La vicenda del giudice internazionale Aydin Sefa Akay dimostra che l’indipendenza giudiziale ed il rispetto delle immunità che ne conseguono non sono concetti universalmente e pacificamente riconosciuti.
Quando su un Paese soffia il vento dell’autoritarismo, quando cioè il Presidente o il Capo di Stato pretende di avocare a sé i poteri, ritenendo di essere il migliore interprete della volontà popolare, le altre istituzioni sono inevitabilmente messe alle corde. Ne soffrono in particolare le istituzioni, come quella giudiziaria, che non hanno una voce politica che li difenda e che, per il ruolo di garanzia che ricoprono, non hanno altra forma di espressione che la propria attività istituzionale.
Nel mondo, tuttavia, la tensione istituzionale provocata dall’autoritarismo può avere esiti differenti.
In Occidente, la reazione del giudiziario può essere efficace e, talora, anche violenta, ristabilendo credibilità e fiducia dei cittadini nei meccanismi di controllo (siano essi i check and balances della tradizione anglosassone ovvero il giudiziario nella teoria della separazione dei poteri della tradizione continentale).
Se ne è avuta prova recentemente nel fallito (per ora) tentativo del Presidente Trump di fare ricorso ai prerogative powers per bloccare l’ingresso negli Stati Uniti d’America a cittadini di alcuni stati in odore di terrorismo. Come noto, e come ben spiegato in recenti articoli apparsi su questa stessa rivista, il tentativo, risolvendosi in una iniziativa ritenuta liberticida, sproporzionata e perfino illogica, è stato respinto per la pronta reazione delle autorità giudiziali, federali o semplicemente distrettuali, che si sono erte a difesa delle libertà fondamentali sancite dalla Costituzione americana.
Un altro significativo esempio del modo di intendere la funzione giudiziale in Occidente e del rispetto che la circonda, si è avuto recentemente in Gran Bretagna, dove la High Court prima e la Supreme Court poi, sono state chiamate a dirimere la questione della distribuzione dei poteri in relazione all’esercizio dell’art. 50 del Trattato di Lisbona. Anche in tal caso, a fronte di un Esecutivo che dava per scontata la royal prerogative e quindi l’autonomo potere della Corona, generalmente devoluto al suo esecutivo, di azionare il meccanismo per l’uscita dall’Unione europea, le Corti di Londra hanno svolto un ruolo fondamentale per rimettere a posto il meccanismo costituzionale britannico, ricordando a tutti la centralità del Parlamento di Westminster. È interessante e rinfrescante notare che anche in questo caso, è stato il ricorso presentato da dei semplici cittadini a definire i giochi della politica e l’assetto istituzionale inglese: il simbolo migliore della rule of law di marca britannica, dove nessuno, veramente, può sentirsi al di sopra della legge e dove ai giudici viene concordemente assegnato il ruolo di massimi garanti delle istituzioni. Con la implicita ed ovvia considerazione che solo un giudiziario veramente indipendente e riconosciuto come tale può giocare un ruolo tanto fondamentale
In altri Paesi, non va così.
L’esempio più recente è la Turchia, un paese da sempre “in bilico” tra Occidente ed Oriente ma che oramai sembra destinato ad una deriva autoritaria. La definizione di Paese in bilico è di Samuel Huntington, tratta da Lo scontro delle civiltà ed il nuovo ordine mondiale del 1996 (p. 206). Il saggio, assai noto ed altrettanto controverso, è in realtà molto più sofisticato delle citazioni che generalmente se ne traggono. In relazione ai Paesi “in bilico”, dove sarebbe in atto una transizione da una forma di civiltà e cultura ad un’altra (accanto alla Turchia, vengono illustrati i casi della Russia, del Messico e, in direzione opposta, verso una società asiatico-oceanica, della Australia) si constata il fallimento del tentativo, manifestatosi nel corso del secolo passato, di questi Paesi di acquisire istituzioni e modelli culturali occidentali.
