Magistratura democratica
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Ancora sulla libertà di espressione dei magistrati

di Giovanni Maria Flick
Presidente emerito della Corte costituzionale

L’intervento al convegno La magistratura e i social network organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura (Roma, 17 maggio 2024)

1. Imparzialità effettiva e apparente e professionalità del magistrato nel dibattito sui social

Troppo e troppo poco al tempo stesso è stato detto nel dibattito sull’imparzialità effettiva e “apparente” del magistrato. In realtà stiamo tutti maneggiando dinamite senza sapere quale è la sua soglia di pericolosità soprattutto ai tempi del “social”.

Lascio da parte la discussione di oggi pomeriggio ma mi sono segnato i suoi punti salienti. Mi riservo di utilizzarli provando a proporre una dimensione non scientifica ma quantomeno di coordinamento alle contraddizioni che sono emerse.

Partiamo da un presupposto molto probabilmente scontato. Molti di noi vanno assolti dagli incidenti di percorso dei social per “non aver compreso il fatto” di esserci lasciati andare a comportamenti che rischiavano di invadere la sfera del campo penale senza rendercene conto. Ho l'impressione che comprendere gli effetti del fenomeno e del fatto social è un discorso di una complessità e di un tecnicismo tale – al di là delle apparenze della sua semplicità – che finiamo per collocarci nell' area degli apocalittici o degli integrati senza rendercene conto.

Non sappiamo ancora quale sia il giusto mezzo tra queste due posizioni. Ho colto dal discorso di oggi una realtà che mi conferma in un'idea maturata da parecchio tempo: l’ambiguità e la zona grigia tra la dimensione deontologica e la dimensione disciplinare. Due realtà che sono necessariamente e completamente diverse l’una dall'altra. 

Mi appello a quello che il Professor Romboli ha illustrato alla Scuola della Magistratura. Vi è la tendenza a fare entrare nel campo disciplinare tutta una serie di profili e soprattutto di metodo. Il primo di essi è quello della rapidità e della onnicomprensività, che devono essere bandite dal campo disciplinare e sono invece essenziali in quello della valutazione che spetta alla deontologia. 

In fondo la giurisprudenza soprattutto lavoristica e la stessa CEDU hanno sottolineato sempre – ed è stato ripetuto anche oggi – il carattere esclusivamente deontologico o etico della dimensione che attinge al sospetto di parzialità; sino a quando esso non si traduce in un comportamento tipizzato e disciplinato da una norma giuridica penale o disciplinare. 

La questione è molto aperta. Mi sembra sia stata originata dall'accusa di parzialità e poi dal superamento del suo confine tra imparzialità e indipendenza, che sono due espressioni di una stessa realtà. Si tratta dalla vicenda singolare di una giudice che cinque anni prima di prendere un provvedimento in materia d'immigrazione aveva partecipato a una manifestazione – con un marito o un partner – nella quale si esprimevano tesi politiche di tipo anti-governativo in tema di immigrazione. 

Cinque anni dopo quella giudice è stata criticata perché non ha sentito il dovere di astenersi da un procedimento nel quale ha disapplicato un decreto-legge che secondo lei doveva esserlo ai sensi della normativa europea indipendentemente dalla convalida del decreto-legge o meno.

Si è messa insieme una serie di elementi che – contenutisticamente e temporalmente – non avevano un senso comune. Come si può ragionare “attraverso il parasole o il parapioggia” della moglie di Cesare su un tema in cui si accumulano una serie di sospetti, di presunzioni, di paure e di prevenzioni che poi sono destinate a dissolversi dopo l’enfasi polemica iniziale e la critica dei social?

Questo discorso sta crescendo in progressione geometrica e non aritmetica col clima elettorale ormai frequente in Italia, come in questo caso. Sta facendo venire alla luce una serie di nodi e di grovigli che non abbiamo avuto il coraggio di spiegare prima. 

Il primo discorso che vorrei approfondire è la convinzione della assoluta inconciliabilità tra la dimensione deontologica - che tutto sommato tra l'altro non è mai stata coltivata granché da parte della magistratura - e quella disciplinare. 

