Premessa
La legge sulla “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze” è stata approvata in via definitiva dalla Camera dei deputati, e se ne attende la promulgazione da parte del Presidente della Repubblica e, quindi, la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. [1]
Per opinione unanime si tratta della più radicale riforma del diritto di famiglia italiano dalla novella del 1975 (quella in materia di filiazione, del 2012-2013, pur di enorme rilievo, ha avuto pur sempre carattere settoriale).
Può quindi definirsi storica, in quanto, per la prima volta, al paradigma (pur centrale, ex art. 29 Cost.) del matrimonio si affianca il riconoscimento giuridico di altre forme di famiglia, d’altronde già esistenti nella società.
Né va trascurato che è una laica (e da qui anche le veementi opposizioni del mondo ecclesiastico e clericale): ed anche questo è un risultato storico.
L’esame qui di seguito condotto è strettamente giuridico; emergono però subito due criticità, sicuramente connesse alle tormentate vicende parlamentari, ma anche al carattere “eticamente sensibile” degli istituti di nuova introduzione:
a) il testo definitivo consta di un unico articolo, suddiviso in ben 69 commi, di difficile lettura, i primi 35 dei quali dedicati alle unioni civili, cui si farà qui di seguito riferimento (si tratta dell’effetto perverso del c.d. maxiemendamento, in cui è confluito, in gran parte, il d.l. originario)
b) non si comprende perché i nuovi istituti, l’unione civile tra persone dello stesso sesso e le convivenze, siano stati “relegati” in una legge speciale (così in una certa misura sancendone l’inferiorità): la collocazione più corretta, non fosse altro che per la loro rilevanza generale, sarebbe stata nel codice civile.
Le convivenze : profili definitori
L’attenzione dei media, ma anche dei giuristi, si è concentrata - forse inevitabilmente - sulla prima parte della legge, lasciando così in ombra la seconda, che pure è di pari rilevanza, sia sotto il profilo sociale che giuridico (quest’ultimo, anzi, presenta criticità forse anche maggiori).
Ritengo allora opportuno iniziare proprio da quest’ultima.
I commi 36-65 dell’articolo unico, infatti, contengono una organica disciplina della famiglia fondata sulla «convivenza di fatto», così con paradossale ossimoro il comma 36 (trattandosi di figura disciplinata dalla legge, non può più essere considerata “di fatto”).
La nuova disciplina si applica alla coppia, eterosessuale o omosessuale, composta da due maggiorenni, «uniti stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza materiale e morale», non vincolati da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile.
Si tratta di una definizione generalissima, che ben può adattarsi anche al matrimonio e all’unione civile (si tratta, in fondo, di species di un più ampio genus).
Centrale, evidentemente, è il riferimento sia alla stabilità che al legame affettivo di coppia.
Sono concetti che presentano un inevitabile margine di indeterminatezza, che darà luogo ad ampio contenzioso.
La stabilità va accertata in termini sia quantitativi che qualitativi; sotto il primo profilo richiede una certa continuità e durata temporale (indeterminabile nel minimo: qui il giudice dovrà valutare caso per caso, secondo il contesto di riferimento), pur se non è richiesta, non necessariamente, la coabitazione (così la costante giurisprudenza).
In termini qualitativi la stabilità si risolve nella consapevole e coerente osservanza, da parte dei componenti della coppia, di quella reciproca assistenza materiale e morale (richiamata dalla disposizione in esame) richiamata anche per il matrimonio, art. 143 c.c., e per le unioni civili, comma 11 dell’articolo unico (a conferma della omogeneità degli istituti).
Mentre però per tali istituti si tratta di un obbligo giuridicamente rilevante, per i conviventi siffatta reciproca assistenza materiale e morale non è frutto di eteronomia, ma discende da una scelta libera ed autonoma dei componenti della coppia (che però vale ad individuare la fattispecie costitutiva della convivenza medesima, quale disciplinata dalla legge).
Del tutto innovativo il riferimento ai legami affettivi (ancora di recente, novellando l’art. 315 bis, il legislatore ha previsto il diritto del figlio ad essere assistito moralmente dai genitori, evitando quindi il diretto riferimento all’affetto, comunque sicuramente sotteso alla previsione).
Si tratta, evidentemente, di concetto agiuridico, di difficile accertamento (certamente il giudice non dovrà valutare se i due “si amano”!): ratio della previsione è quella di escludere dall’ambito applicativo delle nuove disposizioni, sotto un profilo sistematico, le convivenze fondate esclusivamente su ragioni pratiche di convenienza (anche quanto alla coabitazione) ovvero di solidarietà economica- lavorativa.
In ogni caso va ricordato che la giurisprudenza da almeno quaranta anni ha avuto occasione di occuparsi di convivenze more uxorio, sicché potrà ampiamente attingersi ad un tale ampio patrimonio.
Dal nuovo regime sono esclusi, giustamente, i minorenni (non poche disposizioni implicano la piena capacità di agire)
Più discutibile l’esclusione, in toto, dei parenti, da ritenersi (art. 77 c.c.) fino al 6° grado, sicché sarebbero escluse dalla applicazione della legge quelle stesse coppie che, nonostante i vincoli di parentela, potrebbero sposarsi, ex art. 87 c.c. (le cui disposizioni, pertanto, in una ottica costituzionalmente orientata, dovrebbero ritenersi applicabili per analogia).
