Il libro di Enrico Tiozzo, Dove andava Matteotti? Storia di un depistaggio lungo un secolo, Aracne, 2022, articola una curiosa tesi storiografica, secondo la quale Giacomo Matteotti sarebbe andato consapevolmente incontro alla squadra fascista che poi lo uccise. È particolarmente sorprendente che la vicenda del delitto venga declinata in base alle dichiarazioni rese dall’austriaco Otto Thierschädl, unanimemente considerato da inquirenti e storici un inveterato bugiardo, che viveva di espedienti.
L’onere di sostenere l’arditissima argomentazione è affidato proprio al verbale degli interrogatori di questo componente della “banda del Viminale”: egli, incaricato dal Dùmini di spiare le abitudini e i movimenti di Matteotti, avrebbe a suo stesso dire tradito il mandato per mettere a più riprese sull’avviso proprio la vittima designata. Pertanto Matteotti – nel disattendere il suggerimento disinteressatamente ricevuto – sarebbe andato dal lato sbagliato di via Pisanelli (quello che portava al Lungotevere) col chiaro proposito di lasciarsi aggredire, riservandosi di esibirne poi le conseguenze alla prima occasione utile e, in tal modo, screditare il governo Mussolini.
In linea generale, nel fare ricerca – storia in origine significa ricerca – è bene seguire l’aforisma di Giambattista Vico, per il quale «natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose[1]», essendo ridotti al minimo i “punti di vista” degli storici, che incorporano la zavorra delle idee e dei tempi in cui scrivono. I “punti di vista” possono notevolmente variare, purché non alterino la natura delle cose, cioè non mettano il carro innanzi ai buoi.
Nel caso della professione di fede[2] di Matteotti, le conseguenze erano ben note ai contemporanei: «"volontario della morte" lo ha definito Gobetti. E Turati: "si fece volontario della morte". "Fu una consapevole e maschia elezione di destino" ha scritto Carlo Rosselli»[3]. Ma - Dio mio! - si può immaginare che un essere pensante e raziocinante vada, inerme, a farsi bastonare, non sapendo se potrà poi raccontare l'aggressione subìta? L'ultimo che ardì proporre una tesi così scombiccherata si nascose dietro un provvidenziale colloquio con un signore anonimo, «chiacchierando, seduti alla stessa tavola in un ristorante»[4].
Ora ci si prova il Tiozzo, dando la seguente risposta alla domanda recata dal titolo: «Dove andava allora Matteotti quel pomeriggio del 10 giugno 1924? La risposta è che andava a farsi sequestrare. L’ipotesi è credibile, anche se non si troverà mai un riscontro documentale che sarebbe potuto arrivare soltanto da un’ammissione della vedova, vale a dire dalla persona più vicina a Matteotti e con cui egli aveva maggiori ragioni di discutere una decisione così importante. Alla base di questa ipotesi c’è il fatto innegabile degli avvertimenti di Thierschädl. Nessuno li avrebbe ignorati e Matteotti e compagni di partito sapevano benissimo il rischio che il deputato correva in quei giorni. Uscire a tutti i costi di casa e senza alcun appuntamento o meta precisa, proprio quel pomeriggio, poteva essere deciso soltanto da una persona che voleva deliberatamente correre quel rischio e sfidare i propri avversari. Molti degli elementi che abbiamo indicato inducono a pensare che Matteotti avesse pianificato di reagire con la forza per aumentare il livello di violenza che i suoi aggressori erano in grado di usare su di lui. Come infatti avrebbero sostenuto i testimoni oculari, fu proprio il deputato a spingere a terra il primo dei sequestratori che gli aveva messo una mano sul braccio. Escludiamo tuttavia che Matteotti pensasse di poter venire ucciso, anche perché Thierschädl non aveva mai accennato a un epilogo così spaventoso. Matteotti era certamente un uomo molto coraggioso ma aveva tre figli in tenera età e farsi uccidere per questioni di dibattito politico, anche serissimo, non poteva essere tra gli eventi che aveva contemplato[5]».
