Magistratura democratica
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I fiancheggiatori

di Pino Narducci
presidente di collegio, tribunale penale di Perugia

Il generale ha un collaudato rapporto di collaborazione con i magistrati torinesi. D’altronde, lui stesso piemontese, lavora a Torino da diversi anni, prima al Comando della I Brigata Carabinieri e poi, dalla primavera ’74, a capo del Nucleo speciale antiterrorismo, creato, in seno alla Brigata, dopo la conclusione del sequestro del magistrato genovese Mario Sossi.  

Ma, fuori dal territorio sabaudo, non sempre riesce a stabilirsi quella sintonia che, in Piemonte, ha permesso ai carabinieri ed alla magistratura di raggiungere risultati importanti nella attività di contrasto alle Brigate Rosse.

A Milano, il giudice istruttore Ciro De Vincenzo è titolare di indagini importanti, da quella sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli e sulle attività dei GAP (Gruppi Azione Partigiana) fondati dall’editore[1] alla inchiesta sulla colonna milanese delle Brigate Rosse che, solo alcuni anni prima, sono nate proprio a Milano, negli stabilimenti della Pirelli e della Sit-Siemens.

Il generale sospetta di lui: il magistrato ha favorito, durante l’istruttoria, i brigatisti Enrico Levati, Giorgio Semeria e Heide Peusch e gli ha anche passato notizie riservate sulle indagini in corso in Lombardia. 

Agli inizi del ’75, Carlo Alberto dalla Chiesa invia un rapporto al Procuratore Generale di Torino, Carlo Reviglio della Venaria[2], nel quale accusa il giudice istruttore milanese di essere un fiancheggiatore delle BR. Il rapporto finisce sul tavolo di Salvatore Paulesu, Procuratore Generale di Milano, ma, alla fine, la Corte di Cassazione stabilisce che sarà Torino ad indagare sul magistrato. 

La vita e la carriera di Ciro De Vincenzo saranno sconvolte dall’avvio della inchiesta penale e poi da quella disciplinare, vicende che si concluderanno definitivamente soltanto tre anni più tardi, nel marzo ‘78, con la sconfessione dell’accusa sostenuta dal generale[3].

Dopo essere divenuto coordinatore del Servizio Sicurezza della Direzione Generale degli istituti di prevenzione e pena, nell’agosto 1978 Carlo Alberto dalla Chiesa assume il comando dell’Ufficio di coordinamento e cooperazione nella lotta al terrorismo, concentrando nella sua figura poteri mai concessi in precedenza a nessun’altro. Devono far capo al generale tutte le forze di polizia impegnate nella lotta al terrorismo ed egli, generale di divisione dei carabinieri, non deve rispondere del suo operato al Comandante Generale dell’Arma, ma solo e direttamente al Ministro dell’Interno.

L’incarico terminerà molto presto, alla fine del ’79, e dalla Chiesa, durante il periodo di comando, trasmette a Virginio Rognoni due relazioni riservate che resteranno segrete sino al 2012, anno in cui avviene la declassificazione dei documenti[4].

La riservatezza delle note permette al generale di utilizzare un linguaggio ben diverso da quello che è tenuto ad osservare nelle comunicazioni ufficiali con le istituzioni. Soprattutto, dalla Chiesa può fornire informazioni ed esprimere valutazioni che non potrebbe mai affidare a documenti immediatamente conoscibili da tutti.    

Nella prima relazione, sui risultati conseguiti tra il 10 settembre 1978 e il 10 marzo 1979, può fare valutazioni ed avanzare proposte sulla magistratura che sarebbero indicibili in sede pubblica. L’affondo è durissimo: «…Non ci saranno risultati se la Magistratura (CSM) non allontanerà, senza complessi almeno dall’esercizio dell'azione penale o dall'istituto del “magistrato di sorveglianza”, quegli elementi notoriamente indicati, presso determinate Corti o Sezioni: quali extraparlamentari o comunque compromessi in loco per il loro stato di soggezione a collettivi forensi, di studio, per situazioni personali, ecc.; quali “acculturati” a tal punto da divenire espressione dialettica attiva, e talvolta di vera "prevaricazione" nei confronti di colleghi meno preparati o più esposti alle vendette dell'eversione; quali portatori - in veste di legalitari o garantisti - di "benevolenze" o "comprensioni" o "dilazioni" o "prescrizioni" o " concessioni" a detenuti pericolosi per l'eversione, ecc…».

Una fetta consistente di pubblici ministeri, giudici istruttori e magistrati di sorveglianza costituisce, quindi, uno dei principali fattori che ostacola la lotta al terrorismo. Ma non si tratta solo dei magistrati che simpatizzano, più o memo apertamente, per la sinistra extraparlamentare, ma anche, secondo il generale, dei garantisti o legalitari, quelli che applicano le ragioni del diritto e non la ragion di Stato, anche loro di intralcio alla lotta al terrorismo. Sorprendente è la categoria degli “acculturati”, quelli più preparati e con più spiccate doti intellettuali, anche loro sospetti e pericolosi.    

