§1.Il testo della disposizione §2.Il contesto costituzionale §3.La natura giuridica della causa di non punibilità §4.La valutazione progressiva del giudice §5. I quattro presupposti del giudizio di particolare tenuità del fatto §6. Il primo presupposto: l’accertamento della responsabilità penale dell’imputato § 6.1 L’accertamento della responsabilità, in generale §6.2 L’applicabilità dell’art. 131 bis cp ai reati di competenza del Giudice di Pace § 7. Il secondo presupposto: il limite di pena previsto per il reato cui applicare la causa di non punibilità §7.1 Il limite di pena, in generale §7.2 Il calcolo della recidiva §8. Il terzo presupposto: la particolare tenuità dell'offesa §8.1 La particolare tenuità dell'offesa, in generale §8.2 La modalità della condotta §8.3 L’esiguità del danno o del pericolo §9 Il quarto presupposto: la non abitualità del comportamento §9.1 La non abitualità del comportamento, in generale §9.2 “Più reati della stessa indole” §9.3 “Reati con condotte plurime, abituali e reiterate”: reato permanente, reato continuato, concorso formale di reati §9.4 Altri criteri di accertamento della non abitualità del comportamento §10. I reati che prevedono soglie di punibilitào valori limite §11. Tenuità del fatto e responsabilità degli enti §12. Prime applicazioni giurisprudenziali
§1 Il testo della disposizione
La causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è prevista dall’art. 131 bis cp, introdotto con il decreto legislativo n. 28 del 16 marzo 2015, entrato in vigore il 2 aprile del 2015.
«Titolo V: Della non punibilità per particolare tenuità del fatto. Della modificazione, applicazione ed esecuzione della pena
Capo I: Della non punibilità per particolare tenuità del fatto. Della modificazione e applicazione della pena».
«ART. 131-bis (Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto)
Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.
L’offesa non puo’ essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona.
Il comportamento è abituale nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonchè nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
Ai fini della determinazione della pena detentiva prevista nel primo comma non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. In quest’ultimo caso ai fini dell’applicazione del primo comma non si tiene conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all’articolo 69.
La disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante.»
Questa disposizione è stata salutata come una “svolta storica” nel nostro ordinamento[1], ma le perplessità per un così caldo apprezzamento derivano dalla valutazione concreta dell’impatto che questo istituto ha avuto e sta avendo nella concreta applicazione da parte della giurisprudenza in questi primi mesi.
§2 Il contesto costituzionale
Prima di affrontare il tema dei presupposti applicativi della nuova causa di non punibilità è necessario delineare il contesto costituzionale in cui questa si iscrive e che deve costituire la cornice entro la quale la giurisprudenza deve interpretare la norma, per evitare di operare una depenalizzazione in concreto che determinerebbe la sostanziale sottrazione al controllo democratico di scelte di politica criminale.
Per escludere improprie invasioni di campo è essenziale la predeterminazione dei criteri di giudizio di cui il giudice si avvale, proprio in ragione dell’ elasticità (e talvolta improprietà lessicale o giuridica) dei requisiti richiesti dalla norma in esame.
Detti criteri di giudizio incidono:
a) sul piano della valutazione del bilanciamento dei diritti, da rendere coerente e leggibile all’esterno;
b) sul piano dell’argomentazione, per offrire una motivazione persuasiva e ragionevole;
c) sul piano della legittimazione dell’istituzione giudiziaria nel suo complesso, troppo spesso lasciata a svolgere compiti di supplenza e sospettata di travalicare i confini delle scelte giurisdizionali.
L’elaborazione di canoni di giudizio chiari, condivisi ed espliciti nell’interpretazione di cosa sia la particolare tenuità di un fatto, per come descritta dal legislatore, va intesa dall’Autorità giudiziaria come un valore in sé, perché a fronte di un potere così ampio che le viene riconosciuto si deve alimentare la coerenza, la prevedibilità e la controllabilità delle decisioni, attraverso la motivazione, a tutela del principio di uguaglianza.
Nella Costituzione italiana ogni diritto è sempre predicato assieme al suo limite.
La Corte costituzionale afferma l’esigenza che la tutela dei diritti sia sempre “sistemica e non frazionata” ovvero “integrata”, enunciando così una tecnica argomentativa che riflette il pluralismo dei valori su cui si basa la Costituzione italiana[2].
Nel caso in esame, se da un lato vale il principio di obbligatorietà dell’azione penale previsto dall’art. 112 della Costituzione, dall’altro lo stesso viene bilanciato con quello previsto dall’art. 27 della Costituzione che sancisce il principio di offensività e di proporzione della pena rispetto al fatto-reato in una logica rieducativa del condannato.
La ratio dell’art. 112 Cost. è, a sua volta, riconducibile a tre diversi valori di rango costituzionale: il principio di uguaglianza (art. 3), il principio di legalità (art. 25 c. 2), il principio dell’indipendenza esterna (anche detta, “indipendenza istituzionale”) del PM. Indipendenza ed obbligatorietà dell’azione penale, infatti, diventano per la Costituzione facce della stessa medaglia dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. L’obbligatorietà dell’azione penale è, in sé, incompatibile con il criterio deflattivo che dovrebbe connotare l’istituto in esame nella fase investigativa, cosicchè al Pm è conferito un duplice potere-dovere: rispondere al principio costituzionale, temperandolo con la presbiopia della proporzionalità della sanzione. Si ritiene che sarà proprio l’organo dell’accusa, culturalmente attrezzato e con spiccata capacità professionale, a rendere effettiva la riforma in un’ottica di garanzia e di bilanciamento dei diritti o a ridurla ad un insieme di orientamenti e prassi disarticolate ed illeggibili.
La ratio dell’art. 27 Cost. è, invece, quello di adeguare le risposte punitive ai casi concreti, rendere quanto più possibile personale la responsabilità penale e determinare la pena nella prospettiva rieducativa. Secondo la Corte costituzionale «L'uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, proporzione della pena rispetto alle personali responsabilità e alle esigenze di risposta che ne conseguono, svolgendo una funzione che è essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statuale». In conclusione, prosegue la Corte: «sussiste di regola l'esigenza di un'articolazione legale del sistema sanzionatorio, che renda possibile tale adeguamento individualizzato, proporzionale, delle pene inflitte con le sentenze di condanna. Di tale esigenza, appropriati ambiti e criteri per la discrezionalità del giudice costituiscono lo strumento normale»[3].
Con la previsione di questa nuova causa di non punibilità non avviene nessuno strappo costituzionale rispetto all’art. 112 Cost., come alcuni hanno sostenuto, ma solo il necessario ragionevole contemperamento di una pluralità di interessi costituzionali concorrenti, in relazione ai quali prima il Pm e poi il Giudice assumono un ruolo centrale divenendone i garanti, ma solo se fanno buon governo della loro discrezionalità, rendendola leggibile e coerente.
In conclusione sarà l’Autorità giudiziaria a stabilire, entro i parametri dettati dall’art. 131 bis cp, cosa è offensivo in concreto e va punito e cosa deve andare esente da responsabilità perché irrilevante. Fino ad oggi lo strumento giuridico utilizzato per non punire l'offesa irrilevante è stato l’art. 49 comma 2 cp ovverosia il reato impossibile inteso come reato privo di offensività del fatto. Il nuovo istituto della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto non potrà non incidere proprio sul menzionato art. 49 cp, riducendone l’estensione applicativa, visto che spesso è stato utilizzato in situazioni che da oggi rientrano a pieno titolo nell’art. 131 bis cp.
Non è un caso che sia stato proprio il Tribunale di Roma che con sentenza del 2 maggio del 2000 qualificò come reato impossibile il furto di merce di modesto valore che oggi la giurisprudenza di merito fa rientrare pacificamente nell'ambito della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.
Circa il rapporto tra reato impossibile e articolo 131 bis cp si pensi alle condotte che la Corte di Cassazione ha nel tempo ritenuto inoffensive: il tentato omicidio attraverso colpi sparati alla vittima protetta da un vetro antiproiettile, l'abuso d'ufficio nel caso in cui esso incida su un rapporto di lavoro ormai estinto, la violazione di norme tributarie determinata da irregolarità del tutto sporadiche e casuali, il falso innocuo, la coltivazione di una piantina di canapa indiana sul vaso del terrazzo di casa contenente 16 mg di principio attivo o la cessione di stupefacente con un principio attivo di scarsa capacità drogante (vedi Cass. pen., sent. n. 25674 del 2014).
