Esistono fasi storiche e culturali in cui, una attenta osservazione critica delle dinamiche e dei fenomeni connessi ad un soggetto attivo della società, quale ad esempio la famiglia (erroneamente declinata al singolare), con specifico riferimento al momento della sua crisi, consente di elaborare, con un attento e critico sguardo di sintesi, principi e regole da applicare alle sue dinamiche interne, e soluzioni pratiche che, sulla scorta dei primi, assurgano a strumenti efficaci ed idonei a fronteggiare quanto di “patologico” si è rilevato nella concreta attività di osservazione.
Se questa voleva essere la premessa ideale e la traccia di azione concreta posta alla base del disegno di legge in materia di famiglia, che porta la firma del senatore Pillon, non sembra dubitabile che il risultato di tale percorso ideale vada in senso decisamente contrario all’auspicabile obiettivo di dirigere ogni aspetto relativo alla disgregazione dei nuclei familiari verso il canone ideale del “minor pregiudizio” di tutti i soggetti coinvolti, siano essi adulti o minori.
La lettura autentica delle premesse redatte a corredo del nuovo impianto normativo elaborato rende “plastica” l’emersione di una “impostazione culturale” rispetto al tema della regolamentazione della crisi delle famiglie – e ancora di più al tema generale delle dinamiche endofamiliari tra adulti e tra adulti e minori – arricchita rispetto al passato (o più realisticamente impoverita) di pericolose e svilenti categorie di pensiero, talvolta emergenti anche in contraddizione tra loro, e segnatamente:
a) il grosso equivoco nascente dalla sovrapposizione non corretta dei concetti di affido e collocazione del minore;
b) una generale burocratizzazione della genitorialità;
c) una pericolosa tendenza all’adultocentrismo che rende i minori imbrigliati in logiche di dominio e prevaricazione;
d) una generale sfiducia patologica negli adulti e nella loro lealtà sostanziale e processuale durante la regolamentazione della crisi;
e) una scarsa attenzione alla predisposizione delle migliori soluzioni deformalizzate per rendere il minore effettivamente protagonista delle sue esigenze e per far sì che l’intera disciplina della crisi del nucleo abbia lui stesso come unico baricentro di azione;
f) una insufficiente attenzione all’equilibrio delle posizioni degli adulti che cela malamente un “sensazionalismo di pancia” a danno delle donne (e delle madri), del tutto sbilanciato rispetto alla effettiva osservazione dei dati reali.
A ciò si aggiunge la tendenziale oscurità della scrittura delle norme sostanziali e processuali (che causerà non pochi problemi di interpretazione), una improvvida ma “modernista” tendenza alla degiurisdizionalizzazione dei procedimenti in materia di famiglia e persone (elemento che l’esperienza quotidiana nei tribunali evidenzia come contraria alla volontà dei singoli), e la previsione di meccanismi onerosi e farraginosi quali quello della mediazione obbligatoria e non gratuita.
Prendendo le mosse di una critica ragionata proprio da quest’ultimo aspetto, la norma intenderebbe introdurre l’istituto della mediazione obbligatoria come condizione di procedibilità della successiva azione giudiziaria tendente a statuire la separazione tra i coniugi. Premesso che l’applicazione di tale istituto è prevista solo per la regolamentazione delle crisi delle famiglie unite in matrimonio (e non per quelle cd. di fatto) – come se vi fosse ancora spazio per una visione culturalmente e processualmente differenziata dei nuclei affettivi con prole minore, anche dopo la legge n. 219/2012 − una prima osservazione critica e di sistema si impone. La mediazione, come ben noto a chiunque operi a favore della operatività del suo meccanismo, presuppone la partecipazione spontanea ed emotiva di chi vi giunge, nell’ottica utile della composizione della lite, anche in chiave compromissoria e dunque spesso su un terreno di “cessione” parziale delle proprie ragioni o pretese; tale meccanismo, nelle questioni familiari, è generalmente impraticabile e fallimentare, atteso che gli interessi coinvolti, personali ed affettivi in primis, ed il momento storico della vita di un nucleo in cui si colloca la decisione di disgregarlo (quello specifico a cui si andrebbe a sovrapporre il percorso di mediazione) spesso richiedono opportune “distanze fisiche ed emotive” tra le parti, con umane rivendicazioni reciproche sul fallimento del progetto affettivo e la conseguente necessità di tempi e di distanze ontologicamente slegate dalla possibilità di trovare meccanismi di “incontro”, spesso invece rinvenibili nel corso del giudizio, e all’esito di una lenta, fisiologica e graduale elaborazione e maturazione del fallimento della relazione, soprattutto ove lo strappo umano sia stato traumatico o violento. Tale semplice osservazione (giustificata da una visione più ampia e problematica delle dinamiche endofamiliari) rende giustizia al concetto nobile di dignità relazionale ed affettiva dei singoli nel nucleo (la cui paternità va riconosciuta all’acuto e profondo pensiero del professor Rodotà), che impone di attendere i propri tempi di elaborazione e maturazione senza imporre, con meccanismi di forzata mediazione, il venir meno di una fisiologica ed umana distanza tra gli adulti connessa, in fase iniziale, alla crisi della coppia.
