Nelle Considerazioni finali della relazione sulla amministrazione della giustizia, tenuta quest’anno dal Presidente della Cassazione Pietro Curzio, è stata denunziata la grave situazione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, ove, nel 2022, si è avuto un rilevante aumento delle denunce rispetto a quelle dell’anno precedente (rispettivamente, del 32,9 e del 10,6 per cento). «Rimane inaccettabile» – ha osservato Curzio – «il numero delle morti bianche, che anche quest’anno (ndr.: nel 2022) ha superato il livello di 1000 casi, con l’inquietante ritmo di tre morti al giorno».
La situazione non appare meno grave di quella esistente nella prima metà degli anni ‘70, in cui, sensibilizzato dalla impressionante realtà, decisi di lasciare la sezione civile della pretura di Roma, nella quale prestavo servizio da alcuni anni, per chiedere e ottenere l’assegnazione alla sezione penale della stessa pretura, che si interessava delle indagini e dei processi in materia di infortuni sul lavoro. La sezione (con competenza interna sui reati contro la salute pubblica, comprensivi anche degli inquinamenti e delle frodi alimentari) era stata istituita su iniziativa di Gianfranco Amendola e del compianto Giuseppe Antonio Veneziano, il quale ultimo, già mio collega nella sezione civile, mi invitò a seguirlo nella nuova attività.
Nel mezzo secolo trascorso da allora la legislazione sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro è radicalmente mutata. All’epoca, essa era contenuta in diversi d.P.R. (erano decreti legislativi, ma questa qualificazione formale della fonte non era ancora entrata nella prassi) emanati nel 1955-56, che dettavano disposizioni specifiche, molto analitiche, con sanzioni penali deboli. Per gli infortuni non ricollegabili alla inosservanza delle tassative norme sulla prevenzione facevamo ricorso alla eventuale presenza di elementi di colpa generica nella causazione delle lesioni (gli omicidi erano di competenza della procura della Repubblica), oltre alla importante disposizione dell’art.2087 c.c.. Si era in presenza di un settore di legislazione speciale, disorganico e incompleto, più che di un vero e proprio “sistema”.
Il processo innovativo si deve all’input dato da diverse direttive della Comunità europea, delle quali la più importante è la c.d. direttiva quadro del 1989 (89/391/CEE). Il suo recepimento portò al profondo cambiamento dato dal d. lgs. 19 settembre 1994 n.626, anche se esso mantenne in vita la precedente legislazione. Si parlò di «nuovo volto del diritto penale del lavoro» (T. Padovani, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1996, 1157). Il percorso si è completato con la disciplina compiuta e organica del d. lgs. 9 aprile 2008, n.81, sulla tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro. Esso costituisce, nella sostanza, un testo unico della materia, il quale, pure se modificato successivamente, rimane il fondamento del vigente “sistema” di sicurezza del lavoro.
La disciplina giuridica è indubbiamente complessa. Essa è stata studiata ed esaminata in diverse pubblicazioni (a differenza di mezzo secolo fa, in cui sulla legislazione in materia quasi non esisteva la dottrina, sempre essenziale per gli orientamenti giurisprudenziali). Nell’anno in corso se n’è aggiunta una, che si caratterizza, oltre che per il contenuto di cui subito si dirà, per la sua mole, di circa mille pagine. Il volume qui preso in considerazione è composto da 38 saggi redatti da 41 studiosi, coordinati dal prof. avv. Adelmo Manna, a cui si devono anche due saggi. Gli autori sono accademici (sia professori che giovani allievi), avvocati e tre magistrati. Il coordinamento dei saggi, che è stato una “fatica di Sisifo” (come Manna confessa nella sintetica, ma completa, presentazione dell’opera), si rivela efficace. Tutti i saggi, divisi in paragrafi, sono seguiti da dettagliate bibliografie (e, in alcuni casi, sitografie) e sono preceduti da abstracts, molto opportuni per orientarsi nella ampissima trattazione; l’informazione sulla dottrina e sugli orientamenti della giurisprudenza è sempre ricca e aggiornata.
