Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Il lavoro a distanza come diritto? Sui 700 dell’emergenza (e sulla normalizzazione del lavoro agile)

di Simone D'Ascola
assegnista di ricerca, Università di Pisa

Smart working, protezione della salute e tutela cautelare d’urgenza: un commento a due recentissime pronunce di merito in epoca di emergenza epidemiologica, che dischiudono scenari innovativi ed evidenziano la necessità di un attento bilanciamento di interessi

 

scena da M. Troisi in Scusate il ritardo, 1983

 

1. Antefatti e quadro normativo

Il contesto entro cui si collocano le due decisioni che esamineremo, e i problemi più generali ad esse connessi, sono caratterizzati da una notevole e multidimensionale "incertezza". La parziale conoscenza del virus, la sostanziale assenza di cure risolutive conto la malattia da esso provocata e la sua estrema contagiosità hanno messo in fibrillazione regole e consuetudini politiche, sociali, economico-produttive, nonché giudiziarie.

Sulla realtà politica e sociale non è questa la sede in cui soffermarsi, ma in molti concordano sul fatto che l’emergenza non possa non condizionare pesantemente le soggettività e le pratiche del nostro vivere individuale e collettivo[1]. Sul versante economico e produttivo, sembrano emergere linee di frizione molto varie (e per certi versi auspicabilmente proficue per il sistema) fra imprese e lavoratori, fra imprese e governo e fra lavoratori e governo[2]. Il quadro, però, si deve ancora disvelare completamente, poiché risulteranno decisive più le scelte sulla fase della riemersione che su quella dell’emergenza[3], anche alla luce della mole di risorse economiche che saranno messe in campo.

In questo senso il diritto del lavoro sembra configurarsi (per l’ennesima volta) come una leva dell’azione politica da adoperare per produrre salvifici effetti sul piano macroeconomico e occupazionale. Se si può pensare che ciò fosse (e, dunque, in parte ancora sia) giustificato nella fase di maggiore crisi sanitaria, quando esiste(va) un serio rischio di contagio, più problematico è capire come ciò accada e accadrà nel post emergenza, quando si dovrà transitare definitivamente da una condizione congiunturale ad una strutturale.

In altre parole, molti istituti del diritto del lavoro (così come di altre branche dell’ordinamento giuridico[4]) sono stati sottoposti a un incisivo stress test durante l’epidemia e in molti casi sono stati piegati all’esigenza repentina e drammatica di consentire la continuità della prestazione e/o la continuità retributiva all’interno di un quadro di esteso blocco produttivo, mai conosciuto fra il dopoguerra e l’oggi.

È così accaduto che una «modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato», quale quella del lavoro agile (o smart working), abbia improvvisamente mutato i propri connotati e sia stata impiegata con una funzione assai diversa da quella, cristallizzata legislativamente, di «incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro». Infatti, come già notato dalla gran parte degli osservatori[5], a partire dalla fine di febbraio 2020 il ricorso massiccio al lavoro a distanza ha avuto la finalità di proteggere la salute, riducendo il distanziamento fisico fra le persone e dunque l’esposizione al contagio. Ha cioè consentito la continuità produttiva senza che i luoghi di lavoro, e i luoghi dello spostamento finalizzato al lavoro, diventassero focolai della malattia.

I provvedimenti con cui si è realizzato questo imprevisto slittamento sono prodotti della legislazione emergenziale o, meglio, della decretazione emergenziale, necessariamente affidata al governo, che si è valso di decreti legge e di atti amministrativi come i d.P.C.m.

Tali fonti – per certi versi confuse e non facilmente coordinabili – sono destinate a perdere efficacia, ma le prassi, le disposizioni unilaterali datoriali, gli accordi fra le parti sociali a tutti i livelli e anche le prospettive paventate di riforma lasciano intendere che un largo ricorso a forme di lavoro agile proseguirà ben oltre i confini temporali della pandemia, anche, come vedremo, alla luce dei vantaggi e del risparmio che esso produce a favore dei datori di lavoro.