Sarà ancora una volta sul terreno delle sostanze stupefacenti cosiddette leggere che si misurerà l’estensione o la restrizione reciproca dei due istituti. Puo’ soccorrere al riguardo la sentenza delle Sezioni Unite, numero 28605 del 2008, secondo la quale la condotta è inoffensiva soltanto se il bene tutelato non è stato leso e messo in pericolo anche in grado minimo, sicché, con riferimento allo specifico caso della coltivazione domestica di poche piante di marijuana, la offensività non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. Quindi se non vi è alcun effetto drogante si rientra nell’alveo del reato impossibile, se invece un effetto drogante minimo si ottiene è applicabile, se ne ricorrono i presupposti, la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto (vedi da ultimo su questo profilo specifico in materia di stupefacenti Cass. pen., Sez. III, Sent. n. 38364 del 2015, non massimata).
Ancora una volta saranno i precedenti penali dell'imputato e complessivamente il suo excursus criminale a consentire o meno l'applicazione dell'istituto.
Ciò che si deve evitare è che l’Autorità giudiziaria invada il campo dell’offensività in astratto che costituisce il limite di rango costituzionale alla discrezionalità legislativa in materia penale la cui vigilanza spetta alla sola Corte Costituzionale. Se, infatti, la norma penale non appare tutelare alcun bene giuridico, la relativa questione di legittimità può essere rimessa al Giudice delle leggi per violazione del principio di offensività [4], ma questo è un ulteriore e diverso profilo che non si ritiene di esaminare nell’economia del ragionamento.
Individuare i beni giuridici suscettibili della tutela penale è un’attività che spetta al legislatore; al giudice è rimesso solo il potere di accertare se il fatto, pur offensivo in astratto e dunque corrispondente ad un fatto tipico, sia irrilevante in concreto.
In conclusione, si puo’ sostenere che sotto il profilo costituzionale la nuova causa di non punibilità impone al giudice di compiere un vaglio con uno sguardo bifronte perchè volto a bilanciare il principio di obbligatorietà dell’azione penale, posto a monte, a tutela dei principi di uguaglianza e di legalità; con quello di proporzione e finalità rieducativa della pena, posti a valle, nella prospettiva dell’ offensività della condotta illecita e dunque della meritevolezza della risposta sanzionatoria che ove non vi fosse ne minerebbe la sua stessa riconoscibilità sociale ed ordinamentale. Infatti, una sanzione sproporzionata al fatto non è solo ingiusta, ma si risolve nel suo contrario cioè nella delegittimazione stessa del legislatore che la impone, oltre che dell'Autorità giudiziaria che la applica, cioè dello Stato nel suo complesso.
Estranea alle finalità costituzionali perseguite dalla norma, ma ad essa collegate, vi è un’istanza: realizzare l’alleggerimento del carico giudiziario, più ancora quando l’esito della non punibilità si collochi nelle prime fasi del procedimento, tanto da evitare dispendio di energie per fatti bagatellari con la celebrazione di un processo.
A seconda del momento in cui viene dichiarata l’esistenza della particolare tenuità del fatto si puo’ realizzare la finalità deflattiva (allorchè la pronuncia avvenga nel corso delle indagini preliminari) o la finalità costituzionale di proporzionalità della pena rispetto al fatto (allorchè la pronuncia avvenga in dibattimento). Quando la non punibilità ex art. 131 bis cp è dichiarata in fase processuale, ovverosia dopo una necessaria quanto defatigante istruttoria che accerti la responsabilità dell’imputato, essa dimostrerà l’irragionevolezza del sistema, arriverà troppo tardi e sarà contraria a qualsiasi dovere di economicità.
Si ritiene di concludere su questo punto che o la particolare tenuità del fatto balza agli occhi dell’Autorità giudiziaria a tempo debito, cioè nella fase investigativa in cui il dominus è il PM, tanto da stroncare la prosecuzione di qualsiasi attività successiva, o si porranno seri problemi di leggibilità del sistema e di sua legittimazione.
Per quello che si spiegherà di seguito e per il dispendio dovuto per accertare da parte dell’Autorità giudiziaria se esistono i requisiti della particolare tenuità del fatto, si ritiene che l’esigenza deflattiva ad oggi non appare che sia stata in alcun modo ottenuta, sebbene sia necessario che la riforma vada a regime per poterlo verificare. Solo se gli Uffici di Procura, unitamente a quelli del GIP, individueranno protocolli su cui riconoscere comuni modalità operative ed interpretative forse anche questo obbiettivo potrebbe realizzarsi, nella logica di investire le risorse su reati di maggiore allarme sociale.
§ 3 La natura giuridica della causa di non punibilità
Il decreto legislativo n. 28 del 2015 introducendo questa causa di non punibilità non ha previsto una disciplina transitoria, ma stante la natura sostanziale dell'istituto, vista la sua collocazione sistematica ed il nomen iuris assegnatogli, esso si ritiene applicabile anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, con conseguente retroattività della legge più favorevole ai sensi dell'articolo 2 comma 4 del codice penale (in questi termini si veda da ultimo Cass. pen., Sez. III, n. 15449/2015 e n. 21014/2015).
La Corte di Cassazione ha definito la particolare tenuità del fatto una causa di non punibilità atipica (Cass. pen., Sez. III, n. 21014/2015) in quanto esige il contradittorio e ha effetti pregiudizievoli per l’imputato con l’iscrizione della relativa pronuncia nel casellario giudiziale. Questa connotazione ibrida viene ulteriormente rafforzata dalla circostanza che l’art. 469 cpp al comma 1-bis definisce la sentenza pronunciata per non punibilità ai sensi dell'articolo 131 bis cp come sentenza di non doversi procedere, formula usata da molti giudici di merito di primo e di secondo grado.
Si pone il problema se detta causa di non punibilità abbia natura oggettiva o soggettiva. A seconda della soluzione le conseguenze diventano significative nel caso di concorso di persone nel reato ai sensi dell'articolo 119 codice penale. Infatti, se si tratta di una causa di non punibilità oggettiva essa si estende a tutti i concorrenti nel reato, se si tratta di una causa soggettiva è limitata all’imputato cui viene applicata.
Si ritiene di concludere per il carattere soggettivo in quanto la valutazione complessiva che deve compiere il Giudice ai sensi dell’art. 131 bis cp tiene conto anche della personalità dell’autore e della sua condotta precedente al reato e non solo del fatto in quanto tale e della sua rilevanza offensiva.
§4 La valutazione progressiva del giudice
L’art. 131 bis cp prevede un giudizio articolato in una sequenza di valutazioni progressive, di carattere oggettivo e soggettivo, volte alla sempre più precisa ricerca del sopra esposto bilanciamento di interessi in una logica di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto-reato accertato.
Ciò impone al giudice e alla sua matrice culturale di aprirsi tanto alle esigenze del caso concreto,che vede il conflitto diretto tra diritti individuali e collettivi, quanto agli effetti generali della decisione.
Se il tentato furto di una saponetta in un supermercato, con rottura della placca antitaccheggio, viene ritenuto fatto irrilevante, previa presenza delle altre condizioni previste dalla legge, la valutazione del giudice determinerà effetti immediati sulla lettura semplificata di cosa sia consentito e cosa no nei diversi protagonisti della violazione: nell’autore del reato, nel personale deputato ai controlli nel supermercato, nella persona offesa, negli operanti che hanno proceduto all’arresto, nella collettività composta da tutti questi soggetti.
La delicatezza di questo risultato deve essere ben presente al giudice, sempre nella logica bifronte dell’esame del caso concreto, tale da necessitare di coerenza interna e di bisogno di apertura sulle vicende umane e sociali che deve regolare.
Il giudizio, quindi, non puo’ risolversi nella ricerca meccanica della ricorrenza dei presupposti previsti dall’art. 131 bis cp, ma richiede di interpretare la rispondenza di questi ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità rispetto al fatto concreto, oltre che al criterio di razionalità, inteso come coerenza e non contraddizione dell’ordinamento e della risposta giudiziaria.
Per rendere comprensibile il giudizio che si adotta e per evitare disparità di trattamento è necessario garantire la trasparenza delle scelte assunte (vedi la specifica preoccupazione sul punto colta nella Circolare del Procuratore di Lanciano, emessa il giorno successivo all’entrata in vigore della legge) stabilendo criteri precisi, ovviamente adattati al caso concreto, senza servirsi di clausole di stile che svuoterebbero non solo la funzione giurisdizionale in quanto tale, ma renderebbero concreto il rischio di depenalizzazione di fatto, non consentita, per ottenere false scorciatoie deflattive.