 

2. Responsabilità penale, disciplinare e deontologica del magistrato

Vedo tre forme di responsabilità del sistema per la valutazione del comportamento del magistrato in un contesto segnato dalla riserva di legge rigorosa dell’articolo 102 della Costituzione. La prima e più severa è la ipotesi della responsabilità penale uguale per tutti, anche per il giudice. La seconda, più ampia e meno tassativa – alla luce di un orientamento giurisprudenziale consolidato negli anni ’80 espresso dalla Corte costituzionale con sentenza n. 100/1981– è la ipotesi secondo cui la tipicità dell'illecito disciplinare è necessariamente meno rigorosa e meno ristretta di quella prescritta per l'illecito penale; consentirebbe perciò, come si verificava in passato, la previsione di una ipotesi residuale e onnicomprensiva di comportamento “illecito”. La terza ipotesi è quella dell’illecito deontologico/etico, privo come tale di rilevanza giuridica; salva restando la possibilità di una sua rilevanza e valutazione “indiretta” nell’ambito della professionalità.

In sintesi abbiamo due sfere di responsabilità che sono - in modo più o meno esplicito e aperto - la responsabilità penale e quella disciplinare. Per entrambe è necessario il sigillo e la soglia normativa; non esiste responsabilità nemmeno disciplinare per i fatti a carattere etico e deontologico che non siano stati formalmente travasati dalla responsabilità deontologica (la terza sfera) alla responsabilità disciplinare, come può capitare ed è capitato qualche volta di fronte alla disapprovazione sociale accresciuta per certi comportamenti. 

Può capitare l'ondata di riflusso contraria. Siamo arrivati piano piano – e io l’ho sperimentato prima come ministro e poi come studioso – alla tendenza a ingigantire la responsabilità disciplinare con quelle clausole generali del tipo “prestigio della giustizia”, “fiducia nella giustizia” che erano in realtà etichette residuali e onnicomprensive per raccogliere tutto quello che non era stato sufficientemente tipizzato come illecito disciplinare.

Questo discorso è durato fino al 2006.  Avevo anche io cercato di tipizzare entro certi limiti nel 1996 – come ministro della giustizia – l'illecito disciplinare; naturalmente non ci sono riuscito. Non parlo dell'illecito deontologico perché i primordi del Codice deontologico è meglio dimenticarceli. 

Nel codice disciplinare in sostanza fino al 2006 c'era la regola implicita del silenzio; tutte le possibili censure erano ricomprese nell' offesa al prestigio della magistratura e alla fiducia nella magistratura attraverso la censura alle critiche rivolte a decisioni di magistrati o a singole manifestazioni di opinioni politiche più o meno forti nella loro formulazione e pubblicizzazione.

Erano nella maggior parte dei casi situazioni in cui era molto discutibile quanto ci potesse essere di illecito; o quanto ci fosse invece di coperto dal diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero previsto dall' articolo 21 della Costituzione per tutti, come fondamentale garanzia della libertà di opinione e della democrazia.

Ancora nel 2006 il codice disciplinare comprendeva l'illecito disciplinare residuale in cui rientrava l’offesa al prestigio della magistratura in generale e a seconda della discrezionalità di chi giudicava i magistrati in sede disciplinare. Questa norma è stata pochissimo tempo dopo eliminata proprio per le giuste proteste da parte della magistratura.

Ritengo che cercare di regolamentare non soltanto a livello deontologico ma addirittura disciplinare una situazione di bilanciamento tra interessi diversissimi sia troppo difficile e complicato; e quindi impossibile. Occorre rinunciare definitivamente a costruire una teoria di illecito disciplinare che copra come un ombrello tutto quello che “sarebbe bene” non capitasse.  