Verifichiamo ora in estrema sintesi come si sono dipanate queste fonti negli ultimi mesi[6], prima di analizzare le decisioni dei giudici. In primo luogo l’art. 1, comma 2, let. n, d.l. n. 6/2020 (conv. in l. n. 13/2020 e poi abrogato dal successivo d.l. n. 19/2020) richiedeva alle attività produttive delle aree colpite dal contagio di sospendere ogni attività eccetto «quelle che possono essere svolte in modalità domiciliare». Il citato decreto n. 19, invece, intervenuto il 25 marzo, quando ormai tutte le misure erano caratterizzate da omogeneità sul piano nazionale, prevedeva la «predisposizione di modalità di lavoro agile, anche in deroga alla disciplina vigente», così definitivamente rompendo qualsiasi ancoraggio alle regole generali di cui agli artt. 18 ss. della l. n. 81/2017. Del resto, si trattava della fase più critica dell’emergenza, con migliaia di morti al giorno, ed era difficile pensare a regole più meditate. Non solo, ma già prima del 25 marzo, con alcuni d.P.C.m., erano state introdotte altre previsioni: in particolare, il d.P.C.m. del 4 marzo 2020 chiariva che la modalità agile di lavoro, attivata in base al d.l. n. 6, poteva prescindere dall’accordo individuale di cui all’art. 18 l. n. 81/2017, mentre il d.P.C.m. 11 marzo 2020 parlava di lavoro «al proprio domicilio o in modalità a distanza».

Ancora, l’art. 39 del d.l. n. 18/2020 (conv. con mod. dalla l. n. 24/2020) ha previsto al comma 1 che i disabili e altri soggetti in condizione svantaggiata abbiano "diritto" di svolgere la prestazione lavorativa a distanza sino alla fine dell’emergenza (laddove tale modalità sia compatibile con la prestazione). Ad altre categorie come i lavoratori affetti da patologie gravi e riduttive della capacità lavorativa è stata attribuita invece dal comma 2 (dopo la conversione) una «priorità nell'accoglimento  delle  istanze  di  svolgimento   delle prestazioni lavorative in modalità agile»[7].

Infine, si segnala il d.l. 19 maggio 2020, n. 34 (c.d. decreto rilancio), non ancora convertito, che dedica al lavoro agile l’intero art. 90, sul quale ci soffermeremo brevemente in seguito.

Queste previsioni di ampliamento del ricorso al lavoro a distanza sono concepite a tutela delle lavoratrici e dei lavoratori, sia nell’ottica di proteggerli da rischi diretti, come quello di contagiarsi e contrarre malattie – sul luogo di lavoro o in itinere – sia da rischi indiretti come quello di subire modificazioni peggiorative del rapporto penalizzanti con riguardo alla tutela della professionalità o alla continuità del rapporto stesso, laddove fattori esogeni e imprevedibili – come una pandemia – rendono impossibile la regolare esecuzione di un peculiare contratto di durata come è quello di lavoro.

 

2. La richiesta di tutela d’urgenza e i due provvedimenti

In questo scenario, aziende di ogni settore si sono trovate nelle condizioni più disparate. Talora i datori di lavoro, potendo “imporre” il lavoro agile senza accordo[8], si sono precipitati ad allontanare tutti i dipendenti dal posto di lavoro. Tuttavia, sebbene questo, almeno nel periodo più acuto, si realizzasse con il consenso dei lavoratori, per una autoprotezione istintiva che superava ogni controindicazione, in molti casi ciò ha creato difficoltà per la diversità di condizioni personali, familiari, domestiche e tecnologiche di ciascuno. Diversamente, altre imprese non hanno avuto la possibilità di disporre il lavoro a distanza per incompatibilità della prestazione o perché tale modalità avrebbe rallentato i ritmi o ridotto i risultati produttivi.

Spesso, anche in base alle diverse percezioni in campo e ai vari interessi perseguiti da ciascuno, tutto ciò ha determinato situazioni di conflitto. In tale scenario si sono formai i due casi, che da subito hanno avuto un certo risalto, dei giudici chiamati a decidere, in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c., sul diritto dei prestatori a rendere la prestazione a distanza anziché accettare le soluzioni diverse – e ben più penalizzanti – proposte dalla parte datoriale.