Pure discutibile è l’esclusione (sottesa anche al c. 59) dei soggetti già vincolati da matrimonio o unione civile (nel senso, ovviamente, che uno di loro o entrambi siano sposati o civilmente uniti con terzi): si tratta di coppie di fatto, ed è ben noto che sovente si tratta di coppie di cui uno o entrambi i componenti sono già sposati (in prospettiva, legati da unione civile), pur se separati almeno di fatto; sicché la disposizione in esame riduce, di molto, la sfera di applicazione del nuovo regime.
E’ da ritenersi che, in via interpretativa (certo, con una forzatura del dato normativo) quest’ultimo sia applicabile almeno alle coppie di fatto di cui uno o entrambi i componenti sono legalmente separati, atteso che lo stato di separazione è considerato come propedeutico al divorzio, cfr Cass. 1 aprile 2014, n. 7533, Foro It., 2014, I, 2124 (certo, in tal modo, si escludono comunque le parti dell’unione civile, per la quale – come detto – non è prevista la separazione).
Il legislatore ha invece scelto di non introdurre (forse per la portata simbolica) il registro delle convivenze (previsto invece da alcuni Comuni, certo extra legem); si tratta di una occasione mancata, che avrebbe avuto sicuramente ricadute positive in termini di certezza giuridica.
Oltretutto – con il registro – avrebbe potuto elidersi una delle ultime discriminazioni ai danni dei figli di genitori non coniugati (già naturali), quanto all’accertamento dello status: infatti (come pure prospettato in dottrina) al partner maschile della coppia, quale risultante dal registro, avrebbe potuto estendersi la presunzione di paternità di cui all’art. 231-232 c.c.
Di contro il comma 36 si limita a prevedere che «ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’articolo 4 e alla lettera b), comma 1, dell’articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223»; in sostanza quindi la convivenza è provata dalla dichiarazione anagrafica (che però manca se non c’è coabitazione) .
Si tratta comunque di una prova molto fragile, e di scarsa rilevanza.
Da un lato infatti è sicuramente ammessa - nonostante la dichiarazione - la prova contraria della insussistenza dei presupposti di cui al co. 36, dall’altro – e specularmente – è ammessa la prova della ricorrenza della convivenza (nei termini di cui al comma 36), nonostante la mancanza della dichiarazione anagrafica.
Effetti giuridici della convivenza
La convivenza è, per definizione, un rapporto di fatto che si fonda, come accennato, sull’autonomia, sulla libera e perdurante scelta dei componenti: quindi non ne derivano, ad esempio, l’obbligo di fedeltà, o di coabitazione; la stessa reciproca assistenza materiale e morale, come detto, è elemento costitutivo, o meglio ancora identificativo, della fattispecie, ma non un obbligo giuridico.
Così, correttamente, la legge non prevede un regime patrimoniale della convivenza: continueranno ad operare, quanto ai beni acquistati dai conviventi, assieme o separatamente, le ordinarie disposizioni civilistiche (anche in tema di comunione ordinaria); così, con riferimento ai conti correnti cointestati , resta operante l’art. 1298 c.c. (che però, proprio con riferimento ai rapporti tra i conviventi, ha suscitato delicati problemi interpretativi, quanto al superamento della presunzione alla stregua della quale le parti dei creditori solidali si presumono uguali, se non risulta diversamente).
L’unico rilevante rapporto giuridico tra i conviventi, disciplinato dalla legge, discende non dalla convivenza in sé, ma dalla circostanza che l’uno presti la propria attività lavorativa all’interno dell’impresa dell’altro, e a suo favore: cfr il co.46, che ha introdotto l’art. 230 ter c.c., disposizione costruita sul modello dell’art. 230 bis.c.c., impresa familiare ma, discutibilmente, con delle varianti lessicali che potrebbero però essere ritenuti non solo tali, con conseguenti possibili incertezze interpretative (specie con riferimento al diritto, del convivente – lavoratore, al mantenimento, oltre che agli utili e agli incrementi, diritto - incomprensibilmente - non espressamente richiamato dalla nuova disposizione).
Per il resto, coerentemente le nuove disposizioni, più che i rapporti giuridici tra i conviventi, disciplinano quelli che insorgono tra i conviventi e i terzi, cfr i commi 38 ss; così, ad es., sono estesi ai conviventi i «diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall'ordinamento penitenziario» (comma 38); il «diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali» in caso di malattia e ricovero (comma 39); i diritti nell'assegnazione di alloggi di edilizia popolare (comma 45).
Merita uno specifico richiamo il comma 40, secondo cui ciascun convivente di fatto può designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati, tra l’altro, in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute.
Il legislatore, incautamente, detta qui – in una sede impropria – una (embrionale) disciplina delle scelte di fine vita (per non dire del testamento biologico), riconoscendo ai conviventi facoltà che allo stato sono negate ai coniugi e ai componenti dell’unione civile.
