Magistratura democratica
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Autorizzazioni, sovranità, piattaforme digitali

di Maria Vittoria La Rosa
avvocata in Roma

Lo sviluppo delle piattaforme digitali e della platform economy pone in crisi l’esercizio della sovranità mediante gli strumenti tradizionali del diritto amministrativo. Una prospettiva di adeguata disciplina delle piattaforme digitali, auspicabile quanto non rinviabile, non può prescindere da una dimensione sovranazionale e comunque, in prospettiva nazionale, dal richiamo all'art. 41 della Costituzione

1. Autorizzazioni e sovranità

Tra lo sviluppo delle piattaforme digitali avvenuto nell’ultimo decennio, autorizzazioni intese in senso ampio (o meglio, la non necessarietà, in molti casi, di queste autorizzazioni) e il concetto di sovranità, intesa come «il potere di legittimare altre forme di controllo che non richiede però, a sua volta, un altro controllo a monte»[1] esiste un nesso che è utile esaminare.

A questo fine riuniremo nel novero delle autorizzazioni intese in senso ampio provvedimenti e atti che vanno dalle concessioni alle autorizzazioni vere e proprie alle autocertificazioni di concezione più recente. Pur nella diversità della loro strutturazione, si tratta di atti che permettono alle persone (fisiche o giuridiche), rimuovendo un ostacolo di carattere giuridico, di intraprendere un’attività economica. La natura e le conseguenze giuridiche di questi atti variano significativamente a seconda che si tratti di una concessione o di un’autorizzazione in senso stretto: secondo la teoria classica, infatti, mentre nel primo caso non esiste un diritto preesistente dell’individuo allo svolgimento di quell’attività, essendo l’ente concedente a “creare” tale situazione giuridica soggettiva con un proprio atto discrezionale specifico, nel secondo caso il richiedente è già titolare di un’autonoma posizione di vantaggio, che il soggetto autorizzante non fa altro che legittimare ex post[2].

Negli ultimi decenni, agli istituti della concessione e dell’autorizzazione si è affiancato quello dell’autocertificazione: dapprima introdotto in ambito edilizio[3], il concetto della dichiarazione del privato sostitutiva del provvedimento autorizzatorio classico si è man mano fatto strada in molti altri contesti economici, sulla scia di un’evoluzione della concezione dei rapporti tra lo Stato e l’impresa privata che ha ritenuto di ridurre al minimo la discrezionalità del primo nel legittimare l’avvio della seconda. Esaminando le svariate tipologie di procedimenti autorizzatori oggi esistenti in Italia, emerge chiaramente come i casi in cui sia demandata sostanzialmente alla discrezionalità del pubblico la scelta di consentire o meno l’avvio di un’attività imprenditoriale siano oramai ridotti al minimo (gli esempi che si possono fare sono svariati: dai titoli edilizi, oramai in misura significativa costituiti da autodichiarazioni o comunicazioni, alle autorizzazioni per l’avvio di attività commerciali, alle autorizzazioni in campo energetico o per esercire l’attività di operatori nel contesto delle telecomunicazioni): ciononostante, lo Stato non rinuncia ad esercitare un controllo preventivo, sebbene di intensità differente a seconda dei casi.

Non è questa la sede per approfondire la storia e l’evoluzione del concetto di autorizzazione nel diritto amministrativo. In questo contesto, quello che interessa sottolineare è come lo Stato (non solo italiano), sebbene con diverse declinazioni adattatesi ai periodi storici di riferimento, abbia fino a poco tempo fa mantenuto in qualche modo (e continui in parte a mantenere) il controllo delle dinamiche economiche, non solo intraprendendo direttamente talune attività, ma anche riservandosi il diritto di impedire a taluni di fare impresa. Sebbene nell’ovvio rispetto della libertà riconosciuta dall’art. 41 della nostra Costituzione, è sempre lo Stato - che si tratti di concessioni, di autorizzazioni o di autocertificazioni - a stabilire con propri atti di rango primario quali presupposti giuridici debbano ricorrere perché l’autorizzazione o la concessione possano essere ottenute (o perché l’autodichiarazione si perfezioni) e cosa invece lo impedisca. 