Per coincidenza, entrambe le decisioni sono state pubblicate il 23 aprile. Nel primo provvedimento, il giudice del lavoro di Grosseto si è pronunciato sul caso di un impiegato dell’assistenza legale (in c.d. backoffice) di una importante azienda che fornisce gas ed energia sul territorio nazionale[9], assunto a tempo indeterminato, che, a metà aprile, ha domandato al proprio datore di lavoro di poter lavorare in modalità a distanza essendo affetto da una seria patologia polmonare invalidante. Il lavoratore evidenziava altresì di avere attivato appositamente una connessione wireless nel proprio domicilio e faceva notare come tutti i colleghi del proprio reparto fossero stati già assegnati dal datore alla modalità di lavoro agile, a causa dei rischi del contagio. Non solo, sin da inizio marzo egli aveva inoltrato siffatta richiesta, salvo trovarsi di lì a poco assente per malattia, posticipando quindi il problema, che si è infatti ripresentato alla fine del periodo di malattia, a fine marzo. In quel momento, la società opponeva motivazioni economiche e organizzative alla cui stregua le sarebbe ormai risultato impossibile inserire anche il ricorrente nei piani di lavoro da casa. A detta della parte datrice, in buona sostanza, a fine marzo sarebbe stato inevitabile escludere dallo smart working il solo ricorrente, pur essendo i suoi colleghi tutti al domicilio. Anche a fronte di ulteriore certificato medico, presentato dal lavoratore a inizio aprile, che segnalava l’impossibilità di proseguire nello svolgimento della prestazione sul luogo di lavoro, l’azienda non accoglieva la richiesta del lavoratore, presentandogli due sole alternative al lavoro standard: o una (atipica)[10] sospensione non retribuita o la fruizione anticipata di ferie non ancora maturate. Del resto, il lavoratore aveva ormai consumato tutte le proprie ferie già maturate, su richiesta del datore di lavoro.

Il lavoratore, a quel punto, agiva con richiesta di provvedimento cautelare d’urgenza dinnanzi al giudice grossetano, chiedendo di ordinare all’impresa la propria collocazione in modalità a distanza causa rischio di contagio, aggravato dalla propria preesistente patologia. Il giudice, svolta l’udienza con trattazione scritta, ha accolto la domanda del lavoratore argomentando sulla base delle disposizioni emergenziali, evidenziando anzitutto che «il ricorso alle ferie non può essere indiscriminato, ingiustificato o penalizzante, soprattutto laddove vi siano titoli di priorità per ragioni di salute» e inoltre che, una volta che sia accertata la "possibilità" di ricorrere al lavoro agile, in corso di emergenza, il datore ha il dovere di seguire questa strada, specialmente nei confronti di una lavoratore che ne ha prioritario titolo per ragioni di salute.

Ravvisata l’inconsistenza delle argomentazioni sulla presunta eccessiva onerosità organizzativa del collocamento in lavoro agile del ricorrente (che asseritamente derivava dal fatto che egli era in malattia quando è stato organizzato il piano generale di lavoro a distanza), il giudice si soffermava sulla illegittimità della proposta della fruizione di ferie non maturate e sul periculum, ovviamente presente perché, per evitare il rischio di contagio, il ricorrente avrebbe visto compromessi alcuni propri diritti fondamentali (alla retribuzione, nell’ipotesi di sospensione non retribuita, e al recupero delle energie mediante le ferie correttamente fruite).

A fronte della urgenza estrema e della natura della condanna (obbligo di facere infungibile) risulta assai interessante la concessione, disposta dal giudicante, delle astreintes di cui all’art. 614-bis c.p.c., uno strumento di coercizione che, come noto, in realtà esclude le controversie in materia di rapporto di lavoro dal proprio raggio d’azione. Tuttavia, benché la motivazione non si misuri apertamente con questa limitazione[11], si può ipotizzare che il suo uso sia giustificato da una riconduzione della controversia alla materia della tutela della salute più che a quella del rapporto di lavoro, come se la prima, vista la natura dei diritti a rischio di compromissione, potesse assorbire la materia lavoristica.