Beninteso, le nuove disposizioni sono da ritenersi essenzialmente ricognitive dei diritti e dei doveri già riconosciuti ai conviventi dalla giurisprudenza negli ultimi decenni (la prima sentenza di legittimità è l’ormai remota Cass. 3 febbraio 1975, n. 389, Foro it., 1975, I, 2301); si pensi anche ai più generali temi della ripetibilità delle somme erogate dall’uno dei conviventi in favore dell’altro, ovvero dell’applicabilità dell’azione ex art. 2041 c.c.; né poi mancano in materia disposizioni di legge speciali.
Si tratta quindi di diritti e doveri che restano pienamente operanti, cfr. per un esame Cass. 22 gennaio 2014, n. 1277, Foro it. 2014, I, 1154.
La fine della convivenza
La legge non disciplina espressamente la fine, rectius la cessazione della convivenza; ma è evidente, alla stregua dei principi generali, che questa si verifica con la morte di uno dei conviventi, ovvero con il venir meno di uno dei presupposti, positivi o negativi, che consentono di configurare una convivenza disciplinata da una delle parti (es. il matrimonio o l’unione civile di uno dei conviventi con un terzo, ma anche il venir meno dell’affectio: il che poi potrebbe portare rilevanti problemi probatori).
Evidentemente cessata la convivenza cessano anche gli effetti giuridici che la legge vi riconnette, tra le parti e verso i terzi , il che pure potrà porre dei problemi applicativi (si pensi ai poteri rappresentativi conferiti ai sensi del comma 40 cit).
Non mancano però effetti giuridici nuovi, tra le parti e verso i terzi, scaturenti proprio dalla cessazione della convivenza.
In primo luogo va richiamato il comma 65, secondo cui «in caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente e gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento».
Il disegno originario prevedeva addirittura un diritto al mantenimento; il testo definitivo, malissimo formulato, si limita al riconoscimento del diritto agli alimenti (la disposizione ricalca l’art. 438, 1° comma c.c.) è un palese riflesso della solidarietà postmatrimoniale, fondata sull’art. 2 Cost., ma comunque suscita perplessità anche di ordine costituzionale, in quanto la convivenza - a differenza del matrimonio (e delle unioni civili) si fonda pur sempre su una libera scelta, sempre revocabile.
La disposizione, oltretutto, continua prevedendo che «gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell’articolo 438, secondo comma, del codice civile»; non è chiaro il riferimento alla proporzione con la durata del matrimonio: evidentemente il diritto agli alimenti non potrà essere riconosciuto per un periodo più lungo della durata della convivenza.
Vanno poi richiamate le disposizioni in materia di sorte della casa familiare in caso di morte di uno dei conviventi, cfr commi 42-44; in particolare il comma 42 dispone che «in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o disabili del convivente superstite il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni»; si tratta di una disposizione innovativa, che sembra introdurre una nuova fattispecie di successione necessaria (ed un nuovo diritto domeiicale).
I contratti di convivenza
Il profilo più significativo del nuovo regime concerne il nuovo e tipico «contratto di convivenza», con il quale i conviventi possono «disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune», cfr co. 50.
L’oggetto è delineato dal comma 53: «Il contratto può contenere a) l’indicazione della residenza; b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile»; il comma 56 preclude l’apposizione di condizioni o di termini.
La legge tipizza quindi la causa del contratto, e ne delimita l’oggetto; restano estranei alla disciplina pattizia, i rapporti personali tra i conviventi (ma vi è però l’indicazione, che è scelta, della residenza), nonché i rapporti relativi alla stessa cessazione della convivenza (es. con riferimento agli alimenti, oggetto oltretutto di diritto indisponibile, almeno fino a quando non diventa attuale la fattispecie costitutiva).
Naturalmente il principio di determinatezza dell’oggetto impone alle parti di specificare “come”, con quale modalità, ciascuno di essi contribuisce alle necessità della vita in comune.
Inoltre le parti ben potrebbero optare per il regime della comunione convenzionale (sarebbe invece superfluo il riferimento alla separazione dei beni, che, per le coppie di fatto, costituisce la regola, in base ai principi generali); in dottrina si è osservato che «I conviventi potranno qualificare le attribuzioni patrimoniali già eseguite dall’uno o dall’altro, dando vita a negozi di accertamento (così prevenendo domande di ripetizione o di arricchimento senza causa alla cessazione della convivenza), potranno predeterminare il contributo del partner ad un’eventuale futura impresa familiare, potranno ancora creare vincoli di destinazione a favore della famiglia di fatto (art. 2645-ter c.c.)» (BONA).
Sembra invece che debba escludersi il fondo patrimoniale, istituto eccezionale, proprio del solo matrimonio, tenuto anche conto dei rilevanti effetti (negativi) nei confronti dei terzi.
Tutto quello che è estraneo alla causa ovvero all’oggetto tipico potrebbe certo essere oggetto di negozi atipici, anche accessori a quello di convivenza, suscettibili del giudizio di meritevolezza di cui all’art. 1322 cpv c.c. ; sicuramente non potranno essere oggetto di disciplina pattizia i rapporti patrimoniali con i figli, vertendosi in materia di diritti indisponibili.
Quanto alla formazione, dovrebbero operare i principi generali, con l’avvertenza che si tratta di contratto formale, cfr comma 51: «il contratto (…), le sue modifiche e la sua risoluzione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato».
