- Ordinanza del Tribunale di Milano, R.G. n. 44718/2017
- Decreto del Tribunale di Napoli, XIII Sez. civile, n. 3931/2018
Benché l’Unione europea non abbia provveduto ad un’armonizzazione complessiva delle regole processuali nazionali né disponga di una competenza generale per realizzarla, il diritto dell’Unione incide tuttavia su vari aspetti di tali regole, limitando – talora in modo anche assai rilevante – la discrezionalità del legislatore nazionale. Le condizioni poste dal diritto dell’Unione si declinano in una pluralità di principi, di diversa origine e con vari effetti, tutti menzionati e analizzati nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale del Tribunale di Milano qui commentata, ricchissima sia di riferimenti alla giurisprudenza europea, sia di rilievi problematici e di ipotesi ricostruttive.
La enunciazione di requisiti ai quali le regole processuali nazionali devono conformarsi quando esse sono applicate rispetto al diritto dell’Unione converge verso il fine di assicurare la tutela giurisdizionale effettiva, e ha il suo fondamento, in definitiva, nell’esigenza che le normative europee siano rispettate negli ordinamenti interni. Sarebbe infatti incongruente rispetto al principio del primato se venissero adottate normative dell’Unione aventi forza vincolante senza che, in relazione ad esse, fosse garantita un’adeguata tutela giurisdizionale: ne deriverebbe, da un lato, una facile via aperta agli Stati membri per sottrarsi al rispetto del diritto dell’Unione e, d’altro lato, un pregiudizio per le persone fisiche e giuridiche che dall’applicazione di tali normative dovrebbero trarre vantaggio. Con il Trattato di Lisbona, l’obbligo degli Stati membri di stabilire «i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione» è stato enunciato dall’art. 19 TUE; tale obbligo, dunque, trova ormai un sicuro fondamento in una disposizione espressa del Trattato sull’Unione europea che ha provveduto a codificare la giurisprudenza della Corte di giustizia avvalorando, così, la continuità con gli orientamenti da questa in precedenza accolti.
La pluralità di fonti rilevanti, la frammentarietà della disciplina settoriale posta dagli atti normativi e il carattere prevalentemente giurisprudenziale dei vincoli posti al legislatore nazionale rendono difficile una definizione generale e aprono perciò dubbi interpretativi che ben si riflettono nell’ordinanza commentata. Il rinvio pregiudiziale è, in questi casi, uno strumento particolarmente prezioso – ed opportunamente attivato dal Tribunale di Milano – per sollecitare un chiarimento da parte della Corte di giustizia e per evitare soluzioni non uniformi. Inoltre, se è vero che il carattere vincolante della decisione resa in via pregiudiziale dalla Corte di giustizia sussiste, guardando al dato letterale dell’art. 267 TFUE, solo nei confronti del giudice che ha posto la domanda (e per gli altri gradi di giudizio del medesimo procedimento), tuttavia in concreto il principio interpretativo enunciato dalla Corte acquista rilevanza per qualsiasi altro giudice chiamato ad applicare la norma interpretata, ferma restando la facoltà di proporre una nuova domanda in via pregiudiziale. La risposta della Corte costituirà, perciò, un punto di riferimento per le altre giurisdizioni che si trovino a dover applicare la medesima norma interna la cui compatibilità con il diritto dell’Unione è stata messa in dubbio. Altri giudici nazionali potrebbero porre alla Corte analoghe questioni, eventualmente individuando ulteriori argomenti o elementi nuovi; in tale ipotesi la Corte potrebbe, se del caso, stabilire, su decisione del suo presidente, di riunire i procedimenti in conformità al regolamento di procedura. Occorre peraltro considerare che, se la Corte accetterà la richiesta di procedura di urgenza proposta dal Tribunale di Milano, la decisione interverrà nel giro di pochi mesi (nel 2017 la durata media dei procedimenti di urgenza è stata di 2,9 mesi).
