1. Il fatto
Alcuni tunisini, nati tra il 1989 ed il 1993, imbarcatisi nel Mediterraneo nell’ottobre 2017 su mezzi di fortuna e quindi salvati in mare da una nave italiana, sono trasportati a Lampedusa, trattenuti per dieci giorni all’interno dello hotspot del luogo, senza possibilità di uscirne legalmente ed in condizioni ritenute disumane e degradanti; vengono quindi trasferiti a Palermo e riportati in aereo in Tunisia.
2. Il ricorso alla CEDU
Il 26 aprile 2018 gli stranieri depositano un ricorso contro l’Italia innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Invocano gli articoli 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti), gli articoli 5 §§ 1, 2 e 4 (diritto alla libertà e alla sicurezza) e 13 (diritto a un ricorso effettivo), e gli articoli 4 (divieto di espulsione collettiva degli stranieri) e 2 (libertà di circolazione) del Protocollo n. 4, lamentando di aver subito la privazione della libertà personale senza una decisione chiara e senza poter contestare legalmente tale privazione della libertà, nonché la ingiustificata limitazione alla loro libertà di circolazione; lamentano inoltre che il loro respingimento differito equivaleva a un'espulsione collettiva, vietata dalle norme.
3. La pronuncia
La Corte europea dei diritti dell'uomo -Sez. I, J.A. c. Italia del 30 marzo 2023, ric. N. 21329/18, composta da autorevoli giuristi, esperti conoscitori della situazione italiana (come ben si evince, oltre che dal tenore della decisione, dalla approfondita e completa disamina in sentenza del sistema internazionale, europeo e nazionale delle fonti in materia di immigrazione)- ha dichiarato, all'unanimità, che vi è stata violazione dell'articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, violazione dell'articolo 5 §§ 1, 2 e 4 ( diritto alla libertà e alla sicurezza), e violazione dell'articolo 4 del Protocollo n. 4 (divieto di espulsione collettiva degli stranieri) addizionale alla Convenzione europea.
La sentenza, argomentando in modo efficace, e coraggiosamente superando anche un pesante precedente di Grande Camera (di cui si riferirà appresso), ha affermato in particolare che:
a. i ricorrenti sono stati arbitrariamente privati della libertà in quanto il loro trattenimento per dieci giorni presso lo hotspot di Lampedusa è avvenuto in assenza di una base giuridica chiara e accessibile e di uno specifico provvedimento;
b. tale trattenimento ha costituito trattamento inumano e degradante, vietato come tale, senza che le difficoltà derivanti dall'aumento dell'afflusso di migranti e richiedenti asilo possano dispensare gli Stati membri del Consiglio d'Europa dagli obblighi derivanti dall’art. 3 CEDU;
c. i provvedimenti di respingimento emessi nei confronti dei ricorrenti, in quanto adottati in mancanza di una valutazione individualizzata delle loro posizioni, equivalgono ad una espulsione collettiva.
La Corte ha inoltre stabilito che l'Italia deve pagare a ciascun ricorrente 8.500 euro (EUR) a titolo di danno morale e 4.000 EUR a titolo di costi e spese.
4. Le ragioni della decisione in sintesi
4.1. Sulla violazione dell’art. 3
I ricorrenti hanno fornito abbondanti informazioni, anche fotografiche, sulle carenze delle condizioni materiali dello hotspot di Lampedusa; inoltre, molteplici fonti nazionali e internazionali avevano attestato tali condizioni di criticità nel periodo di riferimento, in particolare evidenziando che il centro era sovraffollato, fatiscente e sporco, privo di servizi e spazi (con riguardo in particolare ai posti letto). Considerando inoltre la mancata produzione, da parte del Governo, di elementi sufficienti a dimostrare che le condizioni individuali di soggiorno dei ricorrenti potessero essere ritenute accettabili, la Corte ha ritenuto che, all'epoca dei fatti, l'hotspot di Lampedusa, dove i ricorrenti erano rimasti per dieci giorni, aveva fornito condizioni materiali precarie che costituivano un trattamento inumano e degradante.
4.2. Sulla violazione dell’art. 5
L'articolo 5 § 1 (f) stabilisce un'eccezione alla libertà personale nel contesto del controllo dell'immigrazione, consentendo tra l’altro «l'arresto o la detenzione legale di una persona per impedire che effettui un ingresso non autorizzato nel paese». La Corte ha quindi ammesso che, ai sensi della Convenzione, nel momento in cui i migranti tentano di essere ammessi nel territorio di una Parte contraente, potrebbe essere giustificata una limitazione della loro libertà di movimento in un hotspot – per un periodo limitato e strettamente necessario – per il finalità di identificazione, registrazione e colloquio, in vista, una volta chiarito il loro status, del loro eventuale trasferimento in altre strutture.