Da segnalare, soprattutto, è l’originale struttura della pubblicazione. Il sistema della sicurezza del lavoro è stato considerato dal coordinatore in due sottosistemi, quello penale della persona fisica e quello punitivo della persona giuridica, che Manna ritiene anche esso penale, e non amministrativo, come è formalmente qualificato dal d. lgs. 8 giugno 2001 n.231 (su questo punto tornerò in seguito). La trattazione è, perciò, divisa in due parti, la prima (15 saggi) meno estesa della seconda (23 saggi). Quest’ultima costituisce una trattazione approfondita della responsabilità da reato degli enti in tutti i suoi aspetti, e non solo nelle particolarità relative al suo riferimento ai delitti di omicidio e di lesioni commessi con violazione delle norme sulla tutela sulla salute e sicurezza sul lavoro (art. 25-septies d. lgs. n.231/2001, nel testo modificato dall’art.300 T.U. n.81/2008). Il volume, pertanto, si rivela utile allo studio sia della normativa sulla sicurezza del lavoro, sia della disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive della personalità giuridica.
Qualche rapida informazione sul contenuto delle due parti.
La prima parte, dedicata alla responsabilità della persona fisica, inizia con un saggio sui principi costituzionali costituenti il fondamento della protezione penale del lavoratore, ma che ne segnano anche il limite, perché impongono il rispetto delle essenziali garanzie della responsabilità per fatto proprio e della colpevolezza. Queste garanzie sono tenute ben presenti dagli autori dei diversi saggi.
Il secondo capitolo analizza i soggetti attivi della sicurezza e affronta il problema della delega di funzioni da parte del datore di lavoro, che è ammessa nei limiti previsti dall’art.16 del T.U. n.81, ma che, per espresso disposto di legge, non esclude l’obbligo del delegante di vigilare «in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite», onde il datore di lavoro rimane comunque il garante primario della sicurezza sul posto di lavoro. La delega di funzioni, al di là del significato proprio del termine, è idonea non a esonerarlo dalla responsabilità, ma a ridurne l’ambito di configurabilità.
I capitoli successivi approfondiscono i vari aspetti della colpa: le regole cautelari, proprie e improprie, la cui violazione va legata all’evento (c.d. causalità della colpa, che deve essere esclusa quando si dimostri che, non ostante l’inosservanza della regola cautelare, l’evento si sarebbe verificato ugualmente). Da qui la necessità di indagare sul valore del «comportamento alternativo lecito», sul criterio dell’agente “modello” (homo eiusdem condicionis et professionis), sulla colpa del lavoratore e i suoi effetti sulla responsabilità del datore di lavoro.
Il fulcro del vigente sistema normativo è costituito dal rischio di sicurezza per il lavoratore, che è diverso dal pericolo perché è ad esso prodromico e dipende non da un singolo fattore specifico, ma dalla interazione di più fattori. Da qui l’essenzialità del capitolo dedicato alle operazioni di valutazione e di gestione del rischio, al fine di eliminarlo o, ove ciò non sia possibile, di ridurlo al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico.
Seguono i capitoli dedicati alle contravvenzioni previste dal T.U. n.81 e ai delitti inclusi nel codice penale. In ordine alle prime, interessante è l’analisi del meccanismo premiale, introdotto per alcune contravvenzioni dal d. lgs. n.758/1994 e poi esteso all’intera materia dell’igiene, salute e sicurezza del lavoratore (art.301 T.U. n.81), consistente nell’adempimento delle prescrizioni impartite dall’organo che ha accertato la violazione. Questo adempimento, unito al pagamento di una somma di denaro, comporta l’estinzione del reato. Il meccanismo, poi applicato anche in materia ambientale, è stato recentemente esteso dalla riforma Cartabia alle contravvenzioni in materia di igiene, produzione e vendita di alimenti e bevande (d. lgs. n.150/2022, art.70). Ai delitti codicistici è destinata una parte speciale, in cui sono inclusi i saggi dedicati ai reati di omicidio e lesioni colpose sui luoghi di lavoro, al rapporto tra questi eventi e il delitto di caporalato (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: art.603-bis c.p.), al reato di rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro (art.437 c.p.), al reato di omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro (art.451 c.p.). Un precedente saggio incluso nella parte generale ha per oggetto i delitti dolosi di comune pericolo.