In un passaggio successivo della relazione comincia prendere forma la visione che il generale esporrà, compiutamente, nella seconda nota riservata: i ceti intellettuali e professionali del paese sono la linfa vitale che permette alle Brigate Rosse di crescere e radicarsi nella società: la platealità degli interventi delle BR «…ha fatto perno su molte componenti intellettuali che si sono trasferite dai banchi delle Università alle loro cattedre; molte facoltà, ad esempio, che hanno dato magistrati e medici a Genova, architetti a Torino, ecomomisti e sociologi a Genova, Milano, Padova, Cosenza, avvocati e insegnanti di Milano, Roma e Napoli».     

Poi, fornisce notizie sulle dinamiche esistenti negli uffici giudiziari bolognesi: «Alcuni di essi, anzi, assumendo atteggiamenti inquisitori e chiaramente di parte, hanno determinato, per le iniziative giudiziarie assunte, scoraggiamento e sbandamento in seno a qualche Reparto o tra elementi impegnati nell'assolvimento di compiti particolarmente ardui e difficili; sino a contenerne l'entusiasmo e a limitarne l'iniziativa. Il caso di maggior rilievo riguarda l'ambiente giudiziario di Bologna, ove taluni magistrati, oltre ad adottare provvedimenti contrastanti nei confronti di persone arrestate o fermate, per gli stessi motivi: hanno prima inviato comunicazione giudiziaria e poi emesso decreto di comparizione per arresto illegale ed abuso di potere nei confronti del Comandante di quel Reparto Operativo; Ufficiale già particolarmente esposto - come da documenti in atti - alle minacce dei gruppi eversivi; hanno insistentemente indagato per conoscere nominativi di componenti dei Reparti Speciali che, nello specifico caso, abbisognano di copertura. Il tutto ha creato scalpore anche perchè sono ben note, al di fuori degli ambienti giudiziari, le nette simpatie per l'estremismo esternate dal magistrato che ha promosso detto procedimento penale nei confronti dell'Ufficiale, e la comunanza politica che lo lega al Collettivo Politico Giuridico di Bologna, cui appartengono gli avvocati difensori degli imputati prosciolti». 

La vicenda evocata nella nota come prova dello “sbandamento” ideologico e professionale della magistratura è quella che, nel marzo ’77, coinvolge il capitano Nevio Monaco, comandante del reparto operativo carabinieri Bologna, ed altri sottufficiali dell’Arma nei giorni drammatici segnati dalla uccisione dello studente Francesco Lorusso e dall’arrivo dei blindati, inviati da Cossiga, che militarizzano il centro storico del capoluogo emiliano. Il sostituto procuratore Rubini ritiene che i carabinieri siano responsabili dei reati di falso in atto pubblico e arresto illegale in relazione ad un fermo di polizia avvenuto durante quelle giornate. L’indagine si chiude nel giro di pochi giorni, con un provvedimento di archiviazione siglato dal giudice istruttore il 1° aprile ‘77.    

Nella seconda relazione (sui risultati conseguiti tra l’11 marzo ’79 e il 10 settembre ’79) si innalza il livello di analisi politico-giudiziaria del generale sul mondo della eversione di sinistra e sui settori delle istituzioni che la sostengono. 

Carlo Alberto dalla Chiesa la scrive il 14 ottobre ’79, all’indomani di due operazioni giudiziarie che, a suo avviso, sono cruciali per comprendere la struttura delle formazioni eversive e definire l’identità di chi ha assunto il ruolo di comando.

A Padova, il 7 aprile ‘79, la magistratura ordina l’arresto di Toni Negri, di altri docenti dell’ateneo veneto e di numerose altre persone per il reato di partecipazione a banda armata e altri delitti[5].

Un mese dopo, a Genova, il 17 maggio ’79, i carabinieri arrestano il professore universitario Enrico Fenzi ed alcuni esponenti della Autonomia Operaia che gravitano nell’Università. Secondo dalla Chiesa, si tratta del primo duro colpo inferto alla colonna genovese delle BR[6]

I risultati di queste inchieste costituiscono la conferma della ipotesi che il generale ha maturato nel corso degli ultimi anni: si è realizzata una osmosi tra Autonomia Operaia Organizzata, le Brigate Rosse ed altre formazioni della lotta armata. Anzi, il ceto intellettuale che insegna nelle università rappresenta il “cervello pensante” di queste organizzazioni.    

Dunque, se la galassia della eversione di sinistra fa capo ai professori universitari, anche i simpatizzanti e i sostenitori non possono non appartenere al circuito delle “menti raffinatissime”.

Così, il nucleo centrale della nota, più che la parte dedicata alle BR e a Prima Linea, è il capitolo intitolato «Cenni sui fiancheggiatori e sulle azioni di supporto morale e operativo garantite alle organizzazioni eversive da parte di qualificati ambienti, quali: a) intellettuali e universitari; b) giudiziari; c) carcerari; d) forensi; e) industriali; f) amministrazione dello Stato; g) editoria e stampa».    

