Diverse norme del Codice penale, rimaste invariate nella loro originaria formulazione, conservano un elevato grado di vitalità e sono state applicate, grazie all’opera della giurisprudenza, a fatti della vita del tutto impensati dal legislatore del 1930, senza violare il principio di legalità.
Il riferimento al Codice penale come “luogo” della parte sostanziale del sistema penale – ora normato dall’art. 3-bis c.p.[1] - risulta rafforzato da queste evenienze, talora storicamente superate da interventi organici (si pensi alla tutela penale dell’ambiente apprestata con la fattispecie di cui all’art. 674 c.p.), altre volte foriere di sviluppi giurisprudenziali destinati a consolidarsi (ad esempio nell’applicazione dell’articolo 595 c.p. ai nuovi mezzi di comunicazione). Mentre, paradossalmente, diviene più problematica l’applicazione di parti del Codice su cui si susseguono interventi di “adattamento” da parte di un legislatore talora simbolico (è il caso, ad esempio, delle ripetute novelle alle norme in materia di furto); situazione diversa da quella in cui una disciplina organica, frutto di un’adeguata elaborazione parlamentare, è stata inserita nel Codice penale per rispondere a esigenze effettive di tutela: come è avvenuto con la legge 15 febbraio 1996 n. 66 (Norme contro la violenza sessuale) o con la legge 22 maggio 2015 n. 68 (Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente).
In alcuni casi la norma incriminatrice di origine codicistica attraversa momenti diversi, di quiescenza e di riscoperta.
E’ il caso del delitto di violenza privata, di cui all’art. 610 c.p., la cui struttura, connotata elementi descrittivi di fattispecie di estensione/intensione problematica, tende a produrre limiti di applicazione, solo parzialmente risolti dalla giurisprudenza in un lungo arco di tempo; ma proprio la debole tassatività descrittiva dell’azione coartata come «fare, tollerare od omettere qualche cosa» ha portato ad applicare la norma a comportamenti emersi nell’esperienza concreta.
E’ avvenuto nella giurisprudenza di merito per la sottoposizione da parte dei sanitari ad un intervento diverso da quello per cui il paziente aveva prestato il consenso, lettura però smentita dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. SS.UU., n. 2437 del 18 dicembre 2008 – 21 gennaio 2009); per le condotte di mobbing, qualificate da sistematici comportamenti vessatori del datore di lavoro (Cass., VI, n. 31413 dell’8 marzo – 21 settembre 2006, che configura il reato di violenza privata consumata o tentata «a carico di datori di lavoro i quali costringano o cerchino di costringere taluni lavoratori dipendenti ad accettare una novazione del rapporto di lavoro comportante un loro demansionamento - nella specie costituito da declassamento dalla qualifica di impiegato a quella di operaio - mediante minaccia di destinarli, altrimenti, a forzata ed umiliante inerzia in ambiente fatiscente ed emarginato dal resto del contesto aziendale, nella prospettiva di un susseguente licenziamento») successivamente ricondotte all’ipotesi di cui all’art. 572 c.p. (a condizioni di recente ribadite da Cass., VI, n. 14754 del 13 febbraio – 30 marzo 2018); per condotte in seguito ricomprese nella fattispecie di atti persecutori, rispetto alla quale si è tuttavia affermato il concorso con il delitto di violenza privata (Cass., V, n. 22475 del 18 aprile - 22 maggio 2019).
Peraltro la fattispecie di violenza privata non ha sinora trovato una neo-tipizzazione relativa a “nuove” condotte, attraverso una giurisprudenza costante e protratta nel tempo.
La sentenza che qui si annota, attraverso la conferma della sussunzione operata dal pubblico ministero, apre la strada a un percorso di questo tipo per la tutela possibile delle vittime di un metodo di comunicazione pubblica che sinora ha reso sempre tendenzialmente vittoriosi coloro che detengono i mezzi di produzione delle immagini e perdenti i loro oggetti di ripresa.
