riferito al figlio adottato fuori dal matrimonio, ad esempio nei casi particolari disciplinati dall’art. 44 L. n. 184/1983. Anche l'adottato “in casi particolari” ha quindi lo stesso vincolo di parentela con i familiari dell’adottante che caratterizza ogni tipo di filiazione, con la sola eccezione dell’adozione del maggiorenne indicata al secondo comma dell’art. 74 c.c.».
Si tratta di posizione richiamata espressamente nella sentenza del medesimo Tribunale n. 130 del 9 ottobre 2020 che pronuncia l’adozione ex art. 44 a favore della co-madre, benché il Giudice lagunare dichiari poi inammissibile la domanda sul punto (su cui infra). In termini anche Tribunale per i minorenni di Roma, sentenza 11 agosto 2021, n. 235, che condivide la tesi, ma, come si vedrà, rigetta la domanda di accertamento del legame pieno per carenza di interesse. Condivide l’orientamento e statuisce in dispositivo il Tribunale per i minorenni di Sassari con la sentenza 20 gennaio 2022, n. 1.[6] L’orientamento è stato condiviso anche dalla Corte di appello di Trento con le sentenze n. 5 e 6 del 14 ottobre 2021[7], di riforma delle statuizioni del primo grado, che avevano richiamato nel dispositivo l’art. 55, così ribadendone la perdurante vigenza per le adozioni ex art. 44, lett. d).
Tuttavia, quanto sia ancora in vigore l’art. 55 è questione dibattuta talvolta all’interno dello stesso ufficio giudiziario. Basti citare il caso del Tribunale di Venezia, il quale nel medesimo periodo ha affermato tre diversi punti di vista rispetto all’art. 299 cod. civ. Con la sentenza n. 53 del 3 giugno 2021 il Tribunale (Pres. Valeggia, est. Italia) ha dichiarato inammissibile la domanda di posposizione del cognome dell’adottante a quello già identificativo del minore. La tesi è che l’anteposizione del cognome è prevista dalla disciplina del codice civile richiamata dall’art. 55 con perdurante applicazione degli articoli 299 e 300. Con la sentenza del 5 agosto 2021, n. 91, il Collegio (Pres. Valeggia, est. Botteri), per contro, dichiara espressamente che l’art. 74, per come novellato, ma implicitamente abrogato l’art. 55, così accogliendo, in esplicita analogia all’art. 262, comma 2, cod. civ., la domanda di posporre il cognome dell’adottante a quello in essere. Con la sentenza n. 110 del 29 settembre 2021, infine, la terza via. Per quel Collegio (pres. est. Rossi) non compete al giudice esprimersi sull’ordine dei cognomi.
Non vi è dubbio che sussistano argomenti pregnanti per sostenere la necessità di superare i limiti tradizionali dell’adozione in casi particolari, soluzione non più adeguata a tutelare gli interessi preminenti dei minori, tanto più in contesti, come quelli delle famiglie arcobaleno, particolarmente colpiti dalla condizione «deteriore» riservata ai loro figli (così, testualmente, la Corte costituzionale nella sentenza n. 32 del 2021). Ed fu lo stesso Giudice delle leggi ad evidenziare che l’adozione semi-piena non era la soluzione migliore per talune situazioni. Il riferimento è alla sentenza n. 27 del 1991, il cui considerato in diritto n. 5 concludeva, però, per la non incostituzionalità – quantomeno allora – della disciplina di cui agli articoli 44 e seguenti.[8]
Con le sentenze n. 32 e 33 del 2021, incomprensibilmente non valorizzate nell’ordinanza di rimessione del giudice minorile felsineo, la critica ai limiti dell’adozione in casi particolari è esplicita ed ampia. Tuttavia, è anche una critica fortemente legata alle situazioni concrete da cui le due decisioni originano: da una parte il radicale disconoscimento di ogni effetto giuridico al consenso alla fecondazione assistita prestato dalla madre sociale, poi improvvisamente esclusa dalla vita delle figlie per volontà della madre biologica, laddove il medesimo consenso, se prestato dall’uomo invece che dalla donna convivente, lo vincola ai doveri di genitore; dall’altra, il disconoscimento di ogni effetto al provvedimento straniero che attribuisce la genitorialità al genitore intenzionale in caso di gestazione per altri per contrarietà all’ordine pubblico.
