1. Il decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162, recante «misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonché in materia di entrata in vigore del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, di obblighi di vaccinazione anti SARS-COV-2 e di prevenzione e contrasto dei raduni illegali», è stato il primo intervento normativo adottato dal nuovo governo di centro-destra, presieduto dall’on. Giorgia Meloni.
L’art. 5 di tale decreto, rubricato «Norme in materia di occupazioni abusive e organizzazione di raduni illegali», introduce, all’interno del titolo del codice penale dedicato ai delitti contro l’incolumità pubblica, la nuova fattispecie delittuosa (art. 434-bis) di invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica.
La norma incriminatrice, già ribattezzata “anti-rave” (sull’onda di un recentissimo caso di cronaca che ha goduto di un’ampia copertura mediatica), appare in realtà idonea a sanzionare, in astratto, una serie assai più variegata di condotte e di ‘fenomeni sociali’ e non ha mancato di suscitare sin da subito forti critiche, provenienti sia dalla politica sia dal mondo accademico e da quello dell’avvocatura e della magistratura associata, che ne hanno stigmatizzato la scarsa cifra di determinatezza e di offensività e hanno paventato seri rischi di collisione con l’esercizio del diritto di riunione, costituzionalmente garantito dall’art. 17 Cost.
Si tratta, in effetti, di una fattispecie connotata da una forte anticipazione della soglia di tutela, rispetto a beni superindividuali vaghi e difficilmente afferrabili, cui si connette una cornice edittale di pena assai elevata; la norma, peraltro, come si vedrà, non appare di agevole applicabilità in concreto e corre il rischio – comune a tutte le norme “manifesto”, caratteristiche dell’uso simbolico del diritto penale – di un impiego arbitrario e, perciò, selettivo.
2. Un primo profilo di dubbia compatibilità costituzionale della fattispecie incriminatrice in questione risiede già nell’introduzione della stessa con lo strumento del decreto legge: una prassi ormai piuttosto consueta, com’è noto, e sulla quale – tuttavia – vale la pena continuare ad esprimere forti riserve, dal momento che i requisiti straordinari di necessità ed urgenza che legittimano l’intervento normativo del governo sembrano difficilmente conciliabili con le esigenze di ponderazione, extrema ratio e frammentarietà, poste a fondamento del principio costituzionale di riserva di legge in materia penale, e si prestano piuttosto ad un uso “emotivo” di tale strumento (anche in virtù dell’iter accelerato del procedimento di conversione, che non garantisce a sufficienza, neppure in tale fase, un’ampia discussione parlamentare).
In questo caso, peraltro, si è trattato di un decreto legge dal contenuto estremamente eterogeneo, avente ad oggetto le materie più disparate, dalla disciplina del cd. ergastolo ostativo al rinvio “in blocco” dell’entrata in vigore della cd. riforma Cartabia sulla giustizia penale, fino all’anticipazione del rientro in servizio degli esercenti le professioni sanitarie che hanno scelto di non vaccinarsi contro il SARS-COV-2.
Le ragioni straordinarie di necessità e urgenza poi, in presenza delle quali l’art. 77, 2° comma Cost. consente l’impiego del decreto legge, se potevano dirsi sussistenti con riguardo alle disposizioni in tema di ergastolo ostativo (in ragione dell’imminente intervento della Corte costituzionale sul punto, previsto per il prossimo 8 novembre) e di differimento dell’efficacia della riforma penale Cartabia – e ciò a prescindere da una valutazione sulla ragionevolezza delle soluzioni adottate in merito –, certamente non possono ravvisarsi nelle disposizioni normative che hanno introdotto ex novo il menzionato illecito penale.
La progressiva affermazione, anche tra gli studiosi, di un ‘pensiero debole’ in tema di legalità penale (cui si accompagna una certa condiscendenza per il ricorso alla decretazione d’urgenza in tale materia) non deve esimere, a parere di chi scrive, dall’affrontare in chiave fortemente critica questo aspetto preliminare, che ha riguardo agli equilibri tra i poteri dello stato, con ricadute enormi sulla stessa qualità della legislazione.