Storicamente, questa dinamica nasce dall’esigenza di riaffermare la primazia della sovranità statale su altri “monopoli” esistenti nei fatti, nonché di contemperare il diritto all’iniziativa economica privata con altre situazioni giuridiche parimenti meritevoli di tutela. Nei primi decenni dello Stato unitario, un esempio emblematico dello stretto legame esistente tra concessioni e necessità di affermare la sovranità della nuova entità statuale è stato offerto delle farmacie. In un contesto in cui la produzione e distribuzione dei farmaci era sostanzialmente appannaggio dei soggetti religiosi, infatti, la Riforma Giolitti[4] è intervenuta per stabilire un concetto tanto semplice quanto, all’epoca, rivoluzionario: chi voglia esercitare l’attività di farmacista ha bisogno di ottenere una concessione da parte dello Stato. I precipitati di questa affermazione sono (1) che l’unico legittimato, ab origine, ad esercire questa attività è lo Stato stesso, il quale (2) può concedere ai privati di svolgere questa attività, ma conservandone la titolarità primaria, stabilendo unilateralmente le regole del gioco e in ogni caso riservandosi il potere di decidere di porre termine a questa momentanea “delega di funzioni”. Si tratta di una chiara estrinsecazione del concetto di sovranità.

C’è poi un ulteriore aspetto delle dinamiche autorizzative che vale la pena di sottolineare. Nel bilanciamento di vari interessi, costituzionalmente fondato, che costituisce l’essenza dell’attività della pubblica amministrazione, l’autorizzazione amministrativa propria dello Stato moderno si preoccupa di riconoscere cittadinanza nel mondo economico solo a quelle realtà non incompatibili con il contratto sociale sul quale la vita stessa della Repubblica si basa. 

Per esempio, attualmente in Italia per ottenere un’autorizzazione ad esercire un’attività industriale potenzialmente nociva per l’ambiente bisognerà dimostrare di aver adottato tutte le cautele del caso ed impegnarsi per continuare ad adottarle in futuro (è il caso delle prescrizioni inserite nei provvedimenti di Autorizzazione Integrata Ambientale di cui al D. Lgs. n. 152/2006 o nell’Autorizzazione Unica Ambientale di cui al D.P.R. n. 59/2013); allo stesso modo, è impedito l’esercizio dell’attività commerciale di vendita e somministrazione a coloro i quali abbiano riportato taluni tipi di condanne (ad esempio per delitti non colposi per i quali sia prevista una pena detentiva non inferiore nel minimo a tre anni, o per delitti quali ricettazione, riciclaggio, insolvenza fraudolenta, bancarotta fraudolenta, usura, rapina, delitti contro la persona commessi con violenza, estorsione[5]). Ancora, ai sensi della L. n. 231/2001 tra le sanzioni che colpiscono le società per la commissione di illeciti amministrativi dipendenti da reato figurano il divieto di contrarre con la pubblica amministrazione e la «la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito»[6]. Nel settore delle telecomunicazioni, per ottenere l’autorizzazione generale di cui all’art. 25 del Codice delle Comunicazioni Elettroniche[7] sarà necessario, ai sensi del combinato disposto di tale norma con l’Allegato 9 al Codice, produrre un’autocertificazione comprensiva della dicitura relativa al nullaosta antimafia, oppure un certificato equipollente per soggetti dichiaranti con sede in uno dei Paesi dell’Unione europea o in Paesi non appartenente all'Unione europea con i quali vi siano accordi di piena reciprocità. Allo stesso modo, indirettamente, sono autorizzate a contrarre con l’amministrazione o ad ottenere concessioni da quest’ultima solo quelle aziende che si dimostrino moralmente all’altezza di ciò, avendo onorato, tra gli altri, i propri obblighi fiscali e quelli previdenziali nei confronti dei lavoratori e non vedendo nelle proprie posizioni di vertice soggetti che abbiano riportato condanne di particolare gravità[8]. Gli esempi ulteriori che si potrebbero fare sono svariati.

Riassumendo, si tratta sostanzialmente di riconoscere legittima cittadinanza nella dimensione economica solo a quelle realtà imprenditoriali che si reputino operare in conformità rispetto ai valori fondanti del sistema giuridico di riferimento. 

Qualcuno potrebbe obiettare che non sempre questa impostazione si sia rivelata efficace, o che si tratti di un’ambizione datata e per certi versi non più attuabile (per lo meno nella sua declinazione statale), ma di certo non può non vedersene la ragion d’essere.

Questo è il mondo che abbiamo conosciuto e nel quale siamo stati abituati a vivere fino ad ora. Un mondo in cui, per produrre reddito e dunque ricchezza, i negozi si aprivano tra quattro mura, per produrre dei beni di consumo bisognava costruire e far funzionare degli stabilimenti produttivi e le risorse naturali andavano estratte e lavorate. Non possiamo ovviamente dire che queste dinamiche siano scomparse (tutt’altro), ma è un dato di fatto che insieme ad esse ne esistano oggi altre che ci costringono a ripensare significativamente i processi autorizzativi che abbiamo appena visto e, con essi, il concetto di sovranità statale in ambito economico.

