Magistratura democratica
Prassi e orientamenti

Il processo volto al riconoscimento della protezione internazionale: i primi orientamenti giurisprudenziali

di Salvatore Casciaro
giudice, Tribunale di Bari
Lo scritto costituisce il testo della relazione tenuta alle giornate di studio La protezione internazionale e umanitaria: aspetti processuali e sostanziali, promosse da Ordine degli avvocati di Bari, Asgi e Scuola superiore della magistratura

Premessa

Nel delineare, per la protezione internazionale, un rito camerale non esente da significative novità, il legislatore ha distinto la fase decisionale, affidata al collegio nella sua interezza, dalla fase di trattazione (nel cui alveo si innesta l’incidente cautelare ex art. 35-bis, comma 4, d. lgs. n. 25/08), per la quale è invece designato un singolo componente del collegio, il che ha consentito di strutturare in alcune realtà giudiziarie, tra cui quella barese, un sistema processuale connotato da snellezza e agilità che si avvale, per il compimento di specifici atti, del significativo apporto dell’ufficio del processo e dei giudici onorari di pace, cui è conferita apposita delega per l’attività istruttoria, tra cui anche l’audizione dello straniero, ove (beninteso) si dovesse optare per rinnovarla dopo la fase amministrativa dinanzi alle commissioni territoriali.

Trattasi di un inedito procedimento in camera di consiglio che deve essere utilizzato, secondo la prassi degli uffici baresi, quali che siano le ragioni dell’impugnazione contro la decisione della commissione territoriale. Pur nella consapevolezza della diversità di indirizzi giurisprudenziali nelle diverse realtà giudiziarie, il Tribunale di Bari ha ritenuto che il legislatore ha inteso indicare il rito (collegiale) camerale come applicabile in tutti i casi in cui il richiedente asilo abbia impugnato la «decisione» della commissione territoriale ex art. 32 d.lgs n. 25/2008, e ciò prescindendo dal tipo di richiesta formulata dal difensore nel suo ricorso ex art. 35 d.lgs cit. (e, quindi, anche laddove il petitum sia circoscritto − con implicita acquiescenza al diniego rifugio politico e di protezione sussidiaria − al solo riconoscimento della protezione cd. umanitaria).

La disciplina dell’inibitoria delineata nell’art. 35-bis, comma 13 d.lgs cit. contiene poi elementi di marcata differenziazione rispetto a quella del processo civile ordinario contenuta nell’art. 373 cpc, il che impone all’interprete una verifica di compatibilità con i principi comunitari di effettività ed equivalenza e con il principio costituzionale di terzietà del giudice.

***

Assetto organizzativo tabellare del Tribunale di Bari

L’assetto tabellare barese tiene conto del fatto che, pur nel ritorno (da parte del legislatore) al rito camerale, v’è competenza collegiale solo per la decisione − vds. art. 3, comma 4-bis dl n. 13/2017, conv. in legge n. 46/2017 − «sono decise dal tribunale in composizione collegiale. Per la trattazione della controversia è designato dal presidente della sezione specializzata un componente del collegio». E considera che, ex art. 12 d.lgs 116/2017, i giudici onorari di pace (gop) non possono comporre i collegi delle sezioni specializzate.

La Sezione immigrazione si avvale, quindi, dell’Ufficio per il processo come delineato dalla disciplina introdotta con il d.lgs cit.; conseguentemente, nella composizione tabellare della neo istituita sezione specializzata immigrazione si inseriscono i gop in termini di affiancamento al magistrato professionale, il quale ultimo conferisce delega per il compimento di singoli atti istruttori, tra cui l’audizione del richiedente asilo.

Quanto alle minute dei provvedimenti, e alla loro eventuale scrittura a cura del gop in affiancamento al magistrato professionale, v’è a riguardo la disposizione dell’art. 10, comma 10, d.lgs cit., la quale regola la materia e fa inequivoco riferimento a «…tutti gli atti preparatori utili per l’esercizio della funzione giurisdizionale» [1].