Ciò posto, la Corte ha però rilevato nella pronuncia in commento che i rapporti di osservatori indipendenti, nonché di organizzazioni nazionali e internazionali, avevano definito all'unanimità lo hotspot di Lampedusa come un'area chiusa con sbarre, cancelli e recinzioni metalliche da cui i migranti non potevano uscire, anche una volta identificati, sottoponendo così loro a una privazione della libertà che non era regolata dalla legge o soggetta a controllo giudiziario, tanto più che la durata massima del loro soggiorno non era stata definita da alcuna legge o regolamento e che le condizioni materiali del loro soggiorno erano state ritenute disumane e degradanti. La Corte ha quindi constatato che i ricorrenti erano stati trattenuti nello hotspot per un periodo rilevante, non limitato al solo scopo di chiarire la situazione dei ricorrenti o per inviarli ad altri centri, come consentito dalla legge. La Corte, considerato che i ricorrenti non potevano lasciare legalmente il centro, ha affermato che sarebbe stato utile chiarire da parte del legislatore la natura degli hotspot e i diritti sostanziali e procedurali delle persone che vi soggiornano: invece, non vi era alcun riferimento nel diritto interno agli aspetti sostanziali e procedurali della detenzione o ad altre misure che comportano la privazione della libertà che potrebbero essere attuate nei confronti dei migranti. Pertanto, non vi era alcuna base giuridica chiara e accessibile per la detenzione di dieci giorni dei ricorrenti, i quali peraltro non erano stati informati dei motivi giuridici della loro privazione della libertà, non avevano ricevuto informazioni sufficienti e non erano stati in grado di contestare il motivi della loro detenzione de facto davanti a un tribunale, in violazione dell'articolo 5 §§ 1, 2 e 4 della Convenzione.
Ad avviso della Corte EDU, dunque, perché la detenzione di un richiedente asilo o di un altro immigrato prima che lo Stato conceda l'autorizzazione all'ingresso sia consentita, è necessaria la sussistenza delle seguenti condizioni: a) che il trattenimento sia strettamente connesso allo scopo di impedire l'ingresso non autorizzato della persona nel Paese; b) che il luogo e le condizioni di trattenimento siano adeguati; c) che la durata del trattenimento non ecceda quella ragionevolmente necessaria per lo scopo perseguito, ed in particolare che sia circoscritta al tempo strettamente necessario ai fini dell'identificazione, della registrazione e del colloquio, in vista, una volta chiarito il loro status, del loro eventuale trasferimento in altre strutture; d) che i trattenuti siano in grado di contestare il motivi della loro detenzione de facto davanti a un tribunale.
4.3. Sulla violazione dell’art. 4 prot. 4
Nel caso di specie, secondo la Corte, i provvedimenti di respingimento presentavano un testo standardizzato che non rivelava alcun esame della situazione personale dei ricorrenti; d’altra parte, il Governo italiano non aveva confutato l'affermazione dei ricorrenti secondo cui prima della firma dei provvedimenti di respingimento non aveva avuto luogo alcun colloquio individuale.
Dunque, la situazione dei migranti non era stata valutata individualmente prima che fossero emessi i provvedimenti di respingimento, che di fatto equivalevano a un'espulsione collettiva. Inoltre, tenuto conto delle circostanze dell'allontanamento dei ricorrenti, del breve lasso di tempo intercorso tra la firma dei ricorrenti dei decreti di respingimento e il loro allontanamento, del fatto che essi non avrebbero compreso il contenuto dei decreti e che a due di loro non era stata fornita una copia, la Corte ha ritenuto che il Governo non avesse sufficientemente dimostrato che i ricorrenti avevano beneficiato della possibilità di impugnare tali decisioni.
5. I leading cases in materia nella giurisprudenza della Corte
I principi generali applicabili al trattamento delle persone in regime di detenzione per immigrati sono precisati nelle sentenze M.S.S. c. Belgio e Grecia ([GC], n. 30696/09, §§ 216-22, CEDU 2011), Tarakhel c. Svizzera ([GC], n. 29217/12, §§ 93-99, CEDU 2014 ( estratti)) e Khlaifia e altri c. Italia ([GC], n. 16483/12, §§ 158-69, 15 dicembre 2016; E.K. c. Grecia, n. 73700/13, §§ 72-84, 14 gennaio 2021.