A tale osservazione di concetto, che rendono criticabile la scelta normativa, se ne aggiungono altre di natura più pratica: in primo luogo, i costi della mediazione, per legge non gratuita, ed ancorati a futuri parametri in via di definizione, provocano un inutile e rilevante dispendio di energie economiche delle parti, anche laddove esse non ne abbiano disponibilità concreta, oltre ad un allungamento dei tempi per la separazione, laddove essa non vada a buon fine; in secondo luogo, in spregio ad ogni utile percorso processuale che valorizzi competenze specializzate e professionalità all’interno del giudizio, o che ancora meglio si fondi sulla terzietà dell’organo giudicante, i protagonisti di tale attività mediativa non paiono offrire evidenti e reali garanzie di competenza, laddove si pensi che, per espressa previsione normativa, sarebbero validi “mediatori” anche gli avvocati che, per ogni anno, abbiano patrocinato almeno dieci cause in materia di famiglia, dato decisamente disancorato da una effettiva e competente specializzazione. In ultimo, il ddl prevede, nella fase di mediazione, la presenza del mediatore e quella dei legali, quest’ultima obbligatoria ai fini della utilizzabilità della stipula conclusiva: un coacervo di soggetti, quasi tutti portatori di interessi di parte, che rende ancora più difficile una potenziale attività di mediazione, ma garantisce in modo palese un dispendio di energie economiche anche in misura rilevante.
Il centro dell’intervento normativo, così come si evince anche dalla lettura delle premesse introduttive al testo di legge (che richiamano testualmente il “contratto di governo” tra le attuali forze politiche alla guida del Paese), è tuttavia rappresentato da una preventiva constatazione del preteso “fallimento” della legge n. 56/2004 sull’affido condiviso, e dunque del conseguente, e sempre preteso, fallimento del principio della bigenitorialità. Come sinteticamente espresso in precedenza, tale punto di partenza concettuale si muove da un grossolano equivoco di fondo: la pretesa di sovrapporre in modo adesivo e speculare i concetti giuridici di “affido” e “collocazione del minore”, e la lettura forse poco consapevole dei principi in tema di bigenitorialità espressi nella fonte sovranazionale richiamata, la risoluzione del Consiglio d’Europa n. 20179 del 2015, intitolata Uguaglianza e corresponsabilità parentale. La stesura del decreto Pillon parte da un assioma giuridicamente discutibile, oltre che verosimilmente superficiale: l’affido condiviso si è rivelato un fallimento in quanto in pochi casi i tempi di permanenza del minore presso il domicilio di ciascun genitore risultano paritetici. Il giudizio negativo sulle sorti dell’affido condiviso è legato dunque al concetto di collocazione domestica del minore come se il modello di “gestione condivisa” della responsabilità genitoriale, principio cardine della norma sull’affido condiviso (come evidenziato più volte dalla giurisprudenza di legittimità), fosse ancorato al dato materiale della paritetica permanenza del minore presso due domicilii degli adulti, elemento invece contrario a tutta la elaborazione giurisprudenziale e scientifica che, nel tempo, ha proprio sottolineato la dannosità per il minore di una tale impostazione. E allora, non si può non concordare con chi ha osservato che il ddl in questione caldeggerebbe una sorta di “affido diviso” del minore (previsto tassativamente in misura non inferiore a 12 giorni al mese con pernottamento presso ciascun genitore), con una sorta di recisione matematica e spazio-temporale dei figli nei domicilii degli adulti: il minore diviene oggetto di interscambio tra i genitori, ed il concetto di bigenitorialità si affranca da quello più esplicativo di cogenitorialità, fino ad arrivare ad identificarsi in una entità astratta che riempie il prefisso “bi” di una matrice volutamente di reciprocità conflittuale nella direzione degli adulti, e non di una chiave di lettura