Non è certo che le critiche all’istituto dell’adozione mite ivi espresse siano generalizzabili. La sua tradizionale limitazione potrebbe in alcune ipotesi essere ancora giustificata perché opportuna? Nella sentenza della Corte europea per i diritti umani, Zhou c. Italia, ric. n. 33773/11 del 21 gennaio 2014, par. 60, ad esempio, il Giudice di Strasburgo aveva individuato in tale adozione un opportuno strumento per preservare legami con la famiglia di origine ed una valida alternativa alla via dell’adozione piena.
Il rafforzamento degli effetti dell’adozione in casi particolari non sarebbe comunque semplice, perché il rinvio non potrebbe essere tout court al modello di adozione piena. La Corte costituzionale, se volesse intervenire, potrebbe allora prendere una posizione limitata ad un singolo effetto – nel caso sollevato da Bologna, il solo aspetto dei rapporti di parentela – evitando di esprimersi sulla vigenza degli altri rinvii di cui all’art. 55.
È noto, infatti, che il Giudice delle leggi è poco incline a pronunce che hanno impatti sistemici, salvo il vulnus costituzionale renda l’intervento improcrastinabile. Più probabile che, anche in questa occasione, sia colta l’opportunità per rinnovare il monito al legislatore di mettere mano alla disciplina di filiazione e adozione, in linea con i due citati precedenti del 2021. E come in questi la questione potrebbe essere dichiarata inammissibile per discrezionalità del legislatore nel riplasmare l’istituto dell’adozione in casi particolari.
Nel non inverosimile caso di “reiterata” inerzia del Parlamento, sarebbe senz’altro più agevole per la Corte tutelare i minori con interventi “a rime parallele” che ridefinendo gli effetti di un intero istituto. Le rime parallele nel caso di fecondazione assistita per due donne sarebbero costituite dall’estensione della tutela già sancita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 347 del 1998 anche al nato dalla volontà di due donne. Non si vedrebbe, infatti, perché la Costituzione dovrebbe tutelare il nato nei riguardi dell’uomo che, con la sua volontà, ne ha determinato la nascita, e non nei riguardi della donna nella medesima situazione. Se quella volontà rende e non può non rendere l’uomo genitore, pari status è determinato dalla volontà, oramai irretrattabile, della donna che l’ha desiderato con la propria compagna.
Nel caso della gestazione per altri, appare strada più agevole e più armonica con il sistema quella di consentire al giudice del merito di valutare caso per caso il riconoscimento dello status, così come determinato dal procedimento straniero (e in tal senso, invero, già si espresse la Corte costituzionale con la sentenza n. 272 del 2017).
Tuttavia, la Corte costituzionale potrebbe anche dichiarare inammissibile l’ordinanza del Giudice minorile di Bologna per altre, più penetranti ragioni.
Dubbi di ammissibilità in punto rilevanza
Il Presidente Amato ha utilizzato recentemente l’immagine della Corte costituzionale che non deve cercare il pelo nell’uovo. L’ordinanza è argomentata in maniera fin troppo succinta e ciò potrebbe condurre all’inammissibilità. Il vulnus non è argomentato analiticamente per ciascun parametro costituzionale, senza elaborare la questione distintamente, ad esempio, rispetto all’art. 3 e all’art. 31 Cost. Il richiamo all’art. 8 CEDU è privo di riferimenti ermeneutici. In particolare, l’ordinanza tace – ma il dato non è in sé elemento di inammissibilità – sulla giurisprudenza di Strasburgo e della Corte costituzionale che danno concretezza alla prospettiva di lesione degli interessi. Si pensi alla sentenza Corte EDU Wagner e J.M.W.L. c. Lussemburgo, n. 76240/01, 28 giugno 2007, oppure alle citate sentenze della Corte costituzionale n. 32 e 33 del 2021.
