Una biografia atipica di una vittima del terrorismo. Una ricostruzione storiografica rigorosa e irrituale. Sono queste le definizioni che, fin dalle prime pagine, suggerisce la lettura del libro di Sergio Luzzatto Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa (edizioni Einaudi). Un bellissimo libro: non può non leggerlo chi, il 24 gennaio del 1979, giorno della morte di Guido Rossa, si interrogava sul destino del nostro paese, stretto da una emergenza terroristica sempre più grave; e osservava società e istituzioni, che apparivano spesso smarrite e non sufficientemente consapevoli di quale fosse la posta in gioco.
Giudizio, quest’ultimo, che -ad esempio- sembra appropriato se riferito al preside del liceo frequentato dall’Autore, all’epoca quindicenne: il quale, nel prologo, racconta che gli fu impedito, tre giorni dopo l’attentato, di partecipare alla manifestazione indetta dalle organizzazioni sindacali per dare l’ultimo saluto a Guido Rossa, operaio all’Italsider di Genova e sindacalista della Fiom-Cgil, ucciso dalle Brigate Rosse. Forse -a quel preside- sfuggiva che manifestare per difendere le libertà di tutti equivaleva (equivale) a difendere la democrazia; e che uno studente di liceo va formato alla difesa di questi valori, che ne faranno un cittadino in grado di scegliere il proprio futuro. Non capiva -pur essendo un educatore, dirigente di una scuola pubblica- che uno studente che, in quel gennaio del 1979, volesse testimoniare la propria volontà di difendere libertà, partecipazione e democrazia era uno studente determinato a contrastare le Brigate Rosse e il terrorismo di qualunque matrice, che avevano, invece, obiettivi opposti. Così, nelle poche pagine del prologo al suo libro, lo storico Sergio Luzzatto fotografa due tipi diversi di reazioni all’omicidio di Guido Rossa. Da un lato, quella di un’Italia superficiale o distratta, convinta che il terrorismo fosse solo un problema di ordine pubblico, come tale non richiedente, ai fini di un adeguato contrasto, l’impegno di società e istituzioni, anche diverse da polizia e magistratura. Dall’altro, quella dell’Italia migliore che, il giorno dei funerali, si ritrovò a Genova in piazza De Ferrari e nelle strade limitrofe, gremite di operai e delegati sindacali provenienti da tutto il paese, di gente comune, di studenti: i quali, come vide lo studente Luzzatto, tornato a casa, alla tv, e come lo storico Luzzatto ci ricorda nel suo libro, si strinsero – tutti - ai migliori tra gli uomini delle istituzioni dell’epoca, presenti sul palco della manifestazione, a partire dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Tutti usciti allo scoperto, per ribadire con forza il loro no alla violenza ed al terrorismo, e il loro sì ad una politica partecipata, sostanza della democrazia.
E così, ricostruendo due fatti accaduti contemporaneamente nella Genova medaglia d’oro al valor militare per la sua attività antifascista, Luzzatto ci introduce alla lettura della sua -particolarissima- biografia di Guido Rossa: e ci prepara a ricevere l’immagine di una vittima del terrorismo, almeno in parte, diversa da quella che ci aspetteremmo e da quelle -ispirate dalla retorica del sacrificio dell’eroe- alle quali siamo abituati, nel leggere le storie dei tanti caduti negli anni di piombo.
Di origine veneta (della val Belluna: “razza piave”), emigrato da piccolo a Torino con la famiglia, Rossa «non se ne era mai stato con le mani in mano. A quindici anni aveva cominciato a lavorare in fabbrica come meccanico, dai diciotto in poi si era affermato come uno scalatore tra i più forti della sua generazione, a ventidue aveva preso a lanciarsi col paracadute da alpino assaltatore, a venticinque era entrato a Mirafiori Sud per stampare lamiere da fresatrici…, a ventisette si era trasferito a Genova per ricominciare da padre di famiglia quale aggiustatore dell’Italsider, a ventotto era partito per conquistare un settemila in Nepal».
Due, quindi, le passioni alle quali Rossa destinerà straordinarie energie fisiche, mentali ed emotive: alpinismo e paracadutismo. Luzzatto vi dedica numerose pagine del suo libro, cogliendo in esse la cifra della sua persona, almeno nella giovinezza: qualcosa che comunque influirà, in termini tanto decisivi quanto originalissimi, sulle successive scelte della sua vita personale e lavorativa. Siamo negli anni 50 e 60, tra la Torino operaia e la Genova la cui vita economica molto deve all’industria pubblica. In Fiat, diversamente che nella piccola fabbrica nella quale aveva respirato l’aria di un capitalismo paternalistico (vi avevano trovato lavoro anche padre, madre e fratello), Rossa vive il conflitto di classe e si misura con i trasferimenti punitivi e i licenziamenti per rappresaglia che colpiscono i dipendenti iscritti alla Fiom-Cgil e militanti del Pci. A Genova percepisce «un fermento culturale e spirituale» nuovo (nelle arti figurative, nella musica, nel teatro, nell’esperienza delle comunità che nascono nel mondo cattolico e sono impegnate nel sociale), che lo coinvolge molto: sono gli anni di Papa Giovanni XXIII e di Kennedy; ma anche della protesta antifascista che, nel 1960, parte da Genova contro il tentativo del governo Tambroni, determinandone il fallimento. Non mancano, nella sua vita, dolori acuti e tragedie: alcuni compagni di scalata che non tornano; ma soprattutto la fine del figlio di due anni, avvelenato da una perdita di gas nella casa dei nonni. L’anno successivo (1962) nascerà Sabina, che accompagnerà un padre molto affettuoso, pronto a fotografare boschi e ponti, in lunghe passeggiate in Liguria e nel Veneto, fino alla vigilia della sua morte.