 

2. Le piattaforme digitali

Attualmente, le società a più alta capitalizzazione a livello globale sono i colossi della rete[9]

Un esempio su tutti è quello di Apple: nell’agosto 2020 la sua valutazione ha sfondato il tetto dei 2.000 miliardi di dollari; per avere un metro di paragone, si consideri che il PIL italiano riferito all’anno 2018 è stato pari, secondo l’ISTAT, a poco più di 1.753 miliardi di euro[10]. Per tutte le ragioni che saranno esaminate nel prosieguo, è impensabile imporre a molte delle attività svolte da questi soggetti, su base nazionale, il concetto di autorizzazione amministrativa come conosciuto ed applicato fino ad ora. Il fatto che Apple, a differenza di altre big tech, produca e venda anche in negozi fisici dei beni di consumo (e dunque potrebbe necessitare, almeno in via teorica, di autorizzazioni intese in senso tradizionale sia per la produzione sia per la vendita dei propri prodotti) non cambia lo scenario: e infatti (i) una parte consistente del fatturato di Apple viene realizzata attraverso la commercializzazione di software e tramite l’App Store (virtuale) e (ii) soprattutto per quanto riguarda le caratteristiche delle autorizzazioni commerciali che devono ottenere i negozi, non è pensabile che queste si traducano in strumenti effettivi di controllo, da parte degli Stati ospitanti, dell’attività della società a livello globale. 

Anche spostando l’attenzione verso altre realtà di dimensioni più contenute, negli ultimi anni la proliferazione delle piattaforme digitali ha creato un ecosistema economico che presenta caratteristiche per molti versi lontanissime da quelle che abbiamo conosciuto fino ad ora. Dal settore dell’ospitalità a quello dei trasporti, dall’intrattenimento alle telecomunicazioni, è oramai consolidata la dimensione dei marketplace virtuali, ovvero delle piattaforme digitali dove si compra e vende di tutto: questo cambio di paradigma, piaccia o no, sta rimettendo in discussione molte cose, inclusi taluni istituti giuridici.

Per dare un’idea del peso che le grandi piattaforme online hanno acquisito sul mercato italiano, è sufficiente prendere in considerazione questo dato: con il proprio interim report pubblicato il 1° luglio 2020, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha riscontrato la posizione dominante di Amazon nel mercato delle consegne e-commerce: in questo comparto, il colosso di Seattle detiene una quota pari al 59% dei ricavi ed ha oramai scalzato Poste Italiane[11]. Probabilmente dieci anni fa nessuno avrebbe mai immaginato che lo storico monopolista statale sarebbe stato surclassato da una piattaforma virtuale sul terreno della consegna dei pacchi.

Fino a quindici anni fa a pochi sarebbe venuto in mente di prenotare una vacanza in un luogo che non fosse un’agenzia di viaggi o rivolgendosi a qualcuno che non fosse la struttura presso la quale si voleva soggiornare: oggi tutti pianifichiamo le nostre vacanze (dagli spostamenti ai pernottamenti) tramite piattaforme come Booking, Airbnb o eDreams. Un tempo per spostarci andavamo alla stazione per acquistare il biglietto del treno o (ancora) all’agenzia di viaggi per i biglietti aerei: adesso i biglietti aerei si comprano su eDreams, Expedia o GotoGate; molte persone non usano più neanche le tradizionali compagnie di trasporti perché per esempio, per viaggi relativamente brevi, utilizzano la piattaforma di car pooling BlaBlaCar, che connette chi cerca un passaggio con chi ha un posto in macchina da offrire. Gli esempi possono andare avanti all’infinito. Pur nella diversità delle diverse fattispecie, ciò che accomuna moltissime di queste realtà imprenditoriali è il fatto che, in molti casi, non è pensabile sottoporre l’esercizio di queste attività ad autorizzazioni rilasciate da autorità locali.

