Magistratura democratica
Diritti senza confini

“Canovacci ricorrenti”? Narrazioni dei migranti e linguaggio dei giudici

di Alessandro Simoni
  professore di sistemi giuridici comparati, Università di Firenze
I ricorsi contro il diniego della protezione internazionale immettono nel lavoro giudiziario un complesso di valutazioni su aspetti fattuali che diventano assolutamente centrali nella decisione. Su tali questioni il giudice parte da basi simili a quelle di qualunque cittadino, in termini di conoscenze, ma anche di stereotipi 

«Quand il s’agit du monde social, les mots font les choses,

parce qu’ils font le consensus sur l’existence et le sens des choses,

le sens commun, la doxa acceptée par tous comme allant de soi»

(P. Bourdieu, À propos de la famille comme catégorie réalisée)

 

1. Un ironico obiter dictum

I ricorsi in tema di protezione internazionale rappresentano un importante carico di lavoro per la prima sezione civile della Corte di Cassazione, anche in conseguenza dell’abolizione dell’appello operato dall’art. 35, comma 13, dl n. 13 del 2017. Nel flusso di questa marea, che ha aggiunto ulteriori difficoltà a quelle già note della nostra giurisdizione di vertice, scorre anche il ricorso di A.S., cittadino togolese, che insiste – come tanti altri – nella sua battaglia per ottenere un qualche status di protezione internazionale o almeno protrarre il limbo in cui si trova. L’ordinanza[1] con la quale la Corte lo dichiara inammissibile è – immaginiamo – stata ritenuta dai membri del collegio cosa di assoluta routine. Anche se “in punto di diritto” non ha molto da offrire, questa pronuncia ha però alcune caratteristiche che la rendono interessante come indicatore della permeabilità dei corpi giudiziari a un modo sempre più diffuso di leggere il mondo. Merita per questo qualche breve riflessione, senza costruirci sopra un castello interpretativo sproporzionato.

Vediamo cosa è successo. L’avvocato di A.S. adduce nel ricorso la violazione dei criteri legali per la concessione della protezione, partendo da quello relativo alla valutazione della credibilità del richiedente, nel contesto di una narrazione che evocava un rischio di danno grave ascrivibile a soggetti non statali. La decisione di inammissibilità verte quasi interamente su questo primo motivo, con il richiamo alla giurisprudenza della stessa corte secondo la quale la valutazione della credibilità non può essere basata sulla mera opinione soggettiva del giudice di merito, ma deve svolgersi attraverso una “procedimentalizzazione legale della decisione”, da compiersi non a partire dalla mera mancanza di riscontri oggettivi di quanto narrato dal richiedente, ma secondo la griglia predeterminata di criteri offerta dall’art. 3, comma 5, del d.lgs n. 251 del 2007.

I giudici della prima sezione ripercorrono le molte facilitazioni probatorie che l’ordinamento prevede per i richiedenti status di protezione, e ricordano come alla fine, proprio come “espressione del favore che l’ordinamento riserva alla domanda di protezione internazionale”, l’assenza di prove può essere compensata dal superamento di una verifica di credibilità delle dichiarazioni, basate sulla valutazione della “intrinseca credibilità razionale della narrazione”, della sua “tenuta logica”. Secondo il collegio che decide sul ricorso di A.S., il giudice del merito si sarebbe attenuto a una verifica di questo tipo, senza improprie valutazioni soggettivistiche.

Stando a quanto riferito nella pronuncia di legittimità, per il tribunale il racconto del richiedente, che narrava di una partenza giustificata dalla distruzione di un idolo animista, con il rischio di una reazione degli appartenenti a quella religione in caso di rimpatrio, era basato su una narrazione non plausibile per la contrarietà del comportamento narrato a “logica elementare”. Per i giudici di merito, risultava impossibile accettare che un credente musulmano possa distruggere, repentinamente e da solo, un idolo “pur nella consapevolezza delle reazioni alle quali sarebbe andato incontro, così da pregiudicare, per un gesto tanto insensato, non solo la buona posizione lavorativa raggiunta, ma anche la relazione familiare con la moglie ed una figlia appena nata”.