3. Le maggiori riserve che qui si intende esprimere sulla fattispecie di nuovo conio, tuttavia, sono di carattere sostanziale.
L’art. 434-bis c.p. stabilisce che «l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica.
Chiunque organizza o promuove l’invasione di cui al primo comma è punito con la pena della reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000.
Per il solo fatto di partecipare all’invasione la pena è diminuita.
È sempre ordinata la confisca ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale, delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato di cui al primo comma nonché di quelle utilizzate nei medesimi casi per realizzare le finalità dell’occupazione».
La norma si apre – singolarmente – con una disposizione che si pretende di carattere definitorio e che, tuttavia, si limita, come è stato detto, a «ripetere l’oggetto da definire, attraverso un meccanismo tautologico», senza precisare né cosa si intenda per «invasione» o «raduno» né quando si realizzi la «possibilità di pericolo» per i tre beni giuridici superindividuali e dai contorni vaghissimi che la norma mirerebbe a tutelare. La stessa si limita a circoscrivere la condotta di invasione punibile a quella «commessa da un numero di persone superiore a cinquanta».
Il successivo raduno «pericoloso», invece, sembra essere stato concepito come mero oggetto di un dolo specifico dell’agente “invasore” (rectius, degli almeno cinquantuno agenti “invasori”), talché, secondo la formulazione letterale della norma, non occorre, ai fini della punibilità, che lo stesso si realizzi effettivamente.
Quanto alla condotta di «invasione», la definizione della stessa potrebbe apparentemente trarsi, per analogia, dall’elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi intorno alla fattispecie “contigua” di cui all’art. 633 c.p. (sulla formulazione della quale la norma odierna sembra essere ricalcata), che punisce «chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto».
Senonché, in relazione a tale fattispecie, si è affermato un orientamento giurisprudenziale secondo il quale la condotta di invasione non andrebbe interpretata «nel suo significato etimologico di forza soverchiante”, bensì “solo come accesso/penetrazione arbitraria nell’edificio o nel terreno altrui» (cfr., ex multis, Cass. sez. II, sent. n. 4393/2018; conf. Cass. sez. II, sent. n. 29657/2019, con cui si è affermato che la nozione di “invasione” non si riferisce all’aspetto violento della condotta, che può anche mancare, ma al comportamento di colui che si introduce «arbitrariamente», ossia contra ius, in quanto privo del diritto d’accesso).
Un’interpretazione tanto estensiva del concetto di invasione (ben oltre, si ripete, il suo “significato etimologico”) si accompagna all’idea, volta a valorizzare la reale proiezione offensiva della fattispecie, secondo la quale, a dispetto della formulazione letterale, la conseguente “occupazione”, da intendersi come permanenza per un periodo di tempo apprezzabile, costituirebbe «l’estrinsecazione materiale della condotta vietata» (l’in se dell’incriminazione, insomma) e non solo, quindi, la finalità per la quale viene posta in essere l’abusiva invasione.
Ricondotta all’ipotesi di reato di cui all’art. 434-bis, tuttavia, questa interpretazione rischia seriamente di generare una sovrapposizione tra la condotta di invasione ed il successivo raduno «pericoloso», finendo per suggerire l’idea che chi si raduna – per ciò solo – invade: si legittimerebbe, in tal modo, la punizione della semplice partecipazione al raduno che, lungi dall’essere un mero post factum non punibile, diventerebbe, per l’appunto, l’in se dell’incriminazione, con il rischio di una criminalizzazione indiscriminata, di massa.
4. La cornice edittale di pena prevista per la nuova fattispecie, poi, appare estremamente elevata: basti pensare che per l’ipotesi di radunata sediziosa «di dieci o più persone», il codice penale fascista (art. 655, rimasto intatto nella sua formulazione) prevedeva e prevede «per il solo fatto della partecipazione» la pena dell’arresto fino a un anno e, addirittura quando vi è la presenza di armi, da sei mesi a un anno. Inoltre, la medesima norma contempla, al terzo comma, una specifica e singolare ipotesi di “recesso” che comporta l’esenzione da pena per «chi, prima dell’ingiunzione dell’Autorità, o per obbedire ad essa, si ritira dalla radunata».
