1.- Le modifiche legislative avvenute nell’ambito dell’ordinamento sindacale nell’ultimo quinquennio (grosso modo a partire dal “Collegato lavoro”), si sono sviluppate lungo diverse linee di tendenza che nel loro complesso si connotano, in termini negativi, per aver spostato il nucleo centrale della contrattazione collettiva dal livello nazionale a quello periferico, per aver attuato un radicale capovolgimento della gerarchia delle fonti normative, per aver previsto con carattere di normalità la possibilità di una deroga dei contratti collettivi nazionali e delle stesse disposizioni normative da parte dei contratti di prossimità.
Si aggiunga ad esse il tentativo operato dall’art.8 della l.n.148/2011 di attribuire carattere vincolante ai contratti collettivi di prossimità (aziendali e territoriali), sempre che essi abbiano raccolto la maggioranza dei voti da parte delle associazioni stipulanti; strumento con il quale si è tentato di aggirare l’art.39 Cost., che – come si sa – subordina l’efficacia generale dei contratti collettivi alla loro stipulazione attraverso le rigorose modalità da esso previste al quarto comma.
All’incirca nel medesimo periodo è stato “sperimentato” in un’area non estesa a tutto il territorio del Paese, ma non meno significativa (il riferimento è naturalmente agli accordi Fiat), il ricorso alle clausole di tregua sindacale, giudicate inaccettabili da quelle organizzazioni, esterne o interne alla galassia confederale (tra le quali ultime, in particolare, la Fiom), che hanno ritenuto che la dignità del lavoro non possa essere tutelata in presenza di una privazione in danno dei sindacati dei suoi tradizionali contropoteri, il più importante dei quali è stato sempre costituito dal diritto di sciopero.
Per di più, l’affidamento delle clausole di tregua alla contrattazione “di prossimità” è stata considerata fonte di ulteriori rischi in quanto è notorio che in tante realtà imprenditoriali, soprattutto se di modeste dimensioni, le organizzazioni sindacali endoaziendali hanno una minore capacità di resistenza e possono, quindi, più facilmente cedere alle pressioni della controparte.
Tanto premesso, va sottolineato che le tre maggiori Confederazioni sindacali non hanno ostacolato adeguatamente questo processo involutivo ed hanno contribuito, anzi, a penalizzare l’esercizio dei diritti sindacali da parte delle associazioni ad esse estranee o comunque collocatesi in una posizione antagonistica. Espressione di tale tendenza è il c.d. Testo unico sulla rappresentanza, che è stato stipulato tra la Confindustria, da un lato, e Cgil, Cisl ed Uil, dall’altro, il 10 gennaio 2014 e che ha inglobato in larga misura i precedenti Accordi interconfederali del 2011 e 2013, sì che, per una maggiore snellezza, si farà riferimento soltanto all’ultimo (rinviandosi ad ogni modo, per una prima valutazione dei due primi accordi, a S.Mattone, L’accordo sindacale sulla rappresentanza tra aperture democratiche ed utopie normative, in Questione giustizia).
2.- E’ innegabile che al termine del precedente decennio il sistema sindacale si trovava in una condizione disastrosa (si pensi, per tutte, alla vicenda Fiat-Fiom), che ha dato luogo a tensioni che erano divenute ormai insopportabili e ad un ricorso alla giurisdizione inedito per la sua massiccia entità. E’ per ciò stesso indubbio, quindi, che occorreva un intervento di ampio respiro volto a restituire razionalità alla disciplina della contrattazione collettiva, a livello sia nazionale che periferico; intervento che, nella protratta inerzia del legislatore, non poteva che essere realizzato dalle parti sociali. Né va disconosciuto che nei primi due accordi erano stati pur introdotti elementi destinati ad agire positivamente in quella sorta di anomia che si era venuta determinando nell’ambito delle relazioni sindacali.