§ 5 I quattro presupposti del giudizio di particolare tenuità del fatto
L’Autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 131 bis cp deve operare un giudizio composto da valutazioni progressive a cerchi concentrici che, via via, si allargano e che devono esistere tutte contemporaneamente per pervenire alla declaratoria assolutoria per particolare tenuità del fatto.
Il PRIMO è l’accertamento della responsabilità penale dell’imputato.
Il SECONDO è il limite di pena previsto per il reato cui applicare la causa di non punibilità: pena detentiva nel massimo fino a cinque anni oppure pena pecuniaria sola o congiunta a detta pena detentiva (131 bis commi 1 e 4 cp).
Il TERZO è la particolare tenuità dell'offesa (specificata nell’art. 131 bis comma 2 cp).
Il QUARTO è la non abitualità del comportamento (specificata nell’art. 131 bis comma 3 cp).
Proprio per restringere le maglie interpretative del Giudice e fissare più ordinati ed univoci criteri la norma prevede ulteriori specificazioni dei presupposti indicati.
§ 6 Il primo presupposto: l’accertamento della responsabilità penale dell’imputato.
§ 6.1 L’accertamento della responsabilità, in generale
In ordine al PRIMO presupposto, concernente l’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, il problema che si pone riguarda la fase investigativa, e più ancora la natura dell’intervento del Pubblico Ministero, al quale da un lato la Carta Costituzionale impone l’obbligatorietà dell’azione penale e dall’altro la legge impone di avanzare richiesta di archiviazione allorchè il fatto sia di particolare tenuità, soprattutto in una logica deflattiva delle fasi successive. Ma poiché il presupposto dell’istituto è che un reato sia stato commesso, il Pm, e successivamente il GIP, devono decidere in forza di un’ipotesi che è proprio lo stesso PM, grazie al suo ruolo istituzionale di parte pubblica, a dovere suffragare o meno con una corretta attività investigativa di cui è dominus.
Se il Pm ha un’ adeguata competenza professionale, oltre che la dovuta onestà intellettuale, dovrà svolgere indagini - pur limitate - anche a fronte di una notizia di reato in sé rappresentativa di una particolare tenuità dell’offesa e solo all’esito avanzare richiesta di archiviazione al GIP.
E’ il caso delle truffe on line per acquisti di poche decine di euro. Il PM che, a fronte di una denuncia, chiede de plano l’archiviazione per la modestia del fatto, senza compiere alcun approfondimento, potrebbe incorrere in un gravissimo errore valutativo allorchè, ad esempio, si trovi di fronte ad un autore seriale di truffe on line per il quale l’abitualità del comportamento (vedi infra) sarebbe preclusiva. A ciò si aggiunge ovviamente il problema che, mancando allo stato un certificato dei carichi pendenti nazionale, rischia di non essere individuata la presenza di condizioni ostative soggettive neanche da parte di un PM diligente[5].
Quindi, anche nella fase delle indagini preliminari l'istituto in esame porterebbe non avere un'efficacia deflattiva, come auspicato dal legislatore, perché si impone al pubblico ministero comunque un'attività investigativa, seppure limitata, con successivo intervento di un giudice, previo rispetto dei dovuti oneri informativi per la vittima del reato e per lo stesso indagato.
Lo stesso problema si pone nella fase dibattimentale in cui, sempre rifacendosi all'esempio delle truffe on-line, il giudice potrebbe decidere per la non punibilità dell'imputato incensurato per particolare tenuità dell'offesa non disponendo dei carichi pendenti in forza dei quali, invece, ben potrebbe essere che lo stesso risulti autore di innumerevoli reati della stessa specie.
In conclusione l’apparato giudiziario, a prescindere dall’entità apparente dell’offesa arrecata, deve compiere una dispendiosa attività investigativa e dibattimentale per pervenire alla declaratoria di responsabilità dell’imputato.
E’ di tutta evidenza che nel caso vi sia remissione di querela prevale questa sulla non punibilità ex art. 131 bis cp proprio perché evita l’accertamento della responsabilità penale. Lo stesso deve ritenersi in ordine alla maturazione della prescrizione, sia in relazione alle diverse conseguenze scaturenti dalle due pronunce, sia in relazione al fatto che con la declaratoria di prescrizione il reato si estingue, laddove la declaratoria di non punibilità per la particolare tenuità del fatto lascia del tutto intatto il reato nella sua esistenza sia storica che giuridica (da ultimo in questi termini Cass. pen, Sez. III, n. 27055 del 2015).
§ 6.2 L’applicabilità dell’art. 131 bis cp ai reati di competenza del Giudice di Pace
Un problema che si pone in concreto concerne l’applicazione o meno della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cp ai reati di competenza del Giudice di Pace non solo per detto giudice ma anche per il tribunale monocratico come Giudice di appello. Circa la distinzione tra i due istituti si veda la sentenza della Corte Costituzionale n. 25 del 2015 che ne fissa le differenze.
Una recente e puntuale pronuncia del Tribunale di Novara del 15/4/2015, estensore Luca Fidelio, inedita, sostiene condivisibilmente la coesistenza dell’istituito in esame con quello previsto dall’art. 34 del D. Lgs. n. 274/2000, specificamente disciplinato proprio per i procedimenti davanti al Giudice di Pace, tanto da consentirsi l’applicazione della nuova causa di non punibilità anche a questi reati cosiddetti minori[6].
Le ragioni risiedono nel fatto che le due disposizioni hanno caratteristiche molto diverse tra loro, anche se l’art. 34 puo’ definirsi un antesignano dell’art. 131 bis cp, una sorta di apripista nel sistema penale e processuale.
In particolare:
- l’art. 131 bis cp è una causa di non punibilità, istituto di diritto sostanziale, mentre l’art. 34 è una causa di non procedibilità;
- l’art. 131 bis cp richiede la non abitualità del comportamento dell’imputato, mentre l’art. 34 fa riferimento all’occasionalità della condotta, nozione più restrittiva, e al grado di colpevolezza;
- l’art. 131 bis cp prevede elementi oggettivi e soggettivi ostativi alla sua applicabilità, mentre l’art. 34 non ne contempla;
- l’art. 131 bis cp non impone di esaminare né l’interesse alla prosecuzione del procedimento della persona offesa, né l’eventuale pregiudizio per l’imputato (di lavoro, di studio, di famiglia o di salute), mentre l’art. 34 lo rende obbligatorio anche per la connotazione conciliativa tra le parti che possono porre il veto alla definizione del processo con detta causa di non procedibilità.
Infine, la sopra citata sentenza di Novara sottolinea anche il profilo della ragionevolezza di ritenere i due istituti coesistenti alla luce delle eventuali disparità di trattamento che si verificherebbero nel caso prevalesse la tesi della specialità, in quanto proprio i soggetti autori di reati che destano minore allarme sociale -come sono quelli attribuiti alla competenza del giudice di pace- sarebbero esclusi dall'operatività dell'articolo 131 bis cp, mentre ne potrebbero beneficiare coloro che commettono reati puniti sino a cinque anni di pena detentiva, per i quali è prevista la custodia in carcere.
§ 7 Il secondo presupposto: il limite di pena previsto per il reato cui applicare la causa di non punibilità
§ 7.1 Il limite di pena, in generale
Il SECONDO presupposto che il giudice deve accertare è se il reato, per il quale intende applicare la causa di non punibilità, rientri nel limite di pena fissato dal legislatore: fino a cinque anni di pena detentiva oppure pena pecuniaria, di qualsiasi ammontare, sola o congiunta a detta pena detentiva.
L’art. 131 bis cp non stabilendo nominativamente i reati cui applicare l’istituto lascia un ampio margine al giudice, specie in considerazione del fatto che non sfugge la singolarità che il tetto massimo di 5 anni di reclusione è proprio il limite di pena fissato dall’art. 274 lett. c) cpp, come novellato con DL 78/2013, conv. nella L. 94/2013, per applicare la custodia cautelare in carcere, massima misura afflittiva prevista solo per reati di particolare allarme sociale.
Rientrano nella disciplina tutte le contravvenzioni visto che la pena massima prevista per l’arresto è proprio 5 anni ai sensi dell’art. 66 n. 2 cp. Si tratta di quasi tutti i reati ambientali, edilizi, urbanistici ed in materia di infortuni sul lavoro.
Per il calcolo della pena fissata come limite massimo dal legislatore l’art. 131 bis cp stabilisce delle regole precise che ricalcano quelle già utilizzate in sede processuale per la determinazione della competenza, ex art. 4 cpp, per le misure cautelari, ex art. 278 cpp, per le intercettazioni telefoniche.