I fatti degli ultimi mesi in Turchia, con arresti indiscriminati su larga scala (da alcuni osservatori definiti «purghe») a seguito del tentato golpe di metà luglio dell’anno passato e con la recente riforma costituzionale, approvata da referendum popolare, che ha ulteriormente concentrato i poteri in capo al Presidente della Repubblica turca, paiono confermare l’analisi del politologo americano.
Non si vuole qui esaminare l’impatto del fallito golpe estivo sulle libertà civili turche né le conseguenze per il sistema giudiziario turco della riforma costituzionale approvata dal recente referendum istituzionale.
Si vuole piuttosto sottolineare che in tale Paese l’indipendenza del giudice, pur se affermata sulla carta, fa ancora fatica ad affermarsi nella cultura democratica e non viene riconosciuta come uno dei baluardi della moderna democrazia, a tutela dei diritti della collettività e di ogni singolo individuo.
Ne è testimonianza la vicenda del giudice turco Aydin Sefa Akay.
Il collega è un eminente giurista. Il suo profilo curricolare, reperibile nel sito del Meccanismo per i Tribunali Penali Internazionali (UNMICT, l’organismo creato dalle Nazioni Unite per assicurare l’ordinata conclusione dei lavori dello ICTY e dell’ICTR e l’esecuzione della pena negli anni a venire per coloro che siano stati condannati dalle due corti internazionali) parla chiaro: dopo gli inizi in patria, egli si è dedicato ad una carriera diplomatico/giudiziale, ricoprendo incarichi di ambasciatore e di consulente del governo turco presso l’Onu in occasione dei lavori che hanno portato alla istituzione dell’ICTY. Ha inoltre ricoperto per tre anni un incarico giudiziale presso l’ICTR, istituito per i crimini commessi in Rwanda. Egli è attualmente nel roster dell’UNMICT.
Dal 21 settembre dell’anno passato, il giudice Akay si trova in stato d’arresto nel suo Paese, sospettato, come altre migliaia di giudici e procuratori turchi, di partecipazione nel fallito golpe di metà luglio 2016. Ciò avviene a dispetto della immunità internazionale di cui gode in quanto membro del Meccanismo per i Tribunali Penali Internazionali.
Un paio di mesi prima di essere incarcerato, il 25 luglio 2016, il giudice Akay era stato assegnato dal Presidente dell’UNMICT all’Appeal Chamber destinata a decidere sulla richiesta di revisione della condanna di Augustin Ngirabatware, condannato dal Tribunale penale internazionale per il Rwanda e destinato a scontare una pena di trenta anni di reclusione per incitamento, istigazione ed assistenza al genocidio rwuandese.
L’arresto del giudice internazionale ha provocato l’interruzione del procedimento di revisione del processo e della condanna richiesto da Augustin Ngirabatware. Alla fine del 2016 si è verificato un vero e proprio stallo processuale, attesa la assenza del giudice dalla Appeal Chamber alla quale era stato assegnato e la inefficacia delle richieste rivolte alla Turchia dall’Ufficio degli Affari Legali delle Nazioni Unite, le cui istanze formali di rilascio del giudice Akay sono state ignorate dal Governo di Ankara.
In verità, il forte monito delle Nazioni Unite, di rilascio immediato del giudice e di cessazione di ogni procedimento nei suoi confronti, basato sul richiamo all’immunità diplomatica ed ai privilegi che sono inerenti all’esercizio di una funzione dell’agenzia internazionale non hanno ricevuto alcuna attenzione da parte del Paese di origine del giudice Akay, segno evidente che la Turchia considera la questione “un affare interno” per il quale non è disposta ad accettare alcuna interferenza.
Ma la vicenda non è finita qui.