rovesciata nell’ottica dell’interesse del minore a ricevere il minor pregiudizio possibile dalle complesse questioni della vicenda separativa. Tale visione si spinge sino ad ipotizzare la liceità di dinamiche che vedano i minori, anche in tenera età e salvo rare eccezioni (codificate in modo poco chiaro all’art. 11), protagonisti attivi di un continuo e cadenzato spostamento nei domicilii degli adulti con conseguente doppia ed alternata dinamica di vita, ed impossibilità di mettere sane radici in un habitat inteso in sostanza come abituale locus vitae, elemento fisiologicamente necessario per adulti e minori. La previsione del doppio domicilio diventa una statuizione normativa anche ai fini delle comunicazione scolastiche, amministrative e di quelle relative alla salute, e può venir meno soltanto in alcune ipotesi di diversa matrice e gravità, indebitamente accomunate: violenza ed abuso sessuale (che dunque andranno accertati nel concreto per divenire cause ostative del doppio domicilio), ma anche condotte di trascuratezza o cause oggettive di indisponibilità di un genitore ed inadeguatezza evidente degli spazi predisposti per il minore. Queste ultime tre ipotesi comportano ognuna di esse una serie di problemi identificativi e di ricadute pregiudizievoli per il minore:
a) il concetto metagiuridico di “trascuratezza” sembrerebbe potersi assimilare alle ipotesi di «negligenza, ignoranza o incapacità di provvedere» di cui all’art.403 cc, che radicano, sulla scorta di una verifica dell’abbandono morale o materiale, l’intervento della pubblica autorità in favore del minore, ma il legislatore non dà specifiche indicazioni sulla sua portata, sulla identificazione concreta di condotte a carattere “trascurante”, e sulla loro eventuale differenziazione rispetto alle ipotesi richiamate di cui all’art. 403 cc;
b) quanto alla “indisponibilità del genitore”, non si chiarisce se essa debba intendersi come una indisponibilità di carattere oggettivo ed assoluto (ad esempio per la distanza geografica tra i due domicilii dei genitori) o se relativa alla organizzazione di vita di uno dei due che, seppur astrattamente idonea a contemplare la presenza quotidiana di un minore, non è valutata tale dalla decisione del singolo adulto, il quale dunque sarebbe legittimato sic et simpliciter a non desiderare il figlio nel suo quotidiano, con la gravissima conseguenza che ciò emergerebbe dalle carte processuali a giustificazione motivata di un provvedimento di collocazione che deroghi al principio generale del doppio domicilio;
c) infine, quanto alla inadeguatezza “evidente” degli spazi predisposti per la vita del minore, a prescindere dalla discrezionalità assoluta dei parametri di valutazione di tale circostanza, l’ipotesi avrà la pessima conseguenza di fare emergere agli occhi del minore le differenze delle capacità reddituali delle parti e della loro disponibilità economica nel concedergli di godere o meno di un habitat domestico idoneo, con verosimili richieste di attività istruttoria in relazione a tale aspetto, che finiranno, nei loro ipotizzabili aspetti patologici, per introdurre nell’ampio concetto di capacità genitoriale anche indebiti giudizi di valore in relazione al quantum delle specifiche disponibilità.
Invero, il testo della risoluzione del Consiglio Europeo citato nella premessa del ddl Pillon, non contiene in alcun modo i principi nello stesso codificati sotto tale aspetto, atteso che la fonte sovranazionale, quando richiama il concetto di shared residence (domicilio paritario), lo aggancia in modo indissolubile alla verifica dell’interesse e delle esigenze concrete del minore (e non degli adulti) che restano l’unico ed esclusivo criterio per organizzarne tempi e luoghi di vita, senza che esso assurga a criterio generale derogato da specifiche ipotesi come invece risulta normato nel disegno di legge in parola, o addirittura imbrigliato in tempi minimi di “soggiorno obbligato” nei due diversi domicilii.
