1. La storia
«Il 124 era carico di rancore. Carico del veleno d’una bambina. Le donne lo sapevano, e così anche i bambini»[1].
Potrebbe cominciare in questo modo anche la nostra storia, non ambientata in Ohio all’indomani della Guerra Civile Americana, bensì oggi, dalle parti di Abdjian, in Costa d’Avorio.
E il “veleno” di questa bambina è un male interiore, interpretato da chi la circonda come il fluido di una strega, tanto che coloro che “sanno”, grandi e piccoli, la deridono, la insultano e la vessano in ogni modo, tenendola da parte, indifferenti ai traumi che, pur così giovane, ha già subito: sua madre è lontana ed è partita alla ricerca di migliori condizioni di vita quando lei aveva soltanto un anno; quando ne ha tre, suo fratello viene ucciso da uno zio con problemi mentali e a sette la zia che l’ha cresciuta muore.
La bambina viene allora trasferita da un’altra sorella della madre, mentre quest’ultima, in Italia, dà alla luce un’altra figlia, con la quale viene inserita l’anno successivo in comunità, a causa dei maltrattamenti subiti dal compagno.
La madre, inoltre, non ha il permesso di soggiorno[2], ragion per cui può occuparsi di lei soltanto a distanza, ricevendo informazioni mediate e potendo comunicare soltanto attraverso il telefono.
Quando la bambina ha dieci anni, la cugina comincia ad avere “crisi”[3] continue, che nessun adulto intorno a lei è in grado di spiegare, né, conseguentemente, di curare. Ed ecco che qualcuno nella famiglia inizia a domandarsi quando siano emersi i primi sintomi, se vi siano fattori o persone ricorrenti quando queste “crisi” arrivano, se qualcosa di insolito sia accaduto nella vita della piccola. Serve una spiegazione. Serve una ragione. Forse, in effetti…quella bambina, così strana e solitaria. Spesso capita di vederla parlare da sola con la zia defunta e la si sente anche mentre dorme.
A un certo punto, è il pastore della chiesa locale a manifestare questo pensiero. E allora deve essere vero per forza.
La spiegazione che viene data delle sue stranezze e delle “crisi” della cugina è che la bambina sia una strega. La zia ormai ne è certa, così come la cugina malata, che un giorno le tira una pietra colpendola alla testa, non prima di averle detto: «Vai via, strega».
Dunque, non può continuare a rimanere lì, deve portare altrove la sua influenza negativa: la zia vuole condurre la bambina in un centro di preghiera perché possa essere curata o, meglio ancora, corretta.
La madre è lontana e non può tornare, perché ha consegnato il proprio passaporto all’atto della presentazione della domanda di asilo. Non solo: in caso di rientro, sarebbe a propria volta in pericolo, in quanto madre di una strega e, dunque, strega lei stessa.
La bambina, nel frattempo, viene isolata dalla famiglia e dalla comunità, dorme e mangia per conto suo, subisce insulti e vessazioni.
La madre chiede aiuto ovunque: ai referenti della comunità mamma-bambino in cui abita, all’assistente sociale che si occupa del suo caso, al suo avvocato, alla psicologa. E ad un cugino, che deve tornare in Costa d’Avorio per rivedere la propria famiglia e che si offre di andare a prendere la bambina e di condurla dalla nonna, in un villaggio a 270 km dalla capitale.
Così avviene, ma la donna è anziana e malata, quindi, dopo alcuni mesi, la bambina viene nuovamente trasferita, questa volta da un cugino che vive ad Abobo, comune nel distretto di Abidjian.
La bambina resta da sola tutto il giorno perché nessuno può accompagnarla a scuola ed i comportamenti che tanto avevano spaventato la zia riprendono, allarmando chi le sta intorno: così tornano i sospetti e, con questi, i pericoli.
Questa la storia. Occorreva capire come tradurla in categorie giuridiche, facendo in modo di non snaturarla, di rispettarne appieno i contenuti e di individuare nel diritto le risposte alle necessità che da quella emergevano.
2. Quale il corretto approccio alla vicenda umana?
«L’antropologo, ricorda Maurice Godelier, non diversamente dallo psicologo, aggiungiamo noi, si trova inevitabilmente impegnato e costretto a prendere posizione nella storia, perché è drammaticamente legato alle contraddizioni storiche che sono in atto nel momento stesso in cui interviene sul campo. Ciò che scorre davanti agli occhi di entrambi questi professionisti è la “storia viva” dei loro interlocutori. Per l’antropologo l’essere testimone di alcune contraddizioni storiche diventa imbarazzante nella misura in cui si trova a dover decidere se trovare una soluzione alle situazioni problematiche degli individui che incontra o “abbandonare questi al loro destino” (Godelier, 1980, p. 1143)[4]. Per lo psicologo, entrare in possesso dei mondi privati e intimi dei suoi interlocutori significa cercare di risolvere il problema a un altro livello, non meno imbarazzante, dovendo egli decidere la direzione che vuole dare al suo intervento. Far aderire i suoi interlocutori ai paradigmi delle sue teorie di riferimento e richiedere loro un adattamento crescente alle regole sociali del (proprio) mondo moderno? O, all’opposto, entrare insieme alle persone che incontra nei rivoli delle loro teorie e delle loro rappresentazioni (della persona, del corpo, della malattia, della cura), promuovendo contemporaneamente delle strategie di modificazione in seno alla società stessa e favorendo la nascita di nuove pratiche di ospitalità, ri-volte ad accogliere l’Altro per quello che è: “uno sconosciuto,che parla un’altra lingua e di cui occorre presupporre sia ricco di altre sensazioni…” (Stengers, 2003, p. 14)?»[5].
Un avvocato che si occupi di protezione internazionale si ritrova a dover affrontare problemi del tutto simili a quelli sopra descritti per lo psicologo.
Il suo scopo è quello di far ottenere al proprio assistito la massima protezione possibile, a partire dal vissuto che gli viene raccontato. La vicenda umana, però, deve essere incanalata in atti e procedure che conducono ad altri soggetti (commissari e giudici) che la valuteranno, non solo sulla base della disciplina giuridica vigente, ma anche, inevitabilmente ed istintivamente, delle proprie categorie di pensiero, che risentono del contesto socio-culturale di riferimento.