Il processo svoltosi a Milano vedeva imputati un intervistatore e un cameraman della trasmissione televisiva Le Iene per il delitto di violenza privata, la cui condotta materiale è stata descritta nell’imputazione come privazione coattiva della libertà di determinazione e azione della persona offesa, una scrittrice protagonista di un fatto di cronaca oggetto di un processo penale conclusosi con la sua assoluzione.
In sostanza i due soggetti (il cameraman è stato assolto perché la sua individuazione soggettiva è risultata insufficiente, a differenza di quella dell’intervistatore, condannato) avevano impedito alla persona offesa di fare rientro nella propria abitazione, appostandosi nel cortile condominiale, impedendole di escluderli bloccando la chiusura di un portone, inseguendola sino all’ascensore che non le consentivano di utilizzare, il tutto accompagnato da una serie insistente di domande a cui la donna dichiarava da subito di non voler rispondere, rifiutandosi anche di essere ripresa; di talché era costretta a chiedere l’aiuto delle forze di polizia, chiamando un numero di soccorso pubblico.
Solo a quel punto i due si allontanavano, e peraltro le immagini carpite nelle circostanze di cui sopra venivano montate e mandate in onda nel corso di una puntata della trasmissione Le Iene.
Nella descrizione dei fatti, contenuta nella formulazione dell’accusa e accertata nel processo, si rinviene l’usuale “metodo” utilizzato in alcune trasmissioni televisive di un certo successo ormai da molti anni, e transitato anche nei new media.
In sintesi estrema si tratta di un agguato a una persona a cui si impongono domande indesiderate, che si trasforma in "oggetto" della comunicazione anche nel caso in cui non accetti di rispondere, perché il montaggio successivo delle immagini e la redazione di un testo critico o allusivo costruiscono, attraverso una comunicazione ostile, una figura deteriore della persona aggredita, sul postulato di un suo (inesistente) “obbligo di rendere conto”, di cui si assume essere creditore il detentore dei mezzi di produzione delle immagini.
In questa prospettiva anche l’incombente presenza fisica degli intervistatori e dei cameramen fa parte della costruzione della comunicazione ostile, e, pur potendo essere esclusa dalla narrazione per immagini, vi viene fatta rientrare, ad attestare l’«impegno» di costoro nell’esigere l’adempimento di quell’obbligo[2].
La sentenza del Tribunale di Milano, dopo un’analitica ricostruzione dei fatti, affronta il tema della loro qualificazione giuridica, richiamando la giurisprudenza che vede nella fattispecie l’espressione della tutela della libertà morale della persona intesa come facoltà di autodeterminarsi spontaneamente[3], sia formando liberamente la propria volontà, sia orientando i propri comportamenti in conformità delle deliberazioni liberamente assunte.
La capacità di coartazione viene riconosciuta nelle condotte degli imputati raffrontate con la volontà della persona offesa – è l’elemento centrale – «di non voler rilasciare alcuna intervista»; e richiama l’impedimento alla chiara volontà dell’intervistanda, di voler «chiudere il dialogo».
Oltre alle condotte materiali che impedivano alla persona offesa la libertà di movimento (l’apertura forzata di un cancello, l’inseguimento, il blocco delle porte dell’ascensore) la sentenza riconduce agli elementi costitutivi di fattispecie la costrizione a tollerare di essere ripresa contro la propria volontà.
Insieme a quanto sopra, la «condizione di soggezione» (così si esprime la sentenza) determinata dalla coartazione alla comunicazione (così si può definire il metodo televisivo oggetto del processo) integra il delitto di violenza privata.
Nelle motivazioni si esclude poi la ricorrenza dell’esimente del diritto di cronaca, invocata dalla difesa.
La scriminante rileva infatti solo in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia e non anche rispetto ad eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia medesima.
E’ interessante notare come la più recente sentenza della Corte di Cassazione, che ribadisce questo principio (Cass., V, n. 43569 del 21 giugno – 24 ottobre 2019), si riferisca al delitto di sostituzione di persona commesso da un imputato che fa parte dello staff della stessa trasmissione televisiva Le Iene, che si era finto parente di una donna ricoverata in una struttura assistenziale per poter carpire notizie ai responsabili della struttura.