Protezione umanitaria e rito collegiale

1. L’art. 3, comma 4-bis dl n. 13/2017, conv. in legge n. 46/2017 (cd. decreto Minniti), recita «le controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale di cui all’art. 35 d.lgs n. 25/08 … sono decise dal tribunale in composizione collegiale».

Un primo aspetto da chiarire è se la protezione umanitaria rientri o meno, in senso lato, nell’alveo della protezione internazionale; a tale quesito può darsi risposta positiva posto che essa «costituisce una forma di tutela a carattere residuale posta a chiusura del sistema complessivo che disciplina la protezione internazionale degli stranieri in Italia, come rende evidente l’interpretazione letterale del d.lgs n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, (cd. decreto “procedure”), in base a cui “nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale” (nella forma del rifugio o della protezione sussidiaria) e “ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, la Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi del d.lgs 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6» (così Cass., Prima Sez. civ., 23 febbraio 2018, n. 4455, relatore Acierno, in motivazione punto 4.2) [2].

D’altronde, la protezione umanitaria è richiamata dalla direttiva comunitaria n. 115/2008, che all’art. 6, par. 4, prevede che gli stati membri possano rilasciare in qualsiasi momento, «per motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura», un permesso di soggiorno autonomo o un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un Paese terzo il cui soggiorno è irregolare. Sicché, in termini generali non v’è ragione di ritenere che la locuzione («controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale»), adoperata nel comma 4-bis del dl Minniti, non sia idonea a ricomprendere anche tale forma atipica e residuale di protezione.

2. A sua volta poi l’art. 35 ult. cit., rubricato «impugnazione», prevede testualmente che «avverso la decisione della Commissione territoriale… è ammesso ricorso dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria», mentre il precedente art. 32, la cui rubrica reca, appunto, la dizione «decisione», consente bensì alla Commissione territoriale di adottare le seguenti «decisioni»:

a) quelle previste dagli artt. 23 (ritiro della domanda), 29 (casi di inammissibilità della domanda) e 30 (casi soggetti alla procedura di cui al regolamento (CE) n. 343/2003) d.lgs n. 25/08, nonché quelle di

b) riconoscimento (o rigetto, anche per manifesta infondatezza) della domanda diretta a conseguire lo status di rifugiato o della protezione sussidiaria,

c) di trasmissione degli atti al questore, se sussistono gravi motivi di carattere umanitario, per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 5, comma 6, d.lgs n. 286/1998.

Infine l’art. 35 cit., al comma 2, stabilisce che «Le controversie di cui al comma 1 sono disciplinate dall’art. 35-bis», ossia con il rito camerale collegiale di cui agli artt. 737 e ss. cpc.

Dal suesposto quadro normativo, così succintamente tratteggiato, emerge che la protezione umanitaria è stata chiaramente considerata come oggetto di una delle possibili «decisioni» della Commissione territoriale in quanto rientrante (evidentemente anch’essa, e a pieno titolo) nell’ambito del cd. «sistema asilo».

Talché, il legislatore ha inteso individuare il rito (collegiale) come applicabile in tutti i casi in cui il richiedente asilo abbia impugnato la «decisione» della Commissione ex art. 32 d.lgs n. 25/2008, e ciò quale che sia il tipo di richiesta formulata nel ricorso ex art. 35 stesso d.lgs dal difensore, il quale ultimo potrebbe anche essersi limitato a insistere solo sulla protezione cd. umanitaria, formulando in tal guisa sostanziale acquiescenza rispetto alla reiezione del rifugio politico e della protezione sussidiaria.

In altre parole, il rito collegiale si correla, nel disegno normativo, all’oggetto del ricorso (ossia all’impugnazione della «decisione» ex art. 32 d.lgs n. 25 cit.) e la sua applicazione non è condizionata dall’ampiezza della domanda formulata in causa.

Dalla ricostruzione del sistema, ben s’intende come si sia tenuto conto della stretta connessione esistente tra la procedura (amministrativa) di primo grado e la procedura di impugnazione dinanzi al giudice la quale non può che considerare, ai fini della definizione della «controversia in materia di riconoscimento della protezione internazionale» (art. 3, comma 4-bis, dl n. 13/2017), l’ampiezza delle questioni scaturenti dal colloquio personale sulla domanda di protezione internazionale, ricomprendendo tutte le «ragioni» che indussero lo straniero ad abbandonare il proprio Paese e le circostanze di vita che egli si troverebbe a dover affrontare in caso di rimpatrio.