Più breve e meno articolata – anche perché non resa in ordinanza successiva all’udienza, bensì in un decreto emesso inaudita altera parte – è la decisione del giudice bolognese, benché la vicenda sia abbastanza simile: in questo caso vi era una impiegata del commercio, addetta al settore fiscale, assunta da quasi vent’anni presso l’azienda e invalida al 60%, con figlia convivente disabile (ex art. 3, c. 3, l. n. 104/1992)[12]. Tale lavoratrice, nello stesso periodo di cui al caso precedente e con riferimento al medesimo quadro normativo (anche in punto di corsia preferenziale per lavoratori in condizioni di svantaggio, cfr. art. 39 già citato), chiedeva espressamente l’attivazione dello smart working ottenendo un rifiuto, nonostante alcuni lavoratori del medesimo ufficio fiscale fossero già collocati in modalità a distanza. Più in particolare, il datore si impegnava a valutare la richiesta a seguito di una settimana, già pianificata, di Cig. Senonché tale nuova valutazione non è mai intervenuta: da qui il ricorso urgente. Il giudice felsineo si limita nel decreto a rilevare che la ricorrente rientrava in tutte le previsioni normative già menzionate e che le caratteristiche della sua prestazione (resa con telefono e strumenti informatici) erano compatibili con lo smart working. Pertanto, alla luce degli elevatissimi rischi alla salute per sé e la propria figlia, riscontrati fumus e periculum, ordina alla società la tempestiva assegnazione in modalità smart working e la fornitura degli strumenti necessari alla dipendente. 

Le due decisioni si collocano in un contesto emergenziale che si è rivelato essere assai idoneo alla più ampia valorizzazione della tutela cautelare d’urgenza, che del resto è stata preziosa anche con riferimento a un tema, diverso, come quello della fornitura dei dispositivi di protezione individuale ai prestatori d’opera impegnati come ciclofattorini[13].

 

3. Il “diritto” al lavoro agile

Nessun provvedimento emergenziale ha espressamente qualificato il lavoro agile come un diritto soggettivo perfetto del lavoratore[14], nemmeno in presenza di determinate condizioni. Il cuore delle descritte decisioni sta però integralmente in questo tema: come è qualificabile la posizione del lavoratore che, in piena emergenza, intenda svolgere a distanza una prestazione compatibile con la modalità agile e non trovi in ciò la tempestiva collaborazione da parte del datore?

Un autore[15] ha provato a rispondere a questa domanda, ribaltando la prospettiva e chiedendosi quando il datore – facendo eccezione alla tendenziale “ordinarietà” del lavoro agile in corso di pandemia – possa, avendo ragione, pretendere la prestazione in modalità tradizionale. Si è evidenziato che ciò accade quando «le mansioni del lavoratore, per loro natura, possono essere svolte solo presso la sede dell’impresa» il che è indubbiamente vero nel contesto di alcune attività essenziali (si pensi a farmacisti o cassieri di supermercato), ma deve essere bilanciato con altre valutazioni laddove l’attività non sia strettamente essenziale: si pensi alle realtà prive del codice Ateco che garantiva la continuità produttiva ma che hanno auto-dichiarato alla prefettura competente la propria apertura in quanto funzionali o connesse ad attività essenziali.

Inoltre, il datore potrebbe pretendere la prestazione in azienda quando «le mansioni del lavoratore sono essenziali affinché l’attività produttiva possa proseguire durante lo stato di emergenza».

È vero, come si evidenzia[16], che il quadro non è mai stato quello di un blocco produttivo totale e che quindi, laddove si soppesa il legittimo interesse del datore alla continuità produttiva (che può coinvolgere anche figure necessariamente presenti sul posto di lavoro), occorre bilanciarlo con l’interesse alla protezione della salute pubblica e alla riduzione del contagio.