È indiscutibile che le autorità procedenti siano richiamate a specifici doveri di cooperazione istruttoria, dalla normativa di riferimento[6] e da una giurisprudenza di legittimità consolidata, secondo la quale la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente non è affidata alla mera opinione di chi quella valutazione deve operare, ma è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi di quanto narrato, ma alla stregua dei criteri indicati nell’art. 3, comma 5 del d. lgs. n. 251 del 2007 e, inoltre, tenendo conto della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente[7].
Tuttavia, spesso, ad essere determinante è l’impatto che la narrazione suscita sul piano empatico ed emotivo, aspetto che finisce con l’influire anche sulla successiva, doverosa, attività di approfondimento.
E dunque, consapevole di ciò, il legale potrebbe richiedere ai propri assistiti «un adattamento crescente alle regole sociali del (proprio) mondo moderno»[8], indirizzandoli nel senso di mettere in evidenza aspetti della propria storia che maggiormente possano avvicinarsi alla sensibilità degli interlocutori.
Questa però non è, e non può essere l’unica soluzione da seguire. Anzi, a parere di chi scrive, percorrere questa strada sarebbe un errore.
Non è il richiedente a doversi adattare ai possibili canoni ermeneutici di chi procederà al suo esame; al contrario è preciso compito dell’avvocato quello di «entrare insieme alle persone che incontra nei rivoli delle loro teorie e delle loro rappresentazioni»[9], riuscendo a far emergere quanti più dettagli possibili, in modo da individuare ciò che può costituire ragione di protezione, al di là di quanto percepito dal diretto interessato e nel rispetto della complessità del mondo che ciascun essere umano racchiude in sé.
Dunque, non si tratta di selezionare ciò che nella storia meglio si adatta ai modelli giuridici e culturali nostrani[10]; al contrario, la storia va sempre messa al centro ed il ruolo dell’avvocato è quello di adattare gli strumenti giuridici a disposizione ai bisogni che da essa emergono.
Talvolta, soprattutto in presenza di gravi traumi e di vissuti particolarmente drammatici, anche i difensori diventano portatori di violenza istituzionale nei confronti dei propri assistiti, forzandoli a raccontare ciò che non vorrebbero, ciò che sarebbe indicibile, per quanto nel loro interesse: la chiave della fiducia sta nel rispetto per quella storia, nella sua interezza[11].
Occorre sempre ricordare che «un individuo non è mai solo la ‘sua cultura’, né è mai solo ‘una cultura’. Produrre simili sovrapposizioni significa ridurre gli uomini e le donne che incontriamo a corpi di cera, da esporre in un museo pieno di curiosità, fossili viventi delle nostre teorie (…). D’altra parte, però, negare loro l’uso delle rappresentazioni che nutrono l’immaginario dentro il quale sono cresciuti e dei significati che ordinano la realtà implica metterli nella condizione di non poter accedere alla Differenza di cui sono portatori: a questo punto il passo verso la disumanizzazione non è lontano (…)»[12].
A selezionare le informazioni ritenute rilevanti sarà dunque l’esaminatore, non l’avvocato. A questo spetta una prima traduzione giuridica del materiale umano raccolto e riportato nei propri atti, nonché il tentativo di indurre le autorità procedenti ad un maggiore relativismo culturale ed all’interpretazione delle norme secondo la massima estensione dalle stesse consentita, anche al di là dei sentieri già battuti.
3. La traduzione giuridica della vicenda umana
La realtà è in continua evoluzione, tuttavia esistono ambiti del diritto (e la protezione internazionale è uno di questi), in cui gli istituti giuridici sono stati formulati impiegando categorie volutamente ampie, astratte, idonee a ricomprendere plurime situazioni e condizioni, in modo da renderli maggiormente idonei ad adeguarsi ai cambiamenti imposti dalla mutevolezza della società circostante.
La normativa in materia di protezione internazionale consente, per un verso, di attribuire rilevanza al fenomeno delle accuse di stregoneria quale motivo di persecuzione ricollegabile alle categorie menzionate dalla Convenzione di Ginevra e, per l’altro, di valorizzare l’aspetto della prevalenza della percezione della realtà sulla realtà stessa.
Quanto al primo profilo, un approfondito studio commissionato dall’UNHCR ha evidenziato come le persecuzioni conseguenti ad accuse di stregoneria possano essere ricondotte, a seconda delle circostanze del caso specifico, alla religione attribuita al richiedente protezione o al particolare gruppo sociale cui è associato: in entrambi i casi non sono rilevanti il reale credo religioso espresso dall’individuo oggetto di persecuzione o la sua effettiva partecipazione al gruppo (nel caso di specie quello delle “streghe”), ma piuttosto la percezione che ne hanno i persecutori[13].
Ciò che viene in rilievo è la credenza diffusa e radicata, all’interno di una determinata comunità, che un soggetto – molto spesso di sesso femminile – sia da considerarsi una “strega”. Al riguardo, l’UNHCR sottolinea come, nella valutazione della persecuzione determinata dalle accuse di stregoneria, sia particolarmente importante tenere in considerazione l’appartenenza di genere, dal momento che sono quasi sempre le donne ad essere identificate come streghe e, in alcune comunità, ciò le espone a torture, come il rogo o la lapidazione[14].
Lo stesso studio precisa come le probabilità di ricevere simili accuse aumentino per coloro che rientrano nello stereotipo di “strega”, indipendentemente dal fatto che questo sia basato sull’età, sul genere, su attributi fisici o sull’appartenenza ad una famiglia specifica.
La percezione di determinate caratteristiche appare quindi sufficiente a collocare l’individuo all’interno del particolare gruppo sociale dei sospettati di stregoneria[15]. Da ciò deriva che, al fine di valutare la fondatezza del timore di persecuzione è irrilevante che la richiedente asilo sia una strega, fintanto che la comunità a cui appartiene la etichetta come tale: ciò avviene tradizionalmente tramite un processo di esorcizzazione di un “male” verificatosi all’interno di un nucleo sociale.
