In un articolo apparso in questi giorni di Covid-19, Claudia Bruno racconta il suo “Stato di pandemia permanente” [1]. Scrittrice, giornalista, lei che lavora da Londra (e da remoto) per varie testate italiane, ha vissuto l’arrivo del virus in differita fra le notizie che le arrivavano dall’Italia e la strana normalità del suo quartiere. Fino a quando suo marito, per essere in contatto con lei rientrata recentemente da Roma, è stato messo “in smart working preventivo” dall’azienda in cui lavora. Italiano all’estero fra i tanti della sua generazione. A quel punto Claudia ha cominciato a dover dividere il suo spazio di lavoro, abituarsi alle continue interruzioni del suo spaesato compagno di scrivania, e, scrive, prepararsi “a condividere con tutto il mondo quella che per me era una condizione d’esistenza: isolamento a domicilio”.
Lavorare da remoto, a distanza, da casa, per molti è una normalità già da tempo. Si tratta di una condizione di lavoro poco vista e poco nominata, resa smart – e poco materiale – da quella strana euforia che produce l’inglese gergale quando si attacca alle esperienze. Solo oggi, intrecciata com’è alla necessità di contrastare la vitalità di un virus che non si era mai presentato, questa modalità di lavoro è diventata nota a tutti. Ma è corretto parlare di “smart working”? Ed è saggio affidare a questa unica formulazione le forme di lavoro che, a partire da condizioni diverse, sono state spostate dai luoghi di lavoro? In questo esperimento collettivo di “isolamento a domicilio” quali diversi lavori stiamo chiamando con lo stesso nome e quali continuiamo a non vedere? Sui social in questi giorni le persone si confrontano, fanno ironia, si lamentano, fanno esperienza della difficoltà di vivere in uno spazio casa ridefinito come zona di confine e sovraccarico di mansioni. Mentre all’esterno il lavoro si dirada, seppur in maniera contraddittoria, nello spazio interno si moltiplica e si confonde.
È bene procedere con un po’ di ordine e inquadrare lo smart working prima di tutto come modello organizzativo. Intanto c’è da dire che la nostra legislazione parla di lavoro agile (questa è la traduzione in italiano) specificamente per il lavoro subordinato[2]. Contando sulle potenzialità delle nuove tecnologie, il lavoro agile è stato ideato per rispondere a un duplice obiettivo: “incrementare la produttività” e “agevolare le esigenze di conciliazione vita lavoro” dei lavoratori dipendenti. I due obiettivi sono pensati astrattamente in un rapporto di reciprocità: si produce di più e meglio in quei contesti aziendali in cui si promuove la possibilità per i dipendenti di “articolare i tempi e i luoghi della prestazione lavorativa” piuttosto che soggiogarli all’incubo del cartellino. È un modello che intende superare alcune rigidità del lavoro subordinato (anche quello a distanza, vedi il telelavoro) affidando ai singoli parte del carico organizzativo in cambio di maggiore autonomia. Stipulando un accordo che apre una problematicissima breccia di diritto individuale in un contesto regolato dalla trattazione collettiva, i singoli dipendenti possono, infatti, sottoscrivere “forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro”. Per essere attuato, questo modello ha bisogno di una organizzazione aziendale adeguata, in termini strumentali e tecnologici e soprattutto manageriali. Non si tratta di mettere il dipendente in condizioni di portar fuori del lavoro, ma di organizzare le risorse in modo da essere accessibili anche dall’esterno, di attivare forme di collaborazione che funzionino a distanza e in assenza di controllo, e tutta un’altra serie di variabili da pensare e immaginare all’interno dell’impalcatura legislativa esistente. Anche per questo, le sperimentazioni di lavoro agile in Italia pur così significative (l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano conta 560 mila casi) fino a poche settimane fa stavano andando a rilento. Servono cambiamenti e adeguamenti di ogni tipo.
La decretazione di emergenza ha introdotto, non a caso, alcune semplificazioni. Fino al 31 luglio prossimo, ad esempio, ha eliminato il requisito dell’accordo scritto fra azienda e dipendente e ha lasciato alle singole organizzazioni la decisione di provvedere a dei regolamenti che disciplinino in maniera più puntale le modalità di lavoro delocalizzato. E sono sempre le singole organizzazioni che decideranno come superare quanto previsto dalla legge n. 81/2017 che istituisce lo smart working proprio sulla possibilità di alternare periodi svolti in azienda con altri all’esterno.
Il Dcpm 8 marzo 2020 non dice nulla al riguardo, come non dice nulla riguardo a quel “diritto alla disconnessione” previsto proprio dall’accordo individuale. Tenuto conto della situazione attuale si presume che consenta un ricorso ampio al lavoro fuori ufficio, anche per l’intero orario lavorativo. In un certo senso questo, nei casi in cui è possibile, è da considerarsi un traguardo. Quindi benissimo per chi c’è riuscito e benissimo lo sforzo di tutti, ma è abbastanza evidente che quello che ci stiamo abituando a chiamare smart working in questi giorni, è più propriamente una forma moderna (e forzata) di lavoro da casa, affidata al senso di responsabilità e alla capacità di adattamento di tutti e tutte.