Tuttavia, ciò che potrebbe sfumare in maniera diversa le risposte e aiutare a qualificare giuridicamente la richiesta del lavoratore di assegnazione alla modalità agile è – ancora una volta – l’art. 2087 c.c., una disposizione dalle mille vite[17].

Infatti, come ben noto, l’obbligo di sicurezza si concretizza in modalità sempre diverse a seconda delle condizioni che volta a volta sono date, tanto è vero che, in presenza di una epidemia come quella ancora in corso, sia i legislatori (anche di livello sub statale), sia le parti sociali, hanno predisposto norme e protocolli il cui rispetto viene compiutamente giuridificato dalla loro inevitabile “penetrazione” dentro l’articolo in parola, che, a prescindere dalla legislazione speciale di tutela della salute e sicurezza, ne impone certamente il più scrupoloso rispetto. La latitudine dell’obbligo, tuttavia, fa sì che il datore di lavoro sia tenuto, in corso di pandemia, ad adottare "ogni misura" utile a prevenire il contagio (e quindi a escludere la minaccia alla salute del lavoratore sul posto di lavoro)[18]. Essendo assolutamente indiscutibile che allontanare un lavoratore dall’azienda trattenendolo nel proprio domicilio sia una misura di drastica riduzione del rischio, non si può non valutare la richiesta del lavoratore – una richiesta come quella delle sentenze in commento – anche alla luce dell’obbligo di sicurezza.

Con quali conseguenze? Ragionevolmente non con la conseguenza di poter affermare con nettezza che il prestatore ha sempre un diritto unilaterale e assoluto al lavoro agile, ma stabilendo invece che: i) nel corso della pandemia, per tutte le figure professionali la cui prestazione a distanza è analoga (o quasi) a quella resa sul posto di lavoro, in quanto a efficienza e produttività, il datore abbia il dovere di assegnazione tempestivamente alla modalità agile anche in virtù dell’art. 2087 c.c.; ii) anche laddove la qualità della prestazione della variante smart sia ridotta, l’interesse del datore di lavoro alla forma tradizionale soccombe dinnanzi al fondamentale dovere di proteggere la salute del lavoratore, pertanto, a fronte della richiesta di attivazione del lavoro agile, il datore si trova in una situazione di "soggezione" ed è tenuto ad accogliere la richiesta; iii) laddove la prestazione a distanza sia (quasi) impossibile, il datore di lavoro – se l’attività non è essenziale – sarà tenuto a fare ricorso agli altri strumenti che l’ordinamento ha messo a disposizione per il picco della pandemia, come ad esempio la sospensione del rapporto con trattamento di integrazione salariale.

La rigidità delle situazioni sub i) e ii) si smussa seguendo la frontiera mobile del calo del rischio: è ciò che dalla metà di maggio è fisiologicamente accaduto. A fronte di un rischio di contagio in netta riduzione, molti lavoratori sono già rientrati sul posto di lavoro, perdendo progressivamente l’interesse al lavoro a distanza in ragione del mutato contesto. Specularmente, si può ritenere che vi sia un progressivo allentamento del prefigurato legame fra il dovere di adibizione al lavoro a distanza (anche su richiesta del prestatore) in capo al datore e il suo perdurante obbligo di garantire la sicurezza, nella latitudine dell’art. 2087 c.c. e da interpretarsi sempre secondo la gerarchia dei valori costituzionali, in virtù dei quali la protezione della vita e della salute certamente prevale sulla libertà di impresa.

Queste considerazioni, da un lato, valgono come ulteriore convalida delle (condivisibili) decisioni esaminate; dall’altro, non esauriscono affatto l’intreccio di interessi e di questioni sotteso alle vicende delle due cause.