Di guisa che la locuzione «protezione internazionale» adoperata nel comma 4-bis dell’art. 3 dl n. 13 cit. è riferita al più (rifugio politico e protezione sussidiaria) per comprendere (ragionevolmente, ed a fortiori) anche il meno (protezione umanitaria).

3. A riprova del ragionamento dianzi esposto giova altresì evidenziare che in questa materia vige (come noto) il principio della domanda ma in termini sicuramente attenuati, e ciò sia in sede amministrativa dinanzi alle Commissioni territoriali [3], sia dinanzi all’A.G.; il che consentirebbe − in presenza, ad es., dei presupposti legati alla situazione geopolitica del paese di provenienza − il riconoscimento anche ex officio della protezione internazionale [anche sussidiaria ex art. 14 lett. c) d.lgs n. 251/07] laddove il giudice, quantunque investito della sola domanda di protezione umanitaria, ne ravvisasse in concreto i presupposti.

Sicché la valutazione è operata dal tribunale (per forza di cose) in modo esteso e onnicomprensivo, con riferimento ai vari «gradi» della protezione internazionale, nelle sue forme tipiche (rifugio politico e protezione sussidiaria, e atipiche, id est permesso per ragioni umanitarie) senza che sia possibile, per lo meno a priori, escluderne alcuno dal perimetro decisionale in termini vincolanti per il giudice.

Pur senza formulazione di espressa domanda in tal senso ex art. 35 d.lgs n. 25/08, potrebbe or dunque riconoscersi la protezione internazionale (rifugio politico o sussidiaria) allo straniero che si è limitato a chiedere il permesso per ragioni umanitarie; protezione (a mio parere) che, ancorché accordata d’ufficio, non rescinderebbe i diritti politici e di cittadinanza in modo contrario agli interessi dello straniero e non potrebbe dirsi certo preclusa per effetto del silenzio della parte, dell’assenza (o tardività) della domanda del richiedente asilo ma solo in forza di un rifiuto volontario di protezione dello straniero (lo stesso rifiuto che potrebbe valere a determinare, come noto, la cessazione della protezione: vds. art. 9 d.lgs n. 251/07).

L’interpretazione qui propugnata sembrerebbe la più aderente al dato letterale, ed è coerente con il sistema, donde la conformità al dettato dell’art. 12 prel. cc [4].

4. Né varrebbe obiettare che quando il legislatore parla di «protezione internazionale» intende esclusivamente lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria [così, per vero, l’art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs 25/08], e ciò perché la dictio legis dell’art. 3, comma 4-bis, dl n. 13/2017, conv. in legge n. 46/2017, fa riferimento alle «controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale di cui all’art. 35 d.lgs n. 25/08», le quali ultime sono, s’è detto, correlate alle possibili decisioni di cui al precedente art. 32 (nel cui alveo si colloca anche quella prevista dal comma 3 art. ult. cit., ossia quella inerente alla trasmissione degli atti al questore per il rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie).

Se si ritiene, poi, come evidenziato in alcuni interventi, che il nuovo rito camerale sia limitativo dei diritti dello straniero (prevedendo un unico grado di merito con soppressione dell’appello), donde perciò l’esigenza ermeneutica di procedere a stretta interpretazione della nuova disciplina, allora non si spiegherebbe però, sul piano della logica e del sistema, perché nell’ipotesi di domanda più ampia (rifugio politico e protezione sussidiaria) tale limitazione dei diritti processuali sarebbe stata bensì prevista, e ritenuta giustificata dal legislatore, e non anche per la (minore, e gradata) misura della protezione umanitaria.

Videoregistrazione

Occorre distinguere l’obbligo di fissazione dell’udienza dall’obbligo di audizione dello straniero nel processo.

Quest’ultimo non è previsto dalla legge.