Elemento centrale della domanda – articolata in due diversi quesiti − posta dal Tribunale di Milano è determinare se il diritto dell’Unione implichi di per sé, in certe condizioni, l’esigenza di un effetto sospensivo automatico della decisione di rigetto del ricorso contro un provvedimento di diniego della protezione internazionale. Più precisamente, si chiede alla Corte di chiarire se il diritto dell’Unione imponga che il mezzo di impugnazione «abbia automaticamente effetto sospensivo»; oggetto del procedimento è, infatti, la domanda del ricorrente volta ad ottenere il ripristino dell’effetto sospensivo del provvedimento adottato dalla commissione territoriale, ciò al fine di poter soggiornare in Italia fino all’esito del ricorso in Cassazione. La seconda parte della questione attiene in modo più specifico alle regole ora vigenti nell’ordinamento italiano, sollecitando la Corte a fornire gli elementi necessari a valutare se il diritto dell’Unione osti ad una procedura in cui l’autorità giudiziaria può rifiutare l’istanza di sospensione della decisione basandosi unicamente sulla fondatezza dei motivi di ricorso e non sul rischio di un danno grave e irreparabile [1]; tale procedura determina infatti, in sostanza, una situazione nella quale la valutazione di fondatezza del ricorso in Cassazione è effettuata da parte dello stesso Tribunale (verosimilmente talora composto dai medesimi giudici) che in primo grado ha rigettato il ricorso contro il provvedimento di diniego del riconoscimento.
La questione posta alla Corte di giustizia trae origine dalle modifiche introdotte dal decreto-legge 13/2017 convertito nella legge 46/2017, che ha, tra l’altro, abolito il grado di appello rispetto alle decisioni di diniego della protezione internazionale (per cui, a seguito della decisione in primo grado del Tribunale è ora proponibile solo il ricorso per Cassazione), ed ha escluso l’effetto sospensivo automatico in caso di rigetto del ricorso «con decreto, anche non definitivo» del Tribunale. Tuttavia, delineando un istituto con carattere di specialità rispetto al regime previsto in via generale dall’art. 373 cpc, si prevede che lo stesso giudice che ha emesso il decreto oggetto del ricorso in Cassazione possa, su istanza di parte, deciderne la sospensione degli effetti. Come ha chiarito la Corte di cassazione evidenziando le differenze tra il regime precedente (fondato sul decreto legislativo n. 150 del 2011) e quello vigente instaurato in base alla legge n. 46 del 2017, ora «la cessazione dell’effetto sospensivo si verifica sempre in caso di rigetto del ricorso con decreto del tribunale anche non definitivo» [2]. Prescindendo da un esame degli aspetti relativi alla normativa italiana, sulla quale non ci si soffermerà in questa nota, si intende invece evidenziare come l’ordinanza del Tribunale di Milano faccia emergere la centralità che in relazione alle regole processuali nazionali può assumere il diritto dell’Unione nonostante la limitata armonizzazione normativa che a tale riguardo lo caratterizza.
Considerando anzitutto gli atti derivati dell’Unione, vi si riscontrano alcuni segmenti di regole processuali che non si inseriscono, però, come sopra ricordato, in un quadro organico e complessivo di armonizzazione. Così, nel settore che qui interessa, la direttiva 2013/32 sulle procedure di riconoscimento e revoca della protezione internazionale richiede agli Stati membri sia di riconoscere ai richiedenti il diritto all’assistenza legale «in ciascuna fase della procedura, anche in caso di decisione negativa» (art. 22), sia di autorizzarli (salvo alcune eccezioni elencate dal par. 6) [3] «a rimanere nel loro territorio fino alla scadenza del termine entro il quale possono esercitare il loro diritto a un ricorso effettivo oppure, se tale diritto è stato esercitato entro il termine previsto, in attesa dell’esito del ricorso» (art. 46) sia, ancora, impone che i mezzi previsti negli ordinamenti nazionali abbiano alcune caratteristiche, in particolare assicurino l’esame «completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto … quanto meno nei procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado».