Dalla scalata in Nepal (Pronti per l’Himalaya aveva titolato Stampa Sera del 20 gennaio 1963; «La cima irraggiungibile» titola Luzzatto il capitolo che vi dedica) Rossa torna cambiato. Forse perché ha visto con i suoi occhi la miseria di tanti; forse anche perché ha avuto tanto tempo per riflettere. Lo conferma una sua lettera divenuta famosa, scritta nel 1970 ad un compagno di scalate, che la ritroverà dopo la morte dell’amico e la affiderà al Pci (Rossa vi si è iscritto nel 1967), che la pubblicherà (Chi era e per che cosa lottava Guido Rossa). Altrettanto, nel 2006, farà la figlia Sabina, inserendola nel suo libro Guido Rossa, mio padre. Conviene riportarne qualche passaggio, trattandosi di un documento eloquente, come riconosce Luzzatto, la cui valutazione, peraltro, è completa e quasi tutta condivisibile.
«Ottavio carissimo, l’indifferenza, il qualunquismo e l’ambizione che dominano nell’ambiente alpinistico in genere, ma soprattutto in quello genovese, sono tra le squallide cose che mi lasciano scendere senza rimpianto la famosa “lizza” della mia stagione alpina. Da ormai parecchi anni, mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici…l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza…che si contrapponga a quello quasi inutile (…) dell’andar sui sassi. Che ci liberi dal vizio di quella droga che da troppi anni ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti, sulle quali possiamo misurare il nostro orgoglio virile, il nostro coraggio, per poi raggiungere (…) un paradiso di vette pulite perfette e scintillanti…, dove per un attimo o per sempre possiamo dimenticare di essere gli abitanti di un mondo colmo di soprusi e di ingiustizie,…dove un abitante su tre vive in uno stato di fame cronica, due su tre sono sottoalimentati e dove su sessanta milioni di morti all’anno, quaranta milioni muoiono di fame…Per questo, penso, anche noi dobbiamo finalmente scendere giù in mezzo agli uomini a lottare con loro, allargando fra tutti gli uomini la nostra solidarietà che porti al raggiungimento di una maggiore giustizia sociale, che lasci una traccia, un segno…e ci aiuti a rendere valida l’esistenza nostra e dei nostri figli».
Luzzatto ammette che la lettura dell’originale della lettera lo ha emozionato. Ma ritiene che le sue «fortune postume…e il fatto stesso che sia diventata un oggetto di culto, rischiano di rendere a chi l’ha scritta un cattivo servizio», perché «alimentano una leggenda agiografica che vale a preservare, tutt’al più, il santino di Guido Rossa; mentre aiutano poco a far riconoscere in lui un personaggio complicato e travagliato, e perciò, storicamente, tanto più notevole. Del resto, è questo l’esito logico di un’ignoranza diffusa intorno alla vicenda biografica di Rossa: una delle numerose “vittime del terrorismo” (secondo la definizione che ha finito per imporsi nella storia, nella memoria, e perfino nella legislazione italiana) di cui non si è voluto ricostruire e ricordare altro che la morte, disinteressandosi della vita».
Forse non è esattamente così. Delle vite di (almeno) alcune delle vittime del terrorismo non ci si è del tutto disinteressati. Forse, in questo caso, Sergio Luzzatto ha ceduto alla sua appassionata intuizione di storico. Ma è fuor di dubbio che sia questo il tratto più originale della biografia di Guido Rossa scritta da Luzzatto: apprezzabile non solo per avere -egli- ricordato il suo sacrificio, ma anche per aver fatto conoscere una personalità complessa e, soprattutto, un percorso di maturazione culturale, ideale, emotiva ed esistenziale imprevisto e ignoto ai più. Un percorso che porterà Rossa a schierarsi nettamente e con piena consapevolezza nel contrasto al terrorismo e alla sua diffusione in fabbrica.