La decisione di legittimità non fornisce ovviamente maggiori elementi di fatto, e sarebbe poco rispettoso del lavoro dei giudici ricamare sulla valutazione di non plausibilità della narrazione dell’improvvisa furia di A.S., “dimentico della famiglia e del suo avviato mestiere di sarto”. Se in astratto non sembra – purtroppo – regola universale che ogni fervore religioso o iconoclasta si spenga una volta che si è “messo su famiglia” e che gli affari procedono, possiamo comunque concedere che il diniego della credibilità delle dichiarazioni di A.S. era stato effettivamente espresso dal tribunale in termini di controllo di logicità, limitando la possibilità di nuova valutazione in Cassazione. È ben possibile che le carte, come arrivate al “palazzaccio”, non lasciassero poi grandi spazi di manovra anche all’ermellino più benevolo.

La motivazione dell’inammissibilità del ricorso si poteva quindi fermare qui, con una ratio decidendi sintetica come tante altre della “giustizia minuta”. Il collegio della prima sezione decide invece di aggiungere quello che ci sembra un audace obiter dictum, già brevemente menzionato in un recentissimo intervento[2], offrendo uno spunto che vale la pena sviluppare. Se questo passaggio appare inutile dal punto di vista della tenuta della motivazione, è invece interessante in quanto (per riprendere – ribaltandolo – lo schema probatorio applicato ai richiedenti protezione internazionale) rende plausibili, “intrinsecamente credibili” alcune ipotesi. Leggiamolo: “Controllo di logicità, quello menzionato che appare essere ormai la principale, se non la sola difesa dell’ordinamento avverso narrazioni, come emerge per esperienza del collegio, a seguito dell’aumentare esponenziale dei ricorsi per cassazione in materia di protezione internazionale, determinata dall’abolizione dell’appello, sovente stereotipate e tessute intorno a canovacci fin troppo ricorrenti: quello del giovane musulmano che ha messo incinta una ragazza cristiana, o del giovane cristiano che ha fatto lo stesso con una musulmana (le religioni possono peraltro variare), e scappa dalle furie dei genitori di lei; quella dell’uomo che il capo-villaggio ha destinato a sacrifici umani (il caso in esame appare una variante di questa trama) o ad altra non commendevole sorte; quella del sedicente omosessuale che, se lo fosse, sarebbe perseguitato al suo Paese; quello della lite degenerata in fatti di sangue in cui il richiedente ha, si intende senza volerlo, ferito o ucciso il proprio contendente, in un contesto in cui, quale che sia il Paese di provenienza, le forze di polizia del luogo sono sempre e irrimediabilmente corrotte ed astrette da oscuri vincoli alla potente famiglia della vittima, e così via”.

È evidente dalla struttura discorsiva e dalla presentazione in chiave antifrastica degli esempi che il relatore non ha resistito alla tentazione di fare dell’ironia, non tanto sulla scarsa plausibilità della specifica narrazione di A.S., ma su quella di gran parte delle narrazioni contenute nei ricorsi in tema di protezione internazionale che arrivano in Cassazione. Certamente, ironia e umorismo non sono cosa nuova nell’universo del diritto, e in particolare nel mondo anglosassone esiste una solida letteratura che ne analizza funzioni e ammissibilità[3]. Non crediamo che qui l’ironia vada a violare canoni deontologici, e si potrebbe semplicemente cogliere l’occasione per una contro-ironia, magari evidenziando l’incipit sulla difesa dell’ordinamento nel suo complesso (come noto seriamente minacciato dalle richieste di protezione internazionale…) che sembra attribuire al controllo di logicità una sorta di funzione di antemurale Christianitatis. Svilupperemo invece alcune considerazioni che questo dictum a nostro parere suggerisce, e che ci sembra confermino ancora una volta che la cultura interna dei corpi giudiziari si comprende meglio analizzando quei testi dove, per la natura della questione o le caratteristiche delle parti, chi scrive può permettersi – se lo ritiene opportuno- un linguaggio meno tecnico e sorvegliato.