A sensi dell’art. 35-bis, comma 11, d.lgs n. 25/2008«L’udienza è altresì sempre disposta quando … a) la videoregistrazione non è disponibile»; tale non disponibilità può dipendere da ragioni tecniche o anche dalla volontà dello straniero.

E ciò in quanto «in sede di colloquio il richiedente può formulare istanza motivata di non avvalersi della videoregistrazione. Sull’istanza decide la Commissione» (così art. 14, comma 6-bis, d.lgs cit.).

In entrambe le ipotesi, si impone è vero la fissazione dell’udienza, non anche l’audizione il cui rinnovo deve trovare invece motivazioni specifiche e convincenti [5]; in altri termini, non basterebbe chiedere al giudice (si noti) solo ed esclusivamente perché manca la videoregistrazione, l’audizione dinanzi al tribunale.

È per questo che il Tribunale d Bari si è orientato nel senso di ritenere che la nuova disciplina processuale introdotta dal dl n. 17 del 2017, conv. in legge n. 46 del 2017, non imponga il rinnovo dell’audizione, la cui necessità va opportunamente vagliata caso per caso, nel contesto dell’udienza doverosamente fissata in assenza della videoregistrazione, e ciò in aderenza a quanto statuito dalla Corte di giustizia (sent. Sacko del 26 luglio 2017, in causa C-348/16) [6] e allo scopo di garantire al ricorrente un «rimedio effettivo», così come previsto dall’art. 47 della cd. Carta di Nizza.

Trattasi di esegesi che s’appalesa in linea:

a) con l’art. 14 dir. 2013/32 che contempla un «obbligo di fare sostenere un colloquio personale» gravante esclusivamente sull’autorità incaricata di procedere all’esame delle domande di protezione e competente a pronunciarsi in primo grado; pertanto, non suscettibile di estensione alle procedure di impugnazione (così sent. Sacko cit., in motivazione al punto 26);

b) con l’art. 46 § 1 dir. 2013/32 che sancisce il diritto a «un ricorso effettivo dinanzi a un giudice avverso le decisioni di rigetto», ma al successivo § 3 chiarisce che «ricorso effettivo» è quello che «prevede l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto», senza che sia imposto «lo svolgimento dell’udienza» (così punto 28 della motivazione della sent. Sacko) essendo richiesto soltanto, ex art. 47 della Carta di Nizza, di garantire «a ogni persona i cui diritti sono stati violati un ricorso effettivo dinanzi a un giudice».

In definitiva, il diritto di essere ascoltato non si configura «come prerogativa assoluta ma può soggiacere a restrizioni a condizione che esse rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti» (punto 38, sent. Sacko); si è altresì chiarito, in tale contesto, nella citata decisione della Corte di giustizia, che «…l’esistenza di una violazione dei diritti di difesa e del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva deve essere valutata in funzione delle circostanze specifiche di ciascuna fattispecie e segnatamente della natura dell’atto in oggetto, del contesto in cui è stato adottato e delle norme giuridiche che disciplinano la materia» (così punto 41, sent. Sacko).

La Corte di Lussemburgo rimarca ancora, per opportunamente perimetrare l’ambito di obbligatorietà dell’audizione, la stretta correlazione nella specie tra la procedura di impugnazione dinanzi al giudice e la procedura di primo grado che la precede, nel corso della quale deve essere data facoltà di sostenere il colloquio personale sulla domanda di protezione ex art. 14 direttiva.

I punti 44 e 45 (ma vds. anche punto 47) della motivazione della sent. Sacko rimettono, conclusivamente, al giudice la valutazione sulla necessità del rinnovo audizione ai fini del «rimedio effettivo».

Inibitorie cautelari

1. La disciplina consente il ricorso all’inibitoria dopo la decisione della commissione territoriale.

L’art. 35-bis, comma 3 d.lgs n. 25/08 prevede la «sospensione automatica» dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, con le sole eccezioni del soggetto trattenuto, della decisione che dichiara la domanda inammissibile o manifestamente infondata, dell’ipotesi dell’ingresso fraudolento o della domanda di soggiornante irregolare ex art. 28-bis, comma 2, lett. c).