È evidente, inoltre, che il lavoro che si sta espandendo nelle case in regime di quarantena va ben al di là del lavoro subordinato. In “isolamento domiciliare attivo” si trovano, oltre ai lavoratori dipendenti standard, alle prese con lavori di ufficio delocalizzato (agile), tutti i titolari di un’occupazione o di una professione che si possa realizzare a distanza, in molti casi grazie all’uso di una telecamera e di una piattaforma digitale. Sono tante le occupazioni e le professioni potenzialmente realizzabili da remoto o trasferibili online. In questi giorni stanno trovando una loro inedita realizzazione negli spazi privati, nelle case più precisamente, e per necessità. Le organizzazioni di lavoro, già messe alla prova da vent’anni di ristrutturazione neoliberista, si stanno ora misurando con l’invenzione emergenziale di infrastrutture reticolari e digitali su cui convertire il lavoro ordinario. Capitalismo delle piattaforme e vita quotidiana: la sostituzione distopica della mobilità degli umani con il flusso delle informazioni, di dati e di merci.
L’emergenza ha trovato i nostri spazi di vita pronti per il trasferimento immediato delle prestazioni lavorative, velocizzando e massificando il ricorso a un frainteso smart working che, nelle prospettive dei più entusiasti, può rappresentare la prova generale per una sua più precisa attuazione. Per la presenza di un computer e di una rete wi-fi, le nostre case sono attrezzate per lavorare, eppure non sono tutte uguali, sono abitate diversamente, e la loro porosità verso l’esterno non le rende necessariamente riconvertibili tout court in ambienti operativi.
La sovra-dotazione di dispositivi e strumenti informatici nello spazio che ci circonda non basta da sola a fare della casa un ambiente di lavoro. Lo sanno bene tutti quei lavoratori e lavoratrici della conoscenza che in epoca di precarietà, hanno dovuto, in molti casi, adattare la propria abitazione a luogo in cui lavorare. Sanno che spazio e tempo, fra le mura domestiche, faticano a mettersi in riga, confliggono con tutto quello che non è legato al lavoro, agli obblighi, agli impegni. Non è semplice stabilire confini. Il tempo di lavoro, mescolandosi e accavallandosi con il tempo che la casa chiede per sé e per i suoi abitanti (anche solo uno) piuttosto che diminuire aumenta. E non c’è accordo contrattuale che possa prevedere e contenere gli effetti di questa commistione.
In questi giorni, chi può lavorare da casa, è alle prese con l’invenzione di un’organizzazione efficace e fa esperienza, in alcuni casi per la prima volta, di una difficoltà inaspettata. Avere tutta la giornata a propria disposizione non basta a renderla produttiva, serve molta disciplina e una certa creatività. Il lavoro produttivo, delocalizzato, decontestualizzato, apre a un impercettibile sentimento di alienazione, e nel giro di pochi giorni, i tentativi di non disperdersi, stanno producendo, in molti e molte, la sensazione di andare di fretta in un tempo senza argini.
Sarà interessante vedere come utilizzeremo questa grande sperimentazione collettiva di homeworking di emergenza, una volta usciti, da questo stato di crisi. Sarà interessante vedere se la possibilità di attivare contratti di lavoro agile sopravviverà alle necessità attuali di una mobilità ridotta, se sapremo farne uno strumento capace di generare un’organizzazione diversa dalla semplice dislocazione del lavoro dentro le mura delle case dei dipendenti. La possibilità di attivare contratti di “lavoro agile” dovrebbe essere il primo passo di una catena di riconoscimenti a quel potenziale che è oggi racchiuso nella dinamica di auto organizzazioni disperse ma esistenti, ma anche se realizzato in una versione "smart" tutto questo potrebbe tradursi in una colonizzazione definitiva dello spazio domestico, attraverso un sistema di regole che, mentre tengono vincolati ad un contratto, rendono infinitamente complicata la libertà di gestire il proprio spazio e il proprio tempo.
Dalle mie ricerche[3] è risultato abbastanza chiaro che chi sceglie di usare – almeno in parte – la propria casa come spazio di lavoro autogestito vive come compensatoria di una serie di disagi la parziale “libertà” che ha di decidere della propria organizzazione e delle proprie regole. Molto dell’impegno inoltre è versato proprio nel perseguimento di un obiettivo sottile ma vitale, quello cioè di mantenere nello spazio domestico la presenza di due ordini simbolici, casa e lavoro, come distinti e il meno possibile in conflitto. La collocazione del lavoro a casa da parte di un’impresa, di un’azienda, e di qualsiasi organizzazione di lavoro che metta a disposizione strumenti e metodi, romperebbe questa sottile duplicità, imponendosi duramente, con lo stesso ingombro e lo stesso rumore che meno di quarant’anni fa facevano le macchine e i telai delle lavoratrici a domicilio.
Ma in tempi così difficili come quelli che stiamo vivendo e in presenza di un sistema economico che non smette di invitare a “agitare ogni ora, farla fruttare”[4], già pericoloso aver fatto propagare questa formula – smart working - così in fretta.
[1] C. Bruno, Stato di pandemia permanente, in minima et moralia, www.minimaetmoralia.it/wp/stato-di-pandemia-permanente/?fbclid=IwAR0Fv8YdPE01pg5dLHaNigQh3n2kadsWQ0VBTAs07TnTgQUkT1zVuME7m7E
[2] Sul tema v. M. Leone, Lavoro agile al tempo del coronavirus: ovvero dell’eterogenesi dei fini, www.questionegiustizia.it/articolo/lavoro-agile-al-tempo-del-coronavirus-ovvero-dell-eterogenesi-dei-fini_21-03-2020.php.
[3] S. Burchi, Ripartire da casa. Lavori e reti dallo spazio domestico, Franco Angeli 2014.
[4] M. Gualtieri, Tratto da 9 marzo duemilaventi, su www.doppiozero.com/materiali/nove-marzo-duemilaventi.