 2. Cosa a un giudice non si può chiedere

Visto che formuliamo una critica alle forme argomentative scelte dal collegio della prima sezione, e alla chiave di lettura della realtà (“cultura” o “ideologia” che la si voglia chiamare) che plausibilmente è sottostante a tali forme, può essere opportuno mettere alcuni paletti, specificando cosa non vogliamo in alcun modo sottintendere. Prima di spiegare perché secondo noi si può esigere una differente forma mentis da parte dei giudici, meglio chiarire cosa ai giudici, soprattutto di legittimità, non si può invece chiedere nella materia che qui si tratta, ossia il diritto dell’immigrazione e in particolare la concessione degli status di protezione internazionale.

Purtroppo, non è possibile ipotizzare che i magistrati della Cassazione tengano conto di quello che sarebbe un dato di realtà, ossia che la ricerca di uno status di protezione internazionale è diventata da tempo una delle caselle di un gioco complesso, dove la qualificazione giuridica dell’autorizzazione a rimanere sul territorio italiano è in fondo “bilateralmente irrilevante”; irrilevante per il migrante che ha lasciato un certo paese dove le condizioni di vita gli sembravano insostenibili, e irrilevante anche per molti attori politici, interessati a comunque impedire (o nascondere) la stabilizzazione in Italia di stranieri corrispondenti a certe tipologie, in primo luogo quelli dell’Africa subsahariana. In un sistema in cui ormai ogni razionale discussione sull’introduzione di canali di immigrazione ordinaria sembra impossibile, la protezione internazionale è vista come una delle poche residue “carte da giocare” per il migrante, e simmetricamente la limitazione della concessione degli status è considerata come un normale strumento di limitazione di flussi migratori sgraditi. Tutto questo in un contesto, inoltre, in cui sul giudice della protezione internazionale grava la responsabilità finale di stabilire non certo chi è ammesso a entrare nel territorio nazionale, ma piuttosto chi può rimanervi in una situazione di formale legittimità, vista la normalità della condizione di soggiorno irregolare di certi gruppi di stranieri[4]. Quasi mai il giudice ha strumenti che gli permettano di tenere conto dell’assetto complessivamente patologico del diritto dell’immigrazione. Inevitabilmente il giudicante deve chiudersi sulla singola vicenda e cercare di inquadrarla formalmente nella griglia delle norme.

L’irrazionalità del diritto dell’immigrazione e l’evidente deriva politica che ha portato a considerare ammissibile un discorso che considera gli immigrati (e in particolari alcuni tra questi) come una categoria di persone non pienamente portatrici di diritti ha conseguenze spesso drammatiche su molte delle vite che stanno dietro ai fascicoli, ed è assolutamente benefico che una parte di magistrati contribuisca attivamente al dibattito pubblico mettendo in luce le complessive distorsioni del sistema e gli aspetti di potenziale incostituzionalità, cosa che come sappiamo ha suscitato reazioni molto vivaci da parte di attori politici.

Non è tuttavia pensabile che i magistrati assumano un atteggiamento empatico verso la singola vicenda umana che si trovano ad affrontare, si “mettano nei panni del migrante”. Quella che è comunemente detta “empatia” ha una radicata storia nel pensiero politico, in particolare quello progressista o liberal. Basti pensare alla centralità che ha avuto nel manifesto politico di Barack Obama, che in molti suoi discorsi ne ha sottolineato il valore come stimolo ad azioni di interesse collettivo, “vedere il mondo attraverso gli occhi di quelli che sono diversi da noi, il bambino affamato, il lavoratore licenziato…”. L’empatia, intesa come “empatia emotiva”, “contagio di sensazioni”, può essere certamente un efficace stimolo, ma rimane tuttavia – come è stato illustrato ad esempio in un brillante saggio di Paul Bloom di recente tradotto in italiano[5], una pessima base di partenza per decisioni che devono compiere in casi individuali valutazioni morali e giuridiche e soprattutto tenere conto di interessi di rilievo generale. I giudici, anche di Cassazione, chiamati a decidere nel caso di A.S. potevano quindi, senza dilemmi di coscienza, limitarsi a constatare che non era riuscito a soddisfare neanche l’onere probatorio molto semplificato previsto dalle norme applicabili. 