Ad esempio, non si può fare a meno di notare come il primo provvedimento sia paradigmatico del nodo costituito dal ricorso coattivo alle ferie. È noto che gli stessi provvedimenti emergenziali hanno invitato a fare ricorso, fra gli altri strumenti, all’istituto delle ferie per sospendere le prestazioni. Tuttavia, in primo luogo è più che verosimile ritenere che la ratio di consentire il riposo, il recupero delle energie e la dedizione alle relazioni affettive e sociali, propria delle ferie, sia frustrata in un periodo in cui ogni attività, anche di libera circolazione, è (stata) essenzialmente impedita; in secondo luogo, questo utilizzo delle ferie si è inserito in una logica di assoluta unilateralità decisionale, che è, di per sé, ampiamente discutibile[19]; in terzo luogo, si è purtroppo avuto notizia della diffusione di condotte illegittime, come quella profilatasi nel caso grossetano, consistenti nel godimento forzato di ferie non ancora maturate: è infatti pacifico che il, pur problematico, invito del legislatore ad utilizzare le ferie si riferisca a ferie già maturate.

È chiaro, in definitiva, che le vicende dei due provvedimenti esaminati impongono all’osservatore di misurarsi con le rationes di fondo di alcuni istituti, venendo in rilievo come il ricorso al lavoro a distanza interferisca con l’effettività di altri diritti e con l’uso (non) abusivo di altri istituti. Infatti, anche le condizioni di disabilità e invalidità, presenti in entrambi i cautelari in commento, disegnano un quadro di rischio multifattoriale che il Covid ha elevato moltissimo e che difficilmente può fare a meno di strumenti di tutela come quelli adoperati dai ricorrenti.

 

4. Alcuni nodi del lavoro a distanza di domani

Un ulteriore gomitolo di problemi, tuttavia, deve essere – non sciolto, ma almeno – segnalato anche con riferimento alla distribuzione di vantaggi e svantaggi fra le parti del rapporto a seguito dell’attivazione dello smart working, specie nel periodo di pandemia calante e di lento ritorno a una “quasi normalità”.

Infatti, superata la fase in cui è centrale l’interesse del lavoratore ad un lavoro agile, anche deregolato, come è (stato) quello emergenziale[20], sta prendendo forma una realtà ben diversa, caratterizzata da imprese che acquisiscono piena consapevolezza della convenienza di questa modalità di lavoro per l’interesse economico imprenditoriale. È verosimile immaginare che la diffusione pervasiva del lavoro a distanza si estenderà ben oltre i limiti temporali di liberalizzazione, ad oggi previsti dal citato art. 90 del d.l. n. 34/2020 (non convertito).

Sono però ben noti i principali fattori che rendono il lavoro agile un oggetto da maneggiare con grande attenzione. Proviamo a menzionarne alcuni: la gestione, la limitazione e il controllo sui tempi di lavoro; il diritto a una effettiva disconnessione; la possibilità di disporre di un ambiente idoneo sul piano della sicurezza e del benessere (non tutte le case sono uguali e la diseguaglianza degli ambienti riflette le disuguaglianze sociali, penalizzando chi ha minori disponibilità); la conciliazione dei tempi di vita, di cura e di lavoro, anche alla luce delle perduranti disparità di genere; l’efficienza tecnica degli strumenti di lavoro; l’individuazione del soggetto gravato dell’onere di metterli a disposizione (nel quadro di un ricorso massiccio e non consensuale al lavoro a distanza, è verosimile che gli strumenti di lavoro possano sempre appartenere al lavoratore?); la retribuzione, anche nelle sue componenti indennitarie, premiali e di straordinario, laddove la misurazione del tempo – e la distinzione fra diverse mansioni svolte – sono elementi spesso evanescenti quando si lavora da casa.

Alcuni autori[21] osservano condivisibilmente che gran parte di questi aspetti richiederebbero un serio intervento della contrattazione collettiva. Solo questa fonte[22], in effetti, potrebbe introdurre dei parametri generali sul piano nazionale per ciascuna categoria produttiva, affidando poteri di deroga consensuale ben mirati e da esercitare su scala aziendale e individuale. Non è infatti da disconoscere la rilevante casistica di lavoratori che – a prescindere dalla congiuntura pandemica – esprimono una preferenza genuina e incondizionata verso il lavoro prestato da casa. La logica di tutela propria del diritto del lavoro impone, però, di occuparsi primariamente dei rischi poc’anzi citati che, fra l’altro, non esauriscono le principali problematiche derivanti da una “normalizzazione” del lavoro agile non adeguatamente progettata e controllata.