Nello scritto in precedenza menzionato si era infatti posto in rilievo che l’accordo del 2011 aveva avuto l’indubbio merito di muoversi in direzione di un recupero del carattere “genuino” della rappresentatività sindacale, ricollegando la legittimazione a negoziare a livello nazionale ad una determinata soglia (il 5% dei lavoratori ai quali si sarebbe applicato il contratto collettivo), calcolata attraverso un mix tra consistenza associativa e consensi ottenuti nelle elezioni periodiche delle rappresentanze sindacali unitarie (r.s.u.); che l’accordo del 2013, colmando la lacuna contenuta nel Protocollo del 2011, aveva opportunamente stabilito che la soglia da superare perché i contratti collettivi nazionali fossero “efficaci ed esigibili” era quella del 50%+ 1 dei lavoratori; che sia pure con una disciplina ancora monca si era affermato che la validità degli accordi di livello nazionale sarebbe stata condizionata alla loro approvazione da parte della maggioranza dei lavoratori compresi nella loro sfera di applicazione: e che era motivo di soddisfazione constatare che fosse stato eliminato, per la costituzione delle r.s.u., il criterio, ormai divenuto realmente anacronistico, secondo il quale un terzo dei seggi era riservato alle oo.ss. firmatarie del contratto collettivo nazionale.
A fronte di queste apprezzabili aperture, numerose sono però le criticità che il Testo unico solleva in relazione ad aspetti di primaria importanza, destinati ad incidere sul grado di tutela del pluralismo e della libertà sindacale.
2-1.- Un primo strumento di “compressione” di questi valori si rinviene nella regolamentazione della elezione delle rappresentanze sindacali unitarie, che di norma saranno, poi, l’organo destinato a rappresentare i lavoratori a livello aziendale in quanto le oo.ss. aderenti al c.d.”trittico” (vale a dire agli accordi del 2011, 2013 e 2014) si sono espressamente impegnate, con la c.d. “clausola di salvaguardia”, a rinunciare alla costituzione di rappresentanze sindacali aziendali, quali previste dall’art.19 dello Statuto. Va però rilevato al riguardo che alla presentazione delle liste elettorali possono concorrere anche le oo.ss. che non abbiano aderito alle confederazioni firmatarie del “testo unico” o alle oo.ss. di categoria che abbiano sottoscritto il contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’unità produttiva, purché a) “accettino espressamente, formalmente ed integralmente i contenuti” dei tre Accordi interconfederali; b) e “la lista sia corredata da un numero di firme di lavoratori dipendenti…pari al 5% degli aventi diritto al voto” (percentuale che nelle imprese con meno di 60 dipendenti si traduce in tre firme dei lavoratori).
Ora, in virtù della prima condizione di cui alla lett.a) l’organizzazione sindacale che non si riconosca nelle Confederazioni viene a trovarsi di fronte ad una secca alternativa, che condiziona la sua libertà di azione: essa infatti, o resta fuori delle r.s.u., collocandosi così in una posizione marginale rispetto alla dinamica sindacale: o, viceversa, se partecipa alle elezioni (previa “solenne” adesione agli Accordi interconfederali od al c.c.n.l. vigente in azienda), ove poi intenda contestare il contratto aziendale non votato dei propri esponenti nelle r.s.u., si espone alle conseguenze sanzionatorie previste dall’ultima parte dell’Accordo e connesse agli “eventuali comportamenti attivi od omissivi che impediscano l’esigibilità dei contratti collettivi” stipulati ai sensi di detto protocollo (in termini analoghi, P.Alleva, Pericoli dell’accordo interconfederale sulla rappresentanza, in www.dirittisocialiecittadinaza.org/).
2.2.- Problemi altrettanto spinosi pone la disciplina concernente la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, concordata in epoca successiva alla pubblicazione della fondamentale sentenza n.231/2013 della Corte costituzionale, la quale – come è noto – ha dichiarato parzialmente illegittimo l’art.19 della legge n.300/1970, nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda.