Secondo dalla Chiesa, quello giudiziario è il «settore nel quale l’Autorità Giudiziaria, chiamata a formalizzare ed a giudicare fatti terroristici ai quali deve essere attribuita rilevanza penale, è talvolta apparsa incerta tra l'applicazione rigida della norma penale e la creazione continua di un nuovo diritto…Un primo aspetto…è un certo lassismo od una certa sufficienza evidenziati proprio nella trattazione di crimini legati o derivanti da fatti eversivi…Il terzo aspetto è senza dubbio più delicato ed è anche quello che si è rivelato il più pericoloso. Ci si riferisce a quei magistrati che, permeati dallo stesso credo politico delle organizzazioni eversive o estremamente fragili - anche culturalmente - alle argomentazioni di "legali-complici", hanno derubricato reati, concesso libertà provvisorie, inflitto miti condanne in forza di attenuanti a volte speciose. Ci si riferisce a quei magistrati i quali, al riparo delle funzioni loro devolute dalle leggi dello Stato e forti di un supporto affidato o richiesto a " circoli ","comitati", "collettivi", ecc., hanno finito per far prevalere la loro ideologia politica, compiendo atti che si sono ben presto rivelati come veri e propri interventi a favore di indiziati di gravi reati (dichiaratisi "prigionieri politici"); di persone, cioè, che andavano invece inquisite nel più vasto contesto di una "società in pericolo", con maggior senso di responsabilità e, almeno, secondo la "lettera" della legge. Nel trascurare volutamente la citazione dei giudici aderenti a "Magistratura Democratica", già sottoposti a procedimento disciplinare da parte del C.S.M., basta citare l'emblematica posizione assunta dal Sostituto Procuratore della Repubblica di Milano, Dott. Antonio BEVERE; colui che dapprima si fece diligente nel mediare un incontro tra il capo carismatico di Organizzazione eversiva, quale il Prof. Toni NEGRI, ed un proprio collega in quel momento titolare di una inchiesta a carico della stessa organizzazione (il giudice ALESSANDRINI); che assunse, poi e pubblicamente, una posizione gravemente censurabile…»[7].

Nella visione del generale, gli avvocati che difendono gli imputati per fatti di terrorismo sono, in realtà, complici dei propri clienti e i magistrati che applicano le regole del diritto anche agli accusati della lotta armata sono favoreggiatori o, nella migliore delle ipotesi, fragili strumenti nelle mani di questi legali[8].

Su Magistratura Democratica non è necessario spendere molte parole perché, secondo il generale, è ormai a tutti chiaro che questo gruppo di giudici è contiguo alla eversione.  

Infine, di nuovo, l’ossessivo tema della talpa.

«Già sin dai tempi del sequestro del giudice DI GENNARO ad opera dei N.A.P. si è cominciato a parlare di infiltrazioni in seno al Ministero di Grazia e Giustizia e non soltanto perché il sequestrato era un magistrato, ma soprattutto per le precise contestazioni mosse alla vittima in sede di "interrogatorio proletario". Infatti, la specificità delle domande era evidentemente frutto di notizie precise e riservate, che solo una ristretta cerchia di persone gravitanti attorno al DI GENNARO poteva conoscere. Si deve in proposito rammentare che il funzionario non è stato scelto a caso come " astratto simbolo", ma come rappresentante di un organo dello Stato che aveva avuto una parte di rilievo negli studi relativi alla riforma penitenziaria, non condivisa pere) negli ambienti del terrorismo. Ed anche in occasione degli assassini dei magistrati PALMA e TARTAGLIONE e del criminologo prof. PAOLELLA, i terroristi hanno dimostrato di possedere un efficiente servizio informativo, frutto dell'opera di fiancheggiatori e di irregolari inseriti, a vari livelli, nelle strutture del Ministero di Grazia e Giustizia».

Il generale si spinge oltre, sino al punto di esternare anche i sospetti raccolti nel corso dell’attività svolta dal suo ufficio. Sospetti ed illazioni che lambiscono il “cuore dello Stato”: «…Illazioni, anche questa volta non confermate, hanno messo in risalto collegamenti o quanto meno silenzi, in seno al Consiglio Superiore della Magistratura, silenzio imposto da qualche suo componente collegato ideologicamente su posizioni della sinistra rivoluzionaria». 

L’accusa è clamorosa (le Brigate Rosse sono annidate anche all’interno del CSM), ma il generale non fornisce alcuna prova di quello che sostiene, pur essendo convinto che, a Palazzo dei Marescialli, operi almeno un fiancheggiatore delle BR. Non fa alcun nome, ma, in un organismo che, alla fine degli anni ’70, è ancora fortemente governato dai gruppi più conservatori, dalla Chiesa quasi certamente allude al gruppo di Magistratura Democratica[9].

