1. Tre amici, acqua, fuoco e onore, si separano e dopo aver detto dove potranno ritrovarsi acqua e fuoco chiedono a onore come fare a ritrovarlo e onore dice «Amici cari, io vi consiglio di non perdermi mai, perché se mi perdete anche una sola volta non mi ritroverete più».
Queste erano le parole di Zi’ Vincenzo o’ vaccaro, il personaggio che con Michele Mancino, fondatore del Partito Comunista in Basilicata nel 1922 apre il libro Per motivi di giustizia di Marco Omizzolo (ed. People, 2022). Le diceva ai bambini quando raccontava le storie, che lui chiamava i fatti.
Onore per Zi’ Vincenzo era la dignità e la dignità è il valore assoluto che unisce le vite di Zi’ Vittorio e Michele Mancino nell’Italia fascista del ventennio con quelle delle persone che Omizzolo racconta nel suo nuovo libro. Leggendolo si comprende immediatamente quanti fili collegano i personaggi nelle varie epoche: parliamo di coraggio, dì dignità e della voglia di lottare per motivi di giustizia.
È il coraggio di Joty, indiano sikh che denuncia la condizione di dodici connazionali resi schiavi dal proprio padrone scegliendo la libertà a rischio della propria vita. È la lotta per la dignità di Balbir, che Omizzolo definisce la pietra d’inciampo dell’indifferenza, che viveva come schiavo tra i maiali dentro una roulotte e si ribella e ribellandosi serve la democrazia del nostro paese.
2. Nel libro si trovano tante storie del mondo del lavoro agricolo nell’agro pontino, dove una comunità indiana da tempo risiede e lavora, ha un tempio a Borgo Hermada (dove Magistratura Democratica ha aperto il proprio XXII congresso il 28 febbraio 2019 per testimoniare un impegno e una presa di posizione senza equivoci) ma c’è tanta politica, tanta cultura coniugata con la passione civile di Marco Omizzolo e di chi combatte con lui, in primo luogo Pina Sodano, la sua compagna, sempre con lui anche nei momenti più tesi e impegnativi.
C’è il cappuccino caldissimo di Harbhajan Ghuman, il compagno di mille avventure, diventato famoso per la storia di “Governo”, come chiamava la moglie che comandava in casa, raccontata in una puntata di Propaganda live sui Sikh, e la sua risata quando prende in giro Omizzolo «grazie mille e cinquanta».
Ci sono battaglie vinte, dopo lo storico sciopero del 18 aprile 2016 che, insieme alla tragica morte della bracciante Paola Clemente il 13 luglio 2015, è stata una pietra miliare per la L.199/2016 sul caporalato. Tra queste l’introduzione nel c.d. Decreto Concorrenza 4/11/2021 del divieto del meccanismo del doppio ribasso nella vendita dei prodotti agricoli e alimentari (per una spiegazione del doppio ribasso e del collegamento con la Grande Distribuzione Organizzata-GDO- vedi l’articolo de Il Manifesto del 5 novembre 2021 di Luca Martinelli riportato nel testo). Ci sono battaglie perse, come lo sciopero del 22 settembre 2020 nel segno del Gattopardo, a causa di alcuni sedicenti leader della comunità indiana più dediti ai rapporti utili che alla lotta.
Ci sono storie belle e finite bene, come Balbir e Gurpreet che con il suo coraggio sfida i caporali e salva la vita ad un altro lavoratore dopo un infortunio sul lavoro, storie di impegno civile come quella di Ash, il giovane che rappresenta la comunità LGBTQ+ e che vuole diventare giornalista per la giustizia. Ma ci sono anche storie tristissime come Joban Singh morto suicida dopo che non gli avevano permesso di tornare in patria per la morte del padre e che cercavano di ricattare per una sanatoria nata male e senza la reale volontà politica di sanare niente, e i risultati lo dimostrano. E c’è la storia struggente della giovane ragazza cinese incinta che nel viaggio della speranza muore in montagna per il freddo e viene abbandonata lì sulla neve, senza neanche l’umanità di una sepoltura, dai trafficanti di esseri umani.
C’è la ricerca di giustizia di Malhi e la risposta in un processo che dal 2015 è ancora in corso. Malhi, che ne ha viste tante nel suo viaggio, non ha avuto paura a denunciare il caporale indiano e oggi riesce a vendere i propri prodotti che coltiva nella sua terra, oggi è un uomo libero.
Nel libro si parla di Gill Singh massacrato di botte con una mazza da baseball dal padrone perché durante il periodo più duro del covid chiedeva, come era suo diritto, la mascherina e la certificazione per poter andare a lavorare: «I Carabinieri vennero poco dopo, io ero ancora sporco di fango, terra e sangue, bagnato e dolorante. Loro mi chiesero i documenti» e Gill con il braccio rotto, sanguinante e trascinando la bicicletta, seguito dalla macchina dei carabinieri, deve fare dieci chilometri per andare a casa e solo dopo aver visto i documenti in regola viene chiamata l’ambulanza. Con un italiano non ci sarebbe stato questo comportamento.
La bicicletta è quasi un simbolo per il sikh, come per i riders ma molto meno accessoriata. Dice Omizzolo che si può iniziare a capire la povertà guardando quelle povere e malridotte biciclette usate fino allo sfinimento per andare a lavorare e tornare a casa distrutti dopo anche sedici ore di lavoro. Le biciclette sono la carta di identità dello sfruttato. A chi non viene in mente De Sica e il suo Ladri di biciclette? Ecco un altro ponte.
Ci sono donne che lottano come Paola, originaria di Sarno, vent’anni come bracciante e con la schiena spezzata, l’artrite alle mani e e problemi ai polmoni per i veleni respirati nelle serre, come Irina, moldava in Italia dal 2007 che lavorava dalle 6,00 del mattino alle 10 di sera anche nei giorni di festa e che solo grazie al covid si è potuta riposare qualche settimana e che descrive con tratti durissimi la condizione femminile del lavoro soggetta ad ogni forma di violenza e ricatto anche più degli uomini.
Vengono in mente al riguardo le bellissime parole riportate nel libro del testo Chisciotte di William Jean Bertozzo: «Per tutte le violenze consumate su di lei, per tutte le umiliazioni che ha subito, per il suo corpo che avete sfruttato, per la sua intelligenza che avete calpestato, per l’ignoranza in cui l’avete lasciata , per la libertà che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le sue ali che le avete tarpato, per tutto questo: in piedi, Signori, davanti a una donna».
È un libro impegnativo quello di Marco Omizzolo, ma è anche un libro gradevole da leggere, pieno di canzoni d’autore delle quali si dimostra fine conoscitore (per tutte De Gregori: «la storia siamo noi, attenti, nessuno si senta escluso!»), di cinema indimenticabile (come Salvo Randone in La classe operaia va in paradiso che interpreta Militina, operaio col cervello scappato che incita allo sciopero) pieno di riflessioni politiche amare ma che non lasciano senza speranza. E allora la speranza possono essere loro, gli ultimi, gli sfruttati che difendono la loro dignità e non hanno paura di ribellarsi al padrone e di lottare.
E allora torniamo all’inizio, a Zi’ Vincenzo e a Michele Mancino, a quello che eravamo quando ancora c’era la voglia di lottare contro il padrone e va a finire che gli sfruttati, che sono invisibili solo per quelli che non li vogliono vedere, riescono a farci tornare la memoria di «una rabbia antica», come direbbe Guccini, e a dare una lezione a tutta la sinistra.