Nei casi in cui il provvedimento non è sospeso ex lege, occorre formulare istanza ad hoc, deducendo «gravi e circostanziate ragioni», e il giudice decide assunte, ove occorra, sommarie informazioni.

Indi il giudice (componente del collegio designato per la trattazione ex comma 4-bis, art. 3, dl n. 13/2017) emetterà un decreto inaudita altera parte entro gg. 5, concedendo poi i termini di legge di gg. 5 per note difensive + gg. 5 per eventuali repliche.

Il testo normativo stabilisce che: «Qualora siano state depositate note ai sensi del terzo e quarto periodo del presente comma, il giudice, con nuovo decreto, da emettersi entro i successivi 5 gg. conferma, modifica e revoca i provvedimenti già emanati»; l’ultimo decreto è dichiarato dal legislatore «non impugnabile» né revocabile (arg. dall’art. 177, comma 1, n. 2 cpc sulle ordinanze dichiarate espressamente non impugnabili).

Va però opportunamente chiarito che intanto il giudice procede al riesame del decreto emesso inaudita altera parte in quanto siano state depositate dalle parti le note difensive nei termini di cui al terzo e al quarto comma (comma 4, art. 35-bis cit.). Altrimenti, non vi sarà luogo a provvedere sull’istanza di riesame eventualmente formulata dalla parte (beninteso, al di fuori di una rituale richiesta di rimessione in termini ex art. 153, comma 2, cpc).

2. La disciplina dell’art. 35-bis cit. consente altresì il ricorso all’inibitoria dopo l’emissione del decreto collegiale di rigetto della domanda di protezione.

L’art. 35-bis, comma 13, puntualizza che «la sospensione degli effetti del provvedimento impugnato, di cui al comma 3, viene meno se con decreto anche non definitivo il ricorso è rigettato».

Il termine per il ricorso in cassazione è di gg. 30 e decorre dalla comunicazione del decreto a cura della cancelleria. Ma, precisa il comma 13 cit., «qualora sussistano fondati motivi, il giudice che ha pronunciato il decreto impugnato può disporre la sospensione degli effetti del predetto decreto, con conseguente ripristino, in caso di sospensione di decreto di rigetto, della sospensione dell’efficacia esecutiva della decisione della Commissione».

Si richiede però che sia presentata un’istanza di sospensione entro gg. 5 dalla «proposizione» del ricorso per Cassazione [7]; si prevede, ancora, la possibilità per la controparte di depositare delle note  difensive entro gg. 5 dalla comunicazione a cura della cancelleria dell’istanza di sospensione; indi, il giudice decide entro i 5 gg. successivi con decreto (sempre) non impugnabile.

«Fondati motivi»

Giova evidenziare che il comma 13 cit. fa riferimento non all’esistenza di un «grave e irreparabile danno» (come prevede l’art. 373 cpc), ma alla configurabilità di «fondati motivi», individuando in tal guisa una formula non dissimile rispetto a quella del precedente comma 4 dell’art. 35-bis cit. [8] e quasi analoga a quella dell’art. 283 cpc (disposizione, questa, che adopera invece la locuzione «gravi e fondati motivi»; cfr. Cass. n. 4060/2005, secondo la quale «tali gravi e fondati motivi consistono per un verso nella delibazione sommaria della fondatezza dell’impugnazione e per altro verso nella valutazione del pregiudizio…»), e mostrando di voler estendere la valutazione del giudice alla sommaria delibazione del fumus (potendo, evidentemente, il periculum qui connotarsi in termini generalizzati e quasi impliciti: lo straniero che si è visto respingere il ricorso giurisdizionale rischia infatti essere attinto da immediato provvedimento di espulsione ex art. 32 d.lgs n. 25/2008).

La diversa formula adoperata («fondati motivi») rispetto al testo dell’art. 373 cpc (che fa leva sul «grave e irreparabile danno») non sembra peraltro collidere col principio di «equivalenza» [9], stante il particolare contenuto sostanziale della situazione protetta, che deve consentire al legislatore di opportunamente prevedere un trattamento differenziato; d’altronde, la previsione della locuzione «fondati motivi», se intesa nel senso di abbracciare tanto il periculum che il fumus appare non già più restrittiva ma semmai ampliativa dei margini di intervento giudiziale in sede di sospensiva cautelare previsti dall’art. 373 cpc. Tanto, invero, varrebbe a escludere un profilo di frizione col principio di «equivalenza» di matrice comunitaria.