Al principio generale del doppio domicilio consegue uno degli obiettivi ben esplicitati nel noto “contratto di governo”: il mantenimento in forma diretta senza “automatismi”. Sul punto, a parte l’oscuro significato del termine “automatismo” contenuto nel predetto accordo di governo (termine, tra l’altro del tutto non pertinente alle modalità, tutto fuorché automatiche, con cui allo stato si pone a carico del genitore non collocatario il contributo al mantenimento del figlio), è bene sottolineare come la premessa di tale previsione sia del tutto sganciata dal dato reale. Nelle premesse al testo di legge si afferma testualmente che «come rilevato da molte ricerche, il principio del mantenimento diretto contribuisce ad una percezione nel minore di maggiore benessere economico (non dovendo più il genitore vedere mediato il proprio contributo da una persona – l’ex partner – in cui, a torto o ragione, non ha fiducia)». La prima affermazione, e la sua apparente argomentazione posta tra parentesi − prescindendo dalla infelice formulazione stilistica e grammaticale di quest’ultima − non hanno alcun nesso tra loro, essendo la prima una indimostrata affermazione invero contraria alla realtà, e la seconda una autonoma considerazione che traduce invece un grave pregiudizio di base che pare estraneo alla necessaria astrattezza e “dignità minima” di un testo normativo. Ma procediamo con ordine.
La prima affermazione, ad una attenta riflessione, appare come falsa e fuorviante: un’alternanza rigida e cadenzata tra i due diversi domicilii degli adulti, e dunque con due persone che non hanno più un modello di vita in comune, imporrà al minore di vivere due differenti dinamiche di vita, quanto ad abitudini, regole, modelli di riferimento, spazi, possibilità di gioco e svago, abitudini alimentari, sociali, ricreative e relazionali, a non vedere mai “mediato” il bagaglio di un adulto dal linguaggio dell’altro, e a vivere in due contesti del tutto eterogenei anche per capacità economiche, percependo, considerata la sua immaturità critica e di giudizio, l’esistenza di due diverse qualità di vita soprattutto in relazione al dato esteriore e materiale, e costruendo le relazioni parentali con i due genitori su dati esteriori e su continue annotazioni delle diverse modalità di vita che i due adulti gli rendono possibile, con grosso pregiudizio per la costruzione di autentiche relazioni parentali di qualità. Tutto ciò – che è pedagogicamente sbagliato − nulla ha a che vedere con una presunta “percezione di maggiore benessere economico” che resta una espressione apodittica ed immotivata, anche laddove ancorata a non meglio specificate ricerche di cui il disegno di legge non fornisce estremi e verifiche di autenticità scientifica. La seconda espressione, riportata tra parentesi, appare invece del tutto sganciata dalla prima e porta alla luce un malcelato pregiudizio di base: il genitore collocatario (e, dunque, in maniera statisticamente più rilevante la donna) non impiega il contributo fornito dal non collocatario per il minore, ma lo trattiene per sé e dunque, con la introduzione del mantenimento diretto, lo si priverà finalmente di questa possibilità di certo patologica rispetto alla funzione del contributo al mantenimento del minore. Dunque, a parte l’evidente estraneità di tale affermazione rispetto alla presunta percezione di benessere del minore indicata in premessa, ben si comprende come il primario obiettivo di tale disposizione sia quanto riportato tra parentesi, e di come dunque, uno degli approcci ispiratori della riforma Pillon, come detto in premessa, risieda proprio nel sostanziale giudizio di slealtà sostanziale e processuale che permeerebbe le condotte degli adulti nella vicenda separativa, e come dunque il disegno di legge abbia una matrice di stampo invasivo e punitivo, benché, forse con eccesso di vanità ed altrettanto difetto di comprensione, le premesse del testo di legge si aprano con una dotta e progressista citazione di Arturo Carlo Jemolo, secondo cui la famiglia è «un’isola che il diritto può solo lambire», essendo un organismo capace di autonomi equilibri e bilanciamenti .
Ma vi è di più. Le modalità pratiche con cui viene disciplinato il principio del mantenimento diretto risultano del tutto oscure, ma soprattutto contrarie poi alla sua natura: nel famoso “piano genitoriale” (termine nuovo per chiamare in modo diverso i già noti patti della separazione), nel rispetto del principio del mantenimento diretto, i genitori sono chiamati ad attribuire a ciascuno di essi specifici capitoli di spesa, in misura proporzionale al proprio reddito, con la conseguenza che laddove uno dei due non abbia alcuna capacità economica, non potrà affatto provvedere al mantenimento diretto del figlio in relazione a nessuna specifica voce di spesa, e dunque il bambino, anche nei periodi di permanenza obbligata presso il suo domicilio, sarà di fatto mantenuto dall’altro che dovrà accollarsi tutte le spese per garantirgli il sereno sviluppo psicofisico in un continuo contatto con l’altro genitore, contatto che sarà verosimilmente motivo di conflitto e contrapposizione a danno del minore. Inoltre, il testo prevede la possibilità per il giudice di stabilire solo in via periodica ed eccezionale la corresponsione di un contributo in denaro a carico di un genitore ed in favore dell’altro per il mantenimento del minore, ma in tale ipotesi, il giudice dovrà anche indicare, non si comprende in virtù di quale specifica funzione e sulla base di quali criteri o fonti di conoscenza, «quali iniziative devono essere intraprese dalle parti per giungere alla contribuzione in forma diretta». L’inutilità di tale previsione, considerate alcune condizioni socio-ambientali e l’endemico tasso di disoccupazione del Paese, la rende una clausola di stile ridondante e del tutto sganciata dal dato reale.