Completano la prima parte del volume due saggi su prospettive future. Il primo riguarda la possibilità di applicare, nella materia qui considerata, la giustizia riparativa, alternativa alla giustizia punitiva, disciplinata in modo organico dalla citata riforma Cartabia (per questa parte, non ancora entrata in vigore). Il secondo ha per oggetto il disegno di legge presentato nella scorsa legislatura sulla istituzione di una procura nazionale del lavoro, su cui tornerò alla fine.
L’elencazione dei temi della prima parte del volume evidenzia l’assenza di quelli processuali, a differenza della seconda parte, relativa alla responsabilità da reato degli enti, che comprende anche il diritto processuale penale. Il coordinatore spiega questa assenza rilevando che è «assai difficile, quasi impossibile una trattazione unitaria» dei due codici penali, ispirati a due modelli opposti. Ritengo che la scelta riduttiva sia giustificata anche da altre ragioni, oltre la rilevata e indubbia diversità di impostazione delle due normative (la quale, però, non impedisce che la giustizia venga quotidianamente esercitata con la loro contemporanea applicazione): l’inclusione anche della tematica processuale relativa al diritto della persona fisica avrebbe reso probabilmente impossibile il mantenimento di un solo volume e, soprattutto, ne avrebbe rallentato i tempi, tenuto conto che la riforma Cartabia ha modificato circa duecento articoli del codice di rito, oltre all’ampliamento delle disposizioni transitorie avutosi con la legge 30 dicembre 2022 n.199. In questa recente riforma vi sono innovazioni di particolare rilevanza per il settore in discorso, come quella relativa alla iscrizione nel registro delle notizie di reato. Per tale atto oggi non è più sufficiente che il reato oggetto della notitia criminis sia «attribuito» ad una persona (come disponeva il precedente comma 1 dell’art.335 c.p.p.), ma occorre che a carico della stessa esistano «indizi» (nuovo comma 1-bis dello stesso articolo). Consegue che per l’iscrizione non è più sufficiente l’esistenza di un mero sospetto, quale poteva essere costituito dal rivestire una posizione di garanzia nell’ambito della organizzazione aziendale ove fosse avvenuto un infortunio, ma è necessaria l’esistenza di «indizi di reità», secondo l’espressione dell’art.63 c.p.p..
Sulla tematica della seconda parte del volume, la responsabilità da reato degli enti, Adelmo Manna ha una particolare competenza, avendo egli fatto parte della commissione ministeriale, presieduta da Giorgio Lattanzi, che elaborò lo schema di d. lgs. n.231/2001, attuativo della legge delega n.300/2000. Egli può, perciò, narrare perché tra i reati presupposto della responsabilità degli enti non furono inizialmente inseriti i delitti colposi di omicidio e di lesioni commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza del lavoro, che pure erano previsti dalla delega (art.11, lettera c) e che la commissione aveva ovviamente incluso nello schema del decreto legislativo. Questi reati sono stati inseriti nel d. lgs. solo successivamente, ad opera della legge n.123/2007 (art.25-septies).
La seconda parte è divisa in due sezioni: diritto sostanziale e diritto processuale. I saggi in essa compresi coprono pressoché interamente la normativa del d. lgs. n.231. Al di là della particolare competenza del coordinatore, l’ampiezza della materia trattata trova piena giustificazione nella necessità di comprendere l’intero sottosistema della responsabilità della persona giuridica se si vuole studiare la sua applicazione ai reati in materia di sicurezza del lavoro (anche se limitati a quelli indicati nell’art.25-septies, e quindi con l’esclusione dei delitti contro l’incolumità pubblica).