In Europa, la crescita e il consolidamento di questo ecosistema digitale sono – anche – il frutto di una scelta normativa precisa (operata però pur sempre, di può dire, nell’esercizio di una prerogativa di sovranità, seppure di livello sovrastatuale e basata, dal punto di vista degli Stati deleganti, su precise previsioni costituzionali): con la Direttiva e-commerce del 2001[12], infatti, è stato introdotto il concetto di prestatore dei servizi della società dell’informazione[13], che di norma coincide con il gestore della piattaforma e, ai sensi dell’art. 4 par. 1 della Direttiva medesima, non può essere soggetto ad un’autorizzazione preventiva per esercitare la propria attività in un Paese diverso da quello di stabilimento. In base a questa disposizione normativa, la necessità di ottenere autorizzazioni o licenze è venuta meno per molti soggetti che esercitano la propria attività anche fuori dallo Stato membro di stabilimento (come è normale per i soggetti gestori di piattaforme, che per loro natura gestiscono un business transnazionale). Si pensi al caso di Airbnb, portale sul quale offrire e trovare alloggi per locazioni brevi. Il portale era stato convenuto in giudizio in Francia dall’Association pour un hébergement et un tourisme professionnels, che lamentava l’esercizio, da parte del portale, di un’attività di mediazione e gestione di immobili ed esercizi commerciali senza licenza per l’esercizio della professione ai sensi della legge Hoguet. Il caso è arrivato dinanzi alla Corte di Giustizia, ma gli albergatori francesi non hanno ottenuto il risultato sperato. I giudici di Lussemburgo hanno infatti ritenuto[14] che Airbnb sia un operatore della società dell’informazione ai sensi della Direttiva e-commerce e non un agente immobiliare: di conseguenza, per operare sul mercato francese il portale non necessita della licenza prevista dalla legge Hoguet. Siamo tuttavia ancora in un ambito in cui (i) l’esenzione dall’obbligo di munirsi di licenze o autorizzazioni è comunque il frutto di una scelta legislativa consapevole e (ii) non viene comunque meno la necessità di munirsi di quelle autorizzazioni che siano prescritte dalla legge dello Stato di stabilimento.

Ci sono poi altri casi in cui la non necessità di sottostare a regimi autorizzatori non è frutto di una scelta normativa, ma è la semplice conseguenza del rapido invecchiamento del quadro normativo di riferimento, che quando è stato approntato non poteva contemplare realtà sviluppatesi in seguito. Un esempio lampante è quello di Whatsapp, l’applicazione di messaggistica: attualmente, per operare in Italia Whatsapp non ha bisogno dell’autorizzazione generale di cui all’art. 25 del Codice delle Comunicazioni Elettroniche[15], perché non rientra nel relativo ambito di applicazione oggettivo, per come è stato pensato nel 2003[16]. Altro esempio emblematico è quello del commercio: ad oggi, alla luce della normativa italiana e comunitaria vigente, in Italia un commerciante che voglia allestire il proprio sito internet per vendere i propri prodotti online dovrà depositare una Scia presso il Comune nel quale intenda svolgere l’attività[17], mentre il gestore di una piattaforma come Amazon o Alibaba, in genere stabilito all’estero, non avrà bisogno una vera e propria autorizzazione commerciale per erogare i propri servizi agli utenti italiani. Quindi, nei fatti, lo Stato continua in qualche modo ad esercitare un controllo sull’avvio di attività commerciali di dimensioni più o meno modeste, mentre attività commerciali come quella di Amazon[18], in termini autorizzativi, non devono sottostare al beneplacito o al controllo di un’autorità che a ciò le autorizzi. 

Ci sono poi soggetti – di dimensioni enormi – che non hanno bisogno di autorizzazioni per operare semplicemente perché la natura della loro attività non lo richiede (per lo meno negli Stati democratici occidentali). Pensiamo ad esempio a Google o Facebook: non producono beni materiali, e dunque non necessitano né di autorizzazioni per venderli né, a monte, di autorizzazioni per costruire ed operare impianti produttivi. Se vogliamo paragonare questi soggetti alle grandi multinazionali che abbiamo conosciuto fino ad oggi – ad esempio a quelle del settore energetico – ci renderemmo poi conto che, tanto per isolare un aspetto del loro processo produttivo, i GAFA (acronimo con cui si indicano le 4 grandi big tech: Google, Apple, Facebook e Amazon) non hanno bisogno di ottenere dagli Stati nazionali concessioni per l’utilizzo di materie prime consistenti in risorse scarse, come ad esempio gli idrocarburi. Il “petrolio” di questi soggetti non è una risorsa scarsa e soprattutto non esiste in natura, ma in una certa misura è un’invenzione dei GAFA stessi: si tratta dei dati generati dagli utilizzatori delle piattaforme, custoditi ed utilizzati da queste ultime e prodotti in quantità praticamente illimitate, senza che per questo sia necessaria alcuna autorizzazione particolare[19]. Si potrà obiettare che, quando si parla di dati, una qualche forma di controllo circa il loro utilizzo sia stata approntata in alcune parti del mondo (si pensi al Regolamento (UE) 2016/679 (c.d. GDPR), ma si tratta comunque di una forma di controllo che non copre tutti i dati prodotti dalla navigazione in Internet degli utenti e in ogni caso non è niente che possa fungere da spartiacque tra il diritto della società ad operare e la necessità di “chiudere bottega” (come poteva essere un tempo, ad esempio, per l’autorizzazione commerciale che doveva ottenere chi voleva aprire un negozio o per la concessione che doveva ottenere la compagnia petrolifera per sfruttare un giacimento).