Vi è di più: il medesimo comma 51 continua disponendo che questi ultimi attestano la conformità del contratto alle norme imperative e all’ordine pubblico; in mancanza, evidentemente, il contratto non ha efficacia.
Perché il contratto produca effetti verso i terzi, divenendo opponibile, il professionista che l’ha ricevuto o ha autenticato le sottoscrizioni deve, nel termine di dieci giorni, «trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione nell’anagrafe»: anche qui, evidentemente, si manifesta l’utilità dei (non previsti) registri di convivenza.
Si tratta di contratto sempre modificabile dalle parti (con riferimento al regime patrimoniale cfr il co. 54), la legge ne disciplina anche, analiticamente, la risoluzione (possibile, cfr il comma 59, per: «a) accordo tra le parti; b) recesso unilaterale; c) matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona; d) morte di uno dei contraenti»).
Di rilievo i commi 60-61 che, con riferimento al recesso unilaterale, prevedono non solo la forma solenne, ma anche l’inedito ed inutile onere, per il professionista di notificare copia del recesso all’altro contraente all’indirizzo dichiarato nel contratto (quid iuris, allora, se la avviene ad istanza del convivente e non del professionista?).
Il co. 57, infine, disciplina le fattispecie tipiche di nullità insanabile del contratto (di particolare interesse la fattispecie sub b), la violazione del comma 36, vale a dire la stipula del contratto fuor dai casi in cui si può ravvisare una convivenza di fatto.
Le unioni civili: premessa, la costituzionalità della nuova disciplina.
La legge ha anche istituito “l'unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione”, come enuncia, solennemente, il 1° comma.
E’ un istituto riservato esclusivamente alle coppie di persone dello stesso sesso unite da stabile legame affettivo e comunanza di vita, e nettamente distinto dal matrimonio, invece riservato alle sole coppie eterosessuali.
Il riferimento alle formazioni sociali, nonché (pleonasticamente) all’ art. 2 Cost. costituisce un chiaro riferimento a Corte Cost. 15 aprile 2010, n. 138, id., 2010, I, 1361, che appunto su tale disposizione costituzionale radicava i diritti delle coppie omosessuali.
Le unioni civili sono- beninteso – formazione sociale di tipo familiare, genus cui sono riconducibili tutte le altre famiglie, comprese quelle matrimoniali (pur tutelate, queste ultime, ai sensi dell’art. 29 Cost.).
Del pari pleonastico è il riferimento all’articolo della Costituzione da intendersi, quali che fossero i motivi del legislatore, in chiave antidiscriminatoria, e comunque come specifico richiamo al canone di razionalità.
Le nuove, pur organiche disposizioni, presentano una ambiguità di fondo, ai limiti della schizofrenia legislativa: alle coppie omosessuali unite in unione civile sono riconosciuti diritti e doveri coincidenti, in ampia parte, con quelli che competono ai coniugi, nel matrimonio; nello stesso tempo, però si è evitato di riprodurre o richiamare (ma non del tutto) le disposizioni che, sotto un profilo in primo luogo simbolico, potessero con più forza evocare il matrimonio.
Nondimeno l’impronta matrimoniale (l’unica forma di famiglia fino ad ora disciplinata dalla legge) è preponderante.
Né v’è da temere che, così procedendo, il legislatore abbia realizzato una sostanziale equiparazione tra matrimonio e unione civile, che sarebbe invece preclusa da Corte Cost. 1382010 cit.
La giurisprudenza costituzionale (va presa in considerazione anche Corte Cost. 11 giugno 14, n. 170, Foro It., 2014, I, 2674) impone semmai l’introduzione di una “convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima”; così anche la giurisprudenza di legittimità, cfr Cass. 21 aprile 2015, n. 8097, Foro It.., 2015, I, 2385 e ancor più chiaramente 9 febbraio 2015, n. 2400, Foro It., 2016, I, 296 che, pur negando alle coppie omosessuali il diritto al matrimonio, invoca, quasi a mò di corrispettivo, l’introduzione di uno statuto di diritti e doveri coerente con il rango costituzionale di tali relazioni.
D’altro canto la circostanza che il matrimonio si fondi sull’art. 29 Cost., e le unioni civili sull’art. 2, nulla toglie alla omogeneità “ontologica” dei legami di coppia di riferimento (fondati l’uno e l’altro su uno stabile legame affettivo, appunto di tipo familiare), e non preclude affatto al legislatore di estendere, alle seconde, in misura anche ampia, la disciplina del primo.
Oltretutto lo stesso matrimonio (specie dopo la novellazione del diritto della filiazione del 2012-2013, che ha spezzato lo storico legame tra matrimonio dei genitori e status di legittimità dei figli) è un istituto tendenzialmente neutro, fondato sulla solidarietà morale e materiale dei coniugi in termini agevolmente riferibili anche alle parti dell’unione civile.