Infatti, oltre ai pericoli per la salute e psicosociali che corre il lavoratore, occorre tenere in considerazione anche il profilo delle regole aziendali della produzione nonché di quelle della concorrenza. Come dovrebbe inquadrarsi il comportamento di un datore di lavoro che, per la peculiare fisionomia della propria organizzazione produttiva, faccia larghissimo uso del lavoro a distanza, realizzando un notevole risparmio dei costi di produzione e acquisendo un ampio vantaggio competitivo sulla base di una modalità produttiva improvvisamente deregolamentata?

Anche questi interrogativi invitano ad una accurata ponderazione degli interessi in gioco in vista del futuro prossimo, giacché la realtà che attende il mondo del lavoro invita ad attribuire importanza alla «fabbrica delle regole» in misura almeno eguale a quella attribuita, sino ad oggi, alle «regole della fabbrica»[23].

A conclusione di queste brevi riflessioni, vale la pena di evidenziare come la realtà di questi mesi – fatta anche di vicende giudiziarie come quelle esaminate – ha mostrato ai giuslavoristi che, in particolari condizioni, il lavoro a distanza può costituire uno strumento di eccellente protezione e garanzia della salute del lavoratore e in tal senso la tecnologia diventa davvero un dispositivo "socialmente responsabile". Altrettanto bruscamente, però, esso potrebbe disvelare tutta la propria fragilità sistemica; pertanto, sul medio e lungo periodo, solo un monitoraggio attento e reattivo da parte di tutti i soggetti in campo potrà accompagnare la crescita del giovane istituto dello smart working, altrimenti destinato a far pagare ai più deboli il conto del proprio duplice volto.

 

 
[1] Cfr. I. Dominijanni, Non siamo più gli stessi, in www.internazionale.it, 26 aprile 2020. Il tema è assai connesso a quello del lavoro agile poiché «in spazi il più delle volte stretti vanno in scena, non senza difficoltà, tutte le nostre identità…», così C. Alessi, M. L. Vallauri, Il lavoro agile alla prova del Covid-19, in Bonardi, Carabelli, D’Onghia, Zoppoli (a cura di), Covid-19 e diritti dei lavoratori, Ediesse, 2020, p. 131.

[2] Cfr. M. Revelli, La metamorfosi asociale e l’assalto al Palazzo sferrato da Confindustria, in il manifesto, 6 maggio 2020.

[3] Su emergenza e riemersione, in una prospettiva giuslavoristica, v. i due webinar promossi dalla rivista Labor – Il lavoro nel diritto, che si sono svolti il 13 e il 27 maggio 2020 e che sono disponibili ai seguenti indirizzi (https://www.youtube.com/watch?v=Il8pOVMDom4&t=; https://www.youtube.com/watch?v=4CiQ-rnAoJ8&t= ).

[4] Cfr. G. A. Chiesi, M. Santise (a cura di), Diritto e Covid-19, Giappichelli, 2020.

[5] Anzitutto P. Pascucci, Sistema di prevenzione aziendale, emergenza coronavirus ed effettività, in giustiziacivile.com, 17 marzo 2020, p. 1. Anche C. Alessi, M. L. Vallauri, op. cit., p. 132, ravvisano il mutamento della finalità principale dell’istituto, avvertendo che – come anche qui si dirà – vi è un chiaro rischio che il “lavoro agile dell’emergenza” possa riverberarsi sul futuro “assetto ordinario”.

[6] Per un inquadramento più completo v. C. Di Carluccio, Emergenza epidemiologica e lavoro agile, in RIDL, 2020, III, p. 3 ss.

[7] In queste previsioni, le leggi dell’emergenza continuano a fare riferimento alla “modalità agile” richiamando le disposizioni della legge n. 81/2017; tuttavia, come ritenuto dalla maggioranza della dottrina, il lavoro agile dell’emergenza è altra cosa rispetto a quello ordinario: v., seppur con accenti diversi, I. Senatori, Attivazione del lavoro agile e poteri datoriali nella decretazione emergenziale, in giustiziacivile.com, 24 marzo 2020 e S. Bini, Lo smart working al tempo del coronavirus. brevi osservazioni, in stato di emergenza, in giustiziacivile.com, 17 marzo 2020.