Se si sommano le realtà imprenditoriali che beneficiano di una espressa esenzione dall’obbligo di ottenere autorizzazioni o licenze a quelle non ne necessitano per la vetustà del quadro normativo di riferimento o per la natura dei servizi resi (ancora, pensiamo a piattaforme come Twitter, Instagram o Youtube), si può avere un’idea di quanto gigantesca sia oramai la fetta del mondo economico che non è soggetta ad alcuna forma di controllo autorizzativo e quindi rispetto alla quale, di fatto, non viene esercitata una forma di sovranità statale - per lo meno ex ante - come l’abbiamo riconosciuta fino ad oggi. Si può obiettare che oramai molti Stati o unioni di Stati stanno tentando di regolamentare vari aspetti della vita delle piattaforme (si è già fatto l’esempio del GDPR, ma se ne potrebbero fare molti altri: dalla legge sull’hate speech approvata dalla Germania[20] al disegno di legge attualmente in discussione in Australia, c.d. New Media Bargaining Code, che vorrebbe imporre a piattaforme come Google il pagamento di cifre “eque” per i contenuti australiani ospitati sulla piattaforma): si tratta tuttavia di approcci settoriali e comunque molto lontani dall’esprimere una visione generale del rapporto tra economia e società come la esprimono le autorizzazioni classiche.

Eccoci arrivati, dunque, al filo rosso che unisce i tre concetti esposti all’inizio di questo scritto, ovvero autorizzazioni, sovranità e piattaforme digitali. Fino ad oggi, il potere dello Stato (anche per il tramite delle sue articolazioni locali) di rilasciare (o negare) autorizzazioni è stata una diretta emanazione della sua sovranità, intesa nel senso di legittimazione di talune dinamiche economiche e talvolta anche nel senso di prerogativa di programmazione. Con l’avvento delle piattaforme digitali, tuttavia, questo circolo può in certa misura dirsi spezzato, con la conseguenza che uno degli strumenti classici del controllo dello Stato sull’economia può, in alcuni casi, venire meno.

 

3. Disciplinare le piattaforme: necessità, possibilità o utopia? 

Una volta preso atto di questi cambiamenti, ci si potrebbe domandare: è giusto – ma soprattutto, ha senso – tentare di pensare a nuove forme di controllo statale sull’economia, calate nel contesto digitale?

In Italia, un primo tentativo di fornire risposta a questo quesito è stato compiuto di recente. Nella scorsa Legislatura sono stati depositati in Parlamento due disegni di legge[21], con l’obiettivo di disciplinare l’operatività delle piattaforme per la condivisione di beni e servizi: di questi, uno solo[22] entrava nel merito del tema autorizzativo, innanzitutto eliminando la necessità di un’autorizzazione vera e propria e successivamente subordinando l’operatività di questi soggetti all’iscrizione ad un registro tenuto presso l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. A sua volta, la possibilità di iscriversi al registro delle piattaforme tenuto dall’AGCM veniva subordinata al rispetto di alcuni fondamentali requisiti (ad esempio di carattere giuslavoristico). Con la fine della Legislatura, tuttavia, questi disegni di legge sono tornati nel cassetto, così come le velleità della politica italiana di giocare un ruolo attivo nella faccenda. Forse non è stato un male.

Di fronte alle dimensioni industriali ed economiche dei giganti tech, oltre che alla potenza sempre crescente del loro impatto sulle nostre vite, è difficile pensare che singoli Stati europei (peraltro di dimensioni territoriali e dal peso economico circoscritto, come nel caso dell’Italia) possano veramente ed efficacemente esercitare un’attività di controllo ex ante come si faceva con chi in passato voleva aprire una bottega.