3. Cosa a un giudice si può chiedere

La comprensibile diffidenza verso l’empatia “emotiva” non deve però essere l’artifizio per delegittimare l’empatia “cognitiva”, o qui più semplicemente la consapevolezza della specificità del contesto nel quale vengono prodotte le narrazioni dei migranti alla base delle richieste di protezione internazionale. Ma prendiamo di nuovo come spunto l’uso da parte dei giudici di Cassazione di un registro ironico. I giudici fanno riferimento a “canovacci fin troppo ricorrenti”, intendendo che molti userebbero le stesse narrazioni semplicemente perché le reputano essere quelle più utili a ottenere un parere favorevole dalle Commissioni e dalle giurisdizioni. La prima domanda che sorge spontanea è se – nel gran mare dei ricorsi in Cassazione – la protezione internazionale sia proprio l’unico ambito nel quale si incontrano regolarità narrative, “storie” che a un occhio del mestiere tendono ad apparire come ricostruzioni di eventi, “narrazioni” appunto, a cui le parti ricorrono quando hanno pochi elementi probatori a loro favore. Ci sembra improbabile, e tendiamo piuttosto a ritenere che ogni materia abbia schemi frequentemente ricorrenti, sui quali di norma però non si ironizza negli atti, per rispetto dei ruoli e perché possono facilmente fare riferimento (e proprio per questo vengono scelti) a una base reale di questioni dove vi sono oggettive difficoltà di accertamento dei fatti o altri problemi che rendono complessa la valutazione del giudice. Il fatto che vi siano “storie ricorrenti”, e che la familiarità con certi fascicoli porti a far ritenere che possano celare l’assenza di elementi di fatto validi a ottenere il rimedio giurisdizionale richiesto non è di per sé strano, sia che emerga dalla motivazione o rimanga invece nella penna del giudice.

La sensazione è però che l’accettazione dell’uso del registro ironico abbia qui un’altra radice, ossia il ritenere che la categoria dei richiedenti asilo, in particolare quelli dell’Africa subsahariana (perché gli esempi sembrano tutti evocare un contesto africano), nel suo complesso risulti tendenzialmente produttrice di narrazioni di fantasia, unicamente finalizzate a vincere il ricorso. Le narrazioni di un gruppo umano definito quindi, accomunato da una precisa immagine razziale o etnica, e non quelle di persone semplicemente accusate di uno stesso reato, che sia la truffa assicurativa o la ricettazione, giusto per richiamare due ambiti in cui pare sia facile riscontrare “regolarità narrative”.

Si tratta di una sensazione non gradevole, per almeno due ragioni.

La prima ragione è che la rappresentazione in forma di caricatura delle “narrazioni seriali” è utilizzata in una pronuncia della Suprema Corte riferita a un ambito dove le indagini empiriche evidenziano in modo sempre più netto le difficoltà delle parti a far comprendere le proprie esigenze di tutela[6]. La corretta ricostruzione delle vicende dei richiedenti asilo è sovente resa difficile o impossibile da una serie di ostacoli comunicativi derivanti da barriere linguistiche, fattori culturali e psicologici o stereotipi degli operatori. Ostacoli che si sommano, ricordiamolo, a quelli che spesso sorgono già nella comunicazione con i difensori, che non è detto dispongano loro per primi delle capacità necessarie a dialogare efficacemente con persone provenienti da contesti dei quali non padroneggiano le coordinate culturali e gli schemi comunicativi. La probabilità che una narrazione apparentemente implausibile sia dovuta alla mancanza di un momento di effettivo ascolto è reale, ed è bene che il giudice di legittimità non abbia “precomprensioni”, ancor più dopo l’eliminazione del giudizio di appello.