Infatti, nonostante il concetto di stregoneria (‘witchcraft’, in inglese; ‘sorcellerie’, in diversi paesi francofoni) possa comprendere una vastità di fenomeni differenti tra loro, una definizione il più possibile onnicomprensiva non può prescindere da due elementi: la presenza di fenomeni avversi in seno alla comunità ed il fatto che questi vengano ricondotti a persone che a cui si attribuiscono poteri soprannaturali[16].
Da un punto di vista antropologico la stregoneria gioca un ruolo fondamentale nella risposta a domande di tipo esistenziale e soprattutto sopperisce all’esigenza di individuare la fonte delle responsabilità di taluni eventi[17].
Le credenze magiche e spiritualistiche consentono, in altri termini, di affiancare ad una spiegazione razionale di un fenomeno critico – che spiega “cosa” e “come” è successo – un’altra spiegazione, legata al “perché”. Passaggio essenziale di tale spiegazione è l’identificazione, da parte della comunità, della “strega”. Questo avviene, di solito, a seguito di un incidente (l’insorgere di una malattia o la morte di qualcuno, ad esempio), che la strega sarà accusata di aver causato, anche se in modo apparentemente inconscio.
L’identificazione della vittima è un processo operato dalla comunità di appartenenza, che generalmente formula tale accusa nei confronti delle persone maggiormente vulnerabili: spesso sono le donne, i vecchi o i bambini, oppure individui il cui comportamento è considerato atipico, inspiegabile, fuori dall’ordinario. Esattamente come avvenuto nella “nostra” storia alla bambina, che, rimasta da sola, aveva iniziato a parlare con la zia deceduta.
Una volta che si è compiuto il processo di identificazione della strega, gli effetti sono irreversibili.
La percezione della realtà si consolida al punto da divenire essa stessa reale, tanto che le conseguenze a cui può essere esposta la “strega” sono del tutto tangibili.
Ebbene, la normativa in materia di protezione internazionale valorizza quest’ultimo aspetto: l’art.8 comma 2, D. Lgs. 251/2007 precisa che nell’esame del fondato timore di persecuzione deve ritenersi irrilevante «che il richiedente possegga effettivamente le caratteristiche razziali, religiose, nazionali, sociali o politiche che provocano gli atti di persecuzione, purché una siffatta caratteristica gli venga attribuita dall’autore delle persecuzioni».
La giurisprudenza di legittimità ha fatto applicazione della norma predetta principalmente in tema di persecuzione legata al sospetto di comportamenti omosessuali in seno alla comunità di origine, a prescindere dall’effettività degli stessi. Ad esempio, con la pronuncia n. 1756/2020, la Corte di Cassazione ha puntualizzato che «il giudice non deve valutare nel merito la sussistenza o meno del fatto, ossia la fondatezza dell’accusa ma deve invece accertare, ai sensi degli artt. 8, comma 2 e 14, lett.c), del D. Lgs. n. 251 del 2007, se tale accusa sia reale, cioè effettivamente rivolta al richiedente nel suo Paese, e dunque suscettibile di rendere attuale il rischio di persecuzione o di danno grave in relazione alle conseguenze possibili secondo l’ordinamento straniero nel caso di rientro in patria (cfr. in termini Cass. 2875/2018)»[18].
Al contrario, non risultano precedenti in ordine all’estensione di un simile ragionamento alla persecuzione fondata su accuse di stregoneria, pur potendosi lo stesso adattare perfettamente anche ad ipotesi di questo genere.
La Suprema Corte si è invece espressa sulla rilevanza di credenze magiche e superstiziose ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria: «Anche a prescindere dall’effettiva riconducibilità degli eventi luttuosi familiari alle attività magico-stregoniche della vedova del nonno o più prosaicamente ad atti di avvelenamento da parte sua […] il convincimento soggettivo dell’ [OMISSIS] di essere vittima, con la sua famiglia, di sortilegi e malefici, le conseguenze almeno psico-somatiche di tale convincimento (difficoltà di parola), e soprattutto l’atteggiamento delle autorità tradizionali locali (anziani e sciamano), per pur avendo ascoltato il ricorrente si erano riconosciuti impotenti a garantirgli protezione, inducendolo invece a fuggire, quale unica soluzione per sfuggire alla persecuzione stregonica […] Tale complesso di elementi, opportunamente calato in contesto tribale, dominato da credenze arcaiche e superstizioni, ben può concretizzare una particolare condizione di vulnerabilità soggettiva di colui che si ritenga oggetto di malefici»[19].
L’esclusione dei presupposti per le protezioni superiori veniva motivata facendo riferimento alla «totale irrazionalità dei timori nutriti dal ricorrente», occorrendo, «se non l’effettività dell’atto persecutorio o dell’esposizione a grave pericolo personale, almeno la fondatezza del timore avvertito dal richiedente». In realtà, la Corte avrebbe forse potuto osare di più, aderendo con maggior convinzione al percorso interpretativo tracciato, visto l’espresso riferimento ad una “persecuzione stregonica”, di cui il ricorrente era stato vittima, e ad autorità locali «impotenti a garantirgli protezione»: dunque, perché non lo status di rifugiato?
Ciò detto, si può certamente apprezzare la pronuncia per le censure alla superficialità con cui i giudici di merito (e prima ancora l’autorità amministrativa) si erano confrontati con il tema dell’impatto dei fenomeni soprannaturali sulla vita di coloro che vi credono e che ne subiscono, conseguentemente, condizionamenti concreti.
Nell’ordinanza si adotta il punto di vista del richiedente asilo, attribuendo dignità al suo timore, ritenuto indubbiamente reale, e si rileva l’importanza di avvicinarsi al tema con il «necessario atteggiamento di relativismo culturale e il doveroso inquadramento nel contesto socio ambientale del Paese di provenienza»: modalità che appaiono imprescindibili nell’esame di un caso come quello descritto in questa sede.