In termini negativi il giudice:
- NON deve tenere conto delle circostanze comuni (né aggravanti, né attenuanti);
- NON deve operare il bilanciamento delle circostanze ai sensi dell’art. 69 cp, nel senso che se ritiene di applicare le attenuanti generiche ex art. 62 bis cp o l’attenuante della speciale tenuità del danno ex art. 62 n. 4 cp questa valutazione non incide sulla quantificazione della pena intesa come presupposto oggettivo.
In questo modo è evidente che si amplia ulteriormente l’ambito di applicabilità dell’istituto anche a reati aggravati, il cui allarme sociale dovrebbe ritenersi incompatibile con la particolare tenuità dell’offesa (si pensi alla truffa aggravata dalle circostanze comuni di cui all’art. 61 cp).
In termini positivi il giudice deve tenere conto, ai fini del calcolo della sanzione massima prevista di cinque anni di pena detentiva:
- delle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa o diversi limiti edittali rispetto a quelli previsti per il reato semplice (es: furto aggravato ex art. 625 cp);
- delle circostanze ad effetto speciale (che comportano una diminuzione o un aumento superiori ad un terzo).
Il reato tentato sebbene non espressamente indicato nella norma in esame deve essere ovviamente incluso tra i reati per i quali è applicabile la causa di non punibilità. Per il calcolo della pena edittale massima occorre avere riguardo alla pena massima prevista per il delitto consumato, ridotta di un terzo.
La causa di non punibilità dell’art. 131 bis cp si applica anche ai reati per i quali è lo stesso legislatore a prevedere la particolare tenuità del danno o la lieve entità, come:
l’art. 311 cp (lieve entità del fatto nei delitti contro la personalità dello Stato, ovviamente per i reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni);
l’art. 323 bis cp (particolare tenuità del fatto per i reati contro la Pubblica amministrazione);
l’art. 73 comma 5 Dpr 309/90 (lieve entità in materia di stupefacenti);
l'art. 2640 cc (offesa di particolare tenuità nei reati in materia di società e consorzi).
Come si può notare restano esclusi, in termini di pena, casi che avrebbero meritato l’applicazione dell’art. 131 bis cp come la ricettazione di particolare tenuità di cui all'articolo 648 comma 2 cp, in quanto la sanzione prevista è sino a sei anni di reclusione, e il furto aggravato consumato di cui all'articolo 625 cp, come il furto in un supermercato.
§ 7.2 Il calcolo della recidiva
Nel silenzio della norma in esame si pone il problema concreto di stabilire se la recidiva vada o meno calcolata ai fini della quantificazione della pena massima che consente l’applicazione in astratto della causa di non punibilità.
A prescindere dal fatto che la recidiva puo’ essere valutata dal Giudice come requisito per escludere la “non abitualità del comportamento” (vedi infra), si pone comunque nella pratica il problema dalla sua valutazione a monte per la determinazione della pena.
Con riguardo alla recidiva semplice di cui all’art. 99 comma 1 cp, poiché determina un aumento di pena fino a un terzo, va qualificata come circostanza aggravante comune in quanto tale non valutabile secondo il principio generale.
Quindi il problema si pone solo per la recidiva aggravata di cui ai commi 2,3 e 4 dell’art. 99 cp che viene pacificamente qualificata come aggravante ad effetto speciale (da ultimo Cass., Sez. Un., sent. n. 3391 del 2015).
Nel codice di procedura penale, per come si è prima specificato, le norme in materia di competenza (art. 4 cpp) o di misure cautelari (art. 278 cpp), su cui appare ritagliata la quantificazione della pena di cui all’art. 131 bis cp, fanno esplicito riferimento alla recidiva, nel senso di escluderla dal computo ed includendo, invece, le altre aggravanti ad effetto speciale.
Seguendo questo parametro interpretativo dovrebbe concludersi che poiché l’art. 131 bis cp non fa alcun esplicito riferimento alla recidiva essa, allorchè aggravata, non potrebbe ricomprendersi tra quelle ad effetto speciale e quindi andrebbe esclusa dal calcolo.
Ma questa interpretazione a contrario, desunta dal sistema processuale, non è convincente perché è lo stesso ordinamento penale che pone sullo stesso piano la recidiva aggravata e le altre aggravanti ad effetto speciale nell’istituto che se ne occupa in termini generali: la prescrizione del reato. Infatti l'art. 157 comma 2 cp stabilisce la regola che per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto di attenuanti ed aggravanti, mentre per stabilire la pena massima nel caso di aggravante ad effetto speciale, qual è ovviamente la recidiva, "si tiene conto dell'aumento massimo di pena previsto per l'aggravante". Questa norma fissa in maniera inequivocabile il calcolo dell'aumento massimo per la recidiva appunto per determinare la pena massima edittale stabilita dalla legge per il reato aggravato, pena massima in base alla quale va poi determinato il tempo necessario a prescrivere ai sensi dell'art. 157 comma 1 cp (da ultimo Cass. pen., Sez.III, Sentenza n. 3391 del 2015).
E’ poi l’art. 161 comma 2 cp che esplicita il richiamo alla recidiva aggravata stabilendo l’aumento massimo del tempo necessario a prescrivere.
Se, quindi, la recidiva aggravata viene eguagliata alle altre aggravanti ad effetto speciale proprio dall’istituto di diritto penale sostanziale della prescrizione, non si comprende per quale ragione identico sistema di valutazione non debba valere anche per l’applicazione di una causa di non punibilità contenuta nel medesimo Libro I del codice penale, causa di non punibilità che, peraltro, è volta ad imporre al giudice una valutazione complessiva della particolare tenuità di un’offesa tenendo conto, in primo luogo, dell’entità della pena.
La conclusione che si propone, pur opinabile e al vaglio della giurisprudenza che si andrà nel tempo a formare sul punto, tende a collocare su piani differenti, come d’altra parte detterebbe la mera logica, reati commessi da plurirecidivi e reati commessi da soggetti che si siano resi responsabili di un unico reato (recidivi semplici), per i quali ultimi è lo stesso legislatore a sostenere che: “la presenza di un precedente giudiziario non sia di per sé sola ostativa al riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in presenza ovviamente degli altri presupposti”[7].
Il legislatore, infatti, non puo’ non prendere in considerazione anche aspetti di prevenzione sociale, sebbene in una prospettiva assai limitata come si evince dalla struttura sostanzialmente oggettivistica della causa di non punibilità in esame.
Inoltre, includere la recidiva aggravata nel calcolo consentirebbe di alleggerire l’onere motivazionale della sentenza e quindi, almeno sotto questo profilo, non imporrebbe al giudice di vagliare tutti gli altri requisiti previsti dall’art. 131 bis cp al fine di escluderne l’applicazione.
§8 Il terzo presupposto: la particolare tenuità dell'offesa
§8.1 La particolare tenuità dell'offesa, in generale
E’ interessante notare che mentre nella rubrica della norma il legislatore fa riferimento alla tenuità del FATTO, nel corpo dell’articolo menziona l’OFFESA e la condotta dell’autore, entrambi compresi nel FATTO che si connota per una matrice sia oggettiva che soggettiva.
Le due sottocategorie (definite dalla Relazione governativa indici-requisiti) esplicative della PARTICOLARE TENUITÀ DELL'OFFESA sono:
a) la modalità della condotta;
b) l’esiguità del danno o del pericolo
da valutare secondo i parametri fissati dal solo art. 133 comma 1 cp, intesi complessivamente.
Né puo’ dirsi limitata la valutazione del giudice per il mancato richiamo all’art. 133 comma 2 cp in quanto i parametri in esso fissati rientrano o nell’elemento psicologico o nell’abitualità o nell’offesa, cosicchè il legislatore ha inteso escludere sostanzialmente solo le “condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo”.[8]
§ 8.2 La modalità della condotta
Il giudice valuta in positivo, verificandone l’entità,i soli elementi di cui all’art. 133 comma 1 cp (133 comma 1 nn. 1 e 3 cp) ovverosia la natura, i mezzi, la specie, l'oggetto, il tempo e il luogo della condotta, nonché l'intensità del dolo o il grado della colpa.