La seconda ragione è che il giudice che si trova di fronte ad apparenti “narrazioni seriali” in casi che riguardano vicende di ordinaria giustizia domestica, civile o penale, è in grado di inquadrarle, consapevolmente o meno, sullo sfondo di tutta una serie di dati di contesto che gli sono noti sulla base della sua ordinaria esperienza di vita, e quindi di esercitare un vaglio critico più incisivo. Per la maggioranza dei magistrati, e certo per molti della Cassazione, i dati di contesto della narrazione di un migrante africano sono invece perfettamente sconosciuti, in particolare quelli relativi alle differenze tra paese a paese. Paradossalmente, i giudici in questo caso sembrano confermare l’incapacità di orientarsi nel contesto anche quando invece cercano di non fare di tutta un’erba un fascio, e ironizzano sul fatto che “quale che sia il Paese di provenienza, le forze di polizia del luogo sono sempre e irrimediabilmente corrotte”. Toccando così maldestramente un altro problema che è molto serio, ossia che nell’Africa subsahariana esiste un problema strutturale di corruzione nelle forze di polizia[7] che, se può essere sfruttato per corroborare narrazioni di fantasia, pone anche un problema oggettivo al momento della verifica delle necessità di tutela.

4. Conclusioni: il pluralismo interno della Cassazione e il rischio della banalizzazione del linguaggio dei giudici

È ovviamente improprio trarre da questa singola pronuncia conclusioni di carattere generale circa l’adeguatezza del lavoro della Cassazione nell’esame delle decisioni di merito in tema di protezione internazionale. In generale, anzi, gli osservatori più qualificati riconoscono un grande valore alla giurisprudenza più recente. Ad esempio, proprio mentre queste brevi note erano in chiusura, ci è stata fornita una ulteriore ordinanza della Cassazione ove questa si pronunciava sul ricorso di un cittadino nigeriano che si era vista rigettata la domanda di protezione internazionale incentrata sulla propria condizione di (“sedicente” come avrebbe detto l’altro collegio…) omosessuale proprio sulla base della mancanza di una narrazione credibile, credibilità che era esclusa tra l’altro per il fatto che il ricorrente avrebbe rivelato il proprio orientamento sessuale “narrato come un gioco, senza alcuna riflessione intimistica”. Il collegio della prima sezione in questo caso però decide di cassare la decisione proprio mettendo in luce la genericità e banalità del linguaggio utilizzato, qualificando seccamente il collegamento tra inattendibilità e “assenza di riflessione intimistica” come “davvero incomprensibile”[8].

Anche prescindendo dal risultato finale, le due pronunce sembrano venire non da due collegi dello stesso organo giurisdizionale, ma da due pianeti culturali diversi. Non vi è ovviamente nulla di nuovo e strano nel fatto che vi siano orientamenti e stili differenti tra sezioni e tra collegi. Però, forse, l’esplosione della protezione internazionale nel carico di lavoro di piazza Cavour suggerisce di non fermarsi alla constatazione di questa ovvietà. I ricorsi contro il diniego della protezione internazionale immettono nel lavoro giudiziario un complesso di valutazioni su aspetti fattuali che diventano assolutamente centrali nella decisione, e che fanno riferimento a questioni circa le quali il giudice parte da basi simili a quelle di qualunque cittadino, in termini di conoscenze, ma anche di stereotipi circa l’alterità dei migranti, le società africane e così via, stereotipi che hanno radici solidissime anche nella cultura italiana mainstream. Il rischio quindi non è tanto quello di un’alea dipendente dall’incontrare giudici ideologicamente “pro migranti” piuttosto che xenofobi, ma dalla casualità dell’incontro con magistrati pronti a tentare un’analisi complessa e individualizzata piuttosto che con altri portati a procedere sulla scia di un semplificante “senso comune”. Il nodo è reale e fa riferimento a dati di sociologia giudiziaria che non è possibile cambiare da un giorno all’altro. Fermiamoci un gradino più in basso per riallacciarci al punto di partenza. La decisione di un giudice può essere conforme a diritto anche in un sistema complessivamente iniquo nella sua operatività pratica, quale è quello dell’immigrazione. Può – come quella che abbiamo appena esaminato – non essere particolarmente articolata, ma fornire un dispositivo a cui probabilmente si sarebbe giunti comunque. Può – al limite – anche essere aberrante in termini di valori, ma costruita con argomentazioni e rappresentazioni raffinate. Esiste, tuttavia, il problema concreto dei codici di lettura che vanno prevalendo nella sfera politica e mediatica, che riducono il mondo di provenienza dei migranti a un magma indifferenziato all’interno del quale neanche si tenta di cogliere la sfaccettatura dei contesti locali e delle vicende individuali, non fosse altro ponendosi il problema delle oggettive difficoltà ad afferrarli. Trovare in una pronuncia della Cassazione – per quanto probabilmente isolata – un linguaggio che ammicca a questa tendenza non è un buon segno[9].