Ora, l’Accordo del 2014, che non ha potuto evidentemente non tener conto di quella pronunzia, ne ha dato però un’interpretazione impropria in quanto ha stabilito che al fine di poter esercitare i diritti sindacali di cui all’art.19 cit. si intendono partecipanti alla negoziazione le organizzazioni che: a) abbiano raggiunto il 5% di rappresentanza; b) abbiano partecipato alla negoziazione in quanto hanno contribuito alla definizione della piattaforma; c) ed abbiano fatto parte della delegazione trattante l’ultimo rinnovo del c.c.n.l. definito secondo le regole del presente accordo.
Il riconoscimento dei diritti sindacali di fonte legale (un pacchetto di diritti aggiuntivi è attribuito dall’Accordo alle sole oo.ss. di categoria firmatarie del c.c.n.l. applicato nell’unità produttiva) comporta, quindi, la realizzazione di tre condizioni, l’ultima delle quali non viene qui presa in esame in quanto non troverà applicazione nell’immediato futuro, richiedendo essa che sia stato stipulato anzitutto un contratto collettivo secondo i criteri definiti dal Testo unico. Ci si deve soffermare, invece, sulla condizione di cui alla lett.b) perché la sua ambigua formulazione potrebbe indurre a ritenere che non possa rivendicare l’esercizio dei diritti sindacali l’organizzazione che, pur avendo partecipato alle trattative, non abbia sottoscritto l’intesa finale, non condividendone il contenuto.
Se questa interpretazione prevalesse, verrebbe ancora una volta penalizzato il sindacato “dissenziente”, anche se dotato di un effettivo e consistente consenso. Pertanto, o ci si adegua al principio secondo cui, tra due diverse opzioni, va accolta quella costituzionalmente orientata, e si afferma allora che la condizione di cui alla lett.b) è assolta attraverso la mera partecipazione alle trattative in quanto far parte della delegazione significherebbe di per sé contribuire alla definizione della piattaforma poi sottoscritta dalle parti sociali (in tal senso, A.Piccinini, Prime riflessioni sul Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, nel sito in precedenza cit.); ovvero, se si ritenga di non poter accogliere una interpretazione del genere, dovrebbe dichiararsi da parte del giudice del lavoro l’illegittimità della relativa clausola per contrasto con una norma imperativa (qual è l’art.19, come interpretato e modificato dalla Consulta).
In proposito occorre tener presente che nella sentenza n.231 la Corte costituzionale era naturalmente vincolata alla fattispecie sottoposta al suo scrutinio e perciò non è potuta andare oltre l’affermazione della sufficienza della partecipazione alle trattative ai fini del riconoscimento ad un sindacato del diritto di costituire una r.s.a. Ma tutta la motivazione di quella pronuncia è segnata dalla valorizzazione dell’effettivo consenso dei sindacati, che trova una ulteriore, inequivoca espressione nella partecipazione alle trattative, la quale neppure esaurisce, peraltro, gli indici sintomatici della rappresentatività (per un’analisi, sotto questo aspetto, della sentenza n.231, si rinvia a C.Ponterio, Rappresentatività, diritti sindacali e processo negoziale, in Questione giustizia). Ciò significa che, ad evitare che anche alla luce del “nuovo” art.19 continuino ad essere emarginati dei sindacati dotati di un effettivo seguito, il requisito della negoziazione va interpretato con la massima ampiezza.
2.3.- La disciplina relativa ai contratti aziendali (sulla quale si era abbattuta, snaturandola, la norma di cui all’art.8 della legge n.148/2011) è stata oggetto di tutti e tre gli Accordi interconfederali, che hanno anche tentato in parte di correggere gli aspetti più deteriori di tale fonte legislativa.