Il giudice valuta in negativo, accertando che non esistano in fatto,alcune aggravanti la cui elencazione deve ritenersi esemplificativa e non tassativa e per la cui descrizione si rinvia all’ampia interpretazione giurisprudenziale e dottrinale[9]:
- l'avere agito l'autore per motivi abietti o futili;
- con crudeltà anche in danno di animali,
- adoperando sevizie, cioè infliggendo alla vittima gratuite e superflue sofferenze;
- approfittando delle condizioni di minorata difesa delle persone offese;
- quando la condotta ha cagionato la morte o lesioni gravissime (è il caso dell'omicidio colposo di cui all'articolo 589 comma 1 cp, sanzionato con pena massima di cinque anni rientrante astrattamente nei limiti edittali o le lesioni colpose gravissime ex art. 590 cp);
- quando dalla condotta sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona (possonomenzionarsi le condotte dell'abbandono di persone minori incapaci di cui all'articolo 591 commi 1 e 3 cp in quanto l'aggravante non è ad effetto speciale o la cessione di sostanza stupefacente di lieve entità da cui sia derivata la morte della vittima).
Il mancato richiamo della norma all'articolo 133 comma 2 cp fa escludere che il giudice possa tenere conto della condotta contemporanea o susseguente al reato prevista proprio dall'articolo 133 comma 2 numero 3 cp, con la conseguenza, certamente irragionevole, della non rilevanza di eventuali condotte riparatorie, restitutorie, risarcitorie e ripristinatorie.
Si ritiene che il giudice possa, comunque, recuperare anche detto criterio avendo riguardo all'entità dell'offesa concretamente patita dalla vittima (vedi infra).
§ 8.3 L’esiguità del danno o del pericolo
Per questo tipo di requisito il giudice deve verificare positivamente i criteri previsti dall’art. 133 comma 1 cp che, esclusi quelli già valutati per la “modalità della condotta”, sono in concreto quelli previsti dal n. 2) ovverosia la “gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa”.
Paradossalmente il legislatore richiede che il giudice valuti l’esiguità del danno avendo riguardo all’accertamento negativo del suo contrario, cioè della gravità.
E’ chiaro che se un danno o un pericolo sono gravi non sono esigui !
Il parametro di esiguità/gravità, dell’offesa o del pericolo, non puo’ che essere espresso dalla vittima, unica a rappresentare quanto e come la condotta illecita abbia inciso sulla propria sfera.
La circostanza che in sede dibattimentale la persona offesa non vada obbligatoriamente esaminata su questo punto (è il caso del tentato furto aggravato in centro commerciale in cui la persona offesa non viene mai esaminata, trattandosi di reato procedibile d'ufficio) o che vi possa essere il consenso delle parti all’acquisizione della querela nei reati non procedibili d’ufficio rende questo criterio difficilmente accertabile da parte del giudice che si limiterà al dato oggettivo dell’offesa o del pericolo in termini astratti.
Ma questa opzione ermeneutica, che pure va incontro alle esigenze di celerità ed economicità processuale, va scongiurata.
Si pensi al furto di un piccolo monile o di una fotografia del valore di pochi euro che sia stato regalato alla vittima da un proprio caro defunto o in un’occasione significativa e unica della propria vita tale da avere determinato un danno affettivo irreparabile. In dette ipotesi se la persona offesa non viene esaminata dal giudice del dibattimento questo profilo potrebbe non emergere tanto da determinare, erroneamente, l’applicazione della causa di non punibilità.
A ciò si aggiungono i casi in cui i reati non abbiano una vittima individualmente identificabile come avviene per alcune contravvenzioni previste dal codice della strada. Anche rispetto a questo tipo di violazioni il giudice non si puo’ esimere dalla valutazione circa l’entità dell’offesa o del pericolo da accertare complessivamente per esempio avendo riguardo al pericolo che la collettività ha corso nel caso di guida in stato di ebbrezza in un centro abitato o in prossimità di scuole.
In conclusione si segnala l’opportunità di non tralasciare la valutazione di questo criterio avendo specifico riguardo alla vittima del reato e ad una sua concreta interlocuzione, specialmente alla luce della direttiva 2012/29/UE[10], di prossimo ma tardivo recepimento, il cui paragrafo 34 prevede “Non si può ottenere realmente giustizia se le vittime non riescono a spiegare adeguatamente le circostanze del reato e a fornire prove in modo comprensibile alle autorità competenti.”
Ciò vale a maggior ragione tenendo presente l’art. 1 della citata direttiva che ne fissa gli obiettivi:
“1. Scopo della presente direttiva è garantire che le vittime di reato ricevano informazione, assistenza e protezione adeguate e possano partecipare ai procedimenti penali.
Gli Stati membri assicurano che le vittime siano riconosciute e trattate in maniera rispettosa, sensibile, personalizzata, professionale e non discriminatoria, in tutti i contatti con servizi di assistenza alle vittime o di giustizia riparativa o con un'autorità competente operante nell'ambito di un procedimento penale. I diritti previsti dalla presente direttiva si applicano alle vittime in maniera non discriminatoria, anche in relazione al loro status in materia di soggiorno.”
In conclusione si ritiene che, anche ove non sia previsto, la vittima del reato, al fine di accertare l’esiguità o meno del danno o del pericolo, deve essere esaminata o comunque la si deve porre in condizione di interloquire.
È necessario porre l'attenzione alla questione in particolare per i reati-spia dei femminicidi o, più in generale, dei reati contro le donne i quali sono ricompresi, in termini di pena edittale, tra quelli per i quali è applicabile l'articolo 131 bis cp.
Si tratta dei reati di molestie, di lesioni, di percosse, di minacce, di violazione degli obblighi di mantenimento, di atti persecutori.
Si tratta, ancora una volta, di usare la dovuta attenzione da parte dell'Autorità giudiziaria, oltre che delle forze dell'ordine che redigono le comunicazioni di notizie di reato o raccolgono le denunce, a comprendere il quadro complessivo familiare ed il contesto sociale in cui questi reati, da sempre erroneamente e colpevolmente sottovalutati, si collocano, proprio al fine di evitare la cosiddetta vittimizzazione secondaria.
§ 9 Il quarto presupposto: la non abitualità del comportamento
§ 9.1 La non abitualità del comportamento, in generale
Anche per definire l’altro elemento ostativo all’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cp cioè “la non abitualità del comportamento” dell’autore del reato, il legislatore, con una tecnica che non brilla per chiarezza e logica, si serve della definizione del suo contrario descrivendo “il comportamento abituale”.
In detto genus vanno ricompresi i reati abituali costituiti da un insieme di condotte che singolarmente prese possono costituire o meno autonomi illeciti penali. Gli atti persecutori ex art. 612 bis cp sono certamente un reato abituale (vedi da ultimo Cass. pen., Sez. III, Sentenza n. 9222 del 2015) che pur rientrando astrattamente, per limite di pena (eccetto il terzo comma), tra i delitti cui è applicabile la causa di non punibilità, andrebbe escluso dalla disciplina proprio perché connotato dal requisito intrinseco dell’abitualità.
Lo stesso è a dirsi per il reato di maltrattamenti in famiglia che nella formulazione precedente alla L. n. 172 del 2012 prevedeva la pena massima di cinque anni di reclusione, per il quale il problema dell’applicabilità in astratto potrebbe porsi solo in relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della modifica normativa.
L’evidenza di questa conclusione, in termini di logica oltre che linguistica, non è però fatta propria dalla citata relazione del Governo che dopo avere sottolineato la distinzione tra “comportamento” e “reato” precisa che: “rimane aperta la possibilità di applicazione dell'istituto anche al reato abituale purchè ovviamente esso presenti tutti i caratteri della particolare tenuità”.
Il giudice se fino a questo momento ha dovuto fare una valutazione oggettiva della condotta concretamente posta in essere dall’imputato, ora deve valutarne il passato criminale.
Non puo’ accedere alla causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis colui che:
-sia stato dichiarato delinquente abituale (art. 102, 103, 104 cp), professionale (art. 105 cp) o per tendenza (art. 108 cp)[11]
-abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità;
-abbia commesso reati con condotte plurime, abituali e reiterate.
Si tratta di un’elencazione che non ha alcuna valenza definitoria o tassativa del comportamento abituale, ma meramente esemplificativa.
In ordine a questo presupposto si pone il problema se i reati previsti dal nuovo codice antimafia (D. Lgs. n. 159/2011) siano ontologicamente incompatibili con la causa di non punibilità in esame, visto che il legislatore non ha stabilito delle preclusioni per tipologie di fattispecie penali.
Si ritiene che il criterio per stabilire quali reati far rientrare tra quelli cui applicare la particolare tenuità del fatto, anche in astratto, potrebbe essere costituito dall’esistenza di un già avvenuto giudizio di pericolosità emesso dal Tribunale per le Misure di Prevenzione.