Soprattutto la almeno tendenziale matrimonializzazione delle unioni civili è imposta da Corte eur. diritti dell’uomo 21 luglio 2015, Foro It., 2016, I, 1; tale pronuncia certo, non indica il contenuto minimo di tutela che lo Stato italiano è obbligato ad accordare: ma è evidente che questa non può essere apparente, o irrisoria e, di contro, deve riguardare (complessivamente) tutti i diritti ed i doveri connessi alla vita di coppia, nonché quelli che alla coppia, in quanto tale, competono dalle istituzioni (ad es. in ambito previdenziale)
D’altronde non mancano – tra la disciplina matrimoniale e quella delle unioni civili - differenze, anche di rilievo.
Tanto però neppure comporta – in una prospettiva speculare a quella sopra esaminata – l’incostituzionalità di tale differenze, in quanto tali; il legislatore disponeva di una certa discrezionalità in materia.
Oltretutto il regime delle unioni civili, quale delineato dalla legge, oltre che più elastico, sotto molti aspetti, di quello del matrimonio, come si riscontrerà più volte infra.
Infine il nuovo istituto è sicuramente, nel suo nucleo essenziale, costituzionalmente necessaria, sicché non suscettibile di referendum abrogativo (il cui eventuale esito positivo ricondurrebbe ad un assetto incostituzionale, anche ai sensi dell’art. 117 Cost., che la nuova l. ha appunto inteso superare), arg. ex Corte Cost. 28 gennaio 2005, n. 45, Foro It., 2005, I, 629.
La costituzione dell'unione civile.
La disciplina degli impedimenti e delle nullità è costruita, in parte attraverso la tecnica del rinvio, su quella matrimoniale (nonostante la portata simbolica di tali disposizioni), pur con qualche rilevante variante.
La disciplina dell’unione civile diverge invece totalmente da quella del matrimonio con riferimento alla stessa formazione del vincolo.
Il comma 2 si limita ad enunciare che l’unione civile è costituita mediante dichiarazione resa da due persone dello stesso sesso di fronte all’ufficiale dello stato civile, ed alla presenza di due testimoni; il legislatore, d’altronde, evita di riferirsi alla celebrazione, riferendosi sempre alla costituzione del legame (concetto che però va ben oltre una mera registrazione anagrafica).
Per il matrimonio, invece, è prevista una ampia ed organica disciplina che concerne, tra l’altro, le pubblicazioni (art. 93- 100 c.c. ), le opposizioni (art. 102- 104 c.c. ) e lo stesso rito di celebrazione (art. 106- 113 c.c.).
In realtà la costituzione delle unioni civili conserva gli elementi essenziali propri della celebrazione del matrimonio: le dichiarazioni rese dalle parti personalmente e contestualmente innanzi all’ufficiale di stato civile (lo stesso che celebra il matrimonio civile), cui segue la formazione dell’atto (pur, se quest’ultimo, è di incerta collocazione nei registri di stato civile).
L’unione civile deve quindi intendersi costituita con lo scambio delle dichiarazioni di volontà, atti negoziali, in senso ampio, e recettizi, paradossalmente sul modello del matrimonio canonico.
Una volta rese le dichiarazioni, raccolte nel relativo atto, si costituisce (come enunciato dalla stessa legge) quello che è un vero e proprio (nuovo) status personale, dai rilevantissimi effetti giuridici.
Tra le parti si instaura un vincolo ampiamente corrispondente a quello di coniugio.
Vi è quindi la necessità di una disciplina più specifica, che sarà verosimilmente introdotta, a livello subprimario, dal ministero dell’interno (ove non si ritenga darsi attuazione, in materia, alla delega legislativa di cui al 28° comma, lett a).
Il modello di riferimento - e parametro di legittimità (anche come criterio direttivo) di tale normazione di dettaglio - non potrà essere che quello matrimoniale.
D’altronde, indipendentemente da un intervento dell’autorità amministrativa (o dello stesso legislatore delegato), vi è spazio per una ricostruzione in via interpretativa del procedimento costitutivo dell’unione civile, sempre alla stregua delle disposizioni dettate per il matrimonio (il comma 20 di cui si dirà esclude l’applicazione diretta delle norme del codice civile non espressamente richiamate, ma non anche quella analogica: si è del resto detto della “matrimonalizzazione” del nuovo istituto).
Così ad esempio – a fronte di una domanda di costituzione di UC – dovrà almeno applicarsi, almeno analogicamente , l’art. 112 c.c., sui controlli da parte dell’ufficiale di stato civile sull’età delle parti e su eventuali impedimenti.
Infine va segnalato che la legge non prevede che gli ufficiali di stato civile possano rifiutare la celebrazione dell’unione civile, invocando l’obiezione di coscienza.
Si tratta di un pubblico ufficiale, che non può sottrarsi all’adempimento del proprio dovere, solo perché non condivide (sia pure per motivi di coscienza) le leggi che è chiamato ad applicare (si pensi al giudice tutelare, per l’autorizzazione all’aborto della minorenne, ex art. 12 l. 1981978, cfr Corte cost., 25 maggio 1987, n. 196, id.., 1988, I, 758).
Ne segue che un eventuale rifiuto di celebrazione dell’unione civile sarebbe ostruzionistico e illegittimo, esponendo l’ufficiale di stato civile a responsabilità penale (art. 328 c.p., Rifiuto di atti di ufficio, omissione) e anche civile, quando ne siano derivati per le parti dei danni (anche di ordine morale).