Quanto agli elementi indispensabili al riconoscimento dello status di rifugiato, oltre all’effettività della persecuzione o alla fondatezza del timore, come sottolineato dalla Corte, occorre tenere conto anche dell’intensità delle discriminazioni che la persona accusata di stregoneria deve fronteggiare nella comunità di appartenenza. Le Linee Guida UNHCR sulla persecuzione di genere ribadiscono infatti che, pur non potendosi assimilare automaticamente discriminazione a persecuzione, «un modello di discriminazione o di trattamento meno favorevole potrebbe, su base cumulativa, risultare in persecuzione e giustificare la protezione internazionale. Costituirebbero persecuzione ad esempio le misure discriminatorie che conducono a conseguenze di natura sostanzialmente pregiudiziale per la persona interessata, come ad esempio gravi restrizioni del diritto al sostentamento»[20].
Nell’ambito della vicenda qui raccontata, sono peraltro evidenti le discriminazioni, gravi e reiterate, commesse nei confronti della bambina protagonista del racconto, tali da assurgere a veri e propri atti di persecuzione[21]: discriminazione e persecuzione che sarebbero toccate in sorte anche alla madre, la ricorrente del caso di specie, “strega” come lei.
4. Lo scetticismo alla prova delle COI.
In un caso come quello di cui si racconta, si poteva fare affidamento su alcune prove tipiche: l’interrogatorio libero della ricorrente; la testimonianza di suo cugino, che in Costa d’Avorio aveva accompagnato la bambina da Abidijan al villaggio della nonna e ne aveva potuto constatare le preoccupanti condizioni; la copia del passaporto di quest’ultimo, dal quale emergeva l’effettivo soggiorno nel Paese di origine in un determinato periodo; le relazioni dell’assistente sociale e degli operatori della comunità della madre, concordi nel riportare le preoccupazioni della donna sulle condizioni della figlia e sulle ragioni di quelle preoccupazioni, ovvero le accuse di stregoneria.
Venivano tutte menzionate nella decisione assunta dal Tribunale di Torino.
Tuttavia, la fondatezza dei timori avanzati dalla ricorrente trovava la principale conferma nelle Country of Origin Information, il cui esame costituisce in un caso come questo strumento essenziale per agevolare l’autorità procedente nell’avvicinarsi ad un orizzonte culturale largamente sconosciuto.
Come chiarito dalle Linee Guida UNHCR, «nella procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato, le informazioni sui paesi di origine costituiscono uno degli elementi utili a stabilire la fondatezza del timore di persecuzione. In particolare, esse possono essere utilizzate per: a) favorire il corretto ed efficace svolgimento delle audizioni con i richiedenti asilo da parte delle autorità decisionali (preparazione); b) verificare le dichiarazioni del richiedente, valutarne la credibilità e stabilire la verosimiglianza di quanto affermato circa la situazione prima della fuga (corroborazione); c) stabilire se il richiedente potrebbe essere sottoposto a persecuzione tortura, trattamenti inumani e degradanti in caso di ritorno nel paese d'origine (esame prognostico)» [22].
In caso di domande di protezione ricollegate alle accuse di stregoneria, le COI consentono di dimostrare che il fenomeno – al contrario di quanto potrebbe suggerire un approccio “occidentale” alla materia – non è circoscritto ad un tempo passato e a contesti tribali o settoriali, poiché diversi sono i paesi africani in cui la maggioranza della popolazione vi crede tuttora ed in cui vengono riportati atteggiamenti persecutori nei confronti degli individui accusati di praticarla[23]. Inoltre, la sua diffusione è documentata sia a livello rurale che cittadino[24], indipendentemente dal credo religioso o dal livello di istruzione delle persone: può essere considerato un vero e proprio dato culturale diffuso ad ogni livello della società[25].
Le COI confermano altresì che i più esposti alle accuse di stregoneria sono le donne, gli anziani, i bambini o, comunque, i “diversi”[26], che vengono considerati tali per particolari tratti fisici, quali deformità evidenti, il colore della pelle o dei capelli; per quanto riguarda i bambini, sono spesso orfani o affidati alle cure di membri della famiglia diversi dai genitori, gemelli o ancora albini[27].
Tramite le COI è più agevole comprendere anche il funzionamento del processo di stigmatizzazione di chi viene accusato di stregoneria: si inizia col sospetto di qualcuno, per poi passare alla diffusione della notizia e alla costruzione sociale dell’addebito, fatta di passaparola all’interno della comunità[28].
Quanto alla prova della fondatezza del timore, le COI consentono di appurare che alle accuse di stregoneria si ricollegano gravi atti di persecuzione: già nel 2009, lo UN Special Rapporteur on extragiudicial, summary or arbitrary executions aveva dato priorità allo studio delle violazioni di diritti umani connessi al fenomeno, documentando violenze che possono assurgere a tortura o trattamenti inumani o degradanti o finanche tradursi nell’uccisione dell’accusato[29]. Nel 2018 l’EASO ha documentato in Costa d’Avorio episodi di rapimento e uccisione di minori, avvenuti nell’ambito di riti magici[30].
A ciò si accompagna il fatto che, essendo le credenze legate alla stregoneria fortemente radicate nell’inconscio collettivo, a qualsiasi livello sociale, le persecuzioni sono socialmente accettate e raramente perseguite, tanto che gli stessi attori istituzionali che dovrebbero tutelare le persone accusate tendono piuttosto a dar credito alle accuse stesse[31]. In alcuni paesi poi, compresa la Costa d’Avorio, il codice penale sanziona con pena detentiva gli atti di stregoneria e magia idonei a turbare l’ordine pubblico[32], mentre non figura alcuna previsione che punisca le false allegazioni di stregoneria o le violenze ricollegate alle stesse[33].
Infine, nel caso di specie, le COI hanno consentito di provare un aspetto centrale della richiesta di protezione, ovvero la verosimile estensione delle accuse di stregoneria dalla bambina alla madre.