Ulteriore criticità potrebbe essere individuata nel riferimento alla sola disparità di trattamento tra i figli adottivi di coppie unite in matrimonio ed i figli adottivi di coppie unite civilmente. La Corte potrebbe ritenere carente l’ordinanza nella parte in cui compara queste due situazioni, senza tuttavia motivare perché la disparità sarebbe da ricondurre segnatamente all’unione civile e non in generale ad ogni adozione in un contesto familiare, sia esso di convivenza eteroaffettiva o omoaffetiva, di fatto, in matrimonio o in unione civile. Le lettere b) e d) dell’art. 44, 1° comma, coprono tutte queste situazioni, senza che l’unione civile assuma rilevanza dirimente, se non in termini fattuali di valutazione della relazione di coppia.
Tuttavia, il rischio di inammissibilità più concreto è dato dalla irrilevanza della questione. Il Tribunale per i minorenni pare ritenere implicita la rilevanza nel momento in cui enuncia che deve decidere «sulla richiesta, formulata ex art. 277 c.c., di dichiarare il legame di parentela tra l'adottato M. V. E. ed i parenti dell'adottante M. M.». Non sono pochi i casi in cui la Corte ha dichiarato inammissibile la questione rilevando come il giudice rimettente non potesse conoscere di quella domanda perché incompetente o non munito della giurisdizione.
Un esempio noto fu proprio quello originato da altra questione sollevata dal Tribunale per i minorenni di Bologna. In linea con quanto sarebbe stato confermato dalle Sezioni unite nel 2021, la Corte costituzionale concluse nella sentenza n. 76 del 2016 che non spettava al Giudice minorile deliberare la sentenza di adozione coparentale adottata negli Stati uniti. Si tratta di fattispecie cui si applicano, in forza del rinvio operato dall’art. 41, 1° comma, gli articoli 64 ss. della legge n. 218 del 1995.
Venendo alla questione sollevata, in primo luogo non è chiaro in che termini l’art. 277 c.c. giustifichi la domanda di accertamento. Il secondo comma attiene all’adozione di «provvedimenti che [il giudice] stima utili per l'affidamento, il mantenimento, l'istruzione e la educazione del figlio e per la tutela degli interessi patrimoniali di lui», quindi non è su questo capoverso che la domanda del ricorrente può fondarsi. Residuerebbe il primo comma, secondo cui «la sentenza che dichiara la filiazione [naturale] produce gli effetti del riconoscimento». L’art. 277 attiene ad uno status che viene accertato, perché preesistente all’azione di stato, laddove l’adozione, anche in casi particolari, è costitutiva. Non appare quindi norma pertinente alla fattispecie e, quindi, irrilevante. Inoltre, il Giudice minorile non ha più competenza con riguardo alle dichiarazioni giudiziali della paternità e della maternità ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.p.c.
Non sussiste, poi, alcun interesse ad agire, non constando nel giudizio alcuna contestazione degli effetti dell’adozione richiesta. Come noto, il mero interesse al conseguito di una sentenza accertativa di rapporti giuridici non è interesse sufficiente per agire in giudizio. Nemmeno l’incertezza giurisprudenziale contribuisce a sostanziare un tale interesse. Invero, il giudice accerta il diritto di proprietà su di un bene e non enuclea nel dispositivo le singole facoltà e gli effetti che discendono dalla condizione di proprietario. Solo in caso di contestazione su precisi effetti si potrà agire con i conferenti rimedi. In linea con queste critiche è Tribunale per i minorenni di Venezia, sentenza n. 130 del 9 ottobre 2020, cit.
Che l’art. 277 non risulti conferente emergerebbe implicitamente dall’articolazione dell’ordinanza stessa. Il giudice a quo non ragiona in termini di antinomia dell’art. 277 con l’art. 55 della legge n. 194 del 1983, in combinato disposto con il richiamato art. 300 cod. civ. Ignorando l’art. 277, però, non illustra quale disposizione legittimerebbe alla domanda di accertamento.