Ci sono molte cose che sarebbe bene non capitassero; ma non possono costituire oggetto di una sanzione disciplinare o penale. Nel momento in cui se mai lo costituiranno – ad esempio con un inaccettabile divieto al magistrato di partecipare a manifestazioni non meglio specificate – rimarrebbe un'ambiguità. Essa consentirebbe di strumentalizzare - com'è capitato sempre più frequentemente anche di recente - di accusare il magistrato non di una effettiva violazione del principio di imparzialità; ma al più di un “atto preparatorio” di essa. 

Quest’ultimo non sarebbe punibile in termini di tentativo come premessa alla futura violazione di imparzialità, quando ad esempio il magistrato si occupi di una certa vicenda cinque anni dopo aver partecipato a quella manifestazione. Nemmeno la miglior fantasia è in grado di ricollegare elementi di questo genere se non si vuole trasformare una “supposizione” in una ipotesi di preparazione ad una successiva manifestazione di “parzialità”.

 

3. Libertà militare e militarità nell’ordinamento delle forze armate

A proposito di “interessi diversi” condivido la distinzione molto bene sottolineata da altri oggi e colta in sede giurisprudenziale tra i limiti che possono caratterizzare la deontologia prima ancora della rilevanza disciplinare nel lavoro privato e nel lavoro pubblico; soprattutto nel lavoro pubblico non privatizzato. 

Penso ad esempio a una vicenda recente di cui ho avuto occasione di occuparmi istituzionalmente come professore, non come avvocato. È il problema della libertà di associazione e di organizzazione sindacale tutti i militari.

Una delle ragioni che portano ad invocare anche per i corpi tuttora militari questo discorso è il fatto che il riconoscimento della libertà associativa sindacale dei militari, compiuto dalla CEDU, è diventato precettivo per l'Italia ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione. Ha portato la Corte costituzionale a cambiare radicalmente la sua impostazione in materia di libertà sindacale dei militari; a riconoscere con la sentenza n. 120 del 2018 il diritto alla libertà all'associazione sindacale dei militari nei limiti rigorosi di una riserva di legge che ha poi disciplinato la materia. 

Questo riconoscimento non nasce solo dall'articolo 18 della Costituzione, ma dall'articolo 39 di essa e dalla legge n. 46 del 2022 che riconoscono e disciplinano il diritto dei militari - salvo deroghe - a svolgere attività “professionale” sindacale nei limiti previsti dalla legge. 

Contro quella legge sono stati sollevati una serie di ostacoli, di riserve, di critiche dicendo “ma così si crea un associazionismo sindacale “di diritto” che è diverso dall'associazionismo sindacale libero, “di fatto” previsto e disciplinato - per ora – soltanto dalla legislazione in tema di lavoro. 

A ciò è agevole replicare che la “professione” sindacale militare è necessariamente legata ai principi di autorità; di comando e responsabilità; di gerarchia particolare; di “obbligatorietà del servizio militare” non solo sotto il profilo tradizionale della leva; di disciplina. Sono connotazioni essenziali riconducibili alla disponibilità della “forza” e al riconoscimento costituzionale dei fini dell’organizzazione militare.

Sono principi che giustificano e fondano certamente la distinzione fra “servizio obbligatorio”, funzione ed impiego degli appartenenti alle forze armate in relazione ai fini del loro compito e alla disponibilità legittima della forza nello svolgimento di quel servizio.

Il richiamo di questo aspetto mi sembra opportuno per sottolineare che le considerazioni della professionalità e della sfera deontologica sono e devono essere estranee alla sfera disciplinare, ma possono ricondursi alla sfera della valutazione di professionalità.

 

4. Deontologia e libertà di manifestazione del pensiero

Tornando al tema dei social, un problema serio muove da una constatazione troppo spesso dimenticata: il legame tra l’articolo 15 e l’articolo 21 della Costituzione. Libertà di manifestare a tutti il proprio pensiero con qualsiasi mezzo, anche il più diffuso e diffusivo; o di manifestarlo soltanto a qualcuno e non ad altri; con la comunicazione a uno o più destinatari determinati. 