La nuova ipotesi di reato di cui all’art. 434-bis c.p., invece, come detto, prevede al terzo comma, per i meri partecipi all’invasione, soltanto una riduzione di pena di cui non è specificata l’entità, talché vale la regola generale di cui all’art. 65 c.p. e cioè una diminuzione non eccedente un terzo. Non è chiaro, peraltro, se si tratti di una mera circostanza attenuante ad effetto comune ovvero di una fattispecie autonoma di reato, la cui pena è stabilita per relationem: il che, come si vedrà, ha enormi ricadute anche di tipo processuale.
La proiezione offensiva della fattispecie è dunque legata alla circostanza che dal raduno, oggetto del dolo specifico che deve sorreggere la condotta di invasione, possa derivare pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica.
L’apparentemente rassicurante riferimento al pericolo per l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica lascia tuttavia emergere, in tutta la loro dirompenza, le non poche problematiche che caratterizzano tali beni giuridici, che in questo caso sono evocati dal legislatore in via alternativa e che dunque, ad onta della collocazione sistematica della nuova fattispecie tra i delitti contro l’incolumità pubblica, in particolare tra i delitti di comune pericolo mediante violenza (Titolo VI, Capo I del codice penale), assumono nella struttura della fattispecie un ruolo di piena parità.
Si tratta, come detto, di beni giuridici superindividuali che presentano numerose criticità in rapporto ai principi costituzionali di determinatezza e di offensività. È noto, infatti, che l’allentamento del rapporto tra il bene e la persona del suo titolare in carne ed ossa, da un lato, e la sua conseguente obiettivizzazione e normativizzazione, dall’altro, determinano un fenomeno di astrazione del bene giuridico che, da reale oggetto dell’offesa – e dunque della tutela apprestato dalla fattispecie penale – tende a divenire mera ratio o scopo dell’incriminazione.
In questo modo, però, la dimensione offensiva della fattispecie viene inesorabilmente scolorita, in quanto la scarsa afferrabilità empirica del bene giuridico e la sua conseguente manipolabilità si riflettono giocoforza sull’offesa, rendendo difficile per l’interprete definire in modo specifico il contenuto del danno o del pericolo e dunque, per il giudice, accertarne in concreto la ricorrenza: l’offesa è, infatti, concetto relativo, che muta in ragione del suo oggetto, sicché, come in un sistema di vasi comunicanti, essa si muove e si sposta in funzione del bene (più o meno concreto, più o meno ampio, più o meno vago) individuato come oggetto della tutela della fattispecie di volta in volta considerata.
Ma se l’incolumità pubblica e la salute pubblica possono essere adeguatamente “concretizzate” ove intese, in chiave personalistica, come l’incolumità e la salute di una o più persone, sia pure non hic et nunc individuate, altrettanto non può dirsi per il concetto di ordine pubblico, la cui inidoneità ad assurgere ad oggetto di tutela penale è stata più volte denunciata dalla dottrina penalistica sin dall’Ottocento e che nondimeno, proprio per la sua particolare duttilità, è destinato verosimilmente a trovare nella prassi maggiore spazio nell’applicazione della nuova fattispecie.
Si tratta, infatti, di un concetto vago ed indeterminato e, perciò, del tutto inafferrabile, attorno al quale non può essere costruita una fattispecie penale conforme ai principi costituzionali che presiedono, nel nostro ordinamento, all’esercizio del potere punitivo.
Diverse e molteplici sono le definizioni che, nel corso del tempo, la dottrina e la giurisprudenza costituzionale ne hanno fornito, fino ad essersi icasticamente affermato che, a ben vedere, «Non si sa definire l’ordine pubblico perché non c’è, e quello che c’è è una creazione del legislatore».