Più sensato è il tentativo di organismi sovrastatuali (come l’Unione Europea) di disegnare un sistema di regole condivise tra più Paesi che, per volume complessivo delle rispettive economie, popolazione e fetta di mercato globale, possono effettivamente sperare di giocare un ruolo significativo sullo scenario economico mondiale. Su questo terreno, l’UE è vigile e operativa, e gli strumenti già approntati o in corso di predisposizione sono molti. Anche questo, però, non è sufficiente perché si possa parlare di una vera e propria sovranità da parte dell’Unione in materia (e l’Unione stessa ne è ben cosciente)[23]. Oltre all’aggiornamento del quadro normativo in materia di trattamento dei dati personali[24] ed all’approvazione del Regolamento (UE) 2019/1150 in materia di rapporti tra gestori delle piattaforme ed utilizzatori professionali delle stesse (entrambi già in vigore), ad esempio, è attualmente in discussione il Digital Service Act Package[25]. In tutti questi casi, tuttavia, al centro delle preoccupazioni del Legislatore comunitario ci sono da una parte aspetti connessi alla sicurezza ed alla tutela dei consumatori, dall’altra tematiche di carattere concorrenziale aventi l’obiettivo di spezzare o almeno contenere, nella misura del possibile, il monopolio attuale delle big tech, rendendo il mercato digitale più accessibile e contendibile anche da parte delle piccole e medie aziende. Sono ovviamente tutte tematiche di primaria importanza che devono necessariamente essere affrontate, ma l’ottica dalla quale si guarda al fenomeno sembra esclusivamente quella del mercato e della tutela (per quanto possibile) delle sue dinamiche concorrenziali, mentre al momento sembra assente qualunque idea di controllo ex ante della virtuosità “morale” degli attori del mercato. Non esiste in nessuno dei dibattiti attualmente in corso a livello comunitario alcun riferimento ad una regolamentazione ex ante che cerchi di estromettere dal mercato soggetti che si siano macchiati di illeciti di particolare gravità, come ad esempio si è tentato (e si tenta ancora) di fare in Italia, come già detto, nei settori dei contratti pubblici e delle autorizzazioni ambientali. Ciò in parte si spiega con le competenze attribuite alle istituzioni comunitarie – tra le quali non figurano il diritto penale, fiscale o del lavoro – e in parte sembra la conseguenza delle caratteristiche stesse del progetto comunitario, di recente sempre più focalizzato essenzialmente su dinamiche di carattere economico. 

Quindi, se così è, chi si occuperà di sbarrare la strada verso l’ingresso e il dominio del mercato a soggetti della cui moralità si possa dubitare? Di riflesso, esisterà ancora qualcuno che stabilisca che le violazioni dei diritti altrui in alcuni casi possano considerarsi talmente gravi da sconsigliare che il soggetto che le ha perpetrate abbia cittadinanza nel mondo economico? Ma soprattutto, il tentativo che si è fatto in passato di esercitare questa sorveglianza si è rivelato efficace (e dunque merita di essere replicato) o no? Non è questa la sede per fornire risposte esaustive a quesiti di tale importanza. Quello che sembra evidente, tuttavia, è che, considerando le dimensioni e il “potere contrattuale” di alcuni dei soggetti in gioco, pensare a soluzioni diverse da Stato a Stato, nel tentativo riprodurre nel mondo digitale il concetto di sovranità statale che abbiamo conosciuto fino ad ora, probabilmente non porterebbe lontano. Anzi, la cronaca recente ci dimostra che paradossalmente è proprio questa la concezione della sovranità alla quale le big tech ultimamente si appellano, nel tentativo di difendere la propria posizione da ingerenze esterne: si pensi al caso Apple vs Irlanda[26] o alle recenti audizioni dei capi dei GAFA dinanzi al Congresso USA[27].

Nel primo caso[28], è anche grazie al principio di sovranità fiscale degli Stati Membri che Apple è riuscita ad ottenere, da parte del Tribunale dell’Unione Europea, l’annullamento della decisione della Commissione che riteneva l’Irlanda colpevole di averle erogato aiuti di Stato per oltre 13 miliardi di euro[29]. Nelle intenzioni della Commissione, queste cifre avrebbero dovuto essere recuperate dall’Irlanda presso Apple stessa. L’esito della controversia – sfavorevole alla Commissione – è un chiaro esempio di come quanto più restano circoscritte a livello dei singoli Stati le prerogative di sovranità, tanto più un soggetto di enormi dimensioni come Apple potrà trarne vantaggio.

Nel secondo caso, è significativo come nel corso dell’audizione i capi delle big tech (a cominciare dal CEO di Facebook, Mark Zuckerberg) non abbiano mancato di rimarcare che le loro società sono «orgogliosamente americane»[30]: cosa vuol dire questo, se non “occhio a volerci imbrigliare, perché l’alternativa è lasciare il web nelle mani di soggetti che esprimono una visione della società e della rete distante dalla nostra?” (il riferimento è ai concorrenti cinesi). 