Certamente rispetto alla «direttiva procedure» del 2003, la nuova direttiva pone dei requisiti più dettagliati sul piano della tutela giurisdizionale; tuttavia, la tecnica seguita dal legislatore dell’Unione − per cui si stabiliscono alcune regole di rilevanza processuale senza provvedere all’armonizzazione dei mezzi di ricorso – porta a suscitare dubbi interpretativi nel momento in cui tali regole devono essere calate in ordinamenti nazionali profondamente differenziati (ciò spiega le ragioni dei numerosi rinvii pregiudiziali attualmente pendenti relativi alla interpretazione dell’art. 46 della direttiva) [4]. Basti considerare che poiché la direttiva non prevede che gli Stati membri debbano garantire il doppio grado di giurisdizione, appare incerto l’ambito applicativo delle regole che essa pone riferendosi all’obbligo di assicurare il «diritto a un ricorso effettivo», giacché tali regole non sono, in modo esplicito, limitate al solo primo grado di giudizio.
La mancanza di indicazioni espresse lascia spazio ad interpretazioni divergenti. Essa può essere intesa nel senso che i requisiti indicati dovrebbero applicarsi a tutti i mezzi di ricorso previsti negli Stati membri, andando così a sovrapporre, in modo trasversale, i principi enunciati dalla direttiva alla libertà degli Stati membri di definire gli strumenti di tutela appropriati. Il requisito del «diritto a un ricorso effettivo» deve essere accertato, infatti, guardando ai diversi strumenti di tutela giurisdizionale disponibili negli ordinamenti nazionali, considerando che tutti i mezzi previsti in uno Stato membro possono concorrere a garantire il carattere effettivo della tutela richiesto dalla direttiva. D’altra parte, la mancanza di precisazioni lascia aperta la possibilità di sostenere che le regole poste dall’atto non siano applicabili in un’area che si colloca in uno spazio discrezionale degli Stati membri; tale ragionamento è prospettato dall’avvocato generale Bot nelle conclusioni del 4 gennaio 2018, cause C‑175/17 e C‑180/17, secondo il quale «il diritto a un secondo grado di giudizio dipende … unicamente dalla procedura prevista dal diritto interno e, a fortiori, non potrebbe ritenersi che tale diritto a un ricorso di impugnazione debba necessariamente essere provvisto di un effetto sospensivo automatico» [5]. In ogni caso, non può trascurarsi che, come nota l’avvocato generale Mengozzi nelle sue conclusioni del 17 maggio 2018 scorso (nella causa C‑585/16, Serin Alheto), l’art. 46 della direttiva 2013/32 «traduce un mutamento di prospettiva, che riflette peraltro il diverso livello di armonizzazione dei due atti». È, infatti, opportuno ricordare che prima del Trattato di Lisbona il potere normativo dell’Unione si traduceva in materia di asilo nella adozione di «norme minime», mentre l’attuale competenza a stabilire un sistema comune di protezione internazionale si può riflettere anche sugli aspetti relativi ai mezzi di tutela. Ciò potrebbe determinare, non solo a motivo del contenuto più dettagliato della nuova disposizione ma anche in applicazione del criterio teleologico, un orientamento interpretativo, da parte della Corte di giustizia, non coincidente con quello accolto in relazione alla precedente direttiva e perciò rafforza l’opportunità del rinvio pregiudiziale.
A quanto previsto dalla normativa di settore si aggiungono i criteri enunciati in via generale dalla Corte di giustizia che ha elaborato, in una giurisprudenza ormai risalente, due principi – equivalenza ed effettività − alla luce dei quali essa valuta le norme processuali nazionali, «compensando» così la frammentaria (o inesistente) armonizzazione normativa. Secondo lo schema accolto dalla Corte, l’ambito applicativo di tali principi è correlato al raggio d’azione del diritto dell’Unione, secondo lo stesso criterio poi enunciato riguardo all’applicazione della Carta dei diritti fondamentali. Pertanto, negli ambiti interessati dal diritto dell’Unione, come è certamente quello della procedura di riconoscimento della protezione internazionale, la incompatibilità delle regole processuali nazionali con tali principi richiede, se il contrasto non sia superabile in via interpretativa, la «disapplicazione» della norma interna non conforme. Se, dunque, dalla pronuncia della Corte di giustizia resa in via pregiudiziale dovesse emergere il contrasto di alcuni aspetti della legge 2017/46 con (l’uno o l’altro di) tali principi, la regola incompatibile dovrebbe essere disapplicata dal giudice (oltre che palesare l’esigenza di una riforma legislativa).