Sempre con riferimento alla prole, un cenno a parte merita la previsione relativa all’obbligo di mantenimento della prole maggiorenne ma non autonoma. Come ben noto, il principio di diritto vigente in materia obbliga il genitore a mantenere il figlio maggiorenne sino a quando egli non sia autonomo, o comunque sino a quando non dimostri di attivarsi fattivamente per rendersi autonomo, con un limite massimo di età, che la giurisprudenza ha oggi stabilito oscillante poco dopo il trentesimo anno di età, trascorso il quale vige un generale principio di autoresponsabilità dell’individuo in relazione a tutti i suoi aspetti di vita. Ciò posto, il testo di legge in esame prevede che tale obbligo sia azionato solo su domanda del figlio, ed a carico di entrambi i genitori, nonostante magari egli conviva stabilmente con uno dei due, e che in ogni caso cessi al venticinquesimo anno di età. La norma presenta due evidenti criticità: la prima è che introduce una ipotesi generale di conflitto processuale tra genitori e figli, e dunque tra generazioni, allo stato non conosciuta dall’ordinamento se non in ipotesi residuali, obbligando i figli a citare in giudizio i genitori per vedere riconosciuto il loro diritto, con conseguente dispendio economico e svilimento degli equilibri e delle relazioni familiari; il secondo aspetto riguarda il tetto temporale pattuito come limite massimo per l’obbligo di mantenimento, limite che non rispetta il principio in diritto secondo cui il figlio ha diritto ad essere mantenuto sino a quando non reperisce una occupazione consona al suo percorso formativo e di studi; una corretta osservazione dei meccanismi professionali e delle concrete opportunità di lavoro nelle diverse fasce geografiche del Paese avrebbero reso agevole notare come, allo stato, molti giovani venticinquenni che hanno magari completato il loro percorso di studi universitari, o che sono in procinto di farlo (all’esito di una carriera di studi solerte e proficua) non sono autonomi, e non sono inseriti nel mondo del lavoro non per loro scelta o per colpevole inerzia, ma per le condizioni oggettive del mercato del lavoro e dello stato delle occupazioni. Tali ragazzi vedranno dunque indebolita la loro posizione, con il conseguente insorgere di infinite difficoltà di vita, laddove non vi sarà una contribuzione volontaria dei genitori in loro favore sino a quando non reperiranno idonea occupazione.
Infine, due annotazioni a parte meritano sia la modifica degli articoli relativi agli ordini di protezione, che quella delle modalità di ascolto del minore. Quanto alla disciplina di cui agli artt. 342-bis e ter cc, il disegno Pillon prevede la possibilità della applicazione dell’ordine di protezione (con ordine di cessazione della condotta pregiudizievole e ordine di allontantamento del minore) o di provvedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale allorquando verifichi nel minore una condizione di rifiuto, alienazione o estraniazione con riguardo ad essi. La norma, che parifica tre ipotesi del tutto eterogenee tra loro, si giustifica sulla necessità di voler superare l’approccio limitante e “nominalistico” del termine alienazione (come inserito specificamente nella patologia definita sindrome da alienazione parentale), facendo di tutta l’erba un fascio, e sovrapponendo il concetto di alienazione genitoriale, come elaborato dalla scienza psicologica, anche alle ipotesi di mero rifiuto del contatto del minore con uno degli adulti, che può essere valutato in relazione mutevole alle diverse fasi di età dello stesso, a specifici episodi, alle tappe della separazione, al suo effettivo sviluppo psicofisico senza che l’altro genitore lo abbia determinato (come invece previsto nella ipotesi “tecnica” e più grave della sindrome di alienazione parentale). Questa previsione, che lascerebbe al giudice il compito di eguagliare, quoad effectum, ipotesi del tutto differenti tra loro, traduce più di tutte il discutibile approccio del legislatore del 2018 al tema della bigenitorialità, vissuta come contrapposizione conflittuale tra gli adulti, e dunque come diritto dell’adulto sul minore, e non come cogestione della responsabilità genitoriale e dunque come diritto del minore a ricevere adeguata e matura assistenza da parte degli adulti.