In paesi come la Costa d’Avorio, infatti, è radicata la convinzione che i “poteri magici” vengano ereditati in seno alla famiglia, in particolare attraverso il lato femminile[34]. Studi antropologici hanno documentato come, presso alcune comunità o tribù dell’Africa sub-sahariana, la stregoneria sia assimilata ad un “elemento” o “spirito” che si insidia nel corpo, e più precisamente nell’addome, della strega[35]. Esso è perciò dotato di un’identità propria e può trasmettersi da una persona all’altra, veicolato, in particolare, dalla figura materna, in quanto “generatrice” per eccellenza[36].
Di conseguenza, la persecuzione può riguardare sia il figlio che la madre, poiché l’“elemento” magico viene ricondotto indifferentemente ad entrambi[37].
Nel caso che ci riguarda, la prova, raggiunta attraverso le COI, della trasmissione per linea matriarcale della stregoneria consente di traslare il rischio persecutorio dalla bambina alla mamma, aspetto valorizzato anche dal Tribunale di Torino nella decisione del 3.2.2020 commentata in questa sede.
5. Finali alternativi.
La protagonista di questa vicenda è senza dubbio la bambina.
Lo è perché, a causa del marchio di “strega” imposto a lei, anche la madre è risultata esposta ai medesimi rischi, e perché si tratta del soggetto che maggiormente necessita di protezione.
La madre aveva infatti ottenuto dall’autorità amministrativa la protezione umanitaria, non sufficiente a salvaguardarne appieno la posizione, ma che comunque la tutelava dalla possibilità di un rimpatrio. Non le consentiva però il ricongiungimento familiare[38], quindi la bambina sarebbe rimasta in una condizione di grave pregiudizio.
Occorreva dunque individuare il percorso giuridico che meglio avrebbe potuto salvaguardare entrambe, avendo sempre ben chiaro che una adeguata assistenza della madre non poteva prescindere da quella della figlia.
L’opzione che pareva fornire maggiori possibilità era il ricorso ai sensi dell’art. 35 bis, D. Lgs. 25/08, volto ad ottenere in sede giudiziale il riconoscimento dello status di rifugiata per la madre, che avrebbe poi consentito l’applicazione dell’art. 29 bis del T.U. Immigrazione.
L’atto d’impugnazione veniva depositato il 2.11.2018, ma il decreto del Tribunale che lo accoglieva, riconoscendo lo status di rifugiata alla nostra “strega”, interveniva ad un anno di distanza (il 21.11.2019), per poi essere notificato il successivo 3.2.2020: una richiesta di sollecita definizione della causa sarebbe stata difficile da sostenere, essendo la stessa motivata dalla tutela di una persona non presente sul territorio e soltanto in via puramente ipotetica suscettibile di beneficiare di una decisione dai contenuti tutt’altro che scontati. In generale, occorre tenere presente che la durata dei giudizi in tema di protezione internazionale non sempre risulta compatibile con specifiche esigenze di celerità delle persone coinvolte.
Quali le possibili alternative, anche nell’ipotesi del rigetto della domanda di riconoscimento della protezione internazionale?
Una soluzione percorribile sarebbe stata la richiesta di un visto d’ingresso per motivi umanitari con validità territoriale limitata ex art. 25 Regolamento CE n. 810/09 (Codice dei visti): il Tribunale di Roma ha riconosciuto questa possibilità per minori in condizioni di evidente vulnerabilità ed impossibilitati, per svariate ragioni, ad essere ricongiunti con i genitori regolarmente soggiornanti in Italia[39]. In particolare, recentemente, emetteva decreto inaudita altera parte ex art. 669 sexies, commi 2 e 3, c.p.c., a soli 3 giorni di distanza dal deposito di ricorso ai sensi dell’art. 700 c.p.c[40], ordinando al Ministero degli Affari Esteri ed all’Ambasciata competente l’immediato rilascio del visto d’ingresso sopra menzionato in favore della minore coinvolta, provvedimento confermato il successivo 4.11.2019.
Tempi della giustizia particolarmente rapidi possono poi non corrispondere ad un altrettanto repentino adeguamento da parte delle autorità chiamate a darvi attuazione, ma costituiscono un indubbio vantaggio.
La “nostra” bambina avrebbe, forse, potuto trovare una tutela anche in questo modo. Ma sua madre?
Gli atti di persecuzione cui la figlia è stata esposta in Costa d’Avorio avrebbero certamente giustificato, una volta arrivata in Italia, la presentazione di un’autonoma domanda di protezione internazionale da parte sua, i cui effetti avrebbero potuto estendersi anche alla mamma.
Due potevano essere, in questo caso, i risultati possibili: l’individuazione di un rischio di persecuzione individuale in capo a quest’ultima, seppur collegato alla situazione – già ritenuta meritevole di tutela – della bambina, ovvero il riconoscimento dello status di rifugiato in via derivativa, in forza del legame familiare esistente.
Entrambe le soluzioni sono conformi alla normativa internazionale: in una recente sentenza sul punto, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha interpretato l’art. 4 della Direttiva 2011/95/UE nel senso che, «nell’ambito dell’esame su base individuale di una domanda di protezione internazionale, si deve tener conto delle minacce di persecuzione e di danni gravi incombenti su un familiare del richiedente, al fine di determinare se quest’ultimo, a causa del legame familiare con detta persona minacciata, sia a sua volta esposto a siffatte minacce»[41]. Al tempo stesso, qualora non sia possibile riconoscere lo status di rifugiato in via autonoma al familiare, l’art. 3 della medesima Direttiva consente «di prevedere l’estensione del beneficio di tale protezione ad altri membri di detta famiglia, purché questi ultimi non rientrino in una causa di esclusione di cui all’articolo 12 della stessa direttiva e la loro situazione presenti, a motivo dell’esigenza di mantenimento dell’unità del nucleo familiare, un nesso con la logica della protezione internazionale»[42]. In quest’ultimo caso, quindi, può essere esteso lo status di rifugiato anche al familiare che di per sé non potrebbe beneficiarne, a tutela del diritto all’unità familiare.