Il principio di equivalenza impone che i mezzi previsti per la tutela di situazioni soggettive conferite dal diritto dell’Unione non siano meno favorevoli di quelli applicati per la tutela di situazioni analoghe conferite da norme interne; esso richiede una valutazione comparativa tra le caratteristiche dei mezzi di tutela posti a garanzia dei diritti garantiti da normative nazionali e di quelli attribuiti (in modo diretto o indiretto) dal diritto dell’Unione rispetto a situazioni analoghe. Nel caso considerato, il termine di paragone è opportunamente individuato dal Tribunale di Milano, che fornisce alla Corte l’elemento di comparazione evidenziando come l’art. 373 cpc ponga quale unico requisito il rischio di un danno grave e irreparabile senza che sia dato rilievo all’elemento della fondatezza del ricorso. La valutazione della Corte si rivolge, sulla base delle domande in via pregiudiziale proposte, in primo luogo a valutare se vi sia una effettiva analogia tra i mezzi che vengono posti a raffronto, e poi se la comparazione riveli un reale trattamento meno favorevole [6].
Uno spazio discrezionale più ampio caratterizza la valutazione fondata sul criterio della effettività, che porta la Corte a svolgere uno scrutinio delle normative nazionali sotto il profilo della loro adeguatezza ad assicurare la tutela giurisdizionale effettiva; secondo la formula consolidata nella giurisprudenza, i criteri e le condizioni della normativa nazionale non devono rendere impossibile o eccessivamente difficile la tutela [7]. Certamente gli elementi di politica legislativa non sono estranei alla valutazione della Corte, che tiene conto delle ragioni delle scelte legislative nazionali. L’esigenza di accelerare il procedimento in materia di protezione internazionale, se senza dubbio può costituire una ragione ammissibile di scelte legislative, deve però essere bilanciata con il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva, oltre che superare il vaglio della proporzionalità. L’ancoraggio del principio di effettività al diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale effettiva è un elemento rilevante di valutazione proposto alla Corte di giustizia dalla ordinanza di rinvio del Tribunale di Milano. Si può a questo riguardo considerare come in relazione ai cittadini dell’Unione che siano oggetto di una misura di allontanamento la direttiva 2004/38 consenta agli Stati membri, a certe condizioni, di «vietare la presenza dell'interessato nel loro territorio per tutta la durata della procedura di ricorso», ma, in virtù della esigenza di garantire la tutela giurisdizionale, precisa che gli Stati membri «non possono vietare che [il cittadino] presenti di persona la sua difesa» (art. 31). In quanto tale regola dà espressione a un diritto fondamentale, essa deve nello stesso modo essere declinata nei confronti del cittadino di uno Stato terzo richiedente protezione, riguardo al quale, tuttavia, la possibilità di un rientro per motivi di giustizia appare il più delle volte, in ragione di circostanze oggettive, una eventualità solo teorica. In una visione pragmatica, il carattere effettivo della tutela potrebbe tenere in considerazione elementi di natura soggettiva o collocarsi in una logica che valorizzi la «utilità» concreta che la decisione potrebbe assumere; in linea generale, sia la Corte di giustizia sia la Corte europea dei diritti dell’uomo seguono, del resto, un approccio volto a considerare la effettività della tutela dando rilievo ad elementi di carattere eminentemente pratico piuttosto che a quelli di natura meramente formale.