La prima sezione relativa al diritto sostanziale inizia con uno sguardo storico e comparatistico alla responsabilità da reato degli enti (cap. I), continua con la natura giuridica del detto istituto (cap. II), ne illustra i limiti di applicabilità spaziali, temporali (cap. III) e soggettivi (cap. IV), approfondisce il tema clou dei criteri di imputazione della responsabilità (cap. V-VI) e dei modelli di organizzazione e di gestione previsti dall’art.6 e dall’art. 30 del T.U. n.81 (cap. VII-IX), illustra la normativa originale sulle sanzioni (cap. X), considera le peculiarità dell’art. 25-septies (cap. XI), si conclude con l’esame del capo secondo del d. lgs. n. 231, sulla responsabilità patrimoniale e le vicende modificative dell’ente (cap. XII).
I reati indicati nell’art.25-septies sono stati i primi delitti colposi previsti come presupposto della responsabilità dell’ente. Essi hanno posto non facili problemi interpretativi per l’applicazione ad essi del criterio di imputazione oggettiva della responsabilità, che l’art.5 del d. lgs. n.231 individua nell’interesse o nel vantaggio del reato per l’ente, norma appropriata per le condotte dolose, ma certo non per i delitti colposi in cui l’evento (morte o lesioni) è, per definizione, non voluto. Sui criteri di imputazione soggettiva il T.U. n.81 (nell’art.30) ha, invece, dettato una apposita normativa che integra e specifica le disposizioni sui modelli di organizzazione e di gestione (MOG) previsti dagli artt. 6-7 del d. lgs. n.231, ma la nuova disciplina non è esente da problemi interpretativi.
Questa essenziale problematica è affrontata ampiamente nei saggi ad essa dedicati. Gli autori, in ordine alla imputazione oggettiva, condividono e approfondiscono la strada imboccata dalla giurisprudenza di riferire i criteri dell’interesse perseguito o del vantaggio conseguito alla condotta colposa, anziché all’evento (come nei reati dolosi). Più controversa è l’interpretazione delle disposizioni sui MOG (compliance programs) sia in generale, sia nella materia della sicurezza del lavoro. In quest’ultimo settore il citato art.30 prevede che il modello di organizzazione e di gestione «deve essere adottato ed efficacemente attuato», onde esso è oggetto di un obbligo dell’ente, e non più di un onere, il cui adempimento è idoneo a escluderne la responsabilità, secondo la disciplina generale dell’art.6 d. lgs. n.231. L’art.30, inoltre, prescrive il dettagliato contenuto del MOG, andando ben al di là delle indicazioni soltanto funzionali che si leggono nell’art.6. Ai problemi ermeneutici posti dall’art.30 è dedicato un ampio saggio, che lo ritiene «un sistema ancora in fieri».
L’inosservanza, da parte dell’ente, del multiforme dovere posto dall’art.30 può configurare la colpa di organizzazione costituente il criterio di imputazione soggettiva della sua responsabilità per i reati previsti dall’art.25-septies. La giurisprudenza, però, sta procedendo a porre, in generale, questo tipo di colpa a fondamento in positivo della responsabilità dell’ente in tutte le ipotesi previste dal d. lgs. n.231, con la conseguenza di addossare al p.m. l’onere di provare l’esistenza della colpa di organizzazione per pervenire all’affermazione di responsabilità dell’ente. Viene così superata la presunzione posta dal primo comma del citato art.6, secondo cui, nel caso di reati commessi da soggetti in posizioni apicali, spetta all’ente, per essere esente da responsabilità, fornire la prova di avere adottato e attuato il MOG, di avere affidato la vigilanza ad un organismo autonomo e, ancora, degli altri fatti previsti dallo stesso art.6.
L’interpretazione dei citati art.6 e art.30, nonché del rapporto tra gli stessi, incide sulla questione più discussa della materia, relativa alla natura giuridica della responsabilità dell’ente. Essa è chiaramente trattata nel saggio di Manna, il quale fa parte dell’autorevole gruppo di studiosi che la qualifica penale, respingendo la tesi della sua natura amministrativa (come è definita dalla legge) e la tesi del tertium genus di responsabilità. Tra i diversi argomenti esposti nel dibattito dottrinale, che rimane vivo in un quadro giurisprudenziale non uniforme, Manna privilegia l’orientamento della Corte dei diritti dell’uomo che, per evitare la c.d. “truffa delle etichette”, considera penali tutte le sanzioni che, pur qualificate diversamente dagli ordinamenti interni, abbiano una funzione punitiva ovvero siano di particolare gravità, secondo i c.d. criteri Engel (dalla decisione del 1976 che questi criteri elaborò). Dalla natura penale della responsabilità l’autore desume l’applicazione dell’art.112 Cost., che renderebbe illegittima la disposizione dell’art.58 d. lgs. n.231 sull’archiviazione disposta dal p.m., senza il controllo del giudice.
