In molti si saranno domandati come sia stato possibile che nell’universo americano della separazione dei poteri, il nuovo presidente Donald Trump, a capo dell’esecutivo, si sia comportato come un vero imperatore d’altri tempi e abbia potuto - attraverso i suoi executive orders - agire come un legislatore al di fuori di ogni controllo giurisdizionale (il c.d. judicial review). A distanza di una settimana dalla firma del più rumoroso e destabilizzante fra gli executive orders da lui emanati dopo il suo insediamento alla casa bianca, quello sull’immigrazione (che vieta temporaneamente l’ingresso agli stranieri provenienti da sette Paesi a maggioranza islamica, sospende per un periodo limitato il programma per i rifugiati di tutti i paesi, ma blocca definitivamente l’accesso ai rifugiati siriani), la pronuncia del giudice James Robart, della corte di primo grado del Western District di Washington a Seattle, riporta finalmente l’operato del nuovo Presidente all’interno del gioco costituzionale dei pesi e contrappesi (c.d. checks and balances), dimostrando la capacità di reazione e la vitalità del sistema nord-americano.
Proviamo dunque a inquadrare rapidamente ciò che è avvenuto cercando di capire cosa siano gli executive orders, che paiono attribuire al Presidente degli Stati Uniti un sorprendente potere legislativo, da dove essi traggano legittimazione e come possano essere contrastati all’interno del quadro costituzionale dei checks and balances.
Innanzitutto il potere di emanare simili ordini, per quanto gli stessi non trovino esplicito riferimento nella Costituzione federale, è stato fin dai tempi di George Washington rivendicato da tutti i presidenti americani, che lo hanno dedotto dal secondo articolo di quella Carta, e in particolare dalla sua sezione 1 che impone al Presidente degli Stati Uniti, come capo dell’esecutivo, di “farsi carico che le leggi siano fedelmente eseguite”. Le leggi sono ovviamente tanto quelle ordinarie quanto la Costituzione stessa, cosicché l’interpretazione delle norme delle une o dell’altra lascia ampio spazio ad un’attività presidenziale che, pur presentandosi come esecutiva, confina pericolosamente con quella legislativa.
Noti sono gli executive orders di Abraham Lincoln che durante la guerra civile aveva sospeso l’habeas corpus o di Franklin Delano Roosevelt che aveva creato i campi di internamento per i giapponesi o ancora di Dwight Eisenhower che aveva inviato le truppe della guardia nazionale a difesa dei bimbi neri della scuola desegregata di Little Rock. In ognuno di questi casi la legittimazione dell’executive order era stata tratta dal dovere presidenziale di dare applicazione a una norma costituzionale, così come interpretata dal Presidente stesso.
In che modo il potere legislativo e quello giurisdizionale possono controllare e limitare il potere di emanare gli executive orders, ossia norme dotate della stessa forza delle leggi federali, che l’esecutivo nella persona del Presidente si è in tal modo fin da subito attribuito?
La dinamica della successione delle leggi nel tempo consente, ovviamente, innanzitutto di porre riparo ad un executive order che il legislativo non condivide attraverso una legge di fonte parlamentare successiva, che ponga nel nulla l’ordine presidenziale precedente. Il gioco dei checks and balances, però, permette al Presidente di porre il veto sulla legge che annulla l’order, con il risultato che solo un’improbabile maggioranza qualificata di due terzi del parlamento potrà ottenere il risultato della sua eliminazione.
È dunque il controllo giudiziale, che verte sul rispetto dell’executive order tanto delle norme ordinarie quanto - a partire da Marbury v. Madison (1803) e attraverso un controllo di costituzionalità diffuso - di quelle costituzionali, il vero contrappeso a un potere esecutivo esorbitante.
La pronuncia del giudice Robart del 3 febbraio 2017 si inserisce esattamente in questo solco. Quale reazione immediata del giudiziario a quello che prima facie appare come uno sconfinamento di potere dell’esecutivo essa concede all’Attorney General dello Stato di Washington, cui si è unito quello dello Stato del Minnesota, una sospensione temporanea dell’operatività dell’executive order (TRO - Temporary Restraining Order) di Donald Trump sull’immigrazione.
L’importanza della pronuncia di cui si parla sta nel fatto che la decisione del giudice di Seattle non ha efficacia in relazione ai soli pochi singoli individui che hanno fatto ricorso contro l’applicazione nei loro confronti dell’ordine. Ciò la differenzia delle altre (almeno 5 su oltre 50 ricorsi) pronunce del giudiziario federale che, nell’immediatezza dell’emanazione dell’ordine presidenziale, ne hanno temporaneamente sospeso gli effetti sulla base del fumus di una sua incostituzionalità sotto diversi profili. La decisione di Robart ha un’efficacia su tutto il territorio degli Stati Uniti e come tale blocca in via generale l’applicazione del provvedimento esecutivo fino alla udienza che deciderà più approfonditamente la questione della sua sospensione (ossia l’hearing on a motion for preliminary injunction).