L’imputato, il cui procedimento di revisione è bloccato dalla assenza forzata del giudice Adyn Sefa Akay, preso atto della inerzia della Turchia alle richieste di rilascio formulate dalle Nazioni Unite, si è rivolto alla Corte il 10 novembre del 2016, chiedendo con apposita mozione l’emissione di un ordine per il rilascio temporaneo del giudice arrestato, affinché questi potesse essere messo nella condizione di assumere l’incarico e partecipare alla deliberazione della sua (di Augustin Ngirabatware) istanza di revisione.
Quest’ultimo è un aspetto che vale la pena di sottolineate. Come si legge nel provvedimento adottato dalla Corte decidendo sull’istanza, il condannato non ha chiesto la sostituzione del giudice ed anzi, si è opposto al parere della Procura che suggeriva tale soluzione. Augustin Ngirabatware ha sostenuto che la proposta del Procuratore (sostituire il giudice arrestato con altro giudice e assegnare Akay ad un altro caso) avrebbe ridotto l’immunità giudiziale e diplomatica ad un’illusione e che quindi «i Giudici non possono servire la Giustizia con integrità ed imparzialità se sono soggetti ad arresto ed a sostituzione». La assegnazione del giudice Akay ad un altro caso, poi, sarebbe stata iniqua nei confronti del giudice stesso e nei confronti di qualunque altro imputato, inevitabilmente pregiudicato dalla assegnazione di un giudice impossibilitato a trattare il caso.
L’argomento adottato dall’istante è ineccepibile e dimostra che ai principi (dell’indipendenza dei giudici, del proprio giudice e dell’immunità) si è disposti a sacrificare il proprio interesse alla celere definizione del caso (con la sostituzione del giudice impedito).
Quanto è seguito è storia delle ultime settimane: il presidente dell’Appeal Chamber, giudice Theodor Meron (già noto ai lettori dell’Osservatorio Internazionale per essere il giudice ha propugnato presso l’ICTY una interpretazione restrittiva della «joint criminal enterprise»[1]) ha convocato le parti ad una udienza per decidere sulla richiesta dopo aver sentito (oltre alle parti stesse) anche le Autorità di Ankara. Le quali, tuttavia, non si sono presentate e non hanno inviato alcuna difesa scritta.
Nella motivazione dell’ordine si spiega, con tono un po’ didascalico e con abbondante apparato di citazioni (a cominciare dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948), che «la giustizia e lo stato di diritto – rule of law, per la precisione – incominciano da un giudiziario indipendente» e che «per assicurare l’indipendenza dei giudici del Meccanismo per i Tribunali Penali Internazionali (UNMICT) l’art. 29 del relativo statuto garantisce piena immunità diplomatica ai giudici durante il corso del loro mandato – anche se esercitano le funzioni nel loro Paese d’origine». Viene poi ricordato che la Turchia era membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite al tempo in cui lo Statuto del Meccanismo è stato deliberato e che all’epoca il Paese anatolico aveva votato a favore dello Statuto e delle immunità in esso previste.
Passando poi dai concetti generali al caso concreto, il presidente Meron osserva che «con l’arresto del giudice Akay, il processo sul merito della richiesta di revisione di Augistin Ngirabatware si è inevitabilmente arrestato; rimettere il caso in movimento, come suggerito dal Procuratore, con la sostituzione del giudice non sarebbe altro che violare uno dei principi fondamentali dell’amministrazione della giustizia: un giudiziario indipendente».
Su quest’ultimo punto, un ulteriore profilo viene evidenziato: la riassegnazione del caso, oltre a violare il parametro della indipendenza giudiziale, sarebbe in sé illegittima, perché il frutto di una pressione arbitraria sul potere presidenziale di nomina e composizione del collegio giudicante. Il presidente del Meccanismo giudiziale deve seguire criteri predeterminati di assegnazione dei giudici ai casi e non deve essere soggetto a pressioni ed influenze, nemmeno di fatto, esercitate da qualunque autorità o Stato.