Forse, non è azzardato concludere che lo sviluppo dell’economia digitale ci sta dimostrando come, almeno in parte, il concetto di sovranità statale applicata all’economia attraverso l’istituto dei processi autorizzativi preventivi sia superato. Un concetto di controllo ex ante e variabile da Stato a Stato, peraltro incentrato su un’idea di “adeguatezza” dell’operatore economico che può variare significativamente di luogo in luogo, probabilmente è oggi impossibile da applicare in molti casi. Detto questo, dal momento che il controllo da parte dello Stato delle dinamiche economiche o di altro tipo altro non è se non il tentativo di quest’ultimo di dare forma ad un’idea di società che esso stesso si è dato (nella quale, ad esempio, debba esserci meno spazio possibile per chi delinque, inquina, evade le tasse o sfrutta il prossimo), dobbiamo dedurne che nella società sempre più digitalizzata questo obiettivo abbia perso di valore? Sebbene una certa dose di realismo sia auspicabile, molte esperienze storiche ci insegnano quanto sia pericoloso abbassare eccessivamente l’asticella dei valori di riferimento.

Probabilmente, il futuro delle autorizzazioni, così come le abbiamo conosciute fino ad ora, è un futuro declinante. Anche a voler ammettere ciò, però, c’è da augurarsi che gli Stati (soprattutto quelli democratici) non finiscano per abdicare definitivamente alle loro prerogative di indirizzo e trovino altre vie per concretizzarle. Magari ciò richiederà un ripensamento del concetto stesso di sovranità statale (plausibilmente a favore di organismi sovrastatuali come l’Unione Europea), ma non è pensabile che il tema venga semplicemente ignorato.

In una prospettiva nazionale è sicuramente necessario ricordare il disposto dell’art. 41 della nostra Costituzione, secondo il quale l’iniziativa economica privata è sì libera, ma non per questo legittimata a svolgersi «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Se si pensa che questo sia ancora un obiettivo cui vale la pena tendere, forse si converrà anche sul fatto che sarebbe opportuno le istituzioni democratiche si attrezzino per poter continuare su questa strada, anche a costo di un ripensamento degli strumenti della sovranità.


 
[1] È il concetto espresso da L. Floridi in The Fight for Digital Sovereignty: What It Is, and Why It Matters, Especially for the EU.

[2] Tra i più autorevoli inquadramenti dottrinali di tali fenomeni possono essere citati, senza alcuna pretesa di esaustività, O. Ranelletti, Teoria generale delle autorizzazioni e concessioni amministrative, Roma – Firenze, Fratelli Bocca editori, 1894; A. Orsi Battaglini, voce Autorizzazione amministrativa, in Dig. Disc. Pubbl., vol. II, pag. 60; F. Fracchia, Autorizzazione amministrativa e situazioni giuridiche soggettive, Napoli, Jovene, 1996, pag. 94; A. M. Sandulli, Notazioni in tema di provvedimenti autorizzativi, in Riv. Trim. Dir. Pub., 1957, pagg. 784 e ss.

[3] V. L. n. 47/1985.

[4] L. n. 468/1913.

[5] V. art. 71 del D. Lgs. n. 59/2010.

[6] V. art. 9 della L. n. 231/2001.

[7] D. Lgs. n. 259/2003.

[8] V. art. 80 del D. Lgs. 50/2016.

[9] Di grande interesse l’articolo di Jack Nicas pubblicato sul New York Times il 19 agosto scorso, che esordisce come segue «It took Apple 42 years to reach $1 trillion in value. It took it just two more years to get to $2 trillion. Even more stunning: All of Apple’s second $1 trillion came in the past 21 weeks, while the global economy shrank faster than ever before in the coronavirus pandemic». Il testo integrale dell’articolo è scaricabile qui: https://www.nytimes.com/2020/08/19/technology/apple-2-trillion.html.

[10] https://www.istat.it/it/files/2019/03/PIL-E-INDEBITAMENTO-AP-01032019.pdf.

[11] Il comunicato stampa dell’Autorità è scaricabile a questo link.

[12] Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno.

[13] Definito dalla Direttiva come la persona fisica o giuridica che presta i servizi di cui all’articolo 1, punto 2, della direttiva 98/34/CE, come (modificata dalla direttiva 98/48/CE) (cfr. art. 2, a) e b) della Direttiva e-commerce).

[14] V. La Decisione della Grande Sezione della Corte di Giustizia del 19 dicembre 2019, resa sulla causa Airbnb Ireland (C-390/18).

[15] D. Lgs. n. 259/2003.

[16] Per completezza va tuttavia dato atto del fatto che Whatsapp soggiace all’obbligo di iscrizione al ROC, il registro tenuto dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni di cui all’articolo 1, comma 6, lettera a), numeri 5 e 6 della legge 31 luglio 1997, n. 249. Il ROC (Registro degli Operatori di Comunicazione) è stato istituito allo scopo di garantire la trasparenza e la pubblicità degli assetti proprietari, nonché l’applicazione delle norme del settore, quali quelle concernenti la disciplina anti-concentrazione, la tutela del pluralismo informativo o il rispetto dei limiti previsti per le partecipazioni di società estere.