[8] Ma vedi contra I. Senatori, op. ult. cit., che ricava dall’insieme delle previsioni l’idea di una necessaria consensualità della modalità a distanza.

[9] Si tratta di una realtà nota sul territorio e la controversia in parola ha avuto anche una certa eco sulla stampa: Il giudice impone ad Enegan lo smart working. L’avvocato: «La legge non prevede questo obbligo», in ilgiunco.net, 25.4.2020.

[10] Ed evidentemente del tutto ingiustificata.

[11] Il che, per quanto giustificabile con la rapidità del procedimento e con la stesura succinta della motivazione, configura un difetto tecnico.

[12] Si ricordi anche che in corso di pandemia sono stati anche estesi i permessi per l’assistenza ai disabili: v. A. Riccobono, L'estensione dei permessi retribuiti per l'assistenza ai disabili nel decreto “Cura Italia”, in giustiziacivile.com, 31 marzo 2020.

[13] Il riferimento è ai provvedimenti cautelari emessi fra fine aprile e inizio maggio dai tribunali di Firenze e Bologna, su cui v. G. Municchi, La tutela della salute e della sicurezza sul lavoro dei riders ai tempi del Covid-19, in questionegiustizia.it, 15 maggio 2020. Sullo strumento processuale v. qualche ulteriore cenno anche in D. Bellini, La tutela cautelare ai tempi del coronavirus: il lavoratore può utilizzare l’art. 700 c.p.c. per ottenere lo smart-working, in www.rivistalabor.it, 9 maggio 2020.

[14] Anche se il Decreto rilancio del 19 maggio potrebbe dare questa impressione, poiché l’art. 1, commi 1 e 2, afferma che «1. Fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19, i genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio minore di anni 14, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito  in  caso  di sospensione o cessazione dell'attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore, hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali, fermo restando  il rispetto degli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, e a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione. 2. La prestazione lavorativa in lavoro agile può essere svolta anche attraverso strumenti informatici nella disponibilità del dipendente qualora non siano forniti dal datore di lavoro».

[15] I. Alvino, È configurabile un diritto del lavoratore al lavoro agile nell’emergenza COVID-19?, in giustiziacivile.com, 8 aprile 2020.

[16] Ivi.

[17] Cfr. su questa norma P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona. Art. 2087, Giuffrè, 2008.

[18] V. in materia M. T. Carinci, Obbligo di sicurezza e responsabilità datoriale: il rischio di contagio da Covid-19, in corso di pubblicazione su Labor, 2020.

[19] V. infatti le critiche di F. Scarpelli, Coronavirus, sospensione del lavoro, assenze e retribuzione: ecco cosa prevede la legge, in ilfattoquotidiano.it, 4 marzo 2020.

[20] Che infatti è più corretto chiamare “lavoro a distanza” per il sostanziale allontanamento dalla logica regolativa della legge del 2017.

[21] Ad esempio V. Bavaro, Relazione nel webinar Il tempo nel diritto del lavoro, promosso dall’Università di Pisa e svoltosi il 27 aprile 2020.

[22] Anche secondo I. Curzi, I. Senatori, Il lavoro agile dopo la pandemia: oltre l’agilità dell’emergenza, in Italianieuropei, 2020, p. 8, i contratti collettivi dovrebbero costituire «un filtro obbligatorio tra le disposizioni di legge e le determinazioni individuali». Questi autori sviluppano i profili più esposti del lavoro agile di domani, dalla misurazione dello stesso (a tempo o per obiettivi), alle garanzie di benessere, etc.

[23] L’espressione è stata adoperata da O. Mazzotta nel corso del webinar svoltosi il 13 maggio 2020 e disponibile al link https://www.youtube.com/watch?v=Il8pOVMDom4&t=.

29/06/2020
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