Estendendo le argomentazioni, la sentenza richiama poi sia gli articoli 2 e 3 della Costituzione, quali fonti superprimarie a presidio di diritti e interessi fondamentali della persona sotto il profilo dell’integrità dell’onore e della reputazione, sia l’articolo 27, ritenuto preclusivo della possibilità di «proclamare colpevole a mezzo stampa» una persona, prima che vi sia un accertamento in sede giudiziaria.
Particolarmente interessante appare il richiamo a una risalente sentenza (Cass., V, n. 4387 del 21 marzo – 17 aprile 1991[4]) secondo la cui massima «il giornalista, pur investito dell’altissimo compito di informazione, deve sempre attenersi, fino a che non intervenga una sentenza di condanna, al principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza dell'imputato e non può tacciare quindi lo stesso di una colpevolezza non ancora accertata».
Siamo in un ambito di tutela rispetto alle condotte di privati ma il tema è di grande sensibilità per le autorità pubbliche, cui è destinato l’art. 4 della Direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali[5], rubricato «Riferimenti in pubblico alla colpevolezza», ai sensi del quale:
«1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole. Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell'indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità.
2. Gli Stati membri provvedono affinché siano predisposte le misure appropriate in caso di violazione dell'obbligo stabilito al paragrafo 1 del presente articolo di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in conformità con la presente direttiva, in particolare con l'articolo 10.
3. L'obbligo stabilito al paragrafo 1 di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli non impedisce alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all'indagine penale o per l'interesse pubblico»[6].
Nella sentenza del Tribunale di Milano si tratta di un excursus derivante da un postfatto richiamato nell’imputazione e cioè la messa [comunque] in onda delle immagini frutto del delitto commesso.
Pur nella specificità della risposta al caso specifico, la sentenza pone le basi per una riflessione più ampia, che riguardi varie forme di coartazione, di violazione del diritto all’autodeterminazione, di lesione dell’integrità morale, che i mezzi di comunicazione, tradizionali e nuovi, incoraggiano a utilizzare in quanto attrattivi per il pubblico.
La decontestualizzazione delle immagini e l’associazione a commenti orientativi (negativi), che nel caso giudicato dal Tribunale di Milano riguardavano modalità aggressive di uso di un mezzo di comunicazione tradizionale, sono divenute tipiche di nuovi mezzi di comunicazione.
Si pensi alla possibilità di veicolare video decontestualizzati, meme, prodotti di algoritmi di deep fake mediante diffusione sui social network, eventualmente "trollata", con reinvio organizzato o ricondivisione di contenuti in rete in gruppi mirati.
Si tratta di un universo ostile che incombe sulla sicurezza dei cittadini, intesa in senso completo e costituzionalmente fondato e non riduttivamente sicuritario, che merita valutazioni penalistiche commisurate.
[1] Inserito dal Decreto legislativo n. 21 del 1° marzo 2018.
[2] Si osserva, nelle motivazioni della sentenza qui commentata, che «le reazioni riottose» della vittima sono «dotate di forte attrattiva per il pubblico».
[3] Espressione risalente a Cass. I, n. 1683 del 22 aprile – 8 giugno 1993.
[4] Rivista Penale, 1991, p. 912 ss.
[5] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:32016L0343
[6] I delicati equilibri tra caratteristiche della società democratica, tutela del giudiziario e libertà di informazione sono oggetto di riflessioni ed elaborazioni pluridecennali: valga qui il richiamo alla sentenza CEDU (6538/74) del 26 aprile 1979, Sunday Times v. The United Kingdom, https://hudoc.echr.coe.int/eng#{"itemid":["001-57584]; un’ampia rassegna di giurisprudenza, non recente ma utile all’inquadramento dei limiti della cronaca giudiziaria nell’ambito della diffamazione, in F. Abruzzo, Doveri dei giornalisti, diritto di cronaca (in particolare giudiziaria) e di critica, relazione all’incontro di studi del C.S.M. su Magistratura e mass media, Roma, 9-11 dicembre 2004 (https://www.altalex.com/documents/news/2005/02/13/doveri-dei-giornalisti-diritto-di-cronaca-in-particolare-giudiziaria-e-di-critica).