I Comuni, in ogni caso, dovranno sempre assicurare alle parti richiedenti la tempestiva celebrazione delle unioni civili e il rilascio della relativa documentazione (come del resto lo stesso art. 9. L. 1941978 prevede con riferimento all’aborto).
Diritti e doveri delle parti dell’unione civile
La disciplina dei diritti e dei doveri delle parti dell’unione civile, è contenuto nell’11° e nel 12° comma modellati, ma con modifiche, rispettivamente sugli art. 143 e 144 c.c. (è anche espressamente prevista l’applicazione dell’art. 146 c.c.).
Al di là di mere differenze lessicali si tratta, sostanzialmente, di disposizioni omogenee.
In altri termini l’impronta familiaristica – ed anzi paramatrimoniale – delle unioni civili resta fortissima anche con riferimento ad un ambito tanto centrale (i bisogni comuni, la residenza comune, di cui alle nuove norme, costituiscono meri sinonimi di bisogni familiari e residenza familiare, di cui al c-c.c. mentre il dovere di collaborazione - non espressamente richiamato per le unioni civili - è insito quasi tautologicamente in quello di assistenza reciproca delle parti).
Si tratta, inoltre, di diritti e doveri sicuramente inderogabili (la cui violazione può portare al risarcimento dei danni, cfr infra), come quelli derivanti dal matrimonio attesa la sicura portata pubblicistica delle disposizioni che li esprimono; cfr anche il comma 13, che ricalca l’art. 160 c.c.(disposizioni, entrambe, di carattere generale).
Un altro rilevante effetto delle unioni civili – qui più moderne del matrimonio – sta nella possibilità, per la coppia, in sede di costituzione del vincolo, di assumere un cognome comune, scegliendolo tra i loro cognomi (ciascuna parte può poi anteporre o posporre al cognome comune il proprio, se diverso, facendone dichiarazione all’ufficiale di stato civile), cfr il 10° comma.
La pretesa soppressione del dovere di fedeltà
L’11° comma non richiama, come accennato, il dovere di fedeltà, posto per il matrimonio dall’art. 143, 2° comma c.c.
Tanto al di fuori di ogni giustificazione tecnico-giuridica, ed in contrasto con la struttura generale dell'unione civile (ed in una ottica svalutativa delle unioni civili).
Va però ricordato che il dovere di fedeltà matrimoniale, dopo la riscrittura dell’art. 143 cit. dalla novellazione del 1975, è impegno globale di devozione, comprensivo anche (ma non solo) della fedeltà sessuale.
Tale dovere, più precisamente, ha un contenuto negativo (come dovere di astensione da rapporti sessuali, ma anche affettivi, con altre persone), ma è anche diritto dovere reciproco alla fiducia – spirituale e fisica – di ciascuno nell’altro.
Sotto tale profilo la fedeltà è essenzialmente lealtà reciproca, finendo per confinare (ed anzi, a esserne ricompreso come species) con il dovere di assistenza morale, espressamente richiamato dall’art. 143 cpv c.c., ma anche dal co. 11 dell’art. unico in esame.
Può quindi affermarsi che, nonostante le intenzioni del legislatore, il dovere di fedeltà non è stato veramente espunto dalle unioni civili: d’altronde una stabile ed anzi “formalizzata” vita di coppia – eterosessuale (con il matrimonio) o omosessuale (con l’unione civile) – privata del dovere di fedeltà, sarebbe intimamente inconcepibile, svuotata di significato.
Tanto anche in un’ottica costituzionalmente orientata: la rilevanza del dovere di fedeltà, per le unioni civili (non essendo prevista la separazione, e quindi l’addebito) può emergere solo nell’ambito dell’illecito endofamiliare (Cass. 1 giugno 2012, n. 8862, Foro It.., 2012, I, 2037); escludere quest’ultimo con riferimento alle parti dell’unione civile, per la non configurabilità del dovere di fedeltà (in una fattispecie in cui si deduce l’adulterio, quale fonte di danno) si risolverebbe in una inammissibile discriminazione.
Gli effetti patrimoniali dell’unione civile e la clausola di equivalenza di cui al 20° comma.
L’equiparazione tra unione civile e matrimonio è pressoché piena quanto ai profili economici e patrimoniali: il principio solidaristico, di cui all’art. 2 Cost., opera qui con pienezza, cfr il comma 13.
E’ così espressamente previsto che il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla comunione dei beni.
Troveranno quindi integrale applicazione alle unioni civili le disposizioni in tema di fondo patrimoniale, di comunione legale, di comunione convenzionale di separazione dei beni, di impresa familiare, nonché (19° comma) in materia di alimenti, e quelle relative al fondo patrimoniale.
Il regime patrimoniale della famiglia, introdotto nel 1975 e invecchiato male, trova pertanto, con l’estensione alle unioni civili, una imprevista (e forse non meritata) “rivitalizzazione”.
L’equiparazione al matrimonio è piena anche quanto ai profili successori, come disposto (con tipica norma di rinvio) dal 21° comma.
Residuale, ma al contempo centrale nell’economia della legge, è poi la già richiamata disposizione di chiusura del 20° comma: «Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge».