Rossa era stato eletto, per la prima volta, delegato di reparto della Fiom-Cgil «nell’inverno 1969-70». La sua attività sindacale e la sua militanza politica si svolsero, quindi, negli anni dell’avanzata del Pci. Della strategia del gruppo dirigente e del segretario del suo partito Enrico Berlinguer Rossa era un convinto sostenitore; altrettanto convinto era della necessità della classe operaia di «farsi egemonica», rifuggendo da ogni estremismo («il discorso infantile e semplicistico del “tutto o nulla”»). L’impegno per le battaglie sindacali dell’epoca, quali l’inquadramento unico ed il rinnovo contrattuale del 1972, non gli impediva di cogliere il rischio «che i dipendenti privilegiati per qualifiche, mansioni, trattamento economico, resistano alla prospettiva di perdere i propri vantaggi a beneficio dei dipendenti meno tutelati»; e che nella società italiana, si diffondessero «gerarchie di valori e…modelli di vita estranei a quelli storicamente condivisi dalla classe operaia». Dai suoi appunti trovati in una «cartellina marrone» che ha potuto consultare, e dalla diretta partecipazione alla manifestazione sindacale a sostegno della “svolta dell’Eur” e della linea sindacale di «contenimento dei salari, in cambio della promessa governativa di una tutela effettiva dell’occupazione», Luzzatto trae la conclusione che Rossa fu protagonista di una stagione sindacale e politica, i cui contenuti lo vedevano impegnato attivamente non per mera disciplina, ma per intima adesione.
Altrettanto può dirsi per l’impegno contro la diffusione del terrorismo, a partire dal suo luogo di lavoro. Per certi versi questo capitolo della sua biografia risulta il meno sorprendente, certa essendo la causa della morte. Guido Rossa fu ucciso la mattina del 24 gennaio 1979 da terroristi delle Brigate Rosse, seduto nella sua auto che avrebbe dovuto portarlo al lavoro. Nel volantino di rivendicazione si faceva riferimento esplicito alla sua testimonianza -risultata decisiva per la condanna- resa nel processo a carico di un dipendente dell’Italsider che aveva diffuso in fabbrica documenti delle BR. La linea del Pci, di assoluta intransigenza sul terrorismo di sinistra, ritenuto una forma di attacco alla democrazia del nostro paese, era da Rossa pienamente condivisa. Non solo. Esaminati documenti e dichiarazioni rese da compagni di partito dopo la sua morte, Luzzatto ci ricorda che egli svolgeva attività di vigilanza in fabbrica, cui seguivano informazioni al suo partito e -per il suo tramite, verosimilmente- agli organi investigativi. Rossa aveva capito che un pericolo di diffusione dell’eversione veniva anche dalla cosiddetta “zona grigia”, composta da persone che, senza una adesione formale alle organizzazioni armate, avevano atteggiamenti e comportamenti di indifferenza o complicità (ad esempio, rispetto alle attività di propaganda): tutto ciò, dopo anni in cui si erano diffusi slogan sbagliati rimasti famosi («sono fascisti mascherati»; «sono compagni che sbagliano», «né con lo Stato, né con le BR»), e in una Genova che aveva visto le BR alzare progressivamente il tiro (dal sequestro Sossi, al ferimento Castellano, agli omicidi Coco ed Esposito).
La testimonianza resa Guido Rossa la pagò cara, anche per la solitudine in cui si trovò. Fu Luciano Lama a dirlo con nettezza, nel ricordarlo dal palco della manifestazione svoltasi per i suoi funerali: «…se attorno a lui,…, noi tutti, a cominciare dagli operai dell’Italsider, fossimo stati un solo grande testimone schierato contro il nemico della democrazia, forse la vita di questo nostro compagno non sarebbe stata spezzata». Venti anni dopo la sua morte, un altro dirigente sindacale, Bruno Trentin, in un convegno svoltosi a Belluno, ricordò il suo rapporto personale con Guido Rossa, cementato anche dalla comune passione per la montagna. Ma, come ricorda Luzzatto, su di lui Trentin si era espresso anche l’anno prima, in una intervista oggi reperibile su YouTube. Rossa «era sembrato incarnare l’operaio nuovo, liberamente creativo e meravigliosamente fantasioso, che tanto a lungo il leader dei metalmeccanici italiani aveva accarezzato in sogno. Sicché la sua scomparsa,…, era vissuta da Trentin…non solo come la perdita di quell’uomo, ma come il risveglio da quel sogno».
E del resto l’impegno in fabbrica contro il terrorismo si accompagnava ad un’altra lucida consapevolezza, lasciata per iscritto in un appunto. Il suo contenuto, anche alla luce dell’attività sinergica di società e istituzioni, risultata carta vincente nel contrasto al terrorismo, ha i tratti di una lezione profetica sulla insufficienza -per la loro sconfitta- della sola repressione di certi fenomeni illegali di massa: «Non c’è vigilanza che tenga…La vera posta in gioco è la trasformazione democratica dello Stato: o ci muoviamo coerentemente a questo livello, o il terrorismo continuerà a trovare spazio…è qui, nello spazio che separa la classe operaia dallo Stato, che il terrorismo si insinua. Dobbiamo riempire questo spazio. Ed è questa in ultima analisi la forma più valida di vigilanza».
Guido Rossa fu ucciso perché aveva capito la fase storica che viveva il suo paese e ne aveva tratto le conseguenze, anche sul piano delle scelte personali. La sua vita, per certi versi insolita e affascinante, lo aveva portato a un passaggio, da lui affrontato con coraggio, e però foriero di conseguenze tragiche. Lo storico Sergio Luzzatto ci ha rivelato per intero il suo coerente percorso di vita.