La nota prosegue ed il generale, messe da parte le illazioni, si dice certo che nel CSM, già da alcuni anni, operi una talpa: «La gravità dell'enorme pericolo costituito dalla esistenza dei "fiancheggiatori" esistenti ed operanti attivamente in ambito ministeriale non può pertanto essere legata soltanto alla "Risoluzione Strategica nr. 5" delle B.R., ma assume chiari contorni anche quando nel noto covo di via Gradoli viene rinvenuto un documento, con data del 1976, nel quale viene presa in esame la struttura del Consiglio Superiore della Magistratura. Nel citato documento si afferma, infatti, che l’attività informativa nei confronti dei giudici non era stata "fino ad ora possibile" perché il Consiglio Superiore era rappresentato da un solo gruppo di potere (UMI) e quindi non rifletteva la complessa realtà delle Magistrature italiane. E più oltre si soggiungeva: "tale lavoro può incominciare da ora, partendo dal Consiglio Superiore fino a sviluppare un lavoro organico e complessivo su tutta la Magistratura". È evidente, quindi, che le B.R. sin dal 1976 hanno la possibilità di contare su "fonti di informazioni" nell'organo di autogoverno della Magistratura, possibilità poi attualizzata come conferma il ritrovamento in un "covo" N.A.P. di Ostia di una copia del "Ruolo di Anzianità dei Magistrati", contenente alcune annotazioni a fianco di giudici e funzionari in servizio al Ministero di Grazia e Giustizia»[10].

Ma non c’è solo la talpa che opera nell’organo di autogoverno dei magistrati. 

Il Ministero di grazia e giustizia e l’ambiente giudiziario romano, per forza di cose, ne hanno prodotto altre: «Il recente omicidio del Ten. Col. Antonio VARISCO ha vieppiù attualizzato il fenomeno delle infiltrazioni non solo al Ministero di via Arenula, ma anche nell'ambito del Palazzo di Giustizia romano. Si è così riparlato della "talpa" annidatasi negli Uffici del Ministero e di quelli della Magistratura della Capitale ed ancora una volta la stampa ha pilotato i sospetti dell'opinione pubblica verso funzionari e magistrati che, per ragioni ideologiche e per connivenze, possono aver fornito al commando B.R. notizie sull'Ufficiale, sui suoi spostamenti ed in ordine al proponimento di lasciare il servizio»[11].

In questo delicato passaggio della relazione dedicato agli omicidi di magistrati e funzionari con importanti incarichi nel Ministero di grazia e giustizia, il generale mette insieme vicende, che, per la diversità delle epoche in cui si consumano e per la differenza delle sigle che le realizzano, non possono in alcun modo ricondursi ad un disegno unitario.

Il sequestro del giudice Giuseppe Di Gennaro risale all’ormai lontano maggio ’75 e, nel ’79, l’organizzazione Nuclei Armati Proletari ha già cessato di esistere ed i suoi pochi componenti ancora liberi sono entrati nelle BR. Gli omicidi di Riccardo Palma (14 febbraio ’78) e Girolamo Tartaglione (10 ottobre ’78) sono realizzati dalla colonna brigatista romana. Ma il criminologo Alfredo Paolella viene ucciso, a Napoli (11 ottobre ’78), da un nucleo di Prima Linea[12].

Carlo Alberto dalla Chiesa possiede informazioni sulla organizzazione BR certamente superiori a quelle di qualsiasi altro investigatore dell’antiterrorismo. Tuttavia, egli ancora non conosce molti aspetti della struttura brigatista che emergeranno compiutamente solo a partire dagli anni ’80. 

Le Brigate Rosse hanno organizzato la propria attività creando i fronti, strutture intermedie tra la Direzione strategica e le colonne. Il fronte di lotta alla controrivoluzione, “la contro”, è il settore che si occupa della analisi delle forze della controrivoluzione: precipuamente, la magistratura, i carabinieri, la polizia, le carceri, i servizi di sicurezza ecc. Ed è proprio al lavoro di questo fronte che si devono i risultati raggiunti dalle BR nell’attacco a strutture e uomini delle istituzioni[13]

Nel 1980, quando ha già lasciato l’incarico di coordinatore della lotta al terrorismo, il generale colma un vuoto contenuto nelle sue note indirizzate al Ministro Rognoni. Aveva accusato pubblici ministeri, giudici istruttori e magistrati di sorveglianza, sempre trascurando i giudici dei Tribunali e delle Corti di Assise.

Ora quel vuoto può essere colmato.

A Genova, il 3 giugno 80, la Corte di Assise assolve, con formula piena, tutti gli imputati della indagine iniziata con gli arresti del 17 maggio ’79 ed alla quale il generale ha dato ampio risalto nelle relazioni riservate. 

Carlo Alberto dalla Chiesa, ora comandante la Divisione Interregionale Pastrengo, reagisce in modo veemente e, il 5 giugno ’80, sceglie una sede insolita per attaccare i magistrati genovesi. In una caserma milanese, dinanzi ai reparti schierati per commemorare il 166° anniversario dell’Arma, non usa giri di parole per commentare la sentenza: «Non passerà la prepotenza, non passerà la follia, non passerà il terrorismo né l’ingiustizia che lo assolve».  