A prescindere dalla norma su cui si vorrebbe fondare una domanda dichiarativa degli effetti dell’adozione mite, questa dovrebbe essere dichiarata inammissibile, «atteso che non compete al giudice che pronuncia la sentenza di adozione in casi particolari estenderne gli effetti rispetto ai parenti dell'adottante - peraltro non direttamente coinvolti nel presente procedimento - con una pronuncia meramente interpretativa degli effetti giuridici di tale adozione» (così già Trib. min. Firenze, sentenza 7 dicembre 2017, n. 154). E “non compete” perché sussiste carenza di interesse ad una pronuncia che accerti una relazione di parentela.
Similmente, con la citata sentenza n. 130 del 9 ottobre 2020 il Tribunale per i minorenni di Venezia non ritenne «di poter aggiungere alla pronuncia di adozione, una ulteriore pronuncia sullo status né di poterlo fare applicando l’art. 277 c.c.». Con riguardo al primo aspetto, rilevava il Giudice veneziano «che l'ordinamento non ha previsto un'azione diretta a far dichiarare giudizialmente il rapporto di fratria tra due soggetti. Semmai questo è un effetto secondario che deriva dal riconoscimento dello status di figlio. Laddove quindi si ritenga che le azioni in materia di status siano di stretta interpretazione stante la loro rilevanza pubblicistica, la tassatività delle azioni rende inammissibile la domanda anche sotto tale profilo». Quanto all’art. 277 cod. civ., rilevava l’accessorietà rispetto alle azioni ex art. 269 e ss. c.c., oggi di competenza del giudice ordinario, nonché il fatto che «gli interessi patrimoniali cui fa riferimento l'art. 277 c.c. sono quelli contrapposti a quelli di eventuali soggetti legittimati ad intervenire nel giudizio di dichiarazione giudiziale del rapporto di filiazione ai sensi dell'art. 276, u.c. c.c. mentre, nel caso in esame, non vi sono controinteressati che intendano opporsi all'adozione o agli effetti patrimoniali correlati all’adozione».
Si tratta di considerazioni processualmente condivisibili. L’inammissibilità deriva dal difetto di interesse ad agire del ricorrente e quand’anche vi fosse un interesse all’accertamento del rapporto di parentela, la competenza sarebbe del Giudice ordinario. Inoltre, affinché vi sia una statuizione sul punto, pare imprescindibile instaurare il litisconsorzio con il parente interessato, quello, per ipotesi, che solo contestando tale legame legittima all’azione.
Il profilo litisconsortile aiuta poi a cogliere la sostanziale inutilità di pronunce adottive che dispongono l’accertamento del rapporto di parentela in generale o con ascendenti o fratelli. Non è certo il giudice che costituisce il rapporto di parentela. Semmai esso sorge ex lege con la stessa pronuncia adottiva ex art. 44 ss. Anche a voler concedere che la pronuncia di accertamento non incontri ostacoli preliminari, l’assenza nel giudizio del parente (es. ascendente o fratello) renderebbe comunque a questi inopponibile la statuizione.
La vera questione: l’inerzia del legislatore
La Corte costituzionale, sebbene abbia fissato la discussione in pubblica udienza, avrebbe buon gioco a rilevare l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza nel giudizio a quo. Interesse che, incidentalmente, non deriva dalla libertà concessa al giudice di arricchire la motivazione di svariati obiter dicta.
Le perplessità sopra esposte non significano che la questione degli effetti di questo tipo di adozione non possa arrivare all’attenzione di un giudice. Occorre, però, un casus belli che sostanzi l’interesse all’accertamento del legame di parentela o, meglio, di un preciso legame di parentela. Si pensi a cause che traggono origine da crediti alimentari oppure successori o, ancora, contestazioni di benefici tributari.