Indubbiamente le sanzioni applicabili agli enti hanno una funzione punitiva e sono particolarmente afflittive (soprattutto quelle interdittive), onde sussistono ambedue i criteri Engel per superare la qualificazione legale di sanzioni amministrative. Ma la natura penale secondo la Corte di Strasburgo rileva al solo fine della applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), per la quale tutte le sanzioni punitive hanno natura penale. E tra le disposizioni della Cedu non vi è alcuna sulla obbligatorietà o facoltatività dell’azione penale. Nel diritto italiano, invece, non esiste un’equivalenza tra sanzione punitiva e sanzione penale poiché al diritto penale tradizionale si sono, nel tempo, affiancate altre forme di diritto punitivo, come quello delle sanzioni amministrative previste dalla legge 24 novembre 1981 n.689 per l’illecito depenalizzato o ab origine amministrativo (diversi illeciti di questo tipo sono previsti nello stesso T.U. n.81) e, altresì, quello del diritto punitivo civile (d. lgs. 15 gennaio 2016 n.7). E la giurisprudenza della Corte costituzionale ha ritenuto conformi alla Costituzione diverse differenze di disciplina dell’illecito amministrativo punitivo rispetto a quella del reato, pur avendo esteso al primo alcune (ma non tutte) le garanzie costituzionali previste per il diritto penale.
Può allora configurarsi una responsabilità dell’ente che ha natura punitiva, ma non penale, pur essendo, tra quelle punitive la più prossima nella disciplina a quella penale. Alla base della responsabilità dell’ente vi è, infatti, un reato, che però è elemento necessario, ma non sufficiente per la sua affermazione, perché occorrono altri due elementi: l’interesse o il vantaggio dell’ente, l’esistenza di una colpa di organizzazione (per l’osservazione che il reato commesso dalla persona fisica «è solo uno degli elementi che formano l’illecito da cui deriva la responsabilità amministrativa» dell’ente, v. Corte cost., n.218/2014, § 2.2).
La seconda sezione della parte sulla responsabilità degli enti è dedicata al diritto processuale penale. Nel capo terzo del d. lgs. n.231 il legislatore ha scelto il simultaneus processus tra quello contro l’imputato e quello a carico dell’ente. Il primo saggio della sezione illustra questa scelta e le relative eccezioni. Essa non è incompatibile con la natura amministrativa della responsabilità dell’ente, conoscendo già l’ordinamento un processo penale simultaneo per il reato e per l’illecito punito con sanzione amministrativa, nell’ipotesi di connessione obiettiva prevista dall’art.24 della legge n.689/81.
Per la disciplina processuale il d. lgs. n. 231 ha scelto di dettare alcune limitate disposizioni, rinviando per il resto alle disposizioni del c.p.p. «in quanto compatibili» (art.34). Questa scelta del legislatore, che in un saggio del volume viene definita «minimalista», lascia ampio spazio ad un giudizio di compatibilità, che suscita non pochi problemi interpretativi. Questi problemi vengono posti e studiati nei successivi dieci saggi della sezione, che iniziano con il diritto di difesa dell’ente (cap. II) e proseguono seguendo l’ordine dei libri del codice di rito, che è anche l’ordine delle sezioni del capo terzo del d. lgs.: soggetti e atti, prove, misure cautelari interdittive e reali, decreto di archiviazione emesso dal p.m., udienza preliminare, giudizio, riti speciali, impugnazioni, esecuzione.
Non è questa la sede per entrare in singoli problemi processuali. Ė sufficiente esprimere la valutazione generale di profondità, acutezza e completezza delle analisi, la cui ampiezza (di poco meno di 300 pagine) è quella di un autonomo volume di diritto processuale penale sul sottosistema della responsabilità degli enti.