Il fumus di verosimile fondatezza dell’impugnazione potrà essere ravvisabile, poi, alla stregua di violazioni di legge o di gravi deficit motivazionali (sul «vissuto» dello straniero e sulle possibili interferenze in termini di protezione, sulla sottovalutazione di aspetti legati all’integrazione sociale o su altri elementi addotti per le diverse forme di protezione, ovvero ancora sui report internazionali immotivatamente ignorati, etc.) del decreto camerale. L’apprezzamento del fumus dell’impugnazione non dovrebbe impedire tuttavia, in difetto di specifiche incompatibilità (non previste a tal riguardo dal legislatore), al giudice componente del collegio, che ha emesso il decreto camerale oggetto dell’istanza di inibitoria, di comporre anche il collegio costituito per l’istanza ex 35-bis, comma 13 cit. [10].

La disciplina s’appalesa, nel complesso, in sintonia con la direttiva 26.6.2013/32/UE.

Va premesso che l’indirizzo giurisprudenziale che si era affermato, prima della novella introdotta dall’art. 6, dl n. 13/17, conv. in legge n. 46/2017, era nel senso dell’inammissibilità dell’istanza ex art. 373 cpc sull’assunto che vi fosse, per la parte istante, carenza di interesse alla richiesta di sospensiva, atteso che si desumeva dal testo dell’art. 46, comma 5, dir. 26.6.2013 n. 32 il principio secondo cui lo straniero avesse diritto a restare nel territorio nazionale «...in attesa dell’esito del ricorso».
Per «esito del ricorso» si intendeva, infatti, la decisione con sentenza definitiva e fino alla pronuncia sul ricorso in Cassazione.

Ebbene, il legislatore, consapevole di tale orientamento giurisprudenziale, ha introdotto ora, con il menzionato art. 6, la nuova disciplina dell’inibitoria di cui al co. 13 dell’art. 35-bis d.lgs n. 25/2008.

Trattasi di previsione che tiene in debito conto il testo del comma 6 dell’art. 46 dir. cit., il quale ultimo consente bensì deroghe alla possibilità di rimanere sul territorio per «la domanda infondata ... conformemente all’art. 31, § 8» stessa direttiva, e va dunque a delineare, a ben vedere, un procedimento di inibitoria inedito che riecheggia, in sostanza, lo strumento processuale dell’art. 373 cpc; con facoltà per il giudice di procedere, su istanza di parte, alla sospensione dell’efficacia esecutiva del decreto camerale di rigetto [11].

L’innovazione legislativa (id est, introduzione di un effetto sospensivo non automatico alle procedure di impugnazione di una decisione di primo grado), siccome introdotta in un campo non specificamente disciplinato dal diritto comunitario (ossia quello della sospensiva della decisione giurisdizionale di primo grado), potrebbe dirsi compatibile con il principio di «effettività», rimettendo al giudice la delibazione del livello di incoerenza e del grado di inverosimiglianza del diritto di asilo affermato dal ricorrente [12], e ciò appare peraltro in linea col testo dell’art. 46, comma 6 ult. per., dir. cit. (disposizione in cui, per particolari decisioni di infondatezza dell’autorità amministrativa, «un giudice è competente a decidere … se autorizzare o meno la permanenza del richiedente»).

Diversamente opinando, non si comprenderebbe infatti perché tale facoltà di negare il diritto a permanere nel territorio dello Stato, come si è visto esercitabile contro specifiche decisioni di infondatezza dell’autorità amministrativa, non possa essere esercitata, a fortiori, laddove al diniego della Commissione sia seguito l’ulteriore rigetto del ricorso giurisdizionale ex art. 35 d.lgs n. 25 cit. [13].