Anche un giudice minorile potrebbe sollevare la questione di legittimità costituzionale, ma non in termini per così dire “frontali” come quelli ora prospettati nell’ordinanza che si commenta. La domanda sulla posposizione del cognome dell’adottante implica un giudizio sull’abrogazione implicita dell’art. 55, nella parte in cui richiama l’art. 299 cod. civ. Il giudice che non ritenga l’art. 55 abrogato potrebbe sollevare la questione della perdurante[9] conformità a Costituzione di una disciplina che impone l’anteposizione del cognome, considerato che per i figli con status pieno vige una libertà che la giurisprudenza costituzionale, con cantiere tuttora aperto, sta ampliando. Si pensi da una parte all’adozione piena (art. 27, c. 1), dall’altra alla filiazione dentro e fuori dal matrimonio (art. 262 cod. civ.).
Se la disciplina fosse abrogata o oggetto di declaratoria di incostituzionalità, allora competerebbe al giudice, in uno con la pronuncia di adozione, statuire anche sul cognome, in analogia a discipline analoghe. Se questo non fosse il caso, il Giudice minorile dovrebbe dichiarare la domanda inammissibile, perché il cognome discende ex lege e, quindi, è sottratto al potere del giudice.[10]
Si tratterebbe, tuttavia, di questione che potrebbe essere confinata al solo aspetto del cognome, senza necessità di dirimere funditus i confini di un’adozione che nacque come ipotesi recessiva, se non eccezionale rispetto a quella ordinaria, ma che oggigiorno, a cagione della vetustà di un diritto di famiglia non al passo con i tempi, diviene da rimedio residuale rimedio sempre più ricorrente.
Il forte iato fra modello originario e modello pieno costituisce però il principale problema di un adeguamento per via pretoria. Una volta aperta la pur auspicata porta dello status pieno, non si potrebbero eludere ulteriori questioni, quali la perdurante vigenza di ogni rinvio contenuto nell’art. 55, ma non solo. Occorrerebbe fare chiarezza rispetto ad ogni divergenza rispetto all’adozione piena: ad esempio, l’obbligo di inventario dei beni del minore e la peculiare disciplina di revoca dell’adozione. Troppo per il nostro Giudice delle leggi. Non dovrebbe essere troppo, invece, per il Parlamento, ma l’inerzia del conditor juris è da lungo tempo sotto gli occhi di tutti.
[1] «L'adozione non induce alcun rapporto civile tra l'adottante e la famiglia dell'adottato né tra l'adottato e i parenti dell'adottante, salve le eccezioni stabilite dalla legge».
[2] In banca dati De Jure e su www.articolo29.it.
[3] Ma che fosse ancora «non legittimante» lo ricordò già all’indomani della decisione delle Sezioni unite altro collegio della Prima sezione: v. ordinanza 26 giugno 2019 n. 17100.
[4] In Nuova Giur. Civ., 2021, 1, 78, con nota di Cinque, Adozione in casi particolari: parentela tra "fratelli acquisiti"?, cui si rinvia per l’approfondita analisi.
[5] In banca dati Leggi d’Italia.
[6] In www.articolo29.it
[7] Le sentenze si leggono in https://www.italianequalitynetwork.it/archivio/?id=32.
[8] «Certo, una regolamentazione più analitica della materia, che cioè tenesse conto del vario atteggiarsi dei rapporti del minore col genitore biologico non convivente, avrebbe forse potuto suggerire soluzioni parzialmente diverse e magari far propendere, in alcune peculiari situazioni, per l'instaurazione di un rapporto di adozione piena. Ma nella valutazione generale dell'istituto che la Corte è chiamata a compiere in questa sede, deve escludersi che le scelte compiute dal legislatore in ordine al bilanciamento degli interessi in gioco siano meritevoli di censura».
[9] La disciplina venne considerata non incostituzionale con la sentenza n. 268 del 2002.
[10] La prevalente prassi dei tribunali che derogano a questo automatismo non affronta il tema argomentando attorno all’art. 55, bensì dando rilievo all’interesse del minore ad un cognome conforme a quello di altri fratelli o sorelle o in ragione della tutela del diritto al nome quale componente del diritto all’identità e, quindi, al cognome già in uso, mantenendolo o preservandone la prima posizione.