Le relazioni riservate del ’79 ci restituiscono una immagine inedita del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. 

L’Ufficio Coordinamento e Cooperazione svolge, senza avere alcuna legittimazione, una attività di monitoraggio e raccolta di informazioni sulle opinioni dei giudici e sulle loro vite. I magistrati contro cui si scaglia il generale non possono essere accusati di aver commesso reati. Sono tuttavia colpevoli di esprimere idee e di esercitare la funzione giudiziaria in maniera dissonante dalla visione, autoritaria, che il generale ha della società e dei mezzi repressivi con i quali attuare il contrasto giudiziario ai fenomeni eversivi.    

Questa illegittima attività si accompagna alla formulazione, chiaramente impropria, debordante, di vere e proprie proposte reazionarie all’esecutivo in materie (dalla Chiesa, ad esempio, propone di non concedere le aule universitarie per convegni/dibattiti o di dichiarare decaduti gli studenti fuori corso dopo 2/3 anni) che nulla hanno a che fare con il tema della prevenzione/repressione del terrorismo[14].

Il ceto intellettuale rappresenta la insolubile ossessione del generale. 

Se le vere menti delle BR, come egli ritiene, sono gli intellettuali che provengono dagli atenei, di rango non minore devono essere i fiancheggiatori, ceto intellettuale delle varie professioni della amministrazione pubblica.  

La storia che emergerà negli anni ‘80/’90 si occuperà di smentire le ipotesi del generale.  

Le Brigate Rosse non furono mai dirette, palesemente o occultamente, da intellettuali o professori universitari, ma da operai, impiegati, artigiani, studenti, insegnanti che, sempre, costituirono l’ossatura della Direzione strategica, del Comitato esecutivo e delle direzioni delle colonne sino al 1981, anno in cui le BR cessano di esistere come organizzazione unitaria[15]

Le decine e decine di dissociati/collaboratori di giustizia provenienti dalle organizzazioni della lotta armata non smentiscono questa conclusione e, soprattutto, pur avendo fatto arrestare centinaia di persone, non hanno mai accusato membri del CSM, magistrati o figure di medio/alto livello del Ministero di grazia e giustizia.

Le idee e le proposte di dalla Chiesa sono, comunque, condivise dai settori moderati della classe politica e viaggiano sulle gambe di alcuni protagonisti della vita parlamentare.

Settori consistenti della Democrazia Cristiana ritengono, come il generale, che la magistratura rappresenti il “ventre molle” dello stato nella lotta alla eversione e, alla fine degli anni ’70, si spingono sin quasi al punto di invocare lo scioglimento di Magistratura democratica.    

Nel maggio ’77, il deputato democristiano Claudio Pontello ed altri parlamentari, rivolgendo una interrogazione parlamentare al Ministro di grazia e giustizia, affermano «Ciò che desta in noi gravi preoccupazioni è il fatto, più volte ripetutosi, di magistrati che si pongono ai limiti della legge…Penso alla maggioranza degli aderenti alla corrente di “Magistratura Democratica” che, a detta degli stessi magistrati di “Magistratura Indipendente”, vi è da chiedersi se, stante il comportamento tenuto, possano ancora rimanere nell’ordine giudiziario»[16].

Nel gennaio ’80, un gruppo di parlamentari democristiani capeggiato dal senatore Claudio Vitalone, già sostituto procuratore romano, esprime una adesione convinta alle idee di dalla Chiesa. Vitalone presenta al Senato una interpellanza in cui afferma che esiste un documento giudiziario che dimostra un collegamento tra alcuni giudici di Magistratura democratica e gruppi della eversione di sinistra. Sollecita l’avvio di procedimenti penali e disciplinari e chiede di disporre la immediata sospensione di questi magistrati dall’esercizio delle loro funzioni[17].

Alcuni mesi più tardi, a maggio, gli inquirenti arrestano una donna accusata di essere una militante della colonna romana delle BR.

È una ragazza di 23 anni, si chiama Alessandra De Luca, e, da qualche mese, lavora come coadiutrice presso la divisione affari penali della Procura Generale. Certo, ha passato informazioni ad alcuni militanti della colonna, ma la sua individuazione costituisce un risultato assai modesto rispetto alle elevate aspettative esposte nelle relazioni riservate del ‘78/79. 

L’impiegata non somiglia affatto al raffinato intellettuale che, secondo la visione del generale, annidato nello Stato, fornisce informazioni segretissime, indica gli obiettivi da colpire, ispira le azioni più sanguinose, tornando poi nell’ombra, al sicuro negli uffici delle istituzioni[18].

Troppo poco per fare di questa ragazza la “talpa eccellente” che il generale non riuscì mai a trovare.        

       

Nella foto, via Zamboni, Bologna, marzo ‘77

 

[1] Sulla attività politica dell’editore e sulla storia della struttura clandestina creata da Feltrinelli v. Davide Serafino, Gappisti. La rete clandestina di Giangiacomo Feltrinelli, 2023, DeriveApprodi.