In tal caso andrebbero esclusi dal novero dei reati sottoponibili al vaglio di cui all’art. 131 bis cp quelli previsti dall’art. 75 del codice antimafia (commi 1, 2, 3 e 4) e quelli previsti dall’art. 76 (commi 1, 2,4,5,6,7,8,), mentre potrebbe astrattamente rientrarvi, per assenza di incompatibilità sostanziale, il reato di cui all’art. 76 comma 3 che punisce il contravventore alle prescrizioni del foglio di via obbligatorio. Infatti, in questo caso è il Questore a compiere una valutazione di pericolosità, con criteri che possono essere anche molto diversi se non opposti a quelli seguiti dall’Autorità giudiziaria (si pensi al riguardo al foglio di via applicato dal Questore alla persona che si prostituisce su strada sulla base di valutazioni moralistiche senza tenere conto del fatto che la prostituzione è un’attività consentita dall’ordinamento, che non determina alcun pericolo per la sicurezza pubblica e i cui proventi sono leciti).
§ 9.2 “Più reati della stessa indole”
La nozione di reati della stessa indole, rilevante anche ai fini della qualificazione della natura specifica della recidiva (art. 99 comma 2 n. 1 cp),è contenuta nell’art. 101 cp che definisce come tali:
a) quelli che violano una stessa disposizione di legge (reati “omogenei”);
b) quelli che, pur essendo previsti da diverse disposizioni del codice penale o delle leggi penali speciali, presentano caratteri fondamentali comuni per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li hanno determinati.
Secondo la giurisprudenza è il caso dei diversi reati previsti dal codice della strada; dei reati di lesioni colpose commessi con violazione di norme antinfortunistiche o del codice della strada; dei reati di spaccio di stupefacenti e di furto in abitazione in ui i comportamenti sono dettati da omologhi motivi di indebito lucro (da ultimo Cass. pen., Sez. VI, Sentenza n. 53590 del 20/11/2014). Ciò ovviamente determinerebbe un notevole ampliamento dell’ambito di esclusione dall’art. 131 bis cp.
§ 9.3 “Reati con condotte plurime, abituali e reiterate”: reato permanente, reato continuato, concorso formale di reati
A parte i reati abituali, che come scritto si ritiene che già rientrino in quelli ostativi con riferimento al genus di comportamento abituale, si pone il problema di applicabilità dell’istituto in esame ai reati caratterizzati da condotte ripetute come:
a) il reato permanente
b) il reato continuato;
c) il concorso formale di reati.
Il reato permanente si connota per una condotta persistente tale da offendere il bene giuridico in modo continuativo sino alla sua cessazione.
Si pensi al partecipe dell’associazione a delinquere o all’autore di alcuni reati ambientali come l’omessa bonifica dei siti inquinati (art. 257, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152) o di reati urbanistici come la lottizzazione abusiva. In questi casi si ritiene che, fatta sempre salva una valutazione complessiva del fatto, il reato sia ostativo all’applicazione della causa di non punibilità proprio per la protrazione sia dell’offesa che dell’intenzione violativa del suo autore.
Si pone il problema dei reati istantanei con effetti permanenti (reati ambientali come l’abbandono di rifiuti di cui all’art. 256 del TU ambientale o i reati urbanistici), per i quali ciò che rileva, all’eventuale fine di escluderli dall’applicazione della particolare tenuità del fatto, è proprio la capacità offensiva del tipo di bene giuridico protetto dalla norma come l’ambiente ed il paesaggio, già brutalmente deturpati nel nostro Paese e scarsamente tutelati da sanzioni di carattere essenzialmente contravvenzionale. Una eventuale apertura all’applicabilità dell’istituto potrebbe prevedersi solo nel caso di reati di natura meramente formale allorchè determinino un’offesa di particolare tenuità[12].
Il reato continuato.
Nella nozione di condotte plurime rientra certamente il reato continuato previsto dall’art. 81 comma 2 cp in quanto richiede più azioni od omissioni, violative di più disposizioni di legge, per le quali l’ordinamento già mitiga la eccessiva severità dell’eventuale cumulo materiale delle pene applicabili allorchè vi sia un identico disegno criminoso.
I dati che contrastano con la particolare tenuità del fatto del reato continuato sono non solo la pluralità dei comportamenti illeciti, ma anche la volontà e la preordinazione che li deve necessariamente avvincere e che rende il dolo dell’autore particolarmente intenso (vedi in questi termini Cass.pen., Sez. III, ord. n. 21014 del 2015 paragrafo 15.5).
Caso analogo a quello del reato continuato è quello di più fattispecie delittuose commesse con l’aggravante del nesso teleologico di cui all’art. 61 n. 2 cp. Infatti, anche in detta ipotesi vi sono plurime condotte escluse dalla causa di non punibilità proprio dall’intenzione univoca del legislatore.
Il concorso formale di reati previsto dall’art. 81 comma 1 cp pone maggiori problemi proprio per il fatto che l’azione è unica, ma sono più le violazioni commesse (es: ingiurie nei confronti di più persone).
Poiché la norma fa riferimento a “reati con condotte plurime” si ritiene che il concorso formale non vi rientri in quanto l’imputato pone in essere una sola condotta la cui unicità la rende, per ciò solo, meno sintomatica di abitualità. Questo ragionamento vale soltanto a consentire l’applicazione della particolare tenuità del fatto al concorso formale di reati in relazione al profilo della non abitualità del comportamento, ma non anche rispetto all’altro profilo, che richiede autonoma e successiva valutazione, della particolare tenuità dell’offesa[13].
§9.4 Altri criteri di accertamento della non abitualità del comportamento
La natura meramente esplicativa dei criteri sopra indicati induce a ritenere che ve ne siano altri che il giudice puo’ prendere in esame per accertare l’abitualità del comportamento dell’imputato.
Le circolari delle Procure di Lanciano e di Palermo hanno fatto condivisibilmente riferimento a comportamenti risultanti dai precedenti giudiziari, quali condanne non definitive, declaratorie di estinzione del reato, di improcedibilità, di non punibilità (anche per particolare tenuità del fatto, etc., comunque risultanti da sentenza, da decreto di archiviazione, da altre circostanze).
Il problema della valutazione di tali elementi si pone nella fase dibattimentale in cui il giudice non dispone di questi dati e dunque potrebbe sollecitare l’acquisizione al fine esclusivo di decidere sull’applicazione dell’art. 131 bis cp. E’ opportuno ricordare che è la parte che ha interesse a far valere la causa di non punibilità a doverne dimostrare i presupposti (vedi con riferimento all’art. 384 cp, causa di non punibilità prevista per i delitti contro l’Autorità giudiziaria, la sentenza della Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 1401 del 2014) e al Giudice verificarli nella loro completezza.
Non è di per sé indicativo dell’abitualità del comportamento un solo precedente penale (condanna irrevocabile) per reato non della stessa indole, purchè però risalente nel tempo.
Su questo punto è la stessa Relazione governativa a precisare che non è ostativo al riconoscimento della particolare tenuità un qualsiasi precedente giudiziario, senza porsi il problema che non possa essere della stessa indole altrimenti scatta la contestazione della recidiva specifica.
Alcuni sostengono che allorchè la recidiva non sia stata contestata anche i precedenti penali e giudiziari per reati non della stessa indole possono in concreto non essere ritenuti indicativi di abitualità.
Non si condivide detta conclusione in quanto potrebbero determinarsi disparità di trattamento tra soggetti cui il PM ha contestato la recidiva e soggetti che, pur avendo un certificato penale che lo imporrebbe, non hanno la medesima contestazione.
Quindi, nel caso di precedenti penali per reati NON della stessa indole, per evitare strettoie formalistiche circa la loro natura ostativa o meno, potrebbe soccorrere il criterio dell’ampio spazio temporale intercorso tra il fatto per il quale risultano i precedenti non specifici e il fatto da ritenere particolarmente tenue.
§ 10 I reati che prevedono soglie di punibilità o valori limite
Per affrontare il tema dell’applicabilità dell’art. 131 bis cp nei reati che prevedono soglie di punibilità o valori limite, il cui superamento è condizione necessaria affinchè la condotta in essi descritta acquisisca rilievo penale, è necessario non perdere di vista i criteri di ragionevolezza e proporzionalità della sanzione che potrebbero dovere arretrare davanti agli “automatismi legislativi”.
In questi reati il Giudice esamina gli effetti soppesando i benefici che derivano dal perseguimento dell’obiettivo cui il legislatore mira con la soglia di punibilità e i costi che esso impone ad altri diritti in gioco. Si tratta di una decisione che impone all’Autorità giudiziaria una conoscenza del dato di esperienza reale disciplinato dalla legge, che supera il dato giuridico positivo strettamente inteso, alla ricerca di una soluzione che più di ogni altra persegue in modo equilibrato la ragionevolezza del risultato.