Analoghi principi sono stati affermati a livello di soft law da specifiche Linee Guida dell’UNHCR[43]: «It is important to note that accompanying family members/dependants will often have the same international protection needs as the recognized refugee due to similarities in profile, personal circumstances and the conditions in the country of origin. Furthermore, family members/dependants, regardless of age, may also have a well-founded fear of persecution in their own right as a result of their family link or association with the recognized refugee»[44]. Benché nella prassi sia maggiormente diffuso il caso in cui il riconoscimento dello status di rifugiato in capo al figlio minore si ricollega alle persecuzioni già patite dal genitore, non è escluso che possa avvenire anche il contrario.
Con un provvedimento del 12 luglio 2019 la Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Torino ha dichiarato lo status di rifugiato in capo alla madre di una minore di origine peruviana, pur non ritenendone sussistenti i presupposti su base individuale, «visto, tuttavia, il principio dell’unità familiare sancito dal Manuale sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato UNHCR del 2011 ai paragrafi 181 ss, nonché il documento UNHCR RSD Procedural standards - Processing claims based on the right to family unity (…), da cui si evince che un genitore può vantare il diritto allo status di rifugiato derivato dal figlio minore a carico, laddove quest’ultimo sia in evidente bisogno di protezione internazionale».
Nel caso di specie, qualora il ricorso ex art. 35 bis D. Lgs. 25/2008 fosse stato respinto, questa diversa linea difensiva avrebbe dovuto costituire oggetto di attenta valutazione, quale possibile, valida alternativa, attraverso la presentazione di una domanda reiterata di protezione internazionale da parte della madre.
Vicende come quella qui descritta costringono il difensore a ricercare nel diritto ogni possibile strada per il raggiungimento dell’obiettivo, partendo dal presupposto che, spesso, non sono le norme a fornire strumenti limitati, ma la limitazione sta nella mentalità di coloro, che a vario titolo, sono chiamati ad interpretarle.
[1] Toni Morrison, Amatissima, Frassinelli, 2012, pag. 11.
[2] Alla signora, infatti, veniva respinta, in primo ed in secondo grado, l’istanza presentata ex art. 31, comma 3, D. Lgs. 286/98. Successivamente veniva formalizzata la domanda di protezione internazionale.
[3] Questo il termine impiegato dalla ricorrente nel descrivere i sintomi della nipote.
[4] Più precisamente, l’opera citata nel testo è: M. Godelier , Primitivo, in Enciclopedia, vol. 10, Torino, Einaudi, 1980, pp. 1130-1145. Come precisato dagli autori (si veda la nota che segue), «il problema dell’indifferenza che spesso ha caratterizzato la ricerca antropologica è stato recentemente analizzato da Nancy Scheper-Hughes e Philippe Bourgois» (N. SCHEPER-HUGHES, P. BOURGOIS, Introduction: Making Sense of Violence, in N. SCHEPER-HUGHES, P. BOURGOIS (a cura di), Violence in War and Peace. An Anthology, Malden, Oxford, Carlton, Blackwell Publishing, 2004, pp. 1-31, p. 6).
[5] Simona Taliani, Francesco Vacchiano, Altri corpi – Antropologia ed etnopsicologia della migrazione, Edizioni Unicopli, 2006, pagg. 59-60.
[6] Come noto, le disposizioni di riferimento al riguardo sono gli artt. 3, cc. 3 e 5, D. Lgs. 251/07, 8, cc. 2 e 3, e 27, c. 1-bis, D. Lgs. 25/08, 6, c. 6, D.P.R. n. 21/15.
[7] Tra le tante: Sez. 6-1, n. 8282/2013, Rv. 625812-01; Sez. 6-1, n. 24064/2013, Rv. 628478-01; Sez. 6-1, n. 16202/2012, Rv. 623728-01, Sez. 6-1, n. 26921/2017, Rv. 647023-01. Si segnala anche la recente Sez. 6-1, n. 2456/2020 del 4.2.2020.
[8] Taliani e Vacchiano, op. cit.,pag. 60.
[10] Su questo tema si rimanda altresì a B. Sorgoni, Storie dati e prove. Il ruolo della credibilità nelle narrazioni di richiesta di asilo, in Parolechiave, n. 46, 2011.
[11] Sulle questioni menzionate si ritiene fondamentale richiamare M. Veglio, Uomini tradotti. Prove di dialogo con richiedenti asilo, in Diritto Immigrazione e Cittadinanza, fasc. 2/2017 (https://www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/archivio-saggi-commenti/saggi/fascicolo-2017-n-2/72-uomini-tradotti-prove-di-dialogo-con-richiedenti-asilo/file)
[12] Taliani e Vacchiano, op. cit., pag. 115.
[13] Per quanto riguarda i motivi religiosi, così si esprime il rapporto: «Religion has been characterized as a belief, an identity or a way of life. The way academics or a religious community define religion may not be as important as “the attitudes of those who are causing the religious persecution. The International Protection Guidelines on Religious Persecution state that “it may not be necessary…for an individual (or group) to declare that he or she belongs to a religion, is of a particular religious faith, or adheres to religious practices, where the persecutor imputes or attributes this religion, faith or practice to the individual or group”. Una simile considerazione viene operata rispetto al gruppo sociale: “As with imputed religious claims, an individual need not consider himself a part of a social group so long as his persecutors believe him to be a member. According to Australian Justice Burchett in Ram v. MIEA & Anor, “A social group may be identified…by the perceptions of its persecutors rather than by reality. The words ‘persecuted for reasons of’ look to their motives and attitudes, and a victim may be persecuted for reasons of [membership of a PSG] to which they think he belongs, even if in truth they are mistaken». UNHCR, Witchcraft allegation, refugee protection and human rights: a review of the evidence, 2009, p. 39, 40, 41 (http://www.refworld.org/docid/4a54bbefd.html).
[14] «Given the degree that women are affected by witchcraft accusations, it is important to consider the gender dimension. According to UNHCR International Protection Guidelines, “particular attention should be paid to the impact of gender on religion-based refugee claims, as women and men may fear or suffer persecution…in different ways to each other,” mentioning harmful traditional practices and specifically stating that “women are still identified as ‘witches’ in some communities and burned or stoned to death». UNHCR, ibidem, p. 41.