Sul piano della tutela dei diritti fondamentali la questione si sposta (anche) su un diverso profilo − riguardo al quale il principio applicabile presenta contorni ben più definiti − che è quello relativo al rischio che il richiedente potrebbe correre in caso di rimpatrio; una rilevanza determinante assume, infatti, nello stabilire se debba essere garantito allo straniero il diritto di soggiorno fino all’esito di una decisione definitiva, il divieto di espellerlo verso uno Stato in cui vi è il rischio che subisca trattamenti inumani o degradanti. Come chiarito dalla Corte nella sentenza nel caso Tall (17 dicembre 2015, C-239/14) «un ricorso deve necessariamente rivestire un effetto sospensivo quando è proposto contro una decisione di rimpatrio la cui esecuzione può esporre il cittadino interessato di un Pese terzo a un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti disumani o degradanti, garantendo così, nei confronti di tale cittadino di un Paese terzo, il rispetto dei requisiti degli articoli 19, paragrafo 2, e 47 della Carta». Tale orientamento esprime, coerentemente con il criterio interpretativo dell’art. 52 par. 3 della Carta dei diritti fondamentali, un principio riconosciuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo; questa ha infatti dichiarato [8] che, data l’importanza che la Corte attribuisce all’art. 3 della Convenzione europea e considerando «the irreversible nature of the damage which may result if the risk of torture or ill-treatment materialises», l’art. 13 della Convenzione «requires that the person concerned should have access to a remedy with automatic suspensive effect» (par. 66).
Vengono quindi in considerazione due elementi al fine di stabilire se debba essere prevista la sospensione della decisione di diniego della protezione in attesa dell’esito del ricorso. La eventualità del rischio, che non è esclusa neppure nel caso di domande ripetute di protezione (come risulta dalla stessa sentenza Tall), e le conseguenze riguardo al soggiorno derivanti dalla cessazione della sospensione. A quest’ultimo proposito, in una recente pronuncia della grande sezione, resa successivamente alla ordinanza di rinvio in commento (19 giugno, Gnandi, causa C-181/16), la Corte di giustizia ha affermato che al fine di stabilire se possa essere adottata una decisione di rimpatrio a seguito del rifiuto di una domanda di protezione internazionale occorre considerare se il cittadino si trovi in una situazione di soggiorno irregolare ai sensi della direttiva rimpatri 2008/115 (par. 38). La Corte distingue tra l’ipotesi in cui il ricorso concerna una decisione di rimpatrio – e, in tal caso, il ricorso deve produrre «pieni effetti sospensivi, considerato che detta decisione è tale da esporre il cittadino medesimo al rischio di essere sottoposto a trattamenti contrari all’articolo 18 (…) ovvero (…) all’art. 19, paragrafo 2, della Carta» – e il caso in cui il ricorso sia proposto, invece, «contro la sola decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale» (par. 55). Il fondamento di tale distinzione è che quest’ultima decisione «non può (…) comportare, di per sé, l’allontanamento del cittadino di un Paese terzo di cui trattasi». Ciò si applica sia quando la decisione di rimpatrio «venga adottata contemporaneamente con il rigetto in primo grado della domanda di protezione», sia quando essa sia emessa «a seguito del rigetto della domanda di protezione internazionale, in un atto di natura amministrativa distinto e da parte di un’autorità differente» (par. 60); in tal caso, non è sufficiente che lo Stato si astenga dall’eseguire la decisione, ma è invece «necessario che tutti gli effetti giuridici di tale decisione siano sospesi» (par. 62). In questo paradigma interpretativo diventa un elemento determinante ai fini della decisione relativa alla sospensione la circostanza, in relazione anche alla direttiva rimpatri 2008/115, che la cessazione della sospensione e quindi il carattere provvisoriamente esecutivo della decisione in primo grado di rifiuto della richiesta, determini l’espulsione verso lo Stato in cui il richiedente possa subire trattamenti vietati dalla Carta (e dalla Cedu). Un elemento in questo senso emerge dalla ordinanza del Tribunale di Milano nella parte in cui si chiede di utilizzare il procedimento di urgenza affermando che il ricorrente, a seguito della decisione di rigetto della sua richiesta in primo grado, «può essere espulso in ogni momento dal territorio italiano verso il Paese d’origine ed ivi essere esposto ad un serio rischio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti disumani o degradanti». Se la prospettiva della espulsione conseguente alla cessazione della sospensione sia tale da poter integrare il requisito indicato dalla Corte è uno degli elementi di dubbio che rafforzano la utilità del rinvio pregiudiziale.