Sul piano del vaglio di infondatezza del diritto di asilo, la situazione che si viene a creare per effetto della “doppia negativa” (in sede amministrativa prima e giurisdizionale poi) avrebbe sicuramente un margine di affidabilità più pregante e consistente di quello desumibile alla stregua del solo art. 31, § 8, dir. cit., sicché le situazioni parrebbero sul piano sostanziale equiparabili, donde la coerenza della scelta di rimettere al giudice nazionale l’apprezzamento in sede cautelare sulla permanenza, o meno, dello straniero nel territorio nazionale [14].



[1] «Art. 10. Destinazione dei giudici onorari di pace nell’ufficio per il processo

(omissis)

10. Il giudice onorario di pace coadiuva il giudice professionale a supporto del quale la struttura organizzativa è assegnata e, sotto la direzione e il coordinamento del giudice professionale, compie, anche per i procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione collegiale, tutti gli atti preparatori utili per l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte del giudice professionale, provvedendo, in particolare, allo studio dei fascicoli, all’approfondimento giurisprudenziale e dottrinale ed alla predisposizione delle minute dei provvedimenti. Il giudice onorario può assistere alla camera di consiglio.

11. Il giudice professionale, con riferimento a ciascun procedimento civile e al fine di assicurarne la ragionevole durata, può delegare al giudice onorario di pace, inserito nell’ufficio per il processo, compiti e attività, anche relativi a procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione collegiale, purché non di particolare complessità, ivi compresa l’assunzione dei testimoni, affidandogli con preferenza il compimento dei tentativi di conciliazione, i procedimenti speciali previsti dagli articoli 186-bis e 423, primo comma, del codice di procedura civile, nonché i provvedimenti di liquidazione dei compensi degli ausiliari e i provvedimenti che risolvono questioni semplici e ripetitive.

13. Il giudice onorario di pace svolge le attività delegate attenendosi alle direttive concordate con il giudice professionale titolare del procedimento, anche alla luce dei criteri generali definiti all’esito delle riunioni di cui all’articolo 22. Il Consiglio superiore della magistratura individua le modalità con cui le direttive concordate sono formalmente documentate e trasmesse al capo dell’ufficio».

[2] La sentenza è pubblicata, con nota di C. Favilli, La protezione umanitaria per motivi di integrazione sociale. Prime riflessioni a margine della sentenza della Corte di cassazione n. 455/2018, in questa Rivista on-line, 14 marzo 2018, http://questionegiustizia.it/articolo/la-protezione-umanitaria-per-motivi-di-integrazion_14-03-2018.php.

[3] Come precisa Cass. n. 4455 cit., al punto 6 della motivazione, «all’interno del sistema giurisdizionale relativo alla protezione internazionale, così come regolato dai d. lgs n. 251 del 2007 e d.lgs n. 25 del 2008 e successive modificazioni, la sussistenza delle condizioni di vulnerabilità poste a base della protezione umanitaria deve essere verificata officiosamente dalle Commissioni territoriali (d.lgs n. 25 del 2008, art. 32) quando non vi siano i requisiti per lo status di rifugiato e per la protezione sussidiaria, non operando, in tale fase del procedimento, il principio dispositivo».

[4] In senso conforme all’interpretazione adottata dal Tribunale di Bari, si sono espressi Trib. di Palermo, decr. 21 febbraio 2018, e Trib. di Cagliari, decr. 18 dicembre 2017; nel solco di tale impostazione, residuerebbe tuttavia la possibilità di applicazione del rito ordinario o del rito sommario di cognizione nei casi di impugnazione del rigetto (adottato dalla questura) della richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie.

In senso contrario, cfr. Trib. di Bologna, ord. 11 maggio 2018, Trib. Genova, ord. 16 marzo 2018, e Trib. Caltanissetta, ord. 25 settembre 2017, che affermano sia invece sempre utilizzabile il rito ordinario o quello sommario di cognizione per i giudizi attinenti al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie.

[5] Ad esempio il ricorrente, a causa delle torture subite ha sul volto segni cicatriziali che vuole siano visti dal giudice oppure non è stato compreso bene in un passaggio dall’interprete o è stata omessa una domanda su aspetti rilevanti della sua storia, come evidenzia nel ricorso il suo difensore.