L'unico limite che merita una sanzione è quello penale del buon costume, con la possibilità di sequestro che però non interessa ai nostri fini. Oltre ad esso vi è la libertà di spaziare su tutto: posso dire quello che voglio purché non commetta dei reati; ovviamente con i limiti – a questo fine – della verità quanto meno putativa, della continenza, della riferibilità a situazioni e a fatti che possano interessare l'opinione pubblica.

I fatti oggetto di divulgazione che non sono suscettibili di essere ricondotti alla rilevanza giuridica dell’illecito penale – che può legittimamente essere disciplinato come limite alla libertà di manifestazione del pensiero manifestato con qualsiasi mezzo, per il rispetto dei valori costituzionali protetti dalla Costituzione – rientrano nell’ambito della deontologia. A ciò deve aggiungersi la possibilità di comunicare il proprio pensiero non a tutti ma a persone determinate, che è accompagnata dal diritto alla inviolabilità e segretezza della comunicazione; queste ultime sono limitabili soltanto per legge con atto motivato dall’autorità giudiziaria.

Con riferimento alla realtà dei social deve infine richiamarsi una terza ipotesi che si dimentica troppo spesso in questi tempi: la necessità di salvaguardare la sfera del silenzio e della privacy che ciascuno di noi ha e che attiene anche ai dati sensibili. 

Questo discorso è tramontato quando l'informazione si è trasformata da momento di relazione fondamentale per la democrazia – attraverso la comunicazione di idee, contenuti e valori – in strumento e momento di realizzazione di profitto. Quando si è giunti al passaggio dall'informazione all'informatica, ai big data; ai famosi dati sensibili e alla raccolta anzi alla loro estrazione dove e come capita e con qualsiasi mezzo; alla loro utilizzazione e divulgazione senza limiti con i social, le piattaforme e gli algoritmi.

A volte capita grazie alla nostra ingenuità. Qualcuno è convinto di parlare con un amico quando parla con il computer: la famosa “confidenzialità” che ci ha illuso di poter parlare col social senza sapere che stavamo parlando all'universo. 

È stata l'intelligenza di Eco a ricordarci che tempo fa il cretino parlava al massimo a tredici persone al “bar dello sport”; adesso parla a tre miliardi di persone. È questa la verità: il discorso che nasce attraverso gli artifici tecnici della piattaforma che provocano molta paura. 

Nel momento in cui l'informazione da trasmissione di valori è diventata un prodotto commerciale viene alla mente la narrazione di Chesterton in versione moderna. Dove nascondo un cadavere? In un campo di battaglia. Dove nascondo una foglia? In un bosco. Dove nascondo un granello di sabbia? In una spiaggia. Dove nascondo un'informazione vera, importante? In un campo sterminato di informazioni false, che provocano quel famoso caos e quella confusione nella quale ci perdiamo tutti; nella quale quando ci rivolgono delle domande precise rimaniamo tutti un po' incerti su come rispondere. 

 

5. Privacy, trasparenza e informazione nel rapporto tra media e social

Il primo problema da risolvere a questo punto è come confrontarci con la tendenza alla rivendicazione dell'arma della trasparenza come strumento essenziale della democrazia. La trasparenza è assolutamente necessaria per certi settori della democrazia e di convivenza, compresa la democrazia delle banche; quella del fisco; quella dei bilanci. È meno accettabile a mio avviso quando diventa una verità intoccabile nei confronti del giudizio politico. 

“Ma io ho diritto a sapere”. Come ricordava un magistrato noto in materia di Mani Pulite: se invito Tizio a tavola ed esso mi porta via le posate d' argento, forse non posso denunciarlo però ho diritto a dirlo in giro perché lo si sappia e gli altri non lo invitino. È un discorso preoccupante perché può porre le basi per la creazione di un ponte tra il contesto deontologico, morale e quello disciplinare; qualche volta anche quello penale. 

Comincio a pensare che bisognerebbe guardare con cautela alla trasparenza come chiave “universale” per giudicare gli altri; non soltanto come chiave obbligatoria, necessaria e vincolante rispetto a certi settori della vita associata.