Senza alcuna pretesa di esaustività, basterà ricordare che esso può essere inteso in un’accezione puramente materiale, come il buon assetto e regolare e pacifico andamento della vita sociale, ovvero in un’accezione ideale, come l’insieme dei principi fondamentali che l’ordinamento ritiene indispensabili per la propria sopravvivenza: nessuna delle due accezioni, però, assicura il rispetto dei principi di legalità, sub specie determinatezza/tassatività, e offensività.
Non la prima perché, inteso quale mero ordre dans la rue, la sua elevazione ad oggetto diretto di tutela penale, a prescindere dalla concreta offesa ad ulteriori beni giuridici (la vita, l’incolumità personale, il patrimonio, etc.), rischia di legittimare la criminalizzazione, da un lato, di una serie indefinita e aprioristicamente indefinibile di offese a beni, individuali e collettivi, non ulteriormente specificabili; e, dall’altro – e ancor peggio – di mere trasgressioni formali, anche bagattellari, forme di disobbedienza, sintomi di pericolosità sociale. In questo senso, l’ordine pubblico (analogamente, del resto, all’altrettanto ineffabile concetto di sicurezza pubblica che ha caratterizzato e continua a caratterizzare la legislazione “a pacchetti” degli ultimi due decenni) si traduce in un mero contenitore ideale di tutti i beni giuridici, che dal punto di vista politico-criminale è funzionale a legittimare qualsivoglia scelta di incriminazione e, dal punto di vista applicativo, risulta inidoneo a consentire un’applicazione tassativa della fattispecie, rimettendo in definitiva all’interprete l’individuazione del contenuto del divieto penalmente sanzionato. Del resto, in cosa consiste il pacifico andamento del vivere sociale? E chi lo stabilisce? E sulla base di quali valori o criteri?
Non la seconda perché, elevando l’insieme dei principi supremi dell’ordinamento ad autonomo bene giuridico, di natura puramente ideale, si anticipa la soglia della rilevanza penale ad uno stadio ben anteriore a quello del pericolo, finanche indiretto, per i beni giuridici di una o più persone – che sono in realtà il vero oggetto finale della tutela – finendo per punire il mero dissenso politico-ideologico, l’atteggiamento interiore e i “cattivi pensieri”, laddove in un ordinamento democratico questi ultimi sono sempre ammessi e ad essere punite possono essere soltanto condotte empiricamente verificabili che, almeno a livello di tentativo, diano ad essi esecuzione.
Vi è da dire, certo, che l’anticipazione della tutela mediante l’astrazione, la volatilizzazione e l’ingigantimento del bene giuridico è tecnica legislativa ampiamente nota e da tempo sperimentata dal legislatore, in primis quello fascista del 1930, che ha costruito buona parte del catalogo della parte speciale del codice attorno a macro-beni giuridici di difficile afferrabilità, fino al punto da rendere problematico l’accertamento dell’offesa persino nei reati espressamente strutturati in termini di pericolo concreto, come molti di quelli dello stesso titolo VI e alcuni di quelli del titolo V, posti a tutela, appunto, dell’ordine pubblico.
L’anticipazione della tutela realizzata dalla fattispecie di cui all’art. 434 bis c.p. non si esaurisce, però, nell’evocazione dell’ordine pubblico quale bene finale rispetto al quale operare il giudizio di pericolo, ma è esasperata dal fatto che solo apparentemente tale fattispecie è strutturata in termini di pericolo concreto, come pure il riferimento espresso al pericolo per tali beni potrebbe prima facie far pensare.
A ben vedere, infatti, il pericolo per l’ordine pubblico, la salute pubblica o l’incolumità pubblica, non è l’evento del reato, o comunque uno stato di fatto reale che accede alla condotta o all’evento, come è caratteristico di tale categoria di reati, in quanto ai fini dell’integrazione della fattispecie è sufficiente che dal raduno possa derivare un pericolo per uno di tali beni («...allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare...»).
Si tratta, perciò, di un reato di pericolo indiretto, o di pericolo di pericolo, nel quale quest’ultimo non è elemento di fattispecie, ma semmai mera ratio della tutela: e tale categoria di reati, come da tempo sottolineato in dottrina, risulta già di per sé particolarmente problematica in rapporto al principio di offensività del reato, il quale, innanzitutto nella sua dimensione astratta, impone al legislatore, nella redazione delle fattispecie criminose, di rendere punibili soltanto fatti suscettibili di recare offesa ad un bene giuridico meritevole di tutela.