Ancor meno accettabile è un’altra soluzione prospettata dal Procuratore, che ha suggerito di interpretare le prerogative del collegio d’Appello nel senso di consentirgli di prendere decisioni di merito anche in assenza di tutti i giudici. Questa ipotesi (che in effetti lascia perplessi…) è respinta quasi con sdegno dal Presidente che ricorda che l’opinione del giudice Akay è importante per le solenni deliberazioni del Collegio, anche se vi fosse comunque la possibilità di raggiungere la maggioranza.
Sulla base di tali argomentazioni l’ordine di rilascio del giudice Akay è stato emesso il 31 gennaio 2017. La data fissata per l’esecuzione dell’ordine, 14 febbraio 2017, è spirata inutilmente. Come forse prevedibile, la Turchia, pur regolarmente notificata, non solo non ha dato esecuzione all’ordine, ma non ha nemmeno replicato né ammesso di aver ricevuto l’ordine.
Al presidente Meron non è rimasto altro da fare, con decisione del 6 marzo 2017, che dare formalmente atto dell’inadempimento del Governo turco alle sue obbligazioni ed investire il Consiglio di Sicurezza della materia.
Solo a questo punto la Turchia ha offerto una risposta ufficiale, riconoscendo con lettera indirizzata al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di aver ricevuto l’Ordine e la Decisione emessi dal Presidente Meron ma giustificando la perdurante violazione dell’Ordine sostenendo che «il sig. Akay non gode di immunità dinnanzi alle autorità giudiziali turche per atti compiuti al di fuori del quadro della sua assegnazione al Meccanismo» e che «il Meccanismo non è autorizzato ad emettere un tale ordine».
La vicenda non sembrava destinata a finire così.
Il difensore di Ngirabatware, il pugnace avvocato americano Peter Robinson, ha depositato agli inizi di aprile, una Motion to Initiate Contempt Proceedings, chiedendo che, a seguito dell’inadempimento dell’ordine giudiziale da parte del Presidente turco Recep Erdoğan e del Ministro della Giustizia Bekir Bozdağ, venisse iniziato un procedimento per «contempt of court», secondo quanto previsto dall’art. 90 dello Statuto del Meccanismo.
Come noto, nei Paesi di Common Law e nelle principali giurisdizioni internazionali, i procedimenti per «contempt of court» sono rimedi nelle mani dei giudici contro violazioni di ordini emessi dalla stessa corte o contro comportamenti irrispettosi tenuti dalle parti processuali. La loro funzione è assicurare il rispetto dell’istituzione giudiziaria; se il destinatario dell’ordine ineseguito o la persona irrispettosa nei confronti della Corte è “trovato” responsabile, una sanzione pecuniaria o detentiva verrà imposta (dallo stesso organo giudiziale che ha subito “l’affronto”).
Nella richiesta, il difensore di Ngirabatware ha evidenziato che i due destinatari dell’ordine, il Presidente turco ed il Ministro della giustizia hanno dimostrato di voler intenzionalmente disattendere l’ordine di liberazione del giudice Akay.
Nella Motion viene evidenziato che le due giustificazioni addotte dal Governo turco nella lettera al Consiglio di Sicurezza (mancanza di immunità interna; carenza di potere di emettere l’ordine) sono infondate. Da un lato, si osserva che l’eccezione relativa alla carenza di immunità doveva essere fatta valere nel corso del procedimento; alla Turchia era stata data la possibilità di intervenire, ma la facoltà non era stata esercitata. Quanto al secondo profilo (carenza di potere di emettere l’ordine), il ricorrente sostiene la valutazione, anche in buona fede, della illegittimità dell’ordine, non legittima la violazione dell’ordine.
La Motion si conclude con la richiesta di valutare l’opportunità di iniziare il procedimento per contempt of court nei confronti del Presidente Turco Recep Erdoğan e nei confronti del Ministro della giustizia Bekir Bozdağ.