[1] In applicazione di tale norma si veda il decreto del Tribunale di Napoli qui pubblicato nel quale, premesso come «il giudice di primo grado, investito dell’istanza di sospensione, debba procedere ad una valutazione evidentemente sommaria e cautelare in ordine alla verosimiglianza dell’accoglimento del ricorso da parte della Corte di cassazione», si conclude che non sussistano fondati motivi per accogliere l’istanza. Riguardo «alla situazione attualmente caratterizzante la Nigeria, paese di provenienza del ricorrente», il Tribunale afferma che esso «non può che richiamarsi alla motivazione del decreto di rigetto»; ciò evidenzia come la nuova normativa porti verosimilmente a far coincidere la valutazione di fondatezza con quella già espressa dal medesimo organo giudiziario.
[2] Cass., Sez. sesta civile, ordinanza n. 699 del 12 gennaio 2018 e, tra le varie decisioni, Cass., Sez. sesta civile, n. 9357 2018 nella quale il nuovo regime non era ancora applicabile ratione temporis.
[3] Le eccezioni, elencate in modo specifico e tassativo, si riferiscono ai casi in cui sia stata adottata una determinata decisione (come una decisione di rifiuto in quanto la domanda è ritenuta manifestamente infondata); in tali casi il giudice è comunque «competente a decidere, su istanza del richiedente o d’ufficio, se autorizzare o meno la permanenza del richiedente nel territorio dello Stato membro, se tale decisione mira a far cessare il diritto del richiedente di rimanere nello Stato membro e, ove il diritto nazionale non preveda in simili casi il diritto di rimanere nello Stato membro in attesa dell’esito del ricorso».
[4] Cfr. cause C‑585/16, C‑652/16, C‑56/17, C‑113/17, C‑556/17, C‑586/17, C-180/17. Sul carattere poco chiaro delle disposizioni della direttiva relative alla tutela giurisdizionale, anche sotto il profilo della terminologia utilizzata, vds. C. Favilli, L’Unione che protegge e l’Unione che respinge, in Questione Giustizia trimestrale, n. 2/2018, par. 5.2, http://questionegiustizia.it/rivista/2018/2/l-unione-che-protegge-e-l-unione-che-respinge-prog_532.php.
[5] È peraltro da segnalare una proposta di regolamento presentata dalla Commissione [COM(2016) 467 final, 13 luglio 2016, che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell'Unione e abroga la direttiva 2013/32/UE] che intenderebbe dettare norme assai più precise anche riguardo ai mezzi di ricorso, stabilendo i termini per l’impugnazione (art. 53), la durata massima del procedimento di primo grado (art. 55) e dedicando un articolo specifico all’effetto sospensivo della impugnazione, formulato, tuttavia, in modo non dissimile rispetto alla direttiva ora in vigore (art. 54); a tale ultimo riguardo si precisa che il «richiedente che impugna ulteriormente la decisione scaturita dalla prima o da ulteriore impugnazione non ha diritto di rimanere nel territorio dello Stato membro a meno che il giudice decida diversamente su istanza del richiedente o d'ufficio» (art. 54, paragrafo 5). Nella relazione che accompagna la proposta, si precisa, tuttavia, nello spiegare il contenuto dell’art. 54, che «come regola generale, affinché il richiedente possa esercitare il diritto a un ricorso effettivo, gli è permesso di rimanere nel territorio dello Stato membro fino alla scadenza del termine per la presentazione del ricorso nel primo grado d'impugnazione e, se esercita tale diritto, in attesa dell'esito del ricorso» (corsivo aggiunto). La sospensione è inoltre collegata al criterio del Paese di origine sicuro (art. 36).
[6] Lo schema interpretativo accolto dalla Corte risulta con chiarezza, tra le altre, dalla sentenza del 26 gennaio 2010 nella causa C-118/08, Transportes Urbanos.
[7] Riguardo ai termini per il ricorso, tale criterio è codificato dall’art. 46, par. 4 della direttiva procedure.
[8] Sentenza Gebremedhin v France del 26 aprile 2007, 25389/05; vds. anche Čonka v Belgium, del 5 febbraio 2002, 51564/99.