Comincio a capire adesso quello che ci racconta la Bibbia quando ai nostri progenitori, entrando nel giardino dell'Eden, venne detto “Potete mangia di tutto tranne che dell'Albero della conoscenza, se no morirete”.  Forse era quel linguaggio che ha riscoperto Socrate quando ha detto che il vero significato dell'intelligenza è sapere di non sapere. Una trasparenza attraverso la conoscenza portata al massimo livello ci porta a discutere anche (o soprattutto) dei social.

Questo discorso apre la via ad un altro problema. Quale rapporto tra i media e i social? Mi hanno molto incuriosito le controversie giudiziarie o le manovre compiute ad esempio negli Stati Uniti a proposito dell'uscita di scena in una grande corporation e poi del rientro di un protagonista dell’intelligenza artificiale nella gestione dell'informazione: vera guerra o operazione pubblicitaria? 

Da un lato una simile entrata/uscita sbattendo la porta può essere un ottimo meccanismo pubblicitario per convincere gli utenti a comprarsi i piccoli kit domestici dell’intelligenza artificiale che sono reclamizzati, pagandoli amaramente. “Compratevi questa app; vi terrà al sicuro dai danni che potrebbero chiedervi per il mancato rispetto delle regole dell'intelligenza artificiale; se non lo fate rischiate di dover rispondere di quei danni”. 

Dall' altro lato questo tema può indurre a farsi catturare dal fascino dell'intelligenza artificiale, da quello della automazione dell'informazione e dalla facilità nell'utilizzo di quest’ultima. 

Dovremmo forse tornare a domandarci come recuperare l'equilibrio costituzionale che deve esservi tra l’interesse di tutti alla comunicazione - dei giornalisti, del pubblico, del magistrato a conoscere tutto - per poter accertare la responsabilità dei reati. Dovremmo evitare di giungere al paradosso di ritenerci tutti imputati in attesa non di giudizio ma di scoperta degli indizi per poterci processare. Sarebbe innocente soltanto chi riesce a sfuggire a questo destino. 

Questo discorso dovrebbe essere ripreso ben più ampiamente in un altro momento. Non adesso perché sembra strumentale al rischio che la nostra riforma della giustizia finisca per risolversi in sostanza in una “riforma del precedente”. Un precedente che non nasce più dall'aver sfogliato come in passato il repertorio della rivista sulla giustizia civile, con il rischio di sbagliare il precedente. 

Adesso non si può più sbagliare nel cercare il precedente; c'è una via obbligata nella “biblioteca di Babele” realizzata dai gestori delle piattaforme. Ma come? Andate a pescare tutte le notizie che c'erano sul Washington Post e non ci pagate i diritti d'autore? Ci vivete di rendita, anzi ci guadagnate moltissimo? 

Credo che la soluzione verrà trovata solo in questi termini. Pochi hanno cominciato – fra loro alcuni premi Nobel – ad osservare che è pericoloso e costoso andare sempre alla ricerca del precedente con un discorso che ci porta soltanto al passato. 

 

6. La riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione nel rapporto fra trasparenza e informazione

Di fronte a ciò trovo un'apertura molto forte e nuova in una riforma della Costituzione che abbiamo adottato due anni fa e di cui forse non abbiamo capito l'importanza per il suo intervento su alcune norme chiave della Costituzione: quella sui diritti inviolabili e sui doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale (articolo 2); quella sulla pari dignità sociale (articolo 3). 

Un terzo articolo fondamentale in connessione con essi è l'articolo 9, che finora però soffriva di una certa rigidità perché l'ambiente non veniva considerato direttamente. Veniva visto e tutelato come conseguenza della tutela del paesaggio insieme a quella del patrimonio culturale, storico ed artistico.

L’articolo 9 si pone come chiave tra il passato di quel patrimonio, il presente del paesaggio ed il futuro, attraverso la cultura.  La riforma della Costituzione ha preso un importante stimolo anche da un intervento molto interessante del Tribunale federale tedesco sull’interesse delle future generazioni, che a mio avviso è stato arricchito nella riforma della Costituzione da un riferimento all'equilibrio dell’ecosistema e alla conservazione e tutela della biodiversità.