[2] Il 9 maggio ’74, tre detenuti del carcere di Alessandria prendono in ostaggio 17 persone, civili e guardie carcerarie. Si intavolano trattative con i rapitori, condotte anche da magistrati della Procura di Alessandria, ma poi, improvvisamente, il 10 maggio, fanno irruzione nel carcere reparti dei carabinieri comandati dal generale dalla Chiesa. Il bilancio drammatico del blitz è di 4 ostaggi morti e 22 feriti. Durante l’operazione vengono uccisi anche due dei tre detenuti rivoltosi. Il Procuratore Generale di Torino Carlo Reviglio della Venaria avoca l’indagine, togliendola alla Procura di Alessandria. Così il magistrato, che evidentemente ha condiviso con il generale dalla Chiesa la decisione di intervenire militarmente, commenta l’operazione: «Non si poteva ammettere che lo Stato fosse ulteriormente calpestato perché casi del genere si sarebbero ripetuti all’infinito». Ancora oggi, a distanza di 50 anni da quegli avvenimenti, passati alla storia come la “strage di Alessandria”, permangono molti dubbi sulla versione ufficiale fornita sulla operazione e cioè che gli ostaggi sarebbero stati uccisi dai detenuti che li avevano sequestrati. 

[3] I reati contestati al giudice De Vincenzo sono quelli di rivelazione di segreto di ufficio, abuso di ufficio e omissione di atti di ufficio. L’indagine - iniziata nel marzo ’75 e condotta dalla Procura Generale di Torino diretta da Carlo Reviglio della Venaria – si chiude, il 26 marzo ’76, allorquando il giudice istruttore emette una sentenza con cui proscioglie il magistrato. Prende avvio allora il procedimento disciplinare che si conclude, il 10 marzo ’78, innanzi alla Sezione Disciplinare del CSM, con una sentenza che esclude tutti gli addebiti contestati a De Vincenzo. Nel ’79, Ciro De Vincenzo lascia la magistratura per divenire notaio.   

[4] Le due relazioni riservate possono essere consultate accedendo al Portale Storico della Camera dei deputati>Le inchieste>Rapimento e morte di Aldo Moro>Documenti versati all’Archivio storico disponibili on line. In particolare, si tratta dei documenti n. 14/20 e 14/21 del 3.12.2014 della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. Sviluppate in oltre 250 pagine, insieme a corposi allegati, le relazioni analizzano, essenzialmente, le formazioni Brigate Rosse, Prima Linea, Autonomia operaia organizzata e Azione Rivoluzionaria. Il generale coordina tutte le attività riguardanti il terrorismo italiano, ma le note contengono una vistosa omissione. Solo quattro pagine della seconda relazione sono dedicate ai Nuclei Armati Rivoluzionari ed alla eversione neofascista.

[5] Sulla operazione padovana v. Roberto Colozza, L’affaire 7 aprile. Un caso giudiziario tra anni di piombo e terrorismo globale, 2023, Einaudi Storia. Vedi, inoltre, l’intervento pronunciato da Giovanni Palombarini, giudice istruttore nella indagine condotta dal PM Pietro Calogero, su Il processo 7 aprile e il nodo del garantismo penale, nel corso della manifestazione per i 60 anni di Magistratura Democratica che si è svolta, a Roma, il 9 e 10 novembre 2024. Al momento, l’intervento di Palombarini, di imminente pubblicazione sul numero 4/2024 della rivista trimestrale Questione Giustizia, e anticipato in Questione giustizia online (https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-processo-7-aprile-e-il-nodo-del-garantismo-penale) può essere ascoltato su Radio Radicale.

[6] Sulla indagine e sul processo genovesi v. dell’autore Genova 79. I sovversivi, i brigatisti, i testimoni, pubblicato su Questione Giustizia, 17 ottobre 2023 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/genova-79).