Già in relazione al Protocollo del 2013 si era avuto modo di osservare in termini critici che era stata sancita la non assoggettabilità a referendum degli accordi sottoscritti a maggioranza dalle rappresentanze sindacali unitarie, nonostante tali organismi, specialmente nelle aziende di modesta entità, siano spesso privi della forza contrattuale necessaria a raggiungere delle mediazioni accettabili. Tanto più in considerazione della loro tendenziale efficacia generale (vincolando essi, per espressa previsione contrattuale, tutte le associazioni sindacali operanti all’interno dell’azienda, che siano espressione delle Confederazioni che hanno sottoscritto i tre Accordi o che comunque tali accordi abbiano accettato), sarebbe stato quanto mai opportuno sottoporre gli accordi di prossimità alla consultazione dei lavoratori, ricorrendosi cioè ad uno strumento di rappresentanza diretta: in contesti limitati essa dovrebbe essere sempre preferita, per il suo carattere genuino ed immediato, a quella indiretta e sarebbe oltre modo utile anche per riattivare una dialettica tra base e vertici sindacali in una fase di forte passivizzazione della società. Del resto, che questa forma di mobilitazione non dia luogo a gravi difficoltà di carattere pratico è dimostrato dalla previsione di un referendum per i contratti collettivi aziendali approvati dalle r.s.a., su richiesta di almeno una organizzazione sindacale espressione di una delle Confederazioni firmatarie del testo unico o del 30% dei lavoratori dell’impresa.
Certo, è innegabile – come si è osservato dai “sostenitori” dell’accordo del 2014 - che riguardo ai contratti aziendali stipulati dalle r.s.u. è pienamente rispettato il principio di maggioranza e che queste sono le regole del sistema democratico. Va tenuto presente, tuttavia, che per il “giuoco” delle alleanze tra le diverse componenti di quegli organi anche un’associazione sindacale che abbia la maggioranza relativa in quella determinata azienda (ad es., il 45% dei consensi) può essere posta in minoranza da una coalizione avversa (che raggiunga complessivamente il 55% dei voti), sì che è ben possibile in casi del genere che una consultazione dell’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici possa condurre ad rovesciamento della posizione espressa dalle r.s.u. Né va trascurato che accordi aziendali possono essere siglati anche ad una certa distanza di tempo dalla elezione delle r.s.u., la cui maggioranza in tal caso potrebbe non riflettere la reale ed attuale volontà del personale dipendente.
2.4.- In cauda venenum, si potrebbe dire a buon diritto a proposito dell’ultima parte del Testo unico, che riguarda le clausole relative alle procedure di raffreddamento ed alle conseguenze dell’inadempimento.
In questa materia si è assistito in realtà ad una vera e propria escalation, attraverso la quale si è tentato, in un’armoniosa sintonia tra le parti sociali, di “blindare” i contratti collettivi, nazionali ed aziendali, sottoscritti secondo i criteri dei protocolli di intesa e di restringere incisivamente gli spazi del dissenso.
Nell’Accordo del 2011 si demandava, infatti, ai contratti collettivi aziendali la definizione di clausole di tregua sindacale finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva, precisandosi che esse avrebbero avuto effetto vincolante esclusivamente per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori ed associazioni sindacali firmatarie dell’accordo stesso, operanti all’interno dell’azienda, e riproponendosi così un dispositivo che aveva visto il suo esordio “nella contrattazione collettiva nei primi anni sessanta in contropartita della contrattazione articolata” e che aveva avuto “nei fatti un rapido declino” (M.V.Ballestrero, Diritto sindacale, Torino, 2004, p.311).
Nel successivo accordo del 2013 ci si manteneva grosso modo su quella falsariga, stabilendosi che le parti firmatarie e le rispettive Federazioni si impegnavano a darvi piena applicazione e a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi così definiti.
Senza voler affatto trascurare gli aspetti critici già presenti in quegli accordi, va ad ogni modo rilevato che nel c.d. Testo unico si realizza un vero e proprio giro di vite nei confronti delle libertà sindacali. Nel paragrafo poc’anzi menzionato, invero, le Confederazioni stipulanti: a) convengono sulla necessità di definire disposizioni volte a prevenire e a sanzionare eventuali azioni di contrasto di ogni natura, finalizzate a compromettere, oltre che il regolare svolgimento dei processi negoziali, l’esigibilità e l’efficacia dei contratti collettivi; b) demandano ai c.c.n.l. di categoria la definizione delle clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni con esso assunti e a prevenire il conflitto; c) delegano agli stessi c.c.n.l. – come in precedenza accennato - la determinazione delle “conseguenze sanzionatorie per gli eventuali comportamenti attivi ed omissivi che impediscano l’esigibilità dei c.c.n.l. stipulati ai sensi del testo unico”; d) stabiliscono che anche i contratti aziendali potranno concordare clausole di tregua e sanzionatorie, finalizzate allo stesso scopo del contratto nazionale e dotate della medesima natura vincolante.