[6] La sentenza è pubblicata in http://curia.europa.eu.

[7] L’art. 369, comma 1 cpc distingue la procedibilità dell’atto, che si ha col tempestivo deposito del ricorso nella cancelleria della Corte di cassazione, dalla sua «proposizione», che si attua viceversa con la preventiva notifica («Il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della Corte, a pena d’improcedibilità, nel termine di giorni venti dall’ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto»). Sicché, il termine di giorni 5 (ex art. 35-bis, comma 13 cit.) decorre dalla notifica del ricorso per Cassazione e non già dal deposito dello stesso.

[8] L’art. 35-bis, comma 4 parla infatti di «gravi e circostanziate ragioni».

[9] Sui principi, di derivazione comunitaria, di equivalenza ed effettività cfr. Corte Giust., 5 novembre 2014, Mukarubega, causa C-166/13, punto 51; Corte Giust. 11 dicembre 2014, Boudjlida, causa C-249/13, punto 41.

[10] Trib. Roma, 18 novembre 2005, in Dir. Fall., 2007, 11, 314, con nota di F. Ravidà, Le incompatibilità endoprocessuali nel fallimento: nuove garanzie e vecchi assetti, ha ritenuto che il giudice delegato che ha preso parte al collegio costituito in sede di reclamo ex art. 26 l. fall., il cui provvedimento è impugnato in Cassazione, può partecipare al collegio costituito per l’istanza ex art. 373 cpc. Non può negarsi, tuttavia, che problemi potrebbero porsi, in difetto di opportuni adeguamenti sul piano tabellare, alla stregua del parametro di terzietà del giudice come fissato nell’art. 111 Cost., dovendo il collegio dell’inibitoria (che potrebbe avere, come componenti, soggetti che hanno concorso a rendere la statuizione impugnata in Cassazione) effettuare una valutazione sulla verosimile fondatezza dell’impugnazione.

[11] Tale esegesi è stata peraltro, da ultimo, sostenuta anche da indirizzo autorevole del S.C. con cui si è alfine chiarito che v’è (però solo a partire dal 18.8.2017 in virtù all’art. 35-bis, comma 13, d.lgs n. 25/08, come introdotto dall’art. 6, comma 1, lett. g), dl n. 13/2017, conv. in legge n. 46/2017) cessazione dell’effetto sospensivo, in caso di rigetto del ricorso, «con decreto anche non definitivo del tribunale» (così Cass. n. 12476 del 21 aprile 2018).

[12] Un’impostazione che ritenesse invece lesiva dei principi comunitari la previsione della speciale inibitoria ex art. 35-bis, comma 13 cit., e ciò nell’ottica del ripristino della sospensione automatica dell’esecutività della decisione di primo grado fino alla pronuncia in Cassazione, determinerebbe, a ben vedere, un unicum nel panorama normativo, avendo il legislatore previsto all’art. 282 cpc l’efficacia esecutiva generalizzata della sentenza di primo grado, salva (beninteso) la sospensione ex artt. 283 e 379 cpc.

[13] Il diritto comunitario non impone, come noto, il doppio grado di giudizio avverso le decisioni che respingono la domanda di asilo, prescrivendo solo che il richiedente asilo debba potere esercitare il diritto di impugnazione della decisione negativa, ossia la facoltà di introdurre un ricorso di primo grado avverso la decisione amministrativa di natura reiettiva. Orbene, in assenza di una disciplina comunitaria in materia di instaurazione del secondo grado di giudizio, e di effetto sospensivo dello stesso, gli Stati membri preservano, dunque, ampi margini di discrezionalità.

[14] Sullo specifico tema, cfr. l’art. 9 (che fa riferimento alle procedure di primo grado di cui al capo III prevedendo il diritto di restare dello straniero nel Paese d’accoglienza: vds. altresì l’art. 31 che si sovrappone sul piano contenutistico all’art. 27 d.lgs 25/08) e l’art. 46 comma 5 (che fa riferimento alle procedure di impugnazione e consente medio tempore la permanenza nel Paese di accoglienza «in attesa dell’esito del ricorso») della direttiva 26.6.2013/32/UE cit.. 

28/06/2018
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