Quindi, se in termini astratti detti reati sono passibili di declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto[14], proprio in quanto il presupposto dell’art. 131 bis cp è che un reato si sia integrato, è necessario tenere in debito conto che per essi il legislatore ha già operato una valutazione di offensività della condotta, stabilendo il limite sotto il quale o il reato si trasforma in illecito amministrativo o non assume alcuna valenza per l’ordinamento giuridico. La valutazione del giudice deve essere, in detti casi, particolarmente rigorosa nel senso di non limitarsi al rilievo del dato del minimo superamento della soglia (per esempio per poche decine di euro per le somme dovute nel caso di violazioni tributarie, o per frazioni di g/l nel caso di guida in stato di ebbrezza), ma deve operare una valutazione globale della condotta al fine di evitare paradossi di sistema ed ingiustizie sostanziali come quella di assolvere un imputato “sopra soglia” per particolare tenuità del fatto senza che subisca alcun tipo di conseguenza e consentire, al contrario, che un imputato “sotto soglia”, quindi portatore di un disvalore giuridico del fatto minore per espressa scelta legislativa, sia sottoposto alla relativa sanzione amministrativa. Per evitare detta incongruenza la Procura della Repubblica di Palermo sostiene che il problema non si pone per i reati tributari in cui l’evasore fiscale sopra soglia che sia stato assolto ex art. 131 bis cp subisce comunque la sanzione amministrativa da parte dell’Ufficio finanziario avuto riguardo all’art. 21 comma 2 del D. Lvo. 74/2000 che si limita a sospenderne l’irrogazione sino al passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione.
Diversa è la soluzione, invece, per l’autore del reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, previsto dall'articolo 316 ter cp, nel caso in cui la somma indebitamente percepita sia pari o inferiore ad euro 3999,96. In tal caso infatti all’imputato è applicabile la sola sanzione amministrativa fissata dal secondo comma del citato articolo. Ma poiché per detto reato manca una norma analoga al citato articolo 21 del D. Lvo n. 74/2000, davvero potrebbe porsi il paradosso che chi viene assolto ex art. 131 bis cp non subisce alcun tipo di conseguenza, mentre chi resta sotto soglia e dunque ha commesso una condotta meno grave è tenuto a pagare la sanzione amministrativa[15].
Per affrontare il problema, connesso essenzialmente ai reati fiscali e ai reati tributari, è necessario preliminarmente stabilire se il superamento della soglia costituisca un elemento costitutivo del reato, di cui va provato l’elemento psicologico, oppure se sia una condizione obiettiva di punibilità. La Corte di Cassazione si è orientata in modo univoco nel primo senso (da ultimo Sez Un. sentenza 28 marzo - 12 settembre 2013 n. 37424) con la conseguenza che il superamento della soglia non determina il perfezionamento del reato in difetto di dolo.
Se, dunque, non vi è una preclusione di principio all’operatività dell’art. 131 bis cp per questi reati (vedi in questi termini Cass.pen., Sez.III, ord. n. 21014 del 2015 paragrafo 15.7 supra cit.), si puo’ sostenere che per essi deve essere più pregnante l’approfondimento conoscitivo sull’esiguità del danno da parte del giudice, avuto riguardo non tanto alla prossimità quantitativa dell’evasione rispetto alla soglia di punibilità, quanto al numero di altre violazioni accertate anche di carattere amministrativo, alle complessive modalità di conduzione dell’impresa da parte dell’imputato, all’intensità del dolo, ecc.
Si tratta di elementi che devono essere ben valutati e motivati dal giudice anche al fine di consentire alla Corte di Cassazione, nel giudizio di legittimità, di comprendere a pieno la decisione di meritevolezza o meno della causa di non punibilità da parte dell’imputato.
La peculiarità della questione è stata affrontata con puntualità e completezza dall’ ordinanza della Cassazione n. 21014 del 2015 cit. che l’aveva rimessa al vaglio delle Sezioni unitamente ad altre[16].
Per le violazioni ambientali (vedi artt. 137 comma 5 e 279 comma 2 Testo unico ambientale) e per la guida in stato di ebbrezza che prevedono il superamento di valori-limite, stante la loro natura contravvenzionale, ai fini del giudizio di irrilevanza o meno del fatto deve essere sempre preso in considerazione il grado della colpa, oltre che i parametri già menzionati, primo tra tutti quello della concreta offesa al bene giuridico protetto che trova solo nell’Autorità giudiziaria il soggetto capace di accertarla. Infatti, costituisce un triste dato di comune esperienza che gli enti locali raramente si costituiscono parte civile nei processi per reati in materia ambientale o urbanistica nonostante l’incidenza delle relative condotte violative nei loro territori, tanto da non rappresentare validi interlocutori sotto il profilo della valutazione dell’entità dell’offesa che andrà verificata ex officio.
Con specifico riferimento alla questione relativa all'applicazione dell'articolo 131 bis cp ai reati previsti dal codice della strada si ritiene di sottolineare la necessità che il giudice accerti sempre la pericolosità o meno della condotta di guida dell'imputato verificando ad esempio l'idoneità del mezzo e la sua copertura assicurativa, l'orario ed il luogo della violazione, l'età, la presenza di terzi nell'autovettura, la cilindrata del veicolo. Infatti la condotta di guida in quanto tale è un'attività pericolosa e consentire un ampliamento indiscriminato dell'accesso alla causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto rischia di determinare una depenalizzazione in concreto delle norme del codice della strada che è preclusa alla magistratura. Ciò vale più ancora se si considera che il conseguimento della patente di guida avviene solo a seguito di complessi accertamenti da parte di soggetti pubblici circa l'idoneità, psichica e fisica, del guidatore proprio a tutela dell'intera collettività; cosicché consentire l'applicazione dell'articolo 131 bis cp ai casi di guida senza patente, senza gli ulteriori necessari accertamenti, in astratto potrebbe aggirare le cautele previste dal legislatore per evitare condotte di guida non adeguata.
§ 11 Tenuità del fatto e responsabilità degli enti
Il problema che si pone è se la causa di non punibilità sia o meno applicabile anche all’ente collettivo allorchè venga riconosciuta all’autore del reato.
La questione non è di poco rilievo in considerazione del fatto che sono numerosi i reati-presupposto della responsabilità dell’ente puniti fino a cinque anni di reclusione. Tra questi rientrano, a titolo meramente esemplificativo:
a) la corruzione per l’esercizio della funzione;
b) la truffa in danno di ente pubblico;
c) l’accesso abusivo a sistema informatico semplice;
d) alcuni reati tributari e societari;
e) i reati ambientali[17].
La risposta va trovata nell’art.8 del D. lgs. n. 231/2001 che stabilisce che la responsabilità dell'ente (illecito amministrativo sui generis) esiste anche quando l'autore del reato non è stato identificato ovvero non sia imputabile.
Quello dell'ente è un titolo autonomo di responsabilità, anche se presuppone comunque la commissione di un reato, e resta ferma nel caso in cui il reato subisce una vicenda estintiva. Si pensi all'utile decorso del termine di sospensione condizionale della pena per il condannato o alla morte del reo (prima della condanna).
L'unica eccezione è costituita dall'amnistia "propria", in presenza della quale, dunque, non potrà procedersi neanche nei confronti dell'ente.
La relazione ministeriale al citato decreto legislativo testualmente stabilisce che “….le cause di estinzione della pena (emblematici i casi grazia o di indulto), al pari delle eventuali cause non punibilità e, in generale, alle vicende che ineriscono a quest'ultima, non reagiscono in alcun modo sulla configurazione della responsabilità in capo all'ente, non escludendo la sussistenza di un reato.”
La responsabilità dell'ente e della persona fisica costituiscono due illeciti, amministrativo quello della prima e penale quello della seconda. Si tratta di illeciti concettualmente distinti, cosicchè il venire meno della responsabilità penale della persona fisica con la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cp non puo’ avere alcuna incidenza sulla responsabilità della persona giuridica.
Ad ulteriore conferma dell’assunto si veda l’art. 12 d. lgs 231 che prevede “la tenuità dell’illecito dell’ente” che non esclude la punibilità della persona giuridica, ma ne riduce la sanzione.
Secondo la circolare della Procura di Palermo invece l’art. 131 bis cp è applicabile anche agli enti mancando una specifica clausola di salvaguardia o di esclusione.[18]
§12 Primi orientamenti giurisprudenziali
Nonostante siano molte le questioni controverse in termini applicativi, tanto da determinare conseguenze anche opposte per l’assenza di criteri interpretativi noti capaci di rendere prevedibili le decisioni, ad oggi sono pochi gli interventi di orientamento assunti dall’Autorità giudiziaria.