[7] Il PM milanese Emilio Alessandrini viene ucciso a Milano il 21 gennaio ’79. Il 7 aprile ’79 avvengono gli arresti padovani di Toni Negri ed altri. Il 14 aprile ’79, il giornalista de l’Unità Ibio Paolucci, nell’articolo dal titolo Alessandrini indicò in Negri uno dei telefonisti delle BR,  rivela che, nell’aprile dell’anno precedente, il magistrato milanese si era incontrato, nel corso di una cena, con il docente padovano, incontro avvenuto su richiesta di Negri. Quando, in seguito, Alessandrini aveva ascoltato il colloquio telefonico avvenuto, il 30 aprile ’78, tra un brigatista e la moglie di Moro, il giudice milanese si era convinto che la voce del brigatista era quella di Toni Negri. Nelle giornate successive all’articolo di Paolucci salta fuori che, effettivamente, durante i giorni del sequestro Moro, si era svolta una cena a casa del sostituto procuratore milanese Antonio Bevere, aderente a Magistratura Democratica, alla quale avevano partecipato Alessandrini, Toni Negri e la giornalista de Il Manifesto Tiziana Maiolo. La Procura milanese avvia una indagine. La Maiolo e il compagno, il giornalista Stefano Menenti, vengono arrestati per il reato di falsa testimonianza perché sostengono di essere stati presenti alla cena, circostanza questa contraddetta, inizialmente, dalla moglie del giudice assassinato. Nel giro di pochi giorni si accerta che Maiolo e Menenti hanno raccontato la verità e i due giornalisti vengono scarcerati. L’episodio diventa l’occasione, anche attraverso una ossessiva campagna di stampa, per ipotizzare che, con la complicità di Bevere, Toni Negri abbia voluto “studiare” da vicino la vittima Alessandrini prima di farlo uccidere. Alla fine, l’inchiesta penale sulla cena a casa Bevere non produrrà risultati mentre emergerà processualmente che Emilio Alessandrini è stato ucciso da un nucleo di Prima Linea - composto, fra gli altri, da Sergio Segio e Marco Donat-Cattin – e che Toni Negri non ha svolto alcun ruolo nella ideazione ed organizzazione dell’agguato. Le investigazioni sulla vicenda Moro dimostreranno poi, spazzando via ogni dietrologia, che il brigatista che telefonò a casa Moro la sera del 30 aprile ’78 («…solo un intervento diretto, immediato, chiarificatore di Zaccagnini può modificare la situazione…») era Mario Moretti.

[8] Nel capitolo dedicato al mondo forense, dalla Chiesa dedica molte pagine agli avvocati di “Soccorso Rosso“ Edoardo Di Giovanni, Giovanna Lombardi, Edoardo Arnaldi e Sergio Spazzali che agiscono al fine di «offrire un supporto ideologico ed operativo alle organizzazioni eversive». L’avvocato Sergio Spazzali, processato insieme ai membri della colonna torinese BR accusati da Patrizio Peci, viene assolto dalla Corte di Assise di Torino il 17 giugno ’81, ma, in appello, la sentenza viene ribaltata e la condanna diventa definitiva quando il legale si è già rifugiato all’estero. Gli avvocati Edoardo Di Giovanni e Giovanna Lombardi, imputati per istigazione alla commissione di delitti di eversione, sono assolti con sentenza della Corte di Assise di Roma del 5 marzo 1981. L’avvocato Edoardo Arnaldi si toglie la vita nella sua abitazione di Genova, il 19 aprile ’80, mentre i carabinieri gli stanno notificando un mandato di cattura emesso dall’ufficio istruzione torinese sulla base delle accuse formulate da Peci. 

[9] Nella consiliatura 1976/1981, Magistratura Democratica è rappresentata nel CSM da Marco Ramat (uno dei fondatori del gruppo, segretario generale di MD dal ’72 al ‘76) e dal magistrato romano Michele Coiro.

[10] La risoluzione della Direzione strategica BR del febbraio ’78, che avvia la campagna di primavera, è un corposo e lunghissimo documento di analisi politica, anche delle istituzioni e della magistratura. Analisi politica, dunque, - non già documento che contiene informazioni riservate provenienti da ambienti istituzionali - nel quale le BR sostengono che il Consiglio Superiore della Magistratura, sulla scorta di un’azione congiunta del Ministro Bonifacio e del Vicepresidente Vittorio Bachelet, è diventato «il principale organo di controllo tra esecutivo e giudiziario». Sicuramente, il generale dalla Chiesa avrà prestato particolare attenzione a questo fugace passaggio contenuto nella risoluzione: «…è esemplare il provvedimento con cui il CSM esautora dalle loro funzioni alcuni giudici di sorveglianza, rei di aver applicato alcune norme della riforma penitenziaria in una chiave opposta a quella voluta dall’esecutivo. Ancor più pesante è l’iniziativa del vicepresidente del CSM Bachelet che, su direttiva di Bonifacio e del governo, incarica i procuratori generali di indagare sulle dichiarazioni politiche di appartenenti a “Magistratura Democratica” accusandoli di affermazioni in contrasto con l’ordine democratico». Una approfondita analisi della risoluzione è contenuta nel libro di Marco Clementi Storia delle Brigate Rosse, 2007, Odradek.

[11] La tesi del generale dalla Chiesa sarà smentita da Antonio Savasta, membro della direzione della colonna romana BR ed uno dei componenti del nucleo che uccide il Tenente Colonnello Antonio Varisco, comandante del Reparto Carabinieri Servizi Magistratura, il 13 luglio ’79, a Roma. Divenuto collaboratore di giustizia, ricostruisce dettagliatamente il delitto Varisco nel corso di una udienza che si svolge, il 28 aprile ’82, davanti la Corte di Assise di Roma. Senza aver fatto ricorso a talpe, le BR, sulla scorta di quello che accadeva nel corso dei processi che si svolgevano nell’aula bunker del palazzo di giustizia romano, avevano individuato in Varisco (responsabile delle “traduzioni e scorte”) uno dei principali responsabili di una linea repressiva che si manifestava non solo all’interno del circuito delle carceri speciali, ma anche in occasione dei dibattimenti, direttamente contro gli imputati, impedendo loro, ad esempio, di leggere comunicati e di esprimere le proprie posizioni durante le udienze processuali.