E’ la clausola di equivalenza (o di salvaguardia) non solo terminologica, rivolta tanto ai giudici quanto alla pubblica amministrazione che – svolgendo una funzione palesemente antidiscriminatoria – assicura, almeno tendenzialmente, l’equiparazione nei più svariati ambiti tra matrimonio e UC.
L’inciso iniziale – introdotto in sede parlamentare – verosimilmente dovrebbe avere la funzione di limitare la portata della clausola, ma così non è: quale che sia stata l’intenzione del legislatore, non vi è nulla di giuridicamente rilevante al di fuori della tutela dei diritti e dell’adempimento dei doveri (gli uni e gli altri da intendersi nella più ampia dimensione giuridica), oltretutto nella loro dimensione effettuale.
L’ambito di operatività del 20° comma è quindi amplissimo: si estenderanno così, alle parti delle unioni civili che - lo si ricordi - costituiscono una famiglia, tutte le disposizioni (non solo di rango legislativo), relative ai coniugi, ad es. quelle processuali civili, ma anche quelle in materia di agevolazioni tributarie, o edilizie, di immigrazione, nonché quelle previdenziali, anche quanto alle pensioni di reversibilità.
L’equiparazione in oggetto è certo scalfita dalla singolare esclusione, dalla operatività della clausola, delle norme del codice civile non richiamate.
Si tratta di una previsione, essa sì, eccezionale, e di stretta interpretazione, dettata da ragioni soprattutto politiche: in ogni caso, e come già detto, non è esclusa la applicazione almeno analogica delle disposizioni non richiamate del codice civile, a fronte di lacune non colmabili altrimenti, e fonti di possibili incostituzionalità.
Il non regime delle adozioni.
Il comma 20 esclude dalla applicazione della cd clausola di equivalenza (cfr CASABURI, Le unioni civili, cit., § XII), anche quelle della l. 1841983 sulle adozioni.
Alla base di una tale chiusura, evidentemente, vi sono ragioni politiche (connesse alla composita maggioranza parlamentare che ha approvato il testo finale) che qui non interessano, nonché il timore che, attraverso l’adozione speciale, si desse spazio a forme di riconoscimento (indiretto) di maternità surrogata (cui, nella realtà, fanno ricorso soprattutto coppie eterosessuali).
E’ venuta così meno la disposizione del d.l. che consentiva alle parti dell'unione civile l’adozione speciale, ex art. 44, l. b) legge adozioni, quindi l’adozione del figlio del partner.
Si tratta di una omissione criticabile, perché a danno di figli minori che, comunque, già vivono e crescono in famiglie omogenitoriali; l’omissione oltretutto potrebbe avere anche pesanti ricadute innanzi alla Corte di Strasburgo, cfr Corte eur. diritti dell’uomo 19 febbraio 2013, Foro It., Rep. 2013, voce Diritti politici e civili, n. 179.
La legge, tuttavia, contiene una (pur anomala ed ambigua) apertura o meglio una “non chiusura”: infatti il 20° comma cit., subito dopo il divieto di applicazione della legge adozioni alle coppie unite in unione civile, afferma che «Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti».
Si tratta di una sorta di clausola di salvezza, volta a consentire, o meglio a non impedire, il consolidamento di un orientamento giurisprudenziale manifestatosi di recente, essenzialmente presso gli uffici giudiziari minorili romani, che appunto ha aperto alle coppie omosessuali l’adozione in casi particolari di cui all’ art. 44, 1° comma, lett. d), l. 1841983 cit., cfr App. Roma App. Roma 23 dicembre 2015, Foro It., 2016, I, 699
Lo scioglimento dell’unione civile
La fattispecie tipica (se non naturale) di scioglimento dell’unione civile, è la morte di una delle parti, espressamente prevista dal comma 22 (in termini con l’art. 149, 1° comma c.c.), a conferma della stabilità “matrimoniale” dell’istituto.
Alla morte è equiparata la dichiarazione di morte presunta di una delle parti.
Interessa però soprattutto lo scioglimento “patologico” dell'unione civile, in vita di entrambi i contraenti.
Il decreto legge – e rappresentava il profilo forse di maggiore vicinanza tra unione civile e matrimonio – estendeva tout court alla prima la normativa su separazione e divorzio.
Tale assetto, forse proprio in ragione della fortissima portata simbolica, non è stato però conservato nella versione definitiva della legge.
Il legislatore, in un’ottica di massima semplificazione del regime di scioglimento, ha soppresso ogni riferimento al regime della separazione legale (consensuale o giudiziale che sia).
Si tratta di una scelta sicuramente apprezzabile, in quanto più moderna, duttile e rapida rispetto alla vetusta disciplina matrimoniale (che ancora prevede, nella maggior parte dei casi, la necessità della separazione legale, quale presupposto per il divorzio).
Le parti dell’unione civile, in caso di crisi irreversibile, non avranno altra scelta che il divorzio; non vi è però un rinvio tout court alla legge 8981970 e successive modifiche, ma solo ad alcune (pur centrali) disposizioni di quest’ultima.
La legge distingue, inopportunamente, due macrofattispecie ricorrendo le quali può chiedersi il divorzio.
La prima (23° comma), di carattere obiettivo, ricomprende i «casi previsti dall’art. 3 n. 1) e n. 2) lettera a), c), d) ed e)» della legge divorzio 8981970.