Sono solo tre le Procure italiane che hanno reso pubbliche le loro linee guida (Lanciano, Trento e Palermo), sebbene siano molte le Procure che, a livello interno, hanno assunto indirizzi condivisi a seguito di riunioni. Non si registra analogo impegno da parte di Uffici GIP e Tribunali evidentemente perché interessati dalla riforma in modo indiretto e per richieste di applicazione dell’istituto ancora poco significative in termini quantitativi.
L’esame di un modesto, ma apprezzabile, numero di sentenze di merito emesse da Giudici italiani, appartenenti a Tribunali di diverse dimensioni e di differenti provenienze territoriali, consente di ritenere che si stia operando il massimo ampliamento possibile dei requisiti previsti dall'articolo 131 bis codice penale, con adozione delle interpretazioni meno restrittive.
I casi maggiormente interessati dall'applicazione della causa di non punibilità in esame sono i seguenti:
- tentato furto monoaggravato nei supermercati per merci del valore inferiore a 100 euro;
- guida senza patente (alcuni limitano ai soli ciclomotori), se la condotta di guida non è pericolosa e l’accertamento è casuale;
- guida in stato di ebbrezza con minimo superamento della soglia prevista dalla sola lett. b) dell'articolo 186 del codice della strada;
- false generalità allorchè manchi una condotta aggressiva verso l’organo accertatore;
- resistenza a pubblico ufficiale quando questa si esprima con minacce non gravi;
- contrabbando di pochi pacchetti di sigarette;
- evasione per un ridotto periodo di tempo o vicino l’abitazione o con consegna spontanea alle Forze dell’Ordine;
- omesso versamento delle ritenute previdenziali per € 1.500, anche alla luce della legge numero 67 del 2014 con cui il Parlamento ha delegato il governo all'emanazione di un decreto legislativo per la depenalizzazione delle condotte di omesso versamento delle ritenute previdenziali per un importo inferiore ad € 10.000.
- coltivazione di una piantina di cannabis in casa;
- falsificazione maldestra di contrassegno assicurativo per difficoltà economiche temporanee dell’autore;
- violazione degli obblighi di mantenimento quando vi sia successivo accordo transattivo tra gli ex coniugi;
- occupazione di immobile fatiscente da parte di un nucleo familiare;
- violazione edilizia modesta, anche in zona vincolata, con successiva rimozione dell’abuso;
- truffa semplice entro € 450, previa valutazione della natura voluttuaria del bene oggetto del reato;
- lesioni lievi scaturite da liti tra coniugi;
- appropriazione indebita commessa dall'amministratore del condominio che non restituisce i verbali di assemblea.
Proprio alla luce delle sopra indicate applicazioni si richiama, in conclusione, la responsabilità dell’Autorità giudiziaria ad avere ben chiaro il rischio di non sconfinare nella depenalizzazione di fatto di specifiche fattispecie penali, per fare fronte ad un carico di lavoro spesso ingestibile, a tutela della separazione dei poteri, del diritto di uguaglianza, della proporzionalità della pena, delle aspettative di giustizia delle vittime dei reati, nonchè della legittimazione stessa dell’istituzione giudiziaria rispetto alla leggibilità e prevedibilità delle sue decisioni, in un contesto sociale e culturale diffuso che nutre una atavica resistenza a soggiacere alle regole e al rispetto dei diritti altrui.
Il punto di equilibrio da trovare è molto difficile e la magistratura italiana ha una grande sfida di fronte a sé*.
*relazione tenuta l'8 ottobre 2015 - Struttura didattica territoriale del distretto di Bologna
[1] Gli altri due precedenti normativi riguardano il processo minorile (Articolo 27 d.p.r. numero 448 del 1988) ed il procedimento davanti al giudice di pace e articolo 34 decreto legislativo numero 274 del 2000).
[2] «La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, superano – senza rinnegarlo – il ragionamento giuridico logico- formale, tipico di una concezione del giudicare in termini sillogistici…richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi…..Il punto di equilibrio, proprio perchè dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale» (Corte Cost. 85 del 2013 sul caso ILVA).
[3] Corte. Cost. sent. 15-24 giugno 1992, n. 299.
[4] Vedi l'art. 670 cp, primo comma, riguardante la mendicità non invasiva dichiarato incostituzionale da Corte Cost n. 519 del 1995: “…la figura criminosa della mendicità non invasiva appare costituzionalmente illegittima alla luce del canone della ragionevolezza, non potendosi ritenere in alcun modo necessitato il ricorso alla regola penale. Nè la tutela dei beni giuridici della tranquillità pubblica, "con qualche riflesso sull'ordine pubblico" (sentenza n. 51 del 1959), può dirsi invero seriamente posta in pericolo dalla mera mendicità che si risolve in una semplice richiesta di aiuto”.
[5] Si vedano al riguardo le linee guida del Procuratore di Lanciano che assai opportunamente richiede alla PG di accertare, per i reati cosiddetti seriali, l’esistenza di altre denunce, precedenti o carichi pendenti per fatti analoghi (pag. 29); nonché la Circolare esplicativa della Procura di Palermo che stabilisce che “ai fini di una richiesta di archiviazione per particolare tenuità il fascicolo procedimentale va corredato anche del certificato di carichi pendenti” (punto 16 pag. 20).
[6] Negli stessi termini la circolare della procura della Repubblica di Palermo pagine 24-25.
[7] Punto n. 4 della Relazione governativa allo schema presentato alle Camere per il parere del previsto dalla legge delega, di seguito Relazione.
[8] Si veda analoga esclusione di valutazione da parte del giudice operata dall’art. 3 ter comma 4 della legge n.9/2012, come modificato dalla legge n. 81/2014, che prevede che il giudice della cognizione ed il magistrato di sorveglianza che devono applicare una misura di sicurezza all’infermo o al seminfermo di mente devono accertare la sua pericolosita' sociale sulla base delle sue qualità soggettive, con esclusione: a)“delle condizioni di cui all'articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale” cioè delle sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale.
[9] In questi termini le circolari delle citate Procure di Lanciano e Palermo.
[10] DIRETTIVA 2012/29/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI
[11] Secondo la Circolare del Procuratore di Lanciano: “La disposizione non impedisce l’applicazione dell’istituto nel caso in cui gli effetti si estinguano con la riabilitazione (ex art. 109 u.c. cpp), venendo meno la ragione stessa del presupposto ostativo”.
[12] Sul tema dell’applicabilità dell’art. 131 bis cp ai reati ambientali vedi L. Ramacci su www.lexambiente.it “Note in tema di non punibilità per particolare eternità del fatto che i reati ambientali”.
[13] Secondo il Procuratore di Lanciano, nella citata circolare, il richiamo di questa parte della norma alla commissione di reati impone che si tratti di reati accertati con sentenza definitiva.
[14] Vedi Cass. pen., Sez IV n. 24249/2006 che ha ritenuto applicabile la causa di non procedibilità di cui all'articolo 34 del decreto legislativo n. 274 del 2000, prevista per i reati di competenza del giudice di pace, anche nell'ipotesi di guida in stato di ebbrezza per il superamento della soglia di punibilità (all’epoca della pronuncia indicata la contravvenzione non apparteneva alla competenza del Tribunale monocratico).
[15] Il tema è stato posto con efficacia da R. Dies in “Questioni varie in tema di irrilevanza penale del fatto per particolare tenuità” su www.penalecontemporaneo.it
[16] Il Presidente della Corte ha ritenuto di restituire gli atti alla Sezione non ravvisando i presupposti per l’intervento delle sezioni .
[17] Vedi: raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione (art. 256, comma 1, lett. a) e b), d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152); realizzazione o gestione di una discarica non autorizzata (art. 256, comma 3, primo e secondo periodo, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152); inosservanza delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione alla gestione di una discarica o alle altre attività concernenti i rifiuti (art. 256, comma 4, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152); miscelazione non consentita di rifiuti (art. 256, comma 5, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152); deposito temporaneo presso il luogo di produzione di rifiuti sanitari pericolosi (art. 256, comma 6, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152); predisposizione od uso di un falso certificato di analisi dei rifiuti (art. 258, comma 4 e art. 260-bis, commi 6 e 7, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152); traffico illecito di rifiuti (art. 259, comma 1, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152); attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 260, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152); violazioni del sistema di controllo sulla tracciabilità dei rifiuti (art. 260-bis, comma 8, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152).
[18] Vedi paragrafo 3