Infine, la tensione col principio di offensività diviene in questo caso ancor più profonda, se si considera che, come si è detto, il pericolo è connesso non già all’invasione (cioè alla condotta), bensì al raduno (cioè – e in modo pressoché inedito – all’oggetto del dolo specifico), e dunque ad un elemento della fattispecie soggettiva, che, secondo la formulazione letterale della norma, come detto, può anche non realizzarsi affinché il reato sia integrato.
5. Il forte scolorimento della proiezione offensiva della fattispecie, così realizzato mediante l’evocazione di un macro-bene giuridico altamente manipolabile e l’anticipazione della soglia di tutela di tale bene al pericolo del pericolo, rendono perciò fortemente concreto il rischio che ad essere incriminata sarà, in buona sostanza, la mera condotta di invasione, che non deve essere in sé pericolosa, e neppure potenzialmente pericolosa, ma soltanto finalizzata all’organizzazione di un raduno, soltanto eventuale, a sua volta potenzialmente pericoloso per l’incolumità, la salute o l’ordine pubblico.
Se così è, allora, l’individuazione del confine applicativo della nuova fattispecie – anche nei suoi rapporti con quella di cui all’art. 633 c.p., punita come visto in modo ben meno severo – finisce per riposare, oltre che sul numero di persone, sul mero atteggiamento interiore dell’agente, sulla motivazione che ne sorregge la condotta.
Ciò, oltre a comportare un’irrimediabile violazione del principio di offensività, si riverbera ancora una volta anche sul piano della determinatezza, intesa come verificabilità empirica, e perciò della tassatività della fattispecie penale, in quanto un siffatto giudizio, già ontologicamente di natura prognostica, può avere ad oggetto anche una situazione non reale, ma un fatto soltanto ipotetico, e diviene giocoforza del tutto aleatorio, con la conseguenza che l’individuazione del confine di liceità penale viene integralmente rimesso alla decisione (rectius, all’arbitrio) dell’interprete.
Del resto, se è vero che la nozione di invasione elaborata dalla prevalente giurisprudenza in seno alla fattispecie di cui all’art. 633 c.p., se adattata a quella di cui all’art. 434-bis c.p. con la sovrapposizione tra l’invasione e il raduno, potrebbe in parte contribuire ad arginare una simile anticipazione della tutela, è altrettanto vero che – come si è anticipato – essa recherebbe con sé il rischio di un’indiscriminata criminalizzazione di massa di tutti coloro che si limitino a partecipare al raduno, a prescindere dal fatto che essi abbiano organizzato o promosso, o anche soltanto partecipato, all’invasione del terreno o dell’edificio.
E una simile conseguenza apparirebbe paradossale e francamente inquietante, poiché realizzerebbe un definitivo e irrimediabile contrasto con l’art. 17 Cost., in quanto finirebbe per rendere punibile il mero esercizio di una libertà costituzionale, qual è quella di riunione, per finalità di tutela vaghe e indeterminate.
Del resto, qualsiasi manifestazione pubblica, se partecipata in massa, implica pressoché naturalmente un remoto pericolo quantomeno per l’ordine e l’incolumità pubblici, e dunque, a ben vedere, il confine della rilevanza penale del fatto finisce per essere attribuito al potere esecutivo e alla circostanza che la riunione (che il legislatore d’urgenza, forse allettato dall’evocazione della già richiamata fattispecie di «radunata sediziosa» di origine autoritaria, chiama «raduno») sia stata o meno espressamente vietata dall’autorità di pubblica sicurezza.