Sulla scia degli altrettanto discussi accordi Fiat, relativi agli stabilimenti di Mirafiori e Pomigliano (non sottoscritti – come si ricorderà - dalla Fiom), le Confederazioni stipulanti hanno ora dato vita ad un protocollo preordinato, anzitutto, ad ingessare letteralmente l’attività sindacale per tutta la durata dell’efficacia del contratto collettivo vigente in azienda, impedendo ogni forma di protesta anche in presenza di situazioni (relative, ad es., all’orario di lavoro, all’ambiente di lavoro, alla sicurezza) che si rivelino insostenibili o comunque incompatibili con la dignità dei dipendenti. In secondo luogo, quelle prescrizioni sono chiaramente destinate a creare un clima di timore e di accentuata subalternità nel contesto aziendale ed a ridurre, fino a sopprimerla, sia la conflittualità tra le parti sociali che la dialettica interna all’universo sindacale. Anche ad accedere alla tesi secondo cui i singoli lavoratori non sarebbero destinatari delle sanzioni previste dal “testo unico” (come è detto esplicitamente in ordine ai contratti aziendali e come si potrebbe ricavare dall’interpretazione delle disposizioni attinenti ai contratti di livello nazionale), resta il fatto che lo snaturamento del sindacato che deriverebbe dalla puntuale applicazione dell’Accordo non potrebbe non ripercuotersi sul grado di tutela dei singoli e che, inoltre, la violazione, da parte dei dipendenti, degli obblighi da essi assunti attraverso l’adesione al contratto collettivo applicabile nei loro confronti potrebbe legittimare, se non l’irrogazione di una sanzione, quanto meno un’azione risarcitoria ai loro danni.
L’inedita introduzione di sanzioni anche di grave entità (si va da quelle pecuniarie alla temporanea sospensione dei diritti sindacali di fonte contrattuale e ad ogni altra agibilità derivante dall’intesa), irrogabili nei confronti di associazioni sindacali non allineate, rinviene ulteriori motivi di allarme in considerazione della composizione dell’organo legittimato ad applicarle “in via transitoria” (in attesa, cioè, che i rinnovi dei contratti nazionali definiscano la materia in questione). In primo luogo, la prevista “procedura arbitrale (che sembra doversi inquadrare nel modello dell’arbitrato irrituale), dovrà svolgersi a livello confederale, sì che anche sotto questo profilo viene compressa l’autonomia delle singole federazioni delle diverse categorie. Inoltre, Il “collegio di conciliazione ed arbitrato” sarà costituito da rappresentanti delle oo.ss. confederali interessate, da altrettanti rappresentanti della Confindustria e da un ulteriore membro, con la carica di presidente, scelto preferibilmente di comune accordo o, in mancanza di accordo, a sorteggio tra esperti della materia indicati in una lista definita, sempre di comune accordo, dalle confederazioni stipulanti: è piuttosto evidente, pertanto, come tale composizione, nella quale prevarrà in via assoluta la componente “moderata”, non dia affidamento circa l’imparzialità delle sue pronunce nei riguardi di violazioni riferibili alle categorie che siano espressione della Cgil e tanto meno delle oo.ss. che “tale accordo abbiano formalmente accettato” (così il testo del Protocollo), ma siano estranee al circuito confederale.
Sono molti – come si è visto – i motivi per riflettere in ordine all’incidenza dell’Accordo del 2014 sul pluralismo sindacale e per invocare l’intervento del legislatore, posto ormai sotto sorveglianza speciale dalla Corte costituzionale, alla quale si deve ormai affidare l’obiettivo di una rigorosa tutela di quel principio, sancito vigorosamente dal primo comma dell’art.39 Cost.