Quanto al divieto di espulsione collettiva, ed alla qualificazione come tale di qualsiasi misura che costringa gli stranieri, come gruppo, a lasciare un paese, a meno che tale misura sia adottata sulla base di un esame ragionevole e obiettivo del caso particolare di ogni singolo straniero del gruppo, si vedano le sentenze N.D. e N.T. c. Spagna [GC], nn. 8675/15 e 8697/15, §§ 193-201, 13 febbraio 2020, e le cause ivi citate; Shahzad c. Ungheria, n. 12625/17, §§ 60 -68, 8 luglio 2021; D.A. e altri c. Polonia, n. 51246/17, §§ 81-84, 8 luglio 2021, e A.I. e altri c. Polonia, n. 39028/17, §§ 52-58, 30 giugno 2022.
6. La decisione J.A. in rapporto ai precedenti analoghi di condanna dell’Italia
I principali precedenti in materia nei confronti dell’Italia sono essenzialmente quattro.
In Khlaifia and Others v. Italy - 16483/12, si trattava di un trasferimento in Tunisia di un gruppo di migranti marittimi tunisini. Il 1 settembre 2015 una sezione della Corte aveva rilevato una violazione dell'articolo 4 del Protocollo n. 4 alla Convenzione per la mancanza di adeguate garanzie di un esame effettivo e specifico della situazione individuale di ciascun ricorrente; una violazione dell'articolo 13 della Convenzione, per mancanza di effetto sospensivo dei relativi rimedi; una violazione dell'articolo 5 § 1 (mancanza di base giuridica per la privazione della libertà), e degli articoli 5 § 2 e 5 § 4; una violazione dell'articolo 3 per le condizioni di trattenimento nel centro e nessuna violazione dell'articolo 3 per il trattenimento sulle navi; e una violazione dell'articolo 13 per la mancanza di rimedi a tale riguardo.
Il 1° febbraio 2016 la causa era quindi stata oggetto di referral alla Grande Camera su richiesta del Governo.
La Grande Camera si era quindi pronunciata con la sentenza 15.12.2016 [GC].
In quel caso, quanto alla doglianza relativa alle condizioni in cui erano stati detenuti, la Corte aveva ritenuto artificioso esaminare i fatti di causa al di fuori del contesto dell'emergenza umanitaria: nell’anno si era registrato infatti l'arrivo in massa di migranti nordafricani (oltre 50.000 nell'anno) a Lampedusa , cui si erano aggiunti alcuni problemi specifici quali una rivolta tra i migranti presso il centro di accoglienza, un incendio doloso che aveva distrutto il centro, una manifestazione di 1.800 migranti per le strade di Lampedusa. Inoltre, sebbene i ricorrenti fossero stati indeboliti perché avevano appena effettuato una pericolosa traversata in mare, non presentavano -secondo la Grande Camera- alcuna vulnerabilità specifica (non erano richiedenti asilo, non affermavano di aver subito esperienze traumatiche nel loro paese di origine, non appartenevano né alla categoria degli anziani né a quella dei minori, e non dichiarava di essere affetto da alcuna particolare condizione medica). Era quindi stata esclusa all’unanimità la violazione dell’art. 3 della Convenzione.
Quanto alla doglianza inerente l’espulsione collettiva, la Corte aveva valorizzato taluni elementi fattuali (la presenza di operatori sociali, interpreti, psicologi e assistenti sociali, la durata, compresa tra i nove e i dodici giorni, della permanenza dei migranti in territorio italiano, nonché il colloquio avuto con il console tunisino prima di essere imbarcati per la Tunisia) per ritenere che i ricorrenti erano stati messi nelle condizioni di rappresentare alle autorità italiane qualunque elemento che potesse influire sul loro status e sul loro diritto di soggiornare in Italia; aveva quindi ritenuto che la natura relativamente semplice e standardizzata dei provvedimenti di respingimento potesse essere spiegata dal fatto che i ricorrenti non avevano alcun documenti di viaggio validi e non aveva asserito né di temere maltrattamenti in caso di rientro né di esservi altri impedimenti giuridici alla loro espulsione. Non era quindi di per sé irragionevole che tali ordinanze fossero giustificate dalla sola nazionalità dei ricorrenti, dall'osservazione che questi avevano varcato illegalmente il confine italiano e dall'insussistenza di una delle situazioni previste dalla legge pertinente (politica asilo, concessione dello status di rifugiato o adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari). Per altro verso, la Corte aveva ritenuto non decisivo il fatto che un gran numero di migranti tunisini fosse stato allontanato dal territorio, atteso che ciò poteva essere spiegato come il risultato di una serie di provvedimenti individuali di respingimento.