Emerge in queste parole tutto il pericolo che si corre, quando l’immaginario dei giallisti e i voli pindarici dei letterati si mischiano alle poche e poco studiate carte degli storici[6]. Mettere il carro dinanzi ai buoi non fa fare un passo innanzi nella ricerca della verità, processuale o storica che la si voglia intendere: il cavalier Gaetano Laino, capo di gabinetto del questore di Roma, testimoniò in istruttoria che Thierschädl era «un fiduciario del Partito fascista, in linea naturalmente riservata[7]», cosa che spiega perché fidarsi di «uno che conoscesse Matteotti e potesse avvicinarlo con una certa facilità[8]»: essendo «troppo prezioso in quel momento per la CeKa[9]» fascista, non poteva restare in carcere. Questa è la ragione per la quale il 31 maggio 1924 Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Partito Nazionale Fascista, scrisse al direttore del carcere di Poggioreale perché liberasse il suo fiduciario riservato. Ed è questa la ragione per la quale il giorno successivo, 1°giugno, il generale Emilio De Bono, direttore generale della pubblica sicurezza, per il ministro [dell'Interno, Benito Mussolini], ribadì all'incredulo prefetto di Napoli, Agostino D'Adamo: «Thierscwald va liberato[10]». Questi documenti, letti e considerati insieme, dicono due verità evidenti: a) che Matteotti subì la lezione per quello che aveva detto e fatto prima del 31 maggio 1924 e non per quello che dirà e farà dopo il 31 maggio 1924; b) che la lezione fu decisa ai vertici della piramide istituzionale.
I paradossi della storiografia creativa talvolta portano a sorprendenti capovolgimenti di senso, come avviene nel libro in questione, per il quale il delitto contro la verità - contro cui reagire - non sarebbe il ventennio in cui gli assassini sono stati mandati liberi, ma l’ottantennio in cui si è dato credito all’istruttoria Del Giudice[11]. Il vistoso scetticismo con cui il magistrato inquirente guardò alla deposizione di Thierschädl sarebbe un errore voluto, una frode processuale studiata, un depistaggio dettato dalla sua vistosa partigianeria.
Si tratta di un approccio che, peraltro, non spiega che cosa facevano gli uomini - questurini e regi carabinieri - che coadiuvavano questo giudice nell'espletamento delle sue funzioni. Furono tutti concordi e decisi a depistare? Se è così, dovremmo anzi concludere che la verità, compromessa da un giudice infìdo e non difesa da esecutori infingardi, sia stata meglio servita dall'esproprio del procedimento...
C’è però da osservare che una lunga teoria di eventi si presta a “spiegazioni” analoghe a quella, secondo la quale la vittima «presumeva molto di sé ed amava andare a cercarsi i guai, senza alcun senso del limite[12]».
Se il 31 luglio 1914 Jean Jaurés fosse rimasto nella redazione dell’Humanité, invece di scendere al caffè di sotto dopo aver annunciato al mondo la sua opposizione alla guerra, forse non avrebbe ricevuto la revolverata mortale. A ben guardare, anzi, intorno al 1921-1926 ci deve essere stata una vera e propria epidemia collettiva di onest’uomini che si trovò in paradiso senza neppur credere al padreterno (Di Vagno, Amendola, Gobetti ed eccezionalmente don Minzoni che invece credeva in Dio e che fece presumibilmente gli onori di casa): i giudici dell'epoca - chiamati a pronunciarsi sulle responsabilità per il decesso di coloro andarono volontariamente incontro alle mazze ferrate e alle rivoltelle fasciste - non possono che aver seguito la medesima "logica", nel pronunciare i loro verdetti assolutori.
Ma il teorema in verità non fila, probabilmente perché nel testo in esame è invertito il rapporto tra cause ed effetti, ad esempio quando si giudica «sorprendente che, assoldando e utilizzando un doppiogiochista, Marinelli non si rendesse conto che l’austriaco avrebbe potuto fare il doppio gioco anche con i sequestratori. Dùmini infatti non si fidava di Thierschädl, non gli rivelò i segreti dell’operazione e, il giorno del sequestro, gli diede appuntamento in un caffè di Roma, molto lontano da via Pisanelli. L’austriaco lo attese a lungo e invano, come poi avrebbe confermato il personale del locale[13]».
Ambedue gli sbocchi (fiducia iniziale e sfiducia finale) sono addotti per sostenere un prius fideistico, prima ancora che logico e cronologico: Matteotti “cercava” il martirio, se pure lieve e a buon mercato. Facile sarebbe rispondere offrendo una dinamica, alle azioni di Thierschädl, assai più semplice: la sua assenza dal luogo del delitto è la precostituzione di un alibi per l’unico della banda che si è fatto riconoscere. Lo pseudo-ripensamento dell’austriaco è infatti del tutto inattendibile, se per arruolarlo era stato indispensabile addirittura scomodare Marinelli e De Bono e chiamare in causa il ministro dell'interno Mussolini.