Quanto all’ascolto del minore, l’art. 16 del ddl vanifica anni ed anni di osservazione, di dialogo tra saperi, di contributi di psicologi e pedagogisti in relazione alle tecniche di ascolto, alla finalità dello stesso, ed alla necessità che esso si atteggi per il minore come un luogo ed uno spazio accogliente e deformalizzato, dove esercitare il suo “diritto di parola” in assoluta libertà psichica ed emotiva, decidendo egli stesso cosa dire, quali silenzi opporre, e quali emozioni svelare e trasmettere. Il testo di legge in esame rende l’ascolto del minore una sorta di gabbia cristallizzata sul modello dell’esame diretto ed indiretto conosciuto nelle dinamiche del processo penale, prevedendo la videoregistrazione, la presenza del giudice e di un esperto, l’assistenza dei genitori in locale separato, e la possibilità di interrompere il fluire del dialogo nel corso dell’ascolto, con domande preventivamente filtrate dal giudice, eliminando dunque ogni possibilità di assicurare all’ascolto un clima di serenità e spontaneità e rendendolo invece un momento rigido, formale e dunque una esperienza potenzialmente traumatica per il minore. Ma ancora; la norma prevede il divieto di domande (dunque anche da parte del giudice) «in grado di suscitare conflitti di lealtà da parte del minore verso uno dei genitori». È qui che il sensazionalismo di pancia muove gli intenti del legislatore: la diposizione in parola mette un bavaglio agli adulti, al giudice ed al minore il quale, protagonista unico ed assoluto del suo ascolto, ha invece il diritto di condurre la conversazione e l’esposizione di idee, pensieri ed emozioni in luoghi solo a lui conosciuti e non passibili di alcuna limitazione, ragion per cui qualsiasi domanda a chiarimento, anche sui suoi specifici rapporti con le due figure genitoriali, appare non solo lecita ma altamente utile ed opportuna (se non indispensabile) al fine di avere da lui elementi di valutazione per decidere su ogni aspetto della sua vita, atteso che, per quanto il codice riferisce, l’ascolto è obbligatorio in tutte le questioni che lo riguardano.
In conclusione, non è peregrino affermare che il disegno di legge in esame sconta un peccato originale di impostazione: esso interpreta la bigenitorialità perfetta come diritto individuale degli adulti alla genitorialità, accentuando il clima di conflitto successivo alla disgregazione del nucleo familiare, introducendo una visione adultocentrica delle dinamiche endofamiliari, e non facendosi carico delle singole, differenziate e specifiche posizioni di uomini, di donne, di minori e di giovani coinvolte nella crisi delle famiglie, introducendo indebiti conflitti tra generi e generazioni. Una attenta lettura della Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori, redatta in tempi recentissimi dalla Autorità garante per l’infanzia e per l’adolescenza, porta alla luce l’evidente contrasto tra il ddl in esame, paragonabile ad un rigido “manuale d’uso”, e l’elaborazione della cultura dei diritti del minore nella famiglia disgregata che impone un approccio al tema con dinamiche elastiche ed accoglienti, capaci di ridare centralità alla sostanza dei principi di valore etico che presidiano l’esercizio concreto della responsabilità genitoriale.
La crisi delle famiglie è prima di tutto crisi dei singoli all’interno di un nucleo, portatori di un fallimento affettivo e relazionale, privati, per legittima scelta o per subita imposizione, della possibilità di fare affidamento ad un “insieme”, e posti dinanzi alle difficoltà emotive, sociali, pratiche ed economiche di reinventarsi un modello di vita che possa salvaguardare in primo luogo la dignità personale di tutti i soggetti coinvolti. Il legislatore deve farsi carico di questo alto concetto di dignità personale, e ricercare soluzioni che, nel rispetto degli individui e delle loro specificità, rendano minor pregiudizio ai singoli e contribuiscano ad assicurare “dignità” ai consociati, e al tempo stesso “dignità culturale” ad un testo di legge che regolamenti aspetti della persona così rilevanti quali quelli connessi al mondo delle relazioni.