Alla fine della lettura del volume ci si può chiedere perché, non ostante tanto impegno nella elaborazione della normativa, la situazione degli infortuni sul lavoro permanga così grave come quella accennata all’inizio di questo scritto. Nel volume in discorso non mancano segnalazioni di insufficienze legislative e proposte di modifiche migliorative. Tralasciando quelle su punti limitati, vengono discusse due proposte legislative presentate in Parlamento nella legislatura da poco decorsa, ma non esaminate. La prima è quella già menzionata sulla procura nazionale del lavoro e sulle collegate direzioni distrettuali (Atto n.2052/S, presentato il 17 dicembre 2020, che è oggetto del cap. XI della prima parte); la seconda prevede sostanzialmente l’aggravamento di pena per i reati colposi di omicidio e di lesioni personali gravi e gravissime commessi per inosservanza delle norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (Atto n.3569/C, presentato il 21 aprile 2022, che è oggetto del cap. I dedicato a questi reati nella parte speciale).
Sulla seconda proposta di legge condivido la valutazione negativa espressa nel saggio citato, perché le pene per gli indicati reati sono già proporzionate, mentre il loro aumento, oltre a violare il principio di proporzionalità, rischia di innescare, a livello giudiziario, fenomeni di ricerca di ragioni per non applicare una pena che si avverte esagerata e quindi ingiusta.
La prima proposta di legge merita, invece, una valutazione meno netta. Come ha osservato Piero Curzio nella relazione qui citata all’inizio, il problema degli infortuni sul lavoro è tra quelli che «solo in parte possono essere affrontati con una risposta di carattere penale». Essi possono essere contenuti «solo grazie ad un sistema di controlli capillare, efficiente e moderno». Condivido questa opinione e quindi anche l’esigenza di una riduzione dell’area dei reati e della sanzione penale. Ma non può ignorarsi che si ha difficoltà a realizzare controlli effettivi ed efficaci ad opera degli organi amministrativi, onde l’intervento delle indagini giudiziarie appare quello più funzionante nella realtà. Nel campo della sicurezza del lavoro, però, la normativa vigente è particolarmente complessa sia negli aspetti giuridici (e gli sforzi di chiarificazione compiuti dalla pubblicazione recensita ne sono la migliore dimostrazione), sia perché essa presuppone conoscenze sulle organizzazioni societarie necessarie per applicare il d. lgs. n.231 (che infatti riceve oggi una applicazione sul territorio nazionale “a macchia di leopardo”). Appare allora necessaria una elevata specializzazione degli organi giudiziari. Essa può derivare proprio dalla istituzione di sezioni e uffici dedicati esclusivamente alla trattazione della particolare materia, ove può crearsi anche una sinergia con le competenze integrative di specialisti del settore. Ritorno, a tal proposito, alla mia esperienza nella materia degli infortuni sul lavoro di cui ho scritto all’inizio. Alla sezione della pretura di Roma in cui lavorai erano distaccati a tempo pieno alcuni ispettori del lavoro, che affiancavano i magistrati nelle indagini. La presenza di questi ispettori fu decisiva nella mia scelta di passare a detta sezione, perché essa mi dava la certezza di essere agevolato nella acquisizione delle conoscenze specialistiche che inizialmente non avevo. E, all’epoca, come ho detto, la legislazione sulla sicurezza dei luoghi di lavoro era molto più semplice, né esisteva la responsabilità degli enti. Una sinergia effettivamente si realizzò tra noi magistrati e gli ispettori del lavoro ogni giorno presenti nel nostro ufficio.
Credo che, fino a quando non si affronterà il problema della preparazione dei magistrati requirenti e giudicanti nella materia della sicurezza del lavoro, per pervenire ad una generalizzata e sufficiente specializzazione di quelli incaricati di trattarla, si continuerà ad avere, negli infortuni sul lavoro e nelle malattie professionali, la situazione giudicata dal Presidente Curzio «inaccettabile». Il volume curato da Adelmo Manna è idoneo a dare un contributo alla prospettata specializzazione, nell’aspetto giuridico nazionale e sovranazionale.