Occorrerebbe piuttosto chiedersi perché c’era bisogno di costui – e solo di costui – per svolgere un lavoro di pedinamento che, in sé, sarebbe stato di tutta fungibilità: se, cioè, nel mandato non fosse contemplato, invece, proprio il mettersi in relazione con la vittima e la sua famiglia, per carpirne la buona fede[14]. Si può portare a conclusioni ulteriori un dibattito storiografico, che rischia di essiccarsi sulla tautologia della professione di fede del Martire: ma a condizione di far camminare il carro e non di metterlo davanti ai buoi.
Mischiando le carte e modificando l'ordine dei fatti, invece, si inverte il senso della storia: ne scaturisce una storiografia controfattuale che, con argomenti letterari infarinati di cultura psicanalitica, si dimostra capace solo di inventare un pelo e tramutarlo poi in una trave.
[1] Giambattista Vico, La scienza nuova (giusta l'edizione del 1744, con le varianti dell'edizione del 1730 e di due redazioni intermedie inedite e corredata di note storiche), Bari, Laterza, 1911, libro I, sezione seconda, XIV, p. 122.
[2] Aldo Parini, La vita di Giacomo Matteotti, Minelliana, 1998, p. 97.
[3] Ai tre contemporanei, la cui citazione è qui tratta da Giuseppe Tamburrano, Giacomo Matteotti. Storia di un doppio assassinio, UTET 2004, p. 132, può aggiungersi tutta una ricca sequenza di giudizi tratti da dichiarazioni dell'interessato. Nella stessa premessa del testo di Tamburrano si legge di descrivere l'iniziativa di Matteotti come quella di chi «per aprire gli occhi a un antifascismo pavido o incapace di unirsi e di agire per fermare la marcia autoritaria decise con supremo coraggio di mettere in gioco la propria vita», tanto è vero che «rivolgendosi ai giovani pochi mesi prima dell’assassinio, Matteotti scrisse: "Tutte le grandi cause della civiltà hanno dovuto avere prima le loro vittime, i loro martiri, gli inutili eroi che hanno aperto gli occhi e la strada agli altri”». Altra dichiarazione («Io voglio la lotta al fascismo. Per vincerla bisogna inacerbirla»: Filippo Turati attraverso le lettere di corrispondenti (1880-1925), Laterza, 1947, p. 272) è aggiornata in "drammatizzarla" da Riccardo Nencini, Solo, Mondadori, 2021, p. 536.
[4] Emidio Orlando, Il dossier Matteotti, Mursia, 1994, pp. 27-28.
[5] E. Tiozzo, Dove andava Matteotti? Storia di un depistaggio lungo un secolo, Aracne, 2022, p. 19.
[6] Che peraltro difficilmente incorrerebbe in refusi come quello di p. 149 (Epicarmo Corbino al posto di Orso Mario Corbino), di pagina 163 (“25 gennaio” invece di “3 gennaio” 1925) e di pagina 260 (ove si dà Giuseppe Francesco Danza interrogante nel 1947, quando era morto nel 1938).
[7] Giuseppe Mayda, Il pugnale di Mussolini, Il Mulino, 2004, pp. 158-159.
[10] Cfr. Archivio Centrale dello Stato - Roma. Ministero dell'Interno, Ufficio Cifra, telegramma in partenza n. 12104.
[11] E, soprattutto, al suo Mauro Del Giudice, Cronistoria del processo Matteotti, Lo Monaco, 1954 (ried. Edizioni Opere Nuove 1985 e, soprattutto, a cura di Teresa Maria Rauzino, in Il magistrato che fece tremare il Duce. Mauro Del Giudice, Memorie e Cronistoria del processo Matteotti, 2022). Il valore storiografico di questo testo, com'è noto, è attestato da Gaetano Salvemini, Nuova luce sull'affare Matteotti, in Il Ponte, XI, 3 (marzo 1955), pp. 305-320.
[12] Così Emidio Orlando, Il dossier Matteotti, Mursia, 1994, p. 28, proprio citando il fatto che l'austriaco aveva messo in guardia Matteotti «avendo constatato che era una brava persona».
[14] Ad esempio vantando rapporti con un antico protettore del socialismo italiano, come Emil Vandervelde, presente addirittura a Reggio Emilia nel congresso del 1893 (v. G. Tamburrano, Giacomo Matteotti, cit., p. 6): una “perla” evidenziata in un precedente libro dell’Autore del 2017, ma non abbastanza valorizzata dallo stesso “scopritore”.