Nella biodiversità vengono in considerazione – oltre a quella vegetale e animale – anche la biodiversità umana, compresa quella parte di essa che è rappresentata dalle tradizioni culturali di ogni popolo, di ogni etnia (non uso il termine razza perché non vorrei che venisse equivocato). La Costituzione ha sviluppato un interesse molto forte al futuro. Si può dire che essa ha costituzionalizzato il concetto di “sviluppo sostenibile” sul quale da tempo stiamo discutendo in sede internazionale ed europea. 

Nella Costituzione lo sviluppo sostenibile viene raccolto altresì con la riforma dell'articolo 41. In quest’ultimo la libertà di iniziativa economica viene subordinata non solo alla utilità sociale, alla sicurezza e alla pari dignità umana, ma prima ancora alla salvaguardia dell'ambiente e della salute.

 Questa è una chiave di lettura più logica di quanto è capitato a Taranto con la vicenda dell'ILVA, dove si dovevano mettere d'accordo tre valori diversi l'uno dall'altro: conservazione del lavoro; salubrità dell'ambiente; salute dei lavoratori. 

Chiudo qui questo discorso raccogliendo un punto di riferimento che mi ha offerto la collega Tullini: il tema della confusione tra deontologia e disciplina è un tema che attiene alla valutazione della professionalità. Sono convinto che il legislatore non avrà il coraggio di introdurre un codice disciplinare morale o etico che dir si voglia, perché il codice disciplinare non è etico; è un codice di disvalori puniti in modo diverso fra loro, ma puniti sempre come il reato cioè l’illecito penale. 

Il discorso degli attacchi che sono stati mossi e delle difese che sono state giustamente contrapposte da parte della magistratura nella vicenda da cui è nato il nostro incontro è un problema che attiene alla professionalità. Può essere oggetto non di una valutazione disciplinare (“state zitti sennò promuoviamo un procedimento disciplinare!”) ma di una valutazione di professionalità. 

Se vai ad agitarti in modo inconsulto nei social e la gente lo vede e lo commenta, credo che chi deve valutare la tua professionalità possa trarne spunti per giudicare se è il caso che tu rimanga lì o è il caso che tu venga trasferito a un altro tipo di posto o di incarico. 

 

7. Prospettive, necessità e limiti del principio di trasparenza nel regolamento europeo della intelligenza artificiale

Ho molto ammirato il Codice sull'intelligenza artificiale elaborato dall'Europa, che però si sta confrontando con alcuni ostacoli. L'Europa è stata la prima ad avere il coraggio di affrontare il tema dell'uso delle risorse con cui si fa la guerra, che allora erano il carbone e l'acciaio; adesso ne abbiamo altre. Nacque per questo la CECA, la Comunità europea del carbone e dell'acciaio. Ha proseguito portando avanti questa prospettiva la Comunità economica europea; il discorso si è sviluppato ulteriormente con l'Unione Europea e ponendo la moneta unica e il mercato unico come obiettivi.

Invece venne bloccato un discorso che riemerge adesso e non tutti se lo ricordano. La CED, la Comunità europea di difesa che si voleva introdurre come sviluppo ulteriore, venne ostacolata dalla grandeur di un paese il quale teorizzò gli eserciti che dipendono ciascuno dal proprio Stato. Fu in certo qual modo una premessa del sovranismo che poi si è diffuso nell’alternativa tra stati e popoli europei. 

I problemi che l'Europa sta affrontando e che oggi deve fronteggiare sono in primo luogo rappresentati dal fatto che essa ha realizzato molto, ma si è “improvincialita” guardando soprattutto al cortile interno e alle liti condominiali sulla concorrenza; scordandosi di vedere quello che capitava fuori da quel cortile. 

Gli americani hanno praticamente chiuso l'ombrello protettivo della NATO e si sono rivolti dall'altra parte verso l'Oceano Pacifico anziché verso l'Oceano Atlantico. Per noi europei sorge drammaticamente il problema: ma dobbiamo farla questa difesa comune europea? Organizziamo un esercito europeo? 