Si tratta delle fattispecie, connesse a pronunce penali (ma anche di divorzio conseguito all’estero), e di rara verificazione, di “divorzio immediato”, senza cioè il decorso del periodo di separazione legale, di cui all’art. 3, 1° c., n. 2 b) legge cit.
La seconda macrofattispecie, eminentemente soggettiva, è prevista dal 24° comma, secondo cui l'unione civile si scioglie «quando le parti hanno manifestato anche disgiuntamente la volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale di stato civile. In tal caso la domanda di scioglimento dell’unione civile è proposta decorsi tre mesi dalla data di manifestazione di volontà di scioglimento dell’unione».
La dichiarazione di volontà rilevante ai fini dello scioglimento, quindi, può essere sia congiunta che unilaterale (quindi di carattere potestativo).
Beninteso è sufficiente, ai fini del divorzio, la dichiarazione anche solo di una delle parti: l’avverbio disgiuntamente deve interpretarsi in tale senso, e non in quello che, ai fini del divorzio, sarebbero comunque necessarie le dichiarazioni (quindi il consenso) dell’uno e dell’altro, pur se espresse in momenti diversi (una siffatta lettura renderebbe sostanzialmente indissolubile l’unione civile, in mancanza di accordo, e al di fuori delle residuali e rare fattispecie di cui al 23° comma, il che, ovviamente, non si configura neppure con riferimento al matrimonio).
Non deve sfuggire (a conferma della pessima tecnica legislativa) che l’amplissima fattispecie del 24° comma cit., rende superflua quella di cui al 23° comma.
Oltretutto la previsione del termine di tre mesi (di cui al 24° comma) non integra una condizione di proponibilità o di procedibilità della domanda: ne segue, nel silenzio della legge, che l’omissione della dichiarazione (ovvero la proposizione dell’azione prima del decorso del trimestre) non dovrebbe avere (al di là delle intenzioni del legislatore) alcuna incidenza processuale.
Quanto al rito, vi è un pressoché integrale rinvio a quello divorzile (si applicano infatti, in forza del comma 25, gli art. 4 e 5, di quest’ultimo i commi 1 e da 5 a 11) della legge div. (trovano anche opportuna applicazione i procedimenti semplificati - anzi, non giurisdizionali - di cui agli artt. 6 e 12 del d.l. 1322014, conv. in l. 1622014, quindi la negoziazione assistita e il divorzio innanzi al sindaco quale ufficiale di stato civile).
Troverà poi integrale applicazione (anche quanto alle garanzie) il fin troppo rigido regime della solidarietà postconiugale, e quindi la parte economicamente più debole, ricorrendo le condizioni di cui all’art. 5 l. div. cit., avrà diritto all’assegno divorzile.
Rettifica di attribuzione di sesso, matrimonio, unione civile, divorzio, matrimoni stranieri
Il 27° comma regola la fattispecie, certo rarissima, di “conversione” del matrimonio, sciolto in conseguenza della rettificazione del sesso di uno dei coniugi, in unione civile.
La legge qui assolve a quanto prescritto da Corte Cost. 1702014 cit.
Vi è però anche l’ipotesi opposta, quella della rettificazione di attribuzione di sesso di una delle parti dell’unione civile; in tale ipotesi il 26° comma prevede lo scioglimento automatico dell’unione stessa, e non la conversione in matrimonio.
La legge ancora prevede, non discostandosi dal disegno di legge la delega al Governo per il riordino e l’adeguamento della legislazione vigente, cfr. co. 28-31.
In particolare il 28° comma, b) prevede la delega anche per la modifica ed il riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato, prevedendo «l’applicazione della disciplina dell’unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo».
L’obiettivo è quello di risolvere autoritativamente la questione del riconoscimento dell’efficacia, nel nostro Paese, degli atti di matrimonio contratti all’estero, dove è consentito, da coppie omosessuali.
La giurisprudenza prevalente esclude tale riconoscimento, cfr in ultimo App. Milano 9 novembre 2015, id., 2016, I, 296; 10 dicembre 2015, ibid., I, 338 (ma contra App. Napoli 8 luglio 2015, ibid., I, 297, nonché Trib. Grosseto 26 febbraio 2015, ibid., I, 297) .
Le parti potrebbero però non accontentarsi della conversione in unione civile del loro matrimonio straniero, insistendo per la trascrizione tout court di tale atto.
La giurisprudenza potrebbe allora affrontare la questione su basi nuove, considerato che è ormai la stessa legge italiana a riconoscere la giuridicità delle unioni omosessuali (sia pure sotto forma di unioni civili), sicché potrà essere difficile continuare a negare qualunque effetto giuridico al matrimonio omosessuale straniero (specie poi quanto ai matrimoni contratti in Paesi dell’Unione europea (importa poco se da italiani o altri cittadini dell’Unione).
[1] Cfr sulla nuova legge, anche per ulteriori riferimenti, CASABURI- GRIMALDI (a cura di), Unioni civili e convivenze: la nuova legge Pisa, 2016, in particolare gli interventi di CASABURI (unioni civili), GRIMALDI (adozioni) BONA (convivenze).