[17] V. art. 68 del D. Lgs. 59/2010 e art. 18 del D. Lgs. n. 114/1998.

[18] Nel solo primo trimestre del 2020 Amazon ha dichiarato un valore complessivo delle vendite pari a 75,5 miliardi di dollari, anche se va detto che solo una parte del fatturato si basa sul commercio elettronico di beni (i risultati di esercizio di Amazon si possono scorrere qui).

[19] Con specifico riferimento a Google, Shoshana Zuboff nel suo Il capitalismo della sorveglianza (LUISS University Press, 2019) spiega con dovizia di particolari e con un poderoso rimando a fonti di vario genere come il surplus comportamentale – ovvero quei dati generati dagli utenti nel corso delle loro ricerche e non necessari per migliorare la qualità delle ricerche stesse – sia l’invenzione che ha segnato la svolta nella redditività della società e nella sua definitiva consacrazione a superpotenza economica globale. Il surplus comportamentale, ontologicamente, è l’esatto opposto delle risorse scarse e sullo stesso, ad oggi, nessuno che non siano le piattaforme stesse esercita una qualunque forma di controllo sistematico.

[20] Netwerkdurchsetzungsgesetz, entrato in vigore il 1° ottobre 2017.

[21] Si tratta dell’Atto C. 3564, primo firmatario la deputata Veronica Tentori, depositato presso la Camera dei Deputati il 27 gennaio 2016, recante Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell’economia della condivisione e l’Atto n. 2268, a firma del senatore Mauro Del Barba, depositato presso il Senato e assegnato in data 17 maggio 2016, recante Disposizioni in materia di sharing economy. Sebbene le differenze tra soggetti operanti nella c.d. sharing economy e molte altre grandi piattaforme siano per molti versi notevoli, si ritiene comunque di operare questo rimando, poiché si tratta comunque degli unici esempi recenti, in Italia, di iniziative legislative pensate per fornire un quadro giuridico alle società operanti sul web.

[22] L’Atto n. 3564, peraltro riferito esclusivamente a piattaforme eroganti servizi rivolti ad operatori non professionali e non iscritti al registro delle imprese.

[23] Tra i tantissimi documenti redatti a sostegno dell’attività dell’Unione Europea in materia, per avere una idea degli argomenti più dibattuti si può leggere https://www.europarl.europa.eu/thinktank/en/document.html?reference=EPRS_BRI(2020)651992. Il contributo esordisce constatando che «There is growing concern that (…) Member States of the European Union (EU) are gradually losing control over (…) their ability to shape and enforce legislation in the digital environment».

[24] Sfociato nell’adozione del Regolamento (UE) 2016/679 (c.d. GDPR).

[25] https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/digital-services-act-package.

[26] Come argutamente sottolineato da L. Floridi in The Fight for Digital Sovereignty: What It Is, and Why It Matters, Especially for the EU.

[27] Il 29 luglio 2020 gli amministratori delegati di Apple, Amazon, Alphabet (holding controllante Google) e Facebook sono stati ascoltati nel corso di un’audizione dinanzi alla House Judiciary Subcommittee on Antitrust, Commercial and Administrative Law del Congresso USA per rispondere delle accuse di abuso di posizione dominante nei relativi mercati di riferimento.

[28] Sentenza del Tribunale (Settima Sezione ampliata) del 15 luglio 2020 Irlanda e a. contro Commissione Europea Cause T-778/16 e T-892/16.

[29] Nei propri scritti difensivi, infatti, Apple aveva argomentato, tra l’altro, che «Ireland and ASI and AOE argue that the contested decision constitutes a breach of the fundamental constitutional principles of the EU legal order governing the division of competences between the Union and the Member States as laid down in, inter alia, Articles 4 and 5 TEU, and of the principle of the fiscal autonomy of the Member States deriving therefrom. They argue that, under EU law as it currently stands, the field of direct taxation falls within the competence of the Member States».

[30] https://www.agi.it/estero/news/2020-07-29/facebook-zuckerberg-congresso-bezos-amazon-9283145/#:~:text=Zuckerberg%20al%20Congresso%3A%20%22Facebook%20%C3%A8%20orgogliosamente%20americana%22,-Bezos%3A%20ben%20venga&text=AGI%20%2D%20Facebook%20%C3%A8%20%22un','inclusione%20della%20libera%20espressione%22.  

07/09/2020
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