  

[1] Cassazione civile sez. I, 7 agosto 2019, n. 21142.

[2] V. L. Minniti, L’eco dell’insegnamento di Carlo Verardi nell’esperienza del giudice dell’asilo, in L’eredità di un giudice. Scritti per Carlo Maria Verardi, speciale di Questione Giustizia, ottobre 2019, p. 139, nota 7.

[3] Sull’umorismo nelle decisioni giudiziarie cfr. ad es. M. Rudolph, Judicial Humor: A Laughing Matter, in Hastings Law Journal, 1989, pp. 175 ss. e L. K. Hori, Bons Mots, Buffoonery, and the Bench: The Role of Humor in Judicial Opinions, in UCLA Law Review Discourse, 2012, pp. 60 ss. Per un’analisi del ruolo dell’umorismo in aula, nell’interazione diretta nel corso dei processi v. S. Roach Anleu, K. Mack, J. Tutton, Judicial Humor in the Australian Courtroom, in Melbourne University Law Review, 2014, pp. 621 ss.

[4] V. i saggi di M. Giuffrè, Ripensando l’illegalità: rappresentazioni, pratiche, strategie di vita tra alcuni gruppi di immigrati africani a Roma, pp. 37 ss. e C. Cingolani, Regolare illegalità. Documento e mondo del lavoro nell’orizzonte quotidiano, pp. 75 ss. in M. Grassi, M. Giuffrè (a cura di), Vite (il)legali. Migranti africani in Italia e in Portogallo, Firenze, SEID, 2013.

[5] P. Bloom, Against Empathy. The Case for Rational Compassion. 2016 (tr.it. Contro l’empatia. Una difesa della razionalità, Macerata, Liberilibri, 2019)

[6] M. Veglio, Uomini tradotti. Prove di dialogo con richiedenti asilo, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2/2017; B. Sorgoni, Storie vere. L’inevitabile ambiguità all’esame del giudice dell’asilo, in Questione giustizia online, 3 giugno 2019.

[7]Anche qui la letteratura è ricca. V. ad es. P. Albrecht and H. M. Kyed (eds.), Policing and the Politcs of Order-Making, New York, Routledge, 2015. Circa due paesi rilevanti nella nostra prospettiva nazione v. il saggio su Accra di E. A. Sowatey e R. A. Atuguba alle pp. 74 ss. e su Freetown N. King e P. Albrecht alle pp. 178 ss. Interessante anche la costruzione del concetto di Executive Lawlessness da parte del giurista e attivista nigeriano Gani Fawehinmi citata in B. Agozino, Counter-Colonial Criminology. A Critique of Imperialist Reason, London, Sterling (Va.), Pluto Press, 2003, pp. 112 ss.

[8] Ordinanza 26822/19.

[9] Per un altro esempio di quello che a nostro parere è un esempio di obiter dictum in una sentenza della Cassazione rivelatore di un’arretratezza culturale (in quel caso con maggiori sfumature ideologiche) in materia migratoria ci permettiamo di rinviare al nostro La sentenza della Cassazione sul Kirpan. ‘Voce dal sen fuggita?’ Brevi note comparatistiche sull’adesione della Suprema Corte all’ideologia della ‘diversità culturale degli immigrati’, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2/2017.

16/01/2020
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