Si tratta di una mossa estremamente coraggiosa, quasi sfrontata, ma non inaspettata da un common lawyer, che si rivolge al giudice (anch’egli un common lawyer americano) per ottenere un provvedimento che sanzioni la violazione dell’ordine giudiziale, cioè che ricordi all’autorità esecutiva che non c’è nessuno al di sopra della legge (rule of law) di cui i giudici sono gli ultimi custodi (è il common law, nella sua essenza).
L’istanza, tuttavia, è stata respinta.
Nella decisione viene sottolineato che in materia di obbligazioni degli Stati, gli «ufficiali di stato sono semplici strumenti dello Stato e le loro azioni ufficiali possono solo essere attribuite allo Stato». Pertanto «essi non possono essere soggetti a sanzioni o punizioni per condotte che non sono private ma prese per conto dello Stato e non possono soffrite le conseguenze di atti illeciti che non sono attribuibili a loro personalmente ma allo Stato per conto del quale agiscono».
«Considerato quindi che è lo Stato che è vincolato dall’obbligazione di cooperare con l’UNMICT e che è lo Stato ad essere interlocutore dell’UNMICT» prosegue la decisione «sarà lo Stato ad affrontare la responsabilità internazionale per ogni seria violazione della previsione statutaria da parte dei suoi rappresentanti».
In conclusione, considerato che il Meccanismo è legittimato solamente a rilevare la violazione di un proprio ordine ed a segnalarla al Consiglio di Sicurezza, affinché adotti le sanzioni appropriate, senza poter adottare sanzioni motu proprio, la mozione è stata respinta.
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La decisione del giudice Meron in materia di contempt, è ineccepibile.
Secondo i concetti del common law, il procedimento per contempt of court esula dal campo propriamente penale, costituendo un rimedio sui generis per l’insulto alla corte rappresentato dall’inadempimento di un ordine o da una condotta anche solo impropria tenuta davanti al giudice.
Parafrasando il celebre principio sulla base del quale il common law è venuto sviluppandosi (remedies precede rights) si potrebbe dire che «the remedy precedes wrongs» nel senso che, svincolato dal principio di legalità (nullum crimen sine lege), il giudice anglosassone individua in concreto la violazione alla sua onorabilità che ritiene di ravvisare e commina la sanzione.
Ne deriva che non si applicano al contempt of court le categorie del diritto penale internazionale, che oramai riconosce la responsabilità penale personale, diretta (command responsibility) o congiunta (joint criminal enterprise), dei Capi di Stato o alti funzionari degli apparati coinvolti in un conflitto.
Non si può negare in conclusione che la Turchia sia riuscita per il momento a spostare la questione della indipendenza, dell’immunità e della libertà del giudice Akay dal piano giuridico a quello politico. Finché il Consiglio di Sicurezza non adotterà una sanzione adeguata per convincere la Turchia a rispettare l’ordine del presidente Meron, la Appeal Chambers nel caso di Ngirabatware è in un vicolo cieco.
È lo spirito del tempo, almeno in Turchia. Ma in esso si manifesta un rischio sempre presente, a tutte le latitudini, quello di sottovalutare i pericoli per le garanzie fondamentali dello stato democratico.
Naturalmente, le culture asiatica e islamica di cui la Turchia è ancora (sempre più?) tributaria hanno oramai conosciuto la tripartizione dei poteri e la stessa indipendenza del potere giudiziario, che della prima è un corollario. Si tratta tuttavia di una conoscenza tutto sommato recente, non completamente metabolizzata ed “interiorizzata”, che rischia in ogni momento di regredire a fronte di assetti istituzionali accentratori e più tradizionali.
Vi è da sperare che il braccio di ferro in corso tra il Paese della Mezza Luna e le Nazioni Unite porti (oltre alla liberazione del giudice Akay) ad un dibattito interno e ad una risposta democratica, con un avanzamento da parte delle Autorità di Ankara sui temi delle libertà civili e della necessità di rispettare l’indipendenza della magistratura e di ogni singolo giudice.
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[1] Si veda, Francesco Florit, Habent sua sidera lites?, Questione Giustizia, 19 febbraio 2016