Gli State Attorneys avevano infatti richiesto una declaratoria di illegittimità del provvedimento (declaratory relief) e una diffida all’amministrazione dall’applicarlo (injunctive relief). Coadiuvati dagli avvocati di Amazon.com, Expedia, Washington State University e The University of Washington nel dimostrare l’impatto negativo del provvedimento sugli studenti, sui professori, sugli impiegati e sulle istituzioni in generale, gli Attori hanno argomentato l’interesse degli Stati a proteggere “la salute, la sicurezza e il benessere dei propri residenti” e quindi la loro legittimazione ad agire nei confronti del Governo Federale. Il giudice federale Robart ha così accolto la richiesta ritenendo presenti i presupposti per un ordine di sospensione temporaneo del provvedimento a portata generale. Nelle sue parole di motivazione: “Nonostante i convenuti abbiano argomentato che il TRO debba essere limitato agli Stati attori, la risultante implementazione parziale dell’Executive Order metterebbe a rischio l’imperativo costituzionale di una regola uniforme in fatto di immigrazione e la volontà del Congresso che le leggi sull’immigrazione degli Stati Uniti devono essere applicate vigorosamente e uniformemente”. Una presa di posizione coraggiosa, quella di James Robart, perché sostenuta da un solo precedente del quinto circuito federale del 2015 (Texas v. United States), ma certamente assai ragionevole.
Il cammino del controllo giudiziale sull’ordine di Donald Trump è ancora lungo. L’amministrazione non solo ha subito fatto ricorso al giudice federale d’appello, quello del nono circuito, perché rimuova il TRO (la cui necessità, motivata dall’immediato e irreparabile danno che altrimenti l’operatività dell’ordine produrrebbe sui residenti degli Stati che hanno impugnato il provvedimento, verrà posta in discussione), ma giocherà tutte le sue carte per provare che un’esatta interpretazione della legge e della Costituzione attribuisce al Presidente degli Stati Uniti il compito di emanare proprio quell’ordine che per ora quasi tutti i giudici federali che si sono fin qui pronunciati hanno dichiarato illegittimo.
Gli argomenti per l’amministrazione non mancheranno: per esempio l’illegittimità dell’executive order sotto il profilo della violazione del principio del due process contenuto nel quinto emendamento della costituzione, perché non consentirebbe un’adeguata difesa in giudizio delle proprie ragioni a chi è stata tolta la possibilità di entrare in America, potrebbe essere rintuzzata dal contro argomento che gli stranieri sul suolo straniero non possono far appello alle garanzie costituzionali statunitensi. Si discuterà poi in relazione all’invocato contrasto fra l’executive order di Trump e la legge sull’immigrazione del 1952 richiamata a suo fondamento, che attribuisce al Presidente la prerogativa di sospendere l’ingresso negli States “di tutti gli stranieri o di qualunque classe di stranieri” allorché egli ritenga la loro presenza sul suolo americano “dannosa per gli interessi degli Stati Uniti”, emendata nel 1965 per impedire di discriminare le persone che richiedono un visto di ingresso sulla base “della razza, del sesso, della nazionalità, del luogo di nascita o di residenza”. In questo caso la difesa di Trump si potrebbe giocare su un potere presidenziale, derivato direttamente dal suo dovere costituzionalmente imposto di proteggere gli Stati Uniti contro qualunque minaccia alla sicurezza nazionale, che metterebbe nell’angolo qualsiasi possibilità per il Congresso di limitare i suoi ordini esecutivi attuativi di quel compito.
Analoghe argomentazioni potrebbero poi far tacere coloro che ritengono che l’ordine di Trump violi l’Administrative Procedure Act (pur dimostratosi nel passato capace di limitare il potere di emanare gli executive orders di George W. Bush o di Barack Obama), che vieta qualunque azione governativa “arbitraria, capricciosa, che costituisca un abuso di discrezionalità o che comunque sia in contrasto con il diritto” o sia “sprovvista di adeguata base giuridica”.
È l’interpretazione della legge, ordinaria o costituzionale che sia, bellezza! E se mai il caso andrà di fronte alla Corte Suprema, sarà proprio il nuovo giudice nominato (con il consenso del Senato) dal Presidente Trump a rivestire un’importanza cruciale nello stabilire la legittimità o meno di un ordine emanato, guarda caso, esattamente da colui che lo ha scelto.
La partita, insomma, è ancora tutta da giocare, ma un fatto è certo: ancora una volta il gioco dei pesi e dei contrappesi, tipico del sistema costituzionale nord-americano, potrà dare o meno fiato alle trombe della civiltà giuridica.