[12] Le sentenze definitive per gli omicidi dei magistrati Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione, uccisi dalle Brigate Rosse, accerteranno le responsabilità della colonna romana e stabiliranno che l’inchiesta e, successivamente, gli agguati furono condotti dai militanti del fronte della controrivoluzione. È utile segnalare una vicenda, molto poco conosciuta, che avviene tra l’ottobre e il dicembre ’79. I carabinieri del generale dalla Chiesa effettuano una operazione contro il comitato marchigiano delle BR. Una militante detenuta, Sabrina Pellegrini, rivela di essere stata la telefonista della rivendicazione del delitto Tartaglione ed accusa un’altra militante, Lucia Reggiani, di aver partecipato all’omicidio. La Reggiani, assistente sociale anconetana, dopo quello ricevuto per il reato di partecipazione a banda armata, viene subito raggiunta da un mandato di cattura per il delitto Tartaglione e la stampa nazionale, insistentemente, accredita l’ipotesi che sia proprio lei la talpa delle BR all’interno del Ministero di grazia e giustizia, anche se la donna, in realtà, non ha mai lavorato per il ministero. Nel giro di pochi giorni, la Pellegrini ritratta e dice di essersi inventata tutto. Lucia Reggiani non è la talpa a lungo cercata dagli inquirenti e viene scagionata da ogni accusa riguardante il delitto Tartaglione.

[13] Se il generale ritiene che le BR possano agire solo grazie a talpe annidate nelle istituzioni, in realtà, le notevoli capacità della organizzazione derivano da una struttura interna che svolge un lavoro, capillare e costante, di analisi e studio di organismi e personalità delle istituzioni. Per la magistratura, come per altri settori, si parte dalla raccolta, dal basso, di dati su convegni, singole figure di magistrati, posizioni ed opinioni espresse pubblicamente, specifica natura della attività giudiziaria svolta, ricorrendo a notizie giornalistiche nonché allo studio di riviste specializzate. Vengono redatte schede che vengono conservate dalla direzione di colonna e dal fronte nazionale di lotta alla controrivoluzione. Il fronte nazionale elabora un documento che offre alla discussione della organizzazione. Individuato un particolare obiettivo, l’inchiesta sul campo è affidata alla colonna che la porta a termine mediante una vera e propria indagine – fatta essenzialmente attraverso pedinamenti -  sulle abitudini di vita e sui movimenti sulla persona da colpire. 

[14] Sul “programma politico” del generale dalla Chiesa che invoca la adozione di misure restrittive nel campo civile e sociale v. Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elena Santalena, Brigate Rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Vol. I, 2017, DeriveApprodi.

[15] Nello stesso periodo in cui il generale sviluppa la propria tesi sul ceto intellettuale che dirige la lotta armata, le Brigate Rosse convocano la propria Direzione strategica che si riunisce, nel dicembre ’79, a via Fracchia a Genova. Come è noto, la base sarà presto individuata grazie alle informazioni fornite a dalla Chiesa da Patrizio Peci. Ebbene, alla riunione genovese partecipano 15 persone. Di queste, nove provengono dal mondo della fabbrica e le restanti sei da altri settori del mondo del lavoro. 

[16] L’interrogazione a firma Pontello ed altri, riguardante la vicenda bolognese del capitano Nevio Monaco, viene discussa nella seduta della Camera dei Deputati del 20 maggio 1977. 

[17] L’interpellanza può essere consultata accedendo al resoconto stenografico della seduta del Senato della Repubblica dell’11 gennaio 1980. Vitalone accusa esplicitamente i giudici di MD Franco Marrone, Francesco Misiani, Gabriele Cerminara, Ernesto Rossi, Luigi Saraceni e Aldo Vittozzi i cui nomi sono stati trovati in appunti sequestrati ad un membro di Potere Operaio. Vitalone, tuttavia, non segnala che quel documento non è recente, ma è stato rinvenuto molti anni prima. Nasce una indagine penale che si estende ai magistrati Michele Coiro, Gianfranco Viglietta, Filippo Paone e Gaetano Dragotto, i cui nomi/numeri di telefono sono rinvenuti durante una perquisizione, del 22 gennaio 1980, presso l’emittente radiofonica romana Onda Rossa, vicina all’area della Autonomia. Alla fine, nel dicembre ’80, il giudice istruttore di Firenze dichiara non luogo a procedere nei confronti di tutti i magistrati perché non hanno mai fatto parte di alcuna associazione sovversiva.

[18] Sulla vicenda di Alessandra De Luca v. la sentenza emessa, il 14 marzo 1985, dalla Corte di Assise di Appello di Roma, Pres. De Nictolis, nel processo Moro uno/bis.

04/12/2024
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