[15] «The likelihood of witchcraft accusation increases for those who fit the local stereotype about who might be a witch, whether it is based on age, gender, physical attributes, success, or membership in a specific family. Those specific characteristics distinguish the accused from society at large. Even in societies where anyone could be accused of being a witch, the community’s perception is enough to place the accused individual within the particular social group of suspected witches». UNHCR, ibidem, p. 41.
[16] Ashforth, Reflections on Spiritual Insecurity in a Modern African City (Soweto), in African Studies Review, (Dec. 1998), p. 64. In UNHCR, ibidem. Per una definizione del fenomeno si veda anche UNHCR, Breaking the spell: responding to witchcfraft accusation against children, 2011, p. 4.
[17] Behringer, Wolfgang, Witches and Witch-Hunts: a Global History, Polity Press, 2004, p. 23.
[18] Corte di Cassazione, sez. I civile, ordinanza dell’8 ottobre 2019, n. 1756/2020, pronunciata nell’ambito del procedimento n. 29956/2018 R.G.
[19] Corte di Cassazione, sez. I civile, ordinanza del 15 maggio 2019, n. 13088/2019, pronunciata nell’ambito del procedimento n. 16967/2018 R.G.
[20] UNHCR, Linee Guida sulla Protezione Internazionale n. 1. La persecuzione di genere nel contesto dell’articolo 1A (2) della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati, 7 maggio 2002, https://www.refworld.org/cgi-bin/texis/vtx/rwmain/opendocpdf.pdf?reldoc=y&docid=5513ca474. Le Linee Guida sono state recentemente valorizzate, al fine di affermare l’equiparabilità di reiterati atti di discriminazione a vera e propria persecuzione, dal Tribunale di Roma, con l’ordinanza 21 febbraio 2020, pronunciata nell’ambito del procedimento n. 10479/2019.
[21] Nel caso della minore si può certamente parlare anche di “atti diretti contro l’infanzia”, inseriti tra quelli persecutori dall’art. 7, comma 2, lett. f), D. Lgs. 251/07. Tra questi certamente rientrano le gravi violazioni degli obblighi contenuti nella Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989, ratificata dall’Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176. In base all’art. 6 della Convenzione, gli Stati devono impegnare il massimo delle risorse disponibili per tutelare la vita ed il sano sviluppo dei bambini, sano sviluppo che viene certamente compromesso in caso di maltrattamenti (fisici o psicologici) prolungati subiti nel Paese d’origine.
[22] UNHCR, La ricerca di informazioni sui Paesi d'origine dei rifugiati, 2016, https://www.unhcr.it/wp-content/uploads/2015/12/Scheda-COI.pdf. Sull'importanza della ricerca COI si veda anche E. Busetto, A. Fiorini, E. Pieroni, S. Zarrella, Le informazioni sui Paesi d'origine nella procedura di asilo: sempre più rilevanti, ancora poco considerate, in Diritto, immigrazione, cittadinanza, 1/2017.
[23] «Si, par le passé, on pouvait supposer que le développement, l’urbanisation, la modernisation, la scolarisation, la christianisation ou l’islamisation feraient disparaître les croyances et les pratiques désignées sorcières, la situation actuelle au sud du Sahara démontre l’inverse. Loin de s’estomper, ces représentations sociales et culturelles se sont maintenues, transformées et réadaptées en fonction des réalités et des besoins contemporains». UNICEF, Les enfants accusés de sorcellerie Etude anthropologique des pratiques contemporaines relatives aux enfants en Afrique, 2010.
[24] B. Sanou, Witchcfraft Accusation: Destroying Family, Community and Church, in Journal od Adventist Mission Studies, 2017.
[25] «Across the African continent, there is a pervasive outlook characterized by material and non-material, the natural and the supernatural, the seen and the unseen, the visible and the invisible. The invisible world is populated with entities, which Africans believe are capable of doing either good and evil. These negative and positive metaphysical forces control events and happenings in the world (including the storms of misfortune) people experience in daily life. Witches are among the evil spirits that cause misfortune using human and material means to inflict injury and harm. When people experience death, illness or accidents which they attribute to witchcraft, they try to smell out this enemy. A witch hunt suddenly erupts. If the witch is not flushed out immediately, people in the family live in constant fear, suspicion and mistrust. If the witch is not openly named and shamed, a covert prosecution occurs. People in communities live in constant state of fear of witchcraft, as if in a magical war». L. Igwe, Understanding Witchcraft Accusation in Africa, 24 ottobre 2014, reperibile al link: https://web.randi.org/swift/-understanding-witchcraft-accusations-in-africa.
[26] UNHCR, Breaking the spell: responding to witchcfraft accusation against children, 2011, p. 5.
[27] B. Sanou, Witchcfraft Accusation: Destroying Family, Community and Church, cit., nota 11. Rispetto al fenomeno delle accuse di stregoneria nei confronti dei bambini, si veda anche: UNICEF, Les enfants accusés de sorcellerie. Etude anthropologique des pratiques contemporaines relatives aux enfants en Afrique, 2010.
[28] In proposito, il già citato studio dell’UNHCR riporta come «Claims and counterclaims about the activities of witches and sorcerers tend to exist in the background of community affairs in the societies where such ideas are held. They flourish in the shadows, fed by gossip and rumour, and emerge into public debate or accusations only in times of specific tension». UNHCR, Witchcraft allegation, refugee protection and human rights: a review of the evidence, 2009, p. 3 (http://www.refworld.org/docid/4a54bbefd.html).
[29] UN Special Rapporteur on extragiudicial, summary or arbitrary executions, Promotion ad Protection of All Human Rights, Including the Right to Development, A/HRC/11/2, 2009. Si veda anche quanto riportato nello studio UNHCR: «Thus, witchcraft allegations can profoundly impact those accused by subjecting them to harassment, violence, and even death. In many cases, “to be labelled a witch…is tantamount to being declared liable to be killed with impunity”». UNHCR, 2009, ibidem.
[30] «In January 2015, several media reported that at least 21 children were kidnapped in Ivory Coast since December 2014. ‘Most have been found dead with their bodies mutilated’. (…) According to a BBC correspondent in Abidjan, ‘there was a similar spate of suspected ritual killings in Ivory Coast in the run-up to elections in 2006 and 2010’. A journalist for local news site L'Infodrome, who was reporting on the kidnappings, was quoted by Vice News: ‘recommend human sacrifices for good luck. Adults are also sacrificed, but unfortunately, children are an easy prey»; EASO, COI Query on Ivory Coast, 8 ottobre 2018, p. 5. La diffusione di pratiche violente e di persecuzioni contro le persone accusate di stregoneria in Costa d’Avorio è documentata anche nel recente articolo Les sorciers vont me manger, si je construis une maison au village, pubblicato sul sito info su Zanzan nel 2016; Vi si legge: «En 2003, des jeunes gens ont fait parler d’eux dans le département de Bondoukou. Ils se faisaient appeler « Dabila » et s’étaient donné un rôle : démasquer les sorciers dans les villages. Dans de nombreuses localités, des vieilles femmes ont été mises nues, forcées de s’accuser publiquement de sorcellerie et avouer les noms des personnes qu’elles auraient tuées en mangeant leurs âmes. Ces vieilles ont ensuite été battues et humiliées. Des scènes horribles qui se sont déroulées sous les yeux de leurs enfants […] À Kouassi-Kouman, dans la sous-préfecture de Tabagne, une femme a été tuée par ces « démasqueurs » de sorciers. Ces faits d’une extrême gravité, loin d’être unique en Côte d’Ivoire».
[31] Anche quando le persecuzioni costituiscono comportamenti socialmente accettati nel contesto di appartenenza, anche da parte delle forze dell’ordine e della autorità statali, nondimeno può aversi un rischio di persecuzione. (UNHCR, 2009, ibidem).
[32] Art. 205 del Codice Penale ivoriano, che recita: «Est puni d’un emprisonnement d’un à cinq ans et d’une amende de 100.000 à 1.000.000 de francs, quiconque se livre à des pratiques de charlatanisme, sorcellerie ou magie, susceptibles de troubler l’ordre public ou de porter atteinte aux personnes ou aux biens». Reperibile al link: http://www.loidici.com/codepenalcentral/codepenal.php. EASO, 2018, ibidem. Dunque, mentre le persone che commettono (o, più probabilmente, sono accusate di aver commesso) atti di stregoneria possono essere arrestate e processate, la legge ivoriana non prevede alcuna specifica tutela per chi si veda perseguitato a causa di tale accusa.
[33] Si veda anche quanto riportato da UNICEF, sebbene sia una considerazione di carattere generale e non espressamente correlata alla Costa d’Avorio: «Dans certains pays d’Afrique subsaharienne, la lutte anti‐sorcière semble être davantage instrumentalisée – officialisée à travers le systeme judicaire. La pratique de la sorcellerie étant définie comme crime et/ou infraction, les accusés peuvent comparetre devant les tribunaux de Grande Instance ; condamnés pour un acte sorcier, ils sont mis en détention». UNICEF, 2010, p. 46.
[34] B. Sanou, cit. La trasmissione della stregoneria per linea matriarcale è altresì documentato, da un punto di vista etnografico, nel volume Witchcraft and Sorcery in East Africa, Ed. J. Middleton, 1964, p. 67. Si vedano inoltre: Nyabwari B., NkongeKagema D., The Impact of Magic and Witchcraft in the Social, Economic Political and Spiritual Life in African Countries, in International Journal of Humanities Social Sciences and Education, maggio 2014, pp. 9-18. Allo stesso modo: Also, children descending from a matrilineage of witches are often thought to inherit tendencies toward witchcraft, in Women and Religion in Africa, 2013, reperibile al link: https://blog.uvm.edu/vlbrenna-rel163/.
[35] UNICEF, Children Accused of Witchcraft – An anthropological study of contemporary practices in Africa, pag. 14; il rapporto è consultabile al sito: https://www.refworld.org/pdfid/4e97f5902.pdf.
[36] A. Ephirim-Donkor, “African Religion Defined: A Systematic Study of Ancestor Worship among the Akan”, University Press of America, pag. 42 ss.
[37] «Witchcraft accusations are a traumatic experience both for the accused and their relatives, especially in contexts where witchcraft is thought to be inherited (Akrong 2007:54; Nyabwari and Kagema 2014:12; Quarmyne 2011:480). This leads to the stigmatization of other members of a family when one of them is accused of being a witch». B. Sanou, cit., nota 11.
[38] Art. 29, comma 10, lett. c), D. Lgs. 286/98, nella versione anteriore al D.L. 113/2018. A ciò si aggiunga che, in ogni caso, pur a fronte della successiva abrogazione dell’inciso che escludeva dalla richiesta di ricongiungimento chi avesse ottenuto il permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 5, comma 6, D. Lgs. 286/98, la madre non avrebbe avuto i requisiti di reddito ed alloggio prescritti dalla normativa ai fini del rilascio del nulla osta.
[39] Il primo caso considerato dal Tribunale di Roma costituiva l’oggetto dell’ordinanza ex art. 700 c.p.c. pronunciata in data 21.2.2019. In questa circostanza, tra l’altro, la madre del minore coinvolto era titolare di permesso di soggiorno per motivi umanitari. La seconda vicenda viene menzionata nel prosieguo.
[41] CGUE, C-652/16, Ahmedbekova, EU:C:2018:801, par. 51.
[43] UNHCR, Procedural Standards for Refugee Status Determination under UNHCR’s Mandate - 5. PROCESSING CLAIMS BASED ON THE RIGHT TO FAMILY UNITY, 2016 (https://www.refworld.org/docid/577e17944.html).
[44] UNHCR, Procedural Standards for Refugee Status Determination under UNHCR’s Mandate - 5. PROCESSING CLAIMS BASED ON THE RIGHT TO FAMILY UNITY, 2016, pag. 2.