Né vale sostenere, in senso contrario, che lo stesso art. 17 comma 3 Cost. legittima la limitazione o il divieto della libertà di riunione, da parte del potere esecutivo, «per comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica», in quanto, da un lato, tale disposizione non opera alcun richiamo alla salute pubblica, né tantomeno all’ordine pubblico; e, dall’altro, perché neppure l’elevazione della sicurezza e dell’incolumità pubblica quali limiti costituzionali alla libertà di riunione implica, per ciò solo, che la loro violazione possa essere anche penalmente sanzionata, dal momento che la previsione di un fatto quale reato implica il rispetto dei principi stabiliti dalla Costituzione in materia penale, ai quali corrispondono altrettante garanzie di libertà della persona nei confronti del potere punitivo.
6. In definitiva, una serena lettura della fattispecie, sfrondata da definizioni tautologiche e soltanto apparenti riferimenti al piano dell’offesa, lascia emergere il vero nucleo dell’incriminazione, ovvero la partecipazione ad una riunione (leggi: manifestazione) non autorizzata. E ciò non può che destare profonda inquietudine per la tenuta dello stato di diritto.
Ma le perplessità sollevate dalla nuova fattispecie non si esauriscono sul piano della sua struttura e della sua tensione con i principi costituzionali, ma abbracciano anche altri piani, non meno problematici.
Gli elevati limiti edittali di pena detentiva dell’art. 434-bis c.p., come si è visto ben più alti di quelli previsti dal legislatore autoritario del 1930 agli artt. 633 e 655 c.p., oltre ad apparire in sé sproporzionati rispetto alla dimensione offensiva dei fatti in essa astrattamente sussumibili, si riverbera anche in chiave processuale, consentendo il ricorso alla custodia cautelare in carcere e alle intercettazioni, quantomeno nei confronti degli organizzatori e dei promotori, puniti con la reclusione fino a sei anni; mentre, con riguardo ai partecipi, il ricorso a tali strumenti è possibile solo ove la condotta di mera partecipazione venga qualificata in termini di circostanza attenuante, che sarebbe allora ad effetto comune, e non quale autonoma fattispecie di reato.
Infine, va ricordato che il provvedimento in commento non si è limitato a prevedere una nuova fattispecie delittuosa, ma è intervenuto, specularmente, anche su quelle di prevenzione. Il comma 2 dell’art. 5, infatti, ha introdotto la lettera i-quater) all’art. 4 del d.lgs. n. 159/2011 (c.d. codice antimafia), aggiungendo alle fattispecie di pericolosità generica quella dei «soggetti indiziati del delitto di cui all’articolo 434-bis del codice penale».
In questo modo, dunque, la tutela penale viene ancor più anticipata, consentendo l’applicazione delle misure di prevenzione, sia di quelle applicate dall’autorità amministrativa, sia di quelle applicate dall’autorità giudiziaria.
Ed è fin troppo evidente che, nell’ambito del giudizio di prevenzione, le problematiche di determinatezza/tassatività e offensività, di cui si è detto sinora, sono ancor più amplificate, in quanto tale giudizio è per sua natura incentrato non sulla dimostrazione, fondata su prove, di un fatto hic et nunc considerato e ben delimitato nella sua storicità, bensì sulla prognosi di pericolosità di una persona, desunta da meri indizi circa la realizzazione di un fatto-reato, che oltretutto, come si è visto, nel caso di specie presenta confini tutt’altro che definiti.
Ed è altrettanto evidente che il rischio concreto diventi, in tal modo, quello di colpire non più un fatto, bensì soltanto un tipo d’autore, il soggetto “pericoloso per l’ordine pubblico”, il sedizioso, in ultima analisi il dissenziente.
Al di là della – probabilmente difficoltosa – applicazione giurisprudenziale della fattispecie in esame, quindi, a destare particolare inquietudine sono proprio le ricadute che il complesso di tali disposizioni rischiano di avere in fase “procedimentale” e degli interventi di polizia, legittimando il ricorso a strumenti di indagine invasivi, l’adozione di misure precautelari e cautelari e l’applicazione di misure di prevenzione praeter delictum o ante delictum, normalmente applicate a fatti ben più gravi, finendo per costituire un formidabile strumento di criminalizzazione e repressione del conflitto sociale e del dissenso politico.
Enrico Contieri, giudice del tribunale di Torre Annunziata
Fabrizio Forte, GIP del Tribunale di Napoli Nord