Tutto questo apre altre tematiche che non posso nemmeno sfiorare adesso e che sarebbero estremamente interessanti; ma ringraziando il cielo non sono di competenza del Consiglio Superiore della magistratura italiana e tantomeno mio.

Poi c'è stato un altro problema assai rilevante. Un signore che si chiamava Giuseppe e aveva un figlio di nome Gesù e una moglie di nome Maria dovette in fretta e furia portarli da Betlemme in Egitto per fuggire alla strage degli innocenti, minacciata e poi eseguita dal sovrano locale. A Giuseppe non è stato chiesto se fosse un profugo economico, un profugo ecologico o un profugo di altro tipo. 

Abbiamo affrontato il problema dell'immigrazione verso l’Europa in un momento e con una logica che era quella in cui le migrazioni erano fenomeni di singoli individui, anche se numerosissimi. Con gli accordi di Dublino nei primi anni del 2000 abbiamo affrontato quel problema nonostante avessimo delle frontiere con ottomila chilometri di coste che erano anche europee oltre che italiane. Pensavamo “ma intanto questi se ne vanno a lavorare negli altri Paesi; anzi, abbiamo Schengen quindi essi possono andarci ancora prima”. 

In cambio abbiamo preteso una certa benevolenza dell'Europa nel rispetto delle prescrizioni di bilancio europeo.  Questo discorso è rimasto in piedi purtroppo da più di trent'anni senza rendersi conto che nel frattempo le migrazioni erano diventate un fenomeno completamente diverso. Un fenomeno di massa paragonabile semmai a quello delle invasioni barbariche che i romani riuscirono ad assorbire solo trasformando chi invadeva le frontiere in custodi di esse rispetto agli altri barbari che arrivavano dopo. 

Non ci rendiamo ancora conto che è profondamente sbagliato il discorso di vedere le migrazioni solo come un'emergenza e non come un fatto strutturale per il futuro dell'Europa, di fronte alla carenza di nascite; di fronte alla crisi demografica così come è stato per gli Stati Uniti, per il Brasile e per molte altre realtà. 

L'Europa ha continuato a teorizzare l'eguaglianza di tutti nei diritti; abbiamo aggiunto e giustamente l'eguaglianza dei diritti degli stranieri a quelli degli italiani. Eppure i migranti continuano a morire nei barconi e non c'è molta differenza tra il cimitero di Auschwitz e il cimitero del Mediterraneo.

 Queste sono le tre condizioni: liti nel cortile di casa nostra; cecità di fronte a quello che sta capitando nella realtà del mondo di fuori; e problema dell'incoerenza in materia di un fenomeno sociale come le migrazioni e la loro drammaticità. Tutto questo ci dovrebbe portare a capire in tema di futuro dell’Europa che il problema di fondo è quello di riconoscere altre libertà oltre alle quattro libertà che avevamo conquistato – persone, capitali, denaro e servizi – e che abbiamo consolidato.

Tutto questo dovrebbe portarci anche ad un discorso comune in materia di trasparenza. L'idea che per l'intelligenza artificiale l'Europa è la prima ad aver proposto un codice - è un codice serio che è il codice dei rischi dell'intelligenza artificiale senza limiti e controlli - è molto bella; però rimane sempre un'angoscia di fondo. 

Gli Stati Uniti inventano; la Cina per ora copia (ma fra un po’ non avrà più bisogno di copiare); l’Europa che fa? Regolamenti e regole. Mi auguro di lavorare al campo delle regole – anche di quelle per i social - in un modo diverso e più costruttivo di ora. 

25/07/2024
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Soltanto il rigorosamente verificato difetto di questi requisiti, e non altri sintomi esteriori quali le convinzioni personali rimaste ai margini del provvedimento, si rivela indice affidabile e consentito dell'avvenuta delusione dell'aspettativa collettiva di un'amministrazione imparziale della Giustizia, anche sotto l'aspetto dell'apparenza.

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