La Corte aveva invece ritenuto, all'unanimità, che vi fosse stata violazione dell'articolo 5 § 1 (e di conseguenza degli articoli 5 § 2 e 5 § 4) a causa della mancanza di base giuridica per la privazione della libertà dei ricorrenti. La loro detenzione de facto senza alcuna decisione formale li aveva privati delle garanzie costituzionali di habeas corpus concesse alle persone detenute in un centro di espulsione e, anche nel contesto di una crisi migratoria, ciò non poteva essere compatibile con l'obiettivo dell'articolo 5 della Convenzione. C'era stata anche una violazione dell'articolo 13 in combinato disposto con l'articolo 3, per quanto riguarda le condizioni di detenzione. Ai sensi dell’art. 41 era quindi stata accordata la somma di EUR 2.500 a ciascuno dei ricorrenti per danno morale.
In Sharifi e altri c. Italia e Grecia (16643/09, 21 ottobre 2014), il caso riguardava 32 cittadini afghani, due cittadini sudanesi e un cittadino eritreo, i quali erano entrati illegalmente in Italia dalla Grecia e vi erano stati rimandati immediatamente, con il timore di una successiva deportazione nei rispettivi paesi di origine, dove avevano affrontato il rischio di morte, tortura o trattamenti inumani o degradanti.
La Corte ha ritenuto, a maggioranza, che vi era stata: una violazione da parte della Grecia dell'articolo 13 (diritto a un ricorso effettivo) combinato con l'articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o riguardanti) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo in ragione del mancato accesso alla procedura di asilo per i suddetti richiedenti e del rischio di deportazione in Afghanistan, dove rischiavano di subire maltrattamenti; una violazione da parte dell'Italia dell'articolo 4 del Protocollo n. 4 (divieto di espulsione collettiva degli stranieri); una violazione dell'articolo 3 da parte dell'Italia, in quanto le autorità italiane, rinviando questi ricorrenti in Grecia, li aveva esposti ai rischi derivanti dalle carenze della procedura di asilo di quel paese; una violazione da parte dell'Italia dell'articolo 13 combinato con l'articolo 3 della Convenzione e l'articolo 4 del Protocollo n. 4 per il mancato accesso alla procedura di asilo o ad ogni altro rimedio nel porto di Ancona.
La Corte ha ritenuto, in particolare, che il sistema di Dublino – che serve a determinare quale Unione europea Stato membro è competente per l'esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri Stati da parte di un cittadino di un paese terzo – deve essere applicato in modo compatibile con la Convenzione: nessuna forma di restituzione collettiva e indiscriminata potrebbe essere giustificata facendo riferimento a quel sistema, spettando allo Stato che effettua il rimpatrio assicurarsi che il paese di destinazione offra sufficienti garanzie nell'applicazione della sua politica in materia di asilo per evitare che la persona interessata venga allontanata suo paese d'origine senza una valutazione dei rischi a cui è esposto.
In Hirsi Jamaa e altri c. Italia (27765/09, 23 febbraio 2012), la Corte si è occupata del caso riguardante migranti somali ed eritrei, in viaggio dalla Libia a bordo di tre barconi intercettati in mare dalle autorità italiane, che erano stati rispediti in Libia.
La Corte europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto, all'unanimità, che: vi era stata violazione dell'articolo 4 del Protocollo n. 4 (divieto di attività collettive espulsioni); c'erano state due violazioni dell'articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) della Convenzione perché i ricorrenti erano stati esposti al rischio di maltrattamenti in Libia e di rimpatrio in Somalia o Eritrea; c'era stata una violazione dell'articolo 13 (diritto a un ricorso effettivo) in combinato disposto con l'articolo 3 e con l'articolo 4 del Protocollo n.4.
La Corte ha in particolare considerato che il trasferimento dei ricorrenti in Libia era stato effettuato senza alcun esame di ogni singola situazione. Nessuna procedura di identificazione era stata effettuata dalle autorità italiane, che si erano limitate a imbarcare i ricorrenti e poi a sbarcarli in Libia. La Corte ha concluso che la rimozione dei ricorrenti era stata per sua natura collettiva, in violazione dell'articolo 4 del Protocollo n. 4. Sotto l’altro profilo, la Corte ha sottolineato che, quando i ricorrenti erano stati allontanati, le autorità italiane avevano saputo o avrebbero dovuto sapere che sarebbero stati esposti a trattamenti contrari alla Convenzione e che il fatto che i ricorrenti non avessero chiesto espressamente asilo non aveva esentato l'Italia dalla sua responsabilità. La Corte ha ribadito quindi gli obblighi degli Stati derivanti dal diritto internazionale dei rifugiati, compreso il “principio di non respingimento”.
Infine, la Corte ha rilevato la violazione da parte dell’Italia del diritto a ricorso effettivo, posto che nel caso i ricorrenti non avevano potuto